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La dittatura mediatica
di Giovanni Valentini (la Repubblica, 23.12.2008)
È sintomatico che, nelle reazioni polemiche alla boutade di Silvio Berlusconi sul presidenzialismo, in pochi abbiano sentito finora la decenza di ricordare il macroscopico conflitto di interessi che grava tuttora su di lui, capo del governo e capo di un’azienda che funziona in regime di concessione pubblica.
E dunque, controparte di se stesso, in quanto locatore e nello stesso tempo conduttore delle frequenze televisive che appartengono allo Stato. Quasi che una tale anomalia fosse stata rimossa dalla memoria collettiva, abrogata dall’opinione pubblica, cancellata dalla consapevolezza nazionale.
A parte le pudiche allusioni di Walter Veltroni che ieri s’è dichiarato contrario al presidenzialismo «nelle condizioni date e con le distorsioni già esistenti», è mancata o comunque è stata carente nelle file dell’opposizione una replica netta e precisa su questo punto. Sarà che ormai il Paese ha metabolizzato il problema; sarà che oggi, con Berlusconi per la quarta volta al governo in quindici anni, la questione appare praticamente insanabile; oppure sarà per la cattiva coscienza che perseguita ancora il centrosinistra per non essere riuscito a risolverla quando era in maggioranza. Fatto sta che, fra tutte le motivazioni a favore o contro il presidenzialismo, questo argomento è rimasto nell’ombra, virtualmente accantonato, come se fosse stato messo in archivio o nel congelatore.
Si dirà: ma tanto ormai Berlusconi fa il presidente del Consiglio, che differenza c’è se diventa presidente della Repubblica? D’accordo. È già uno scandalo gravissimo che il conflitto di interessi in capo al premier non sia stato risolto finora, nonostante le promesse e gli impegni assunti pubblicamente. E anzi, non sarebbe mai troppo tardi per rimuovere la trave, tanto più quando si va a guardare la pagliuzza nell’occhio altrui, come nel caso di Renato Soru, governatore dimissionario della Sardegna.
Ma un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo, e per di più con poteri esecutivi, proprietario di tre network privati, titolare di una concentrazione televisiva e pubblicitaria senza uguali al mondo, né in quello civile né in quello incivile, riunirebbe nelle proprie mani troppi poteri per risultare compatibile con un livello minimo di legittimità e autorità democratica. La sua sarebbe, a tutti gli effetti, una dittatura mediatica. E allora il capo dello Stato rischierebbe di non rappresentare più l’unità nazionale, il garante supremo della vita politica, la "guida della Nazione".
Sappiamo bene che al di qua o al di là dell’Atlantico, dall’America alla Francia, esistono regimi presidenziali dotati di pesi e contrappesi, con tutti i crismi della democrazia. In nessuno di questi Paesi, però, un tycoon televisivo è mai diventato premier e meno che mai potrebbe diventare capo dello Stato. Il "modello Berlusconi" è un inedito assoluto, universale, planetario. Un "unicum" non replicato e non replicabile.
Ma la verità è che a questo punto il danno è stato già fatto, i buoi sono scappati dalla stalla e perciò sarebbe inutile chiuderla adesso. Nell’Italia berlusconiana, il regime presidenziale ha un rapporto simbiotico con la dittatura mediatica: nel senso che l’uno è funzionale all’altra e viceversa. Dopo aver imposto dalla metà degli anni Ottanta l’egemonia della sua cultura o incultura televisiva, su cui poi ha costruito la leadership politica che gli ha assicurato la maggioranza e il governo del Paese, ora Berlusconi vuole tentare l’ultimo colpo, l’assalto finale al Colle, il salto nell’empireo dei "padri della Patria". E in linea con la sua natura predatoria e populistica, non cerca soltanto un’elezione, tantomeno tra i banchi del Parlamento; ma piuttosto un referendum o meglio un plebiscito, nelle strade, nelle piazze, nei gazebo. Se potesse, anzi, gli basterebbe certamente un sondaggio d’opinione o magari un televoto.
A quasi dieci anni di distanza, dunque, vale ancora l’ammonimento che il senatore a vita Gianni Agnelli consegnò al nostro direttore in un’intervista apparsa su Repubblica il giorno dell’elezione di Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale. Alla domanda se non pensasse che quella sarebbe stata l’ultima votazione parlamentare del Capo dello Stato, l’Avvocato rispose: «Francamente, penso che sarebbe un errore. Vedo troppi rischi in un’elezione diretta del presidente della Repubblica, senza il filtro delle Camere per un ruolo così delicato e di garanzia. Con le televisioni, tutto diventa troppo semplice, esagerato, con pericoli di populismo. Meglio di no». Ecco, troppo semplice, esagerato: proprio così.
Il silenzio delle sentinelle
di Giuseppe D’Avanzo (la Repubblica, 22.12.2008)
Dovremmo aver imparato in questi quindici anni che, nonostante l’abitudine alla menzogna, Berlusconi non nasconde mai i suoi appetiti. Il sermone di fine anno ci ricorda che la sua bulimia non conosce argini.
Vuole il presidenzialismo come il compimento della sua biografia personale. Non si accontenta di avere in pugno due poteri su tre. Dopo aver asservito il Parlamento al governo, pretende ora che evapori l’autonomia della magistratura. Dice che la riforma della giustizia è pronta e sarà battezzata al primo Consiglio dei ministri del 2009. Anticipa quel che ci sarà scritto: i pubblici ministeri se le scordino le indagini. Diventeranno lavoro esclusivo delle polizie subalterne al ministro dell’Interno, quindi affar suo che governa in nome del popolo. I pubblici ministeri, ammonisce, diventeranno soltanto «avvocati dell’accusa». Andranno in aula «con il cappello in mano» davanti al giudice a rappresentare come notai, o come burocrati più o meno sapienti, le ragioni del poliziotto. Dunque, del governo. Con un colpo solo, si liquidano l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 della Costituzione, «Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge»); l’indipendenza della magistratura (art. 104, «La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»); l’unicità dell’ordine giudiziario (art. 107, «I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni»); l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 ««Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale»); la dipendenza della polizia giudiziaria dal pm (art. 109, «L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria»).
Soltanto un effetto autoinibitorio può impedire di udire, nelle "novità" di Berlusconi, una vibrazione conosciuta e cupissima. Anche a rischio di indispettire il suo alleato decisivo (Bossi), il mago di Arcore rimuove ? per il momento ? il federalismo dalle priorità del 2009 per rilanciare il castigo delle toghe e la nascita della repubblica presidenziale. Sarà un gaffeur o un arrogante, sarà per ingenuità o per superbia, Berlusconi propone la necessità di una riforma costituzionale con le stesse parole ? e per le stesse ragioni ? di Licio Gelli.
Se non lo si ricorda, davvero «le memorie deperiscono e i fatti fluttuano», come ripete nel deserto Franco Cordero. Appena il 4 dicembre il «maestro venerabile» della P2, intervistato da Klaus Davi, ha detto: «Nel mio piano di rinascita prevedevo la creazione di una repubblica presidenziale, perché dà più responsabilità e potere a chi guida il Paese, cosa che nella repubblica parlamentare manca». Berlusconi, 20 dicembre: «Sono convinto che il presidenzialismo sia la formula costituzionale che può portare al migliore risultato per il governo del paese. L’architettura attuale non permette di prendere decisioni tempestive e non dà poteri al premier».
Fa venire freddo alle ossa il farfuglio dell’opposizione di fronte a questo funesto programma da realizzare presto (si annotano soltanto parole che dicono d’altro). E’ un silenzio che lascia temere o lo stato confusionale di opposizioni ormai assuefatte al peggio o un’altra letale tentazione di quella commedia bicamerale che, senza sfiorare il conflitto di interessi, concesse al mago di Arcore l’impero mediatico e, in nome del primato della politica sulla giustizia, la vendetta sulla magistratura. Dio non voglia che, con il prepotente ritorno al proscenio di qualche campione di quel tempo, la stagione si rinnovi. In una giornata di sconcerto, sono così un balsamo le parole di Giuseppe Dossetti, padre della Costituzione e dello Stato poi fattosi monaco (le ha ricordate ieri Filippo Ceccarelli). Vale la pena tornarci ancora su.
In memoria del suo grande amico Giuseppe Lazzati, e in coincidenza della prima vittoria delle destre, Dossetti pronuncia un discorso famoso. Il titolo lo ricava da un salmo di Isaia (21,11) «Sentinella, quanto resta della notte?». In quei giorni del 1994, egli vede affiorare un male diagnosticato con molti anni di anticipo: la supremazia di una concezione individualistica, in cui il diritto costituzionale regredisce a diritto commerciale (il primato del contratto, l’eclissi del patto di fedeltà); il dissolversi di ogni legame comunitario, mascherato dietro l’appello al "federalismo" (il "politico" diventa pura contrattazione economica); il rifiuto esplicito di una responsabilità collettiva in ordine alla promozione del bene comune (la comunità è fratturata sotto un martello che la sbriciola in componenti sempre più piccole sino alla riduzione al singolo individuo). Non si può sperare, dice Dossetti e parla ai cattolici, che si possa uscire dalla «nostra notte» «rinunziando a un giudizio severo nei confronti dell’attuale governo in cambio di un atteggiamento rispettoso verso la Chiesa o di una qualche concessione accattivante in questo o quel campo (la politica familiare, la politica scolastica)».
Dossetti non nega la necessità di cambiamenti. Elenca: riforma della pubblica amministrazione; contrasto alle degenerazioni dello Stato sociale; lotta alla criminalità organizzata; valorizzazione della piccola e media imprenditoria; riforma del bicameralismo; promozione delle autonomie locali. Teme però riforme costituzionali ispirate da uno «spirito di sopraffazione e di rapina». «C’è ? avverte ? una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto. Questa soglia sarebbe oltrepassata da ogni modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti dalla Costituzione. E così va pure ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri fondamentali, legislativo, esecutivo e giudiziario, cioè per l’avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento dell’esecutivo ai danni del legislativo ancorché fosse realizzato attraverso referendum che potrebbero trasformarsi in forma di plebiscito».
I referendum, segnati da «una forte emotività imperniata su una figura di grande seduttore», possono trasformarsi infatti «da legittimo mezzo di democrazia diretta in un consenso artefatto e irrazionale che appunto dà luogo a una forma non più referendaria ma plebiscitaria». Il "padre costituente" denuncia senza sofismi quel che vede dietro la «trasformazione di una grande casa economico-finanziaria in Signoria politica». Vede la nascita, «attraverso la manipolazione mediatica dell’opinione», di «un principato più o meno illuminato, con coreografia medicea». Dossetti chiede allora ai cristiani di «riconoscere la notte per notte» e di opporre «un rifiuto cristiano» ritenendo che «non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di nessuna trattativa».
Nessuna trattativa. Per trovare queste parole che aiutano a sperare ancora in una via diurna, si deve ricordare Dossetti. Dove sono le "sentinelle" a cui si può chiedere oggi: «Quanto resta della notte»?