Interrogazione

San Giovanni in Fiore: la morte di Tommaso, vittima d’una società colpevole

Ancora ci lascia fermi. Sono anni e nulla è cambiato
domenica 4 marzo 2007.
 

Pubblicato lo scorso 12 gennaio 2005, l’articolo è riproposto in quanto attuale.

Che cosa resta oltre la cronaca? Che cosa rimane di là dalla solidarietà d’un giorno, più avanti della commiserazione e dei commenti popolari? Che cosa è accaduto e che cosa può ancora succedere? Tommaso non ce l’ha fatta, è morto in circostanze che non sono chiare. Lottava contro la droga. Io lo ricordo bene: era un giovane, perdio, della mia età. Camminava a testa bassa, con passo rapido, nonostante non avesse le gambe lunghe. Spesso ho pensato che fosse profondamente segnato, quasi che dovesse scontare la pena per aver macchiato la reputazione, per aver tradito la sua gente, la sua comunità, il suo sangue. È difficile ipotizzare, tentare ricostruzioni di sorta, cercare una chiave di lettura. Se lo facessimo, sarebbe come ergersi al di sopra di lui, che rimane l’unica voce silenziosa, la sola coscienza vibrante. Ancora, forse, odo risuonare certe cattiverie, parole gettate e abusive, dette per costruire nulla e per delimitare un perimetro in cui confinare gli zoppi; come se la giustizia e l’onestà appartenessero a certe categorie sociali e i valori buoni non potessero lambire chi, come Tommaso, ha domandato ascolto giorno per giorno. Certo, uno strano modo di chiedere, il tuo: senza marca da venti, senza preghiere, senza promesse, senza obbligazioni, senza compromessi, senza scioperi, senza minacce, senza imbrogli, senza strumenti, senza mezzi. Non avevi nulla, Tommaso, nulla di anomalo. Per molti non avevi nulla da dire. Io ti ho osservato, per strada, a casa mia. Rivedo, adesso, i tuoi occhi lucidi, d’un velo opaco appena; il capo chino, che, dritto, mostra un viso innocente, ancora fanciullo; il tuo sorriso timido ma vero; la tua nobiltà sconosciuta. Mi torna un episodio. Ero a San Giovanni, di passaggio. Fermo, discutevo, serio, assieme a un amico. Giungesti anonimo, come t’eri abituato, mentre le facce anonime per davvero guardavano di sciocca e misera meraviglia. Salutasti ambedue, scusandoti per l’interruzione, e riprendesti la via, come a fuggire. Confesso che questa immagine s’è impressa, e non è un accaduto di falsa riflessione, giusto perché sei andato senza fare rumore, come al solito. Confesso che mi sento piccolo. Si tirano fuori gli impegni, le faccende, le inutili corse quotidiane, le scadenze improrogabili dell’esistenza: pretesti. Poi, quando il tempo chiama, si toglie la cera e ci si veste di malinconia. Non voglio aggiungere dell’altro. Non dico che potevamo evitare che qualcosa o qualcuno ti strappasse alla vita. Sarebbe retorica. Dobbiamo guardare a che punto siamo arrivati e alle nostre responsabilità. Nel mondo, la vita non si sente, non si tocca, si lascia migrare e perdere. Si combatte, si annienta, si vende, si compra. S’affonda. Si violenta. Rimani un puro, Tommaso, un innocente, una vittima.

emiliano morrone


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