Pittau e i segreti della Tabula Cortonensis.
«Una questione di eredità»
Parola di etrusco
A dieci anni dalla presentazione del documento è l’unico studioso ad aver analizzato i 206 vocaboli
di Marco Massetani (Corriere fiorentino, 29.09.2009)
Storia e misteri. I frammenti bronzei furono rinvenuti nel 1992, ma resi pubblici soltanto nel 1999. Da allora tante ipotesi Dentro la sua esclusiva vetrina del Maec, raffinato Museo di Cortona, il prezioso documento dal millimetrico spessore è di una fragilità quasi commovente. Sono 7 frammenti bronzei invecchiati di patina nobile per oltre 2000 anni: 40 righe disposte su due facciate, incise con la tecnica a cera perduta, contenenti 206 parole, delle quali 34 vocaboli «appellativi» già conosciuti ed altrettanti nuovi, oltre a un alto numero di nomi propri.
Stiamo parlando della Tabula Cortonensis, terzo testo etrusco più lungo, dopo il Liber linteus della Mummia di Zagabria e la Tegola di Capua, che questo popolo ci ha lasciato in eredità. La piccola Tabula fu scoperta nel 1992, da un carpentiere che aveva rinvenuto i 7 frammenti nei pressi di Camucia, ai piedi di Cortona. Il ritardo della consegna e le confuse indicazioni sul luogo di ritrovamento gettarono in seri guai lo scopritore (prima condannato, quindi assolto, infine privato della lauta ricompensa, un miliardo delle vecchie lire). Ricomposta nel suo assetto con il tradizionale andamento della scrittura da destra a sinistra, la Tabula fu resa pubblica nel 1999, esattamente 10 anni fa, scatenando l’entusiasmo di linguisti ed etruscologi per quella che fu definita la scoperta etrusca del secolo.
Un entusiasmo durato qualche anno, cui seguì un silenzio «dogmatico», tanto comune ai reperti linguistici etruschi. Ma veramente la lingua etrusca rimane un mistero tale da imporre timori «accademici» reverenziali? Sembrerebbe di sì, visto l’impasse degli specialisti, che nel caso della Tabula concordano su tre punti: la valenza di documento giuridico, la datazione tra il III e il II secolo a. C.; la cornice generale del testo, con due famiglie dell’ ager umbro-cortonese indaffarate a spartirsi beni terrieri.
Un conto è però discutere della Tabula, un altro è affrontarne scientificamente la traduzione letterale. A tal proposito è il glottologo sardo Massimo Pittau (allievo di Giacomo Devoto, autore di circa 40 libri, fra cui l’unico dizionario etrusco in circolazione, e da tempo impegnato in importanti scoperte ermeneutiche riguardanti la Tabula) ed essersi spinto più avanti di tutti nel corso di questi 10 anni.
«È bene sgombrare il campo da un equivoco durato mezzo secolo - afferma Pittau - quello di credere che la lingua etrusca sia un mistero. Ancora non possiamo dire di tradurla alla perfezione, ma riusciamo a decifrare e a leggere l’etrusco, che presenta una ricca terminologia poi confluita nel latino. Rimango dell’idea che la Tabula non riferisca di un atto di compravendita basato sulla pratica romana dello in iure cessio - continua Pittau - bensì che tratti piuttosto di un arbitrato circa un’eredità contestata, essendo incisa su una comune tavola bronzea, che vide protagoniste la famiglia dell’olivicoltore Petrone Scevas (petrus scevas eliunts), dall’altra i Cusoni (cusuthur), due rami imparentati in quanto discendenti dalla progenitrice Tullia Telutia (tl teltei sians )».
L’esatta redistribuzione dell’eredità sarebbe confermata dalla presenza dei numerali sar (dieci), sa («dal significato di sei o non di quattro», avverte Pittau), e zal (due), tutti abbinati al termine monetario tenthur (talento): elementi che comproverebbero a loro volta le quantità territoriali oggetto dell’arbitrato.
All’atto presenziarono 15 periti, oltre 20 testimoni («un numero che non deve sorprendere se guardiamo anche la Tavola di Esterzilli» garantisce Pittau) e una figura imponente quale lo zilath mechl rasnal (il pretore della Federazione Etrusca).
L’accattivante versione proposta da Pittau non può che rimanere indigesta agli etruscologi perché urta contro una precedente interpretazione «sociologica» del reperto, considerato una testimonianza delle «prudenti » oligarchie locali, preoccupate di trasferire beni e terreni ai ceti emergenti. Fenomeno, questo, che potrebbe aver caratterizzato il periodo ellenistico della Curtun etrusca. Resta il mistero, forse. Ma anche la constatazione che, a 10 anni dalla pubblicazione della Tabula, nessun’altro studioso ha messo a setaccio i 206 vocaboli del documento.
Ci piace quindi immaginare l’olivicoltore Petrone Scevas che si vede riconoscere il vignale (vinac ) e il filare alberato di accesso (restmc , «che corrisponde al latino restis», spiega Pittau orgoglioso della nuova scoperta) valutati 10 talenti.
Mentre la famiglia dei Cusoni riceve in eredità la terra situata nel «bacino» del Trasimeno (spante tarsminass, in latino Tarsumennus) del valore di 6 talenti, beneficiando di un conguaglio di 2 talenti in cibo e travi di legno (zaginat priniserac), in grado di riequilibrare alla perfezione il lascito.
Tutto sembra essersi concluso con un happy end. Eredi, periti, testimoni, notaio (suthivena ) - dopo che l’atto fu ratificato («il vocabolo ratm significa proprio questo, perché si riscontra nel latino ratus , a, um», spiega ancora Pittau riguardo all’altra sua «scoperta») - avranno festeggiato la fine della contesa con un sontuoso pranzo in stile etrusco. E la Tabula avrà perso con gli anni il proprio valore di atto giuridico, finendo spezzata in otto parti (quello mancante conteneva solo antroponimi), e dimenticata nella pianura della Valdichiana. Un po’ come accade alla lingua etrusca, sostiene Massimo Pittau, che a 88 anni ha da poco pubblicato l’ennesimo lavoro: il Dizionario Comparativo Latino-Etrusco (Edes, 228 pagg. € 25,00), composto da circa 2300 voci. «Adesso toccherà alle nuove generazioni approfondire il campo - conclude - e c’è ancora tanto da scoprire grazie al metodo comparativo con il latino, che valuto vincente. E per favore, togliamo all’etrusco, una volta per tutte, l’etichetta di lingua misteriosa...».
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
LA TABULA CORTONENSIS
Nuove acquisizioni ermeneutiche
Prof. Massimo Pittau
(Sito).
NEL "DISCO" DI FESTO... UNA STORIA D’AMORE. L’IPOTESI DI PADRE MADAU.
FLS
NUOVE IPOTESI SULL’ETIMOLOGIA DEL NOME DEL NOSTRO PAESE
Italia Terra dei tori... o dei bestioni?
La tradizione lega il nostro etnonimo all’antica parola per «toro» («Vitulus», «Italòs») usata da Latini, Umbri e Greci. Ma si affacciano alternative: per alcuni, il significato è tutt’altro (Italia sarebbe la terra «fumante», «l’infuocata»); per altri, la parola vorrebbe sì dire «toro», ma nella lingua degli Etruschi. Che ci chiamavano così per dileggio
di Gian Enrico Manzoni (Avvenire, 13.04.2008)
« L’ Italia non è solo un nome», titolava un editoriale giornalistico dei giorni scorsi, relativo alla presenza del nome dell’Italia nei programmi della campagna elettorale. In effetti, se si tratta solo di un nome che viene evocato di necessità, senza una reale convinzione della ricerca del bene comune, è solo un appello a valori ripetuti e sbandierati, ma non condivisi. Però l’Italia è anche un nome, e il glottologo si interroga sulla sua origine e il suo significato. Diciamo subito che l’origine della parola è avvolta da molti dubbi, e le conclusioni cui i linguisti sono giunti non sono univoche.
Esiste un’etimologia tradizionale, da tempo diffusa, ma accanto a quella vengono avanzate spesso nuove, divergenti (e qualche volta bizzarre) ipotesi. La spiegazione tradizionale connette il nome della nostra penisola al latino vitulus e all’umbro vitlu, che significavano ’vitello’, così come il greco italòs, che voleva dire ’toro’. La lettera viniziale è presto caduta, con un fenomeno che è ben noto anche alla lingua greca, per cui alla fine gli Itali e la loro terra, cioè l’Italia, deriverebbero il nome dai vituli, i vitelli.
In base a tale spiegazione l’Italia è la terra dei vitelli o dei tori, perché secondo gli antichi studiosi come Timeo, Varrone, Gellio e Festo nel nostro territorio questi animali venivano allevati in grande abbondanza. Come si diceva, però, sono state avanzate in epoche diverse nuove spiegazioni, anche del tutto alternative a questa: per esempio Domenico Silvestri una decina di anni or sono ha proposto di collegare il nome dell’Italia alla radice aithalche significava ’fumante, infuocata’. Da Aithal-ia si sarebbe passati gradualmente alla forma Italia, e la spiegazione del nome risiederebbe nelle numerose fornaci di metalli un tempo esistenti nella Magna Grecia; oppure, sosteneva lo studioso, il nome deriverebbe dalla pratica della debbiatura, cioè di bruciare il terreno per poi disboscarlo e predisporlo a una nuova semina. Per l’uno o l’altro dei motivi, o per la somma di entrambi, l’Italia sarebbe la terra fumante, dove si brucia.
In data più recente il linguista Massimo Pittau è ritornato sulla questione, smentendo sia l’ipotesi di Silvestri sia altre nel frattempo avanzate e recuperando la tradizionale etimologia. Ma introducendo nella spiegazione anche un elemento linguistico nuovo, cioè la componente etrusca. L’etrusco è per molti di noi ancora una lingua misteriosa, alternativa a quelle indoeuropee del territorio italico; invece le connessioni lessicali sono frequenti, come è logico che sia accaduto tra parlanti vicini, con frequenti scambi commerciali e sociali tra un territorio e l’altro.
Pensiamo per esempio al nome di Roma, la cui etimologia da tempo viene ricostruita, non certo (come voleva la leggenda) sul nome di Romolo, il mitico fondatore, ma su Rumon, il nome etrusco del Tevere. Pittau ha dei dubbi sull’origine dai vitelli ( vitlu) degli Umbri e dai vituli dei Latini, per via della vocale -u- dei loro nomi, mentre gli Itali e l’Italia hanno la - a-.
Egli valorizza invece la testimonianza dello scrittore greco Apollodoro, che attesta che Pitalòs, il toro, non era parola greca, come sempre si è creduto, ma tirrenica, cioè etrusca. Anche i Sardi primitivi, la cui lingua era forse imparentata con l’etrusco, chiamavano prima dell’arrivo dei Romani bittalu il vitello e il toro: era una parola del tutto collegata con l’italòs degli Etruschi e, con qualche modifica fonetica, anche con il vitlu e il vitulus, che contenevano chiaramente la stessa radice.
Da queste forme, in particolare da quelle etrusche e protosarde, deriverebbero dunque sia l’etnico Itali sia il corònimo (cioè il nome del territorio) Italia. In termini culturali, non deve stupire il fatto che siano stati gli Etruschi a dare il nome di Itali agli antichi abitanti della nostra penisola e di Italia alla loro terra: essi erano a stretto contatto con i popoli della Gallia, del Piceno, dell’Umbria, del Lazio, della Campania, e la loro superiorità economica e culturale favorì l’acculturazione degli Italici vicini.
Se è vera questa ipotesi, che appare certamente convincente, l’Italia era la terra degli italòi, cioè dei tori. Ma vale ancora la giustificazione già data prima, ovvero dell’abbondanza degli allevamenti di bovini? Qui le ipotesi divergono, perché Pittau suggerisce che si potrebbe trattare anche di una forma di dileggio: chiamare tori, come sinonimo di bestioni, i popoli vicini nasceva probabilmente da una volontà di offesa, soprattutto perché espressa da chi si sentiva superiore socialmente e culturalmente. Ma forse non è necessario rincorrere la connotazione negativa ed è meglio attenerci a quanto dicevano gli antichi sulla diffusione di tori e vitelli nei territori dell’antica Italia: che immaginiamo perciò verde di pascoli e ricca di mandrie.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ROMA BRUCIA. GRAZIE AL "TIMES" PER L’ALLARME, MA LONDRA NON RIDA (E ABBIA MIGLIOR CURA DI FREUD). L’incendio è generale. Un omaggio alla Sapienza di Oxford
Archeologia. Viaggio dal Po al Vesuvio: l’Italia che parlava etrusco
Non una ma molteplici Etrurie: a Bologna una mostra aggiornata racconta una civiltà secolare con oltre 1400 pezzi da 60 musei del mondo
di Giancarlo Papi (Avvenire, giovedì 12 dicembre 2019)
Specialistica e per il grande pubblico. Con i suoi 1.400 oggetti provenienti da 60 musei e ed enti italiani e stranieri, la mostra “Etruschi. Viaggio nelle terre dei Rasna” (catalogo Electa) offre ai visitatori un chiaro, avvincente e aggiornato racconto della civiltà etrusca, anche alla luce delle tante scoperte e novità che in questi ultimi decenni sono emerse, sia dalla ricerca sul campo e sia dai depositi dei musei. Allestita fino al 24 maggio a Bologna al Museo Civico Archeologico a cura di un comitato scientifico composto dallo staff direttivo del museo e da Elisabetta Govi e Giuseppe Sassatelli dell’Università di Bologna, la mostra ha uno sviluppo che segue il filo conduttore del viaggio, secondo un’attitudine che, soprattutto nella prima metà dell’Ottocento, ebbe molto a che fare con la fascinazione degli Etruschi. Un popolo conosciuto attraverso il contatto diretto con le terre che aveva abitato, con le peculiarità fisiche e culturali dei diversi siti e dei diversi distretti, talvolta nell’immediatezza delle scoperte e nel contatto diretto con gli scopritori.
Non esiste, infatti una sola Etruria, ma molteplici territori che hanno dato esiti di insediamento, urbanizzazione, gestione e modello economico differenti nello spazio e nel tempo, tutti però sotto l’egida di una sola cultura e della storia di un unico popolo che ha abitato il vasto territorio compreso tra la pianura padana del Po fino alle pendici del Vesuvio. Così che il progetto espositivo tratteggia il ritratto degli Etruschi (o Rasna come chiamavano se stessi) con la nascita delle città e la loro strutturazione sia politica che urbanistica; l’artigianato, la produzione artistica, i commerci e le relazioni culturali; la ritualità funeraria; il rapporto con le altre realtà dell’Italia antica.
L’allestimento è caratterizzato da una prima parte introduttiva che attraverso l’utilizzo di diversi colori distingue le fasi principali della lunga storia etrusca dall’età villanoviana fino alla romanizzazione: si parte dalle “Origini” (IX secolo a.C.) e si continua con “L’alba della città” (fine del IX secolo - terzo quarto dell’VIII secolo a.C.), “Il potere dei principi” (ultimo quarto dell’VIII - inizio del VI secolo a.C.), “Una storia di città” ( VI - V secolo a.C.) e la “Fine del mondo etrusco” (IV - I secolo a.C.).
Di ogni periodo, che è raffigurato con elementi architettonici tipici (capanna, palizzata, tumulo, tempio, tomba rupestre), vengono presentati oggetti e reperti che testimoniano i costumi e la cultura del tempo: le semplici forme dei vasi biconici degli albori della storia etrusca sono affiancate dalle tombe che portano i primi segni di differenziazione sociale e le prime importazioni dal bacino del Mediterraneo, indice della creazione di una solida rete di scambi. Poi, con il tempo delle aristocrazie che amano autorappresentarsi potenti, ricche e guerriere, si assiste alla nascita delle città, esemplificate dai templi e dalle loro decorazioni architettoniche, espressione di un potere unitario e urbano.
Si registra, inoltre, il fiorire di una ideologia funeraria che guarda al mondo greco e si avvale di oggetti di straordinaria bellezza, come quelli provenienti dalla Tomba delle hydriae di Meidias e si può ammirare la ricostruzione degli apparati decorativi di una tomba dipinta, grazie alle copie ottocentesche della tarquiniese Tomba del Triclinio. Il racconto dell’ultima e più ampia parte della mostra è dedicato alle principali realtà etrusche che, introdotte da portali immaginari, conducono il visitatore dapprima nell’Etruria meridionale dove si possono ammirare, tra l’altro, la Tomba della sacerdotessa proveniente da Tarquinia e la Tomba dello scarabeo dorato da Vulci, per proseguire nell’Etruria campana, terra complessa e ricchissima, da cui provengono corredi funerari principeschi.
Dall’Etruria interna, quella attraversata dal Tevere, arriva in mostra una delle scoperte archeologiche più importanti degli ultimi anni: il Fanum Voltumnae, santuario proveniente dalla città di Velzna, come gli Etruschi chiamavano Orvieto. E mentre l’Etruria settentrionale fornisce alcune tra le novità più interessanti della mostra quale quella rappresentata dal “Deposito delle armi” rinvenuto sulla spiaggia di Baratti ( V-IV sec. a.C.), l’Etruria padana fornisce i rinvenimenti eccezionali della necropoli delle tombe di via Belle Arti a Bologna, la Felsinea etrusca che le fonti antiche chiamano Princeps Etruriae per sottolinearne l’importanza e la nascita antichissima.
La mostra.
Fede e sirene: gli Etruschi che non t’aspetti
di Roberto I. Zanini (Avvenire, mercoledì 8 agosto 2018)
Da un singolare ex voto anatomico del III secolo a.C. che rappresenta un uomo affetto da sirenomelia ha origine una mostra a Villa Giulia sul mito dell’antichità
Al principio erano geni della morte come le Keres e le Erinni, esseri temibili come le Arpie, che il mondo antico considerava morti senza pace (un po’ come i nostri zombie) e desiderose di sangue umano. Stiamo parlando delle Sirene di cui racconta Omero: donne con ali di uccello e dal canto ammaliante, che tentano di sedurre Ulisse per poi perderlo, come è dipinto in un famoso vaso attico del V secolo a.C conservato al British Museum.
In epoca più tarda si narra di una di esse, di nome Partenope, che muore suicida in mare per essere stata rifiutata dall’eroe; le onde la rigettano alla foce del Sebeto, dove in seguito nasce una città chiamata, appunto, Partenope e poi Neapolis. Da quelle parti, sulla penisola di Sorrento, sorgeva anche il Tempio delle Sirene.
Tutto questo per dire, e non sembri strano, che le Sirene con corpo di donna e coda di pesce in stile Andersen ( La sirenetta è del 1837), rese romanticamente immortali dalla statua nel porto di Copenaghen (1913), hanno origine solo nel primissimo Medioevo, mentre in epoca antica gli esseri per metà uomo e metà pesce erano maschi e si chiamavano Tritoni. Di essi esistono tante testimonianze artistiche, anche coeve al citato vaso del British, come un’anfora etrusca con ’Tritone fra i pesci’ del VI secolo a.C e un’anfora attica dello stesso periodo, proveniente da Cerveteri, con ’Eracle in lotta col tritone’, entrambe a Villa Giulia a Roma.
Di fatto, il primo riferimento certo alle Sirene così come sono nel nostro immaginario è un manoscritto dell’VIII secolo, il famoso Liber Monstrorum, una sorta di bestiario in cui compare un disegno che le descrive come donne avvenenti e anfibie. Delle Sirene e della loro storia mitologica si è tornati a parlare in queste settimane grazie a una piccola ma efficace mostra allestita nel Museo nazionale etrusco di Villa Giulia a Roma.
La collocazione la si deve a un curioso reperto etrusco del III secolo a.C. conservato in quel museo, che costituisce un singolare tipo di ex voto (trovato a Veio) e che era sempre stato interpretato quale grossolana rappresentazione in terracotta della parte inferiore del corpo di un essere umano di sesso maschile. Quando però quest’anno, in occasione del decennale della Fondazione sanitaria San Camillo-Forlanini di Roma, si è pensato di allestire una mostra a Villa Giulia, insieme al Museo di storia della medicina della Sapienza, per raccontare l’arte medica antica partendo dai ritrovamenti archeologici di ex voto anatomici, ecco che il ’grossolano’ reperto proveniente da Veio è stato rivalutato ed è divenuto il simbolo stesso dell’iniziativa.
Nel vederlo, infatti, Alessandro Aruta, direttore del Museo storico della medicina, ha subito compreso che non si trattava di una riproduzione approssimativa, ma verosimile del corpo di un uomo affetto da ’sirenomelia’. Una malattia genetica rarissima, che di solito colpisce il sesso femminile, per la quale gli arti inferiori restano saldati, assumendo, in alcuni casi, una vera e propria forma a coda di pesce o, meglio, di cetaceo. Di solito i bambini nati con questa deformazione hanno vita brevissima e sono incurabili. Recentemente si è tentata la terapia chirurgica, che come nel caso di una bambina peruviana, Milagros Carron, nata nel 2004, può avere esito risolutivo dopo innumerevoli interventi.
La scoperta di Aruta, dicevamo, ha dato il taglio alla mostra che si intitola La Sirena: soltanto un mito? Nuovi spunti per la storia della medicina fra mito, religione e scienza (fino al 30 settembre), col progetto scientifico, oltre che di Aruta, di Maria Paola Guidobaldi, responsabile dell’Ufficio mostre e del Servizio per la conservazione di Villa Giulia (ad ’Avvenire’ ha detto di avere in programma entro l’anno una retrospettiva in chiave etrusca dell’opera di Mario Schifano per i 20 anni dalla morte), Claudia Carlucci, Maria Anna De Lucia Brolli e Francesca Licordari.
Allestita nella Sala Venere del Museo propone ex voto anatomici, vasi con decorazioni di sirene, strumenti medici e chirurgici d’epoca romana, interessanti supporti storici in schede e immagini con riferimenti ad altre malattie rare che gli Etruschi (popolo particolarmente religioso) consideravano, rispettandole, prodigiose e soprannaturali. Fra le riproduzioni anatomiche trovate in scavi etruschi, oltre alla già citata terracotta proveniente da Veio, sono interessanti alcuni uteri offerti a divinità salutari per ottenere la grazia di avere figli o in ringraziamento per averne avuti. Uno di questi, in particolare, risalente al III secolo a. C. e proveniente da Vulci, testimonia di una positiva ed evoluta concezione della vita: rappresenta un utero aperto con all’interno due minuscoli embrioni.
Ci sono anche alcuni amuleti di origine egizia (attraverso i fenici esistevano intensi scambi commerciali fra le popolazioni tirreniche, l’Egitto e la Grecia) utilizzati a protezione dei nani.
Per identificare queste ’malformazioni’ gli etruschi usavano parole derivate dalla radice ter col significato di ’prodigioso’, la stessa del termine greco teras (mostro), forse successivo. Lo si è scoperto da scavi effettuati nell’area sacra di Tarquinia col ritrovamento del cosiddetto ’bambino encefalopatico’ sepolto nel IX secolo a.C. accanto a una cavità naturale, fulcro dell’area sacra e luogo dell’identità della città stessa.
Da quella cavità, infatti, si narrava fosse nato Tagete, il bimbo divino con sembianze di vecchio (la malattia si chiama ’progeria’ ed è la stessa del film Il curioso caso di Benjamin Button) che aveva insegnato le discipline divinatorie a Tarconte, fondatore di Tarquinia.
Dalle indagini del laboratorio di antropologia forense della Statale di Milano è emerso che quel bimbo del IX secolo a.C., morto a otto anni, era affetto da una encefalopatia che certamente causava epilessia, con manifestazioni considerate sacre per molto tempo a seguire e a tal punto che è stata trovata un’iscrizione etrusca su una coppa attica (gli Etruschi erano amanti degli oggetti in terracotta di manifattura greca), sepolta in quel luogo tre secoli dopo, con la parola terela, cioè ’relativo a colui del prodigio’. L’accettazione e l’interesse degli Etruschi per le malformazioni genetiche è testimoniato, fra l’altro, anche dalle pitture della famosa Tomba François di Vulci dove accanto al titolare del sepolcro, Vel Saties, compare un nano acondroplasico, di nome Arnza, in una scena di divinazione. Ed è l’epoca in cui a Roma, così come in Grecia, simili persone venivano crudelmente soppresse alla nascita.
LA SIRENA: SOLTANTO UN MITO? Nuovi spunti per una storia della medicina fra mito, religione e scienza
Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma, Sala Venere
LA SIRENA: SOLTANTO UN MITO?
Nuovi spunti per una storia della medicina fra mito, religione e scienza
14 giugno-30 settembre 2018
Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Sala Venere (sala 25), primo piano
Una stele per svelare il linguaggio degli Etruschi
Il ritrovamento di un stele etrusca potrebbe aiutare a ricostruire il linguaggio di questo popolo antico, arricchendo anche lo studio sul funzionamento delle città e della società
di Anna Lisa Bonfranceschi (Wired. 30.03.2016)
Alta più di un metro e pesante oltre 200 chili, ricorda la stele di Rosetta. Ma invece di essere egiziana è etrusca e contiene circa 70 lettere e alcuni tratti di punteggiatura - un linguaggio in parte perso - che potrebbe aiutare a capire qualcosa di più sulla cultura degli antichi Etruschi, ricostruita soprattutto grazie alle necropoli e agli oggetti funerari.
La lastra in questione risale a 2.500 anni fa, è in arenaria ed è stata ritrovata nel sito di Poggio Colla, in Toscana, nelle fondamenta di un tempio, dove probabilmente veniva esposta come simbolo di autorità, come ha spiegato Gregory Warden del Mugello Valley Archaeological Project, che ha ritrovato la pietra. Pietra che si spera possa aiutare a far luce sul linguaggio degli Etruschi, grazie alla lunghezza del testo rinvenuto e al fatto che, non trattandosi di un testo funerario, probabilmente saranno presenti parole nuove. “Sappiamo già come funziona la grammatica etrusca, quali sono i verbi, gli oggetti, e alcune delle parole”, ha aggiunto Warden: “ma speriamo che l’analisi della lastra ci riveli il nome del dio o della dea che veniva adorata in questo sito”, richiamando il grande peso avuto dalla religione nella civiltà etrusca.
La pietra, dopo essere ripulita, sarà quindi sottoposta a fotogrammetria e scansioni laser, per essere poi analizzata dall’esperto di linguaggio etrusco Rex Wallace della University of Massachusetts Amherst. Ma in attesa delle analisi sul linguaggio la stele racconta già qualcosa, come spiega Jean MacIntosh Turfa dell’University of Pennsylvania Museum: “Iscrizioni lunghe più di poche parole, su materiali permanenti, sono rare per gli Etruschi, che utilizzavano materiali deperibili come libri in panni di lino e tavolette di cera. Questa lastra è la prova di un culto religioso permanente con dediche monumentali, almeno precocemente nel tardo arcaico, dal 525 al 480 a.C”. Il suo riutilizzo più tardi, continuano gli esperti, nelle fondamenta di un santuario è indizio di importanti cambiamenti nella struttura della società stessa.
La civiltà che rifiutava l’immortalità letteraria
di Matteo Nucci (la Repubblica, 04.04.2016)
Nel Fedro, Platone si affannò a spiegare il motivo per cui la scrittura debba essere condannata in favore dell’oralità. Gli scritti contengono parole immobili e sterili come pietre, perché non sanno a chi si rivolgono e non sono capaci di rispondere. Le parole vive invece possono offrire risposte e per questo penetrano l’anima di chi ascolta e si rendono immortali. Anche Platone tuttavia sapeva bene che la grande letteratura deve essere scritta perché possa seriamente eternarsi.
Lo sapeva per sé, per quel che scriveva, e lo sapeva perché i canti composti oralmente dagli aedi omerici, quei canti che sarebbero diventati i più eterni fra i poemi epici dell’antichità, vennero fermati dalla scrittura e permisero così ai due eroi dell’Iliade, Ettore e Achille, di rimanere immortali, come essi stessi avevano sognato andando incontro alla fine.
Fu dunque la battaglia contro la morte attraverso la letteratura ciò che mancò agli Etruschi? Difficile stabilirlo. Può darsi che le nuove acquisizioni chiariscano qualcosa.
Per ora, di fronte all’immensa produzione letteraria di Greci e Latini, è lecito supporre che gli Etruschi avessero messo da parte quella speranza di immortalità letteraria e cercassero di procurarsela solo attraverso il culto, la religione, la cura del morto e tutto ciò che della loro civiltà ci resta con chiarezza. Ma può darsi che ci sia anche altro. Può darsi che sospettassero già quella che è la dannata disillusione raccontata dall’Odissea omerica attraverso le parole di Achille, quando morto nell’Ade incontra Odisseo. Non importa più al grande eroe quel che aveva sognato quando era in vita. Non gli importa più che ci siano poeti che ne cantano la gloria. Preferirebbe vivere la condizione peggiore, quella del servo, pur di vivere.
La letteratura dunque fallisce nel suo sogno di immortalità? Forse questo immaginavano gli Etruschi. E perciò scelsero di dedicarsi completamente a vivere questa vita e non perder tempo negli inutili giochi della letteratura. Forse.
Un’unica idea potrebbe confermare questa ipotesi che li rese così lontani dai “vicini” Greci e Latini. Ossia la più sorprendente delle loro conquiste: la condizione della donna. Aristotele dichiara con meraviglia che le donne mangiavano assieme agli uomini e con essi dunque discutevano alla pari. Teopompo ci racconta dello straordinario equilibrio che si raggiunse in quella società così unica in cui la libertà sessuale e la ricerca del piacere erano centro indiscusso. Forse gli Etruschi avevano semplicemente capito come vivere bene questa vita. Ed eliminarono tutto quello che non gli parve necessario, tra cui le più volatili illusioni di immortalità, quelle della letteratura.
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L’autore è uno scrittore, grecista, studioso del pensiero antico. Ha pubblicato saggi su Empedocle, Socrate e Platone. Il suo ultimo libro è Le lacrime degli eroi ( Einaudi)
L’enigma semantico della lingua ritrovata
di Cristiana Barandoni * (Corriere della Sera, 19.03.2016)
L’ etrusco è a oggi una delle lingue morte più difficili da analizzare: dal punto vista morfosintattico è genealogicamente isolata. Ciò non significa che sia una lingua priva di elementi lessicali simili o presenti in altre lingue, ma che la complessità e le vicende dei suoi testi ne rendono ardua l’interpretazione. Uno dei suoi aspetti peculiari è la mancanza di distinzione di genere grammaticale: i lemmi sono distribuiti in classi semantiche «motivate», ossia in nomi animati e inanimati; a questo si aggiunga la brevità dei testi a disposizione, insufficienti per comprenderne la morfologia. Nonostante ciò, possiamo contare più di dodicimila iscrizioni.
La stragrande maggioranza dei testi, però, è andata perduta per sempre, poiché come supporto venivano utilizzati non solo materiali deperibili quali papiri, pergamene e tavolette cerate, ma anche il bronzo, spesso rifuso per nuovi scopi. Gli Etruschi ci hanno comunque lasciato documenti di rara bellezza e importanza come il liber linteu, il cosiddetto Manoscritto di Zagabria. Un calendario rituale, il cui testo è il più lungo mai ritrovato, 1350 parole per 400 unità lessicali diverse, e la cui sopravvivenza si deve a un reimpiego: giunto in Egitto non si sa come, venne tagliato in tante strisce orizzontali, destinate al bendaggio di una mummia. I calendari rituali stabilivano in quale giorno, in che occasione e verso chi si dovevano compiere certi riti religiosi.
Il testo, sebbene in parte lacunoso, è riconducibile a un periodo tra il III e il II secolo a. C. e venne redatto in una lingua in uso nell’Etruria settentrionale. Ci sono poi testi di carattere sacro, come la lamina di Santa Marinella, la cui iscrizione parrebbe essere il responso di un oracolo. C’è poi un documento giuridico di notevole importanza, la Tabula Cortonensis, una lastra di bronzo sulla quale, tra la fine del III e gli inizi del II secolo a. C., fu inciso un testo di 32 righe relativo alla suddivisione amministrativa di un latifondo.
* Cristiana Barandoni, archeologa, ha scritto I misteri dell’archeologia uscito da poco per Newton Compton (pagine 384, € 12)
Quel ponte mobile da cui transitò la cultura per Roma
di Francesca Bonazzoli (Corriere della Sera, 19.03.2016)
È stato un ponte a legare il destino degli Etruschi a quello dei Romani: il ponte Sublicio. In latino sublicius significa «che si sostiene su pali di legno (sublica), una struttura facile da distruggere nel caso coloro che abitavano al di là del Tevere avessero avuto brutte intenzioni. I trasteverini dell’epoca erano la più evoluta delle popolazioni italiche: i Greci li chiamavano Tyrrhenoi perché erano insediati nella costa del mare a ponente, il Tirreno. A Nord arrivavano fino all’Arno, a sud fino all’odierno quartiere di Trastevere, nella riva destra che ancora al tempo di Orazio era detta litus tuscus, litorale etrusco, o ripa veiente, cioè territorio degli Etruschi di Veio, la città stato più vicina a Roma.
Quel ponte di legno era dunque gettato dall’isola Tiberina, il vero luogo di nascita di Roma perché le prime capanne sul Palatino, secondo Bianchi Bandinelli, sarebbero rimaste un villaggio se non ci fosse stata quell’isola a consentire a Roma di diventare un centro di traffico e commercio. E infatti, ancora in età imperiale, allo sbocco del ponte sorgevano il foro Boario e il foro Olitorio, rispettivamente il mercato del bestiame e delle verdure.
Ogni anno, il 14 maggio, dal ponte si gettavano dei fantocci di paglia, simulacro di antichissimi sacrifici umani per placare il fiume. Vietatissimo, poi, era l’uso del ferro per la costruzione e, proprio grazie a questo divieto, la leggenda vuole che Orazio Coclite riuscì a trattenere gli Etruschi di Chiusi mentre i suoi commilitoni spezzavano le assi di legno. Tanta paura veniva anche dal fatto che gli ultimi re leggendari di Roma, i Tarquini, artefici dello sviluppo della città nel corso del VI secolo, erano etruschi. Un popolo che non si era mai costituito in uno stato unitario, limitandosi a creare alcune confederazioni di città indipendenti l’una dall’altra, governate prima dai lucumoni e poi da oligarchie. La loro ricchezza economica derivava soprattutto dalle miniere di rame della costa toscana, ma per i traffici con l’Oriente mediterraneo che facevano capo attorno al golfo di Napoli, avevano bisogno di passare da Roma.
Il confine della loro espansione in Campania era segnato dal fiume Silaris, il Sele, e l’inizio del loro declino fu sancito proprio quando Ierone di Siracusa, sconfiggendo gli Etruschi sul mare davanti a Cuma nel 474 a.C., li tagliò fuori dagli scambi diretti con i Greci. Da potenza commerciale ed economica, gli Etruschi tornarono così ad essere una federazione di centri agricoli, sempre più simili agli altri della penisola italica.
La loro arte, però, non subì lo stesso destino. Dal VII secolo agli inizi del V a.C. era stata in contatto continuo con quella greca grazie all’importazione, non solo di una grande quantità di ceramiche, ma addirittura di artigiani e anche dopo che il commercio etrusco sul mare venne sostituito da quello greco e cartaginese, la superiorità culturale sulle altre popolazioni dell’Italia centrale non venne mai meno.
Quando nel 363 a.C. Roma volle organizzare i suoi primi spettacoli teatrali, chiamò gli attori dall’Etruria e ancora due secoli dopo, prima che diventasse di moda mandare i figli ad Atene, i patrizi romani li facevano studiare in Etruria. Sul finire del V secolo, il tempio sul Campidoglio dedicato alla triade Giove, Giunone, Minerva fu decorato con statue in terracotta dipinta da artisti chiamati da Veio.
Alla fine, la fondazione della repubblica grazie alla cacciata dei Tarquini, i re etruschi stranieri, avvenuta quasi in coincidenza con la sconfitta degli Etruschi a Cuma, fu pagata da Roma con un periodo di decadenza e ancora per tutto il IV e il III secolo a.C. la pittura e la scultura a Roma parlavano etrusco e greco.
L’identità da scavare
Pietre, memoria, tratti somatici così gli etruschi continuano a scrivere l’alfabeto dei toscani
di Marco Gasperetti (Corriere della Sera, 19.03.2016)
Una mostra a Prato racconta quella parte dell’antica civiltà che si insediò tra Firenze e Pistoia. E in tutta la regione continuano le campagne di ricerca, finanziate non solo dalle istituzioni, ma anche da cittadini a caccia delle loro radici
S i scava. Nella terra e nel fango, nella storia e nel Dna, nella mente, persino. Quella più profonda, atavica, misteriosa. In Toscana c’è una civiltà sepolta, quella degli Etruschi, che non è solo oggetto di desiderio di archeologi e storici, ma metafora dell’essenza di un popolo: quello toscano, appunto. È una cultura, altra, eppure genitrice, capace di raccontare, dopo millenni, l’identità del singolo e della comunità. Così, la metafora della regione come Grande Sito, reale e virtuale, alla scoperta di radici ancora in parte da decifrare, pare essere qualcosa di tangibile.
Più della metà delle sessanta concessioni di scavo aperte dalla sovrintendenza archeologica sono dedicate a ritrovamenti etruschi e non esiste giorno che da quei tumuli non escano testimonianze. Le mostre-evento, come L’ombra degli Etruschi . Simboli di un popolo fra pianura e collina di Prato e Gli Etruschi maestri di scrittura di Cortona, non sono mai finalizzate a se stesse. «Qui in Toscana sono anche identificazione culturale e persino scoperta d’identità diverse generate millenni orsono - spiega Gabriella Poggesi, una delle curatrici della mostra di Prato - perché gli etruschi a nord dell’Arno, rappresentati nella mostra di Prato, sono diversi da quelli di Volterra, dell’Aretino o della Maremma. E noi contemporanei ci identifichiamo anche in queste diversità». Atavici campanilismi? Chissà.
Se le «Pietre fiesolane» e i bronzi ci raccontano un’età arcaica «fiorentina», basta muoversi da nord a sud, da est a ovest, per continuare questo cammino in differenti scenari. Le Vie Cave, il canyon scavato nella roccia dagli Etruschi tra Pitigliano, Sorano e Sovana, sono un dedalo di strade misteriose con pareti di roccia di venti metri di altezza. Ci accompagnano in un cammino attraverso segni esoterici e monumenti funerari come la «Tomba dei demoni alati» con il suo inquietante frontone (uno dei più belli al mondo), decorato con la figura di un demone alato, forse Scilla, antica medusa, mostro spietato che simboleggia il passaggio agli inferi.
Non lontano dal canyon, a Roselle, c’è un altro sito-laboratorio. Quello delle mura ciclopiche, 8 metri di altezza, 3,2 chilometri d’estensione. Anche qui si continua a scavare e a pensare al futuro. «Il ministero ha chiesto il diritto di prelazione per acquisire una parte dell’area archeologica - annuncia il sovrintendente ai beni archeologici della Toscana, Andrea Pessina - e si sta lavorando a una serie di itinerari per creare una via Francigena degli Etruschi».
A Chiusi è stata appena scoperta l’«Innominata», una tomba dipinta e ancora senza nome. L’ha trovata un gruppo di volontari e non è un caso, perché sono molti gli esempi di uomini e donne innamorati dell’antica gente d’Etruria. Lorenzo Benini, un industriale fiorentino, dedica parte delle sue ferie per cercare tesori etruschi e finanzia campagne di scavi. Agli amici racconta che quella passione faticosissima gli regala la sensazione di conoscere se stesso. Paolo Panerai, giornalista e imprenditore, finanzia scavi e organizza con la sovrintendenza mostre dei reperti trovati nei terreni della splendida cantina d’autore firmata da Renzo Piano sulle colline di Gavorrano, in provincia di Grosseto.
Gonfienti, la «Prato etrusca» dalla quale la mostra di Palazzo Pretorio trae ispirazione, è una miniera di sorprese. Che si vuole trasformare in eccellenza. La Regione Toscana ha stanziato tre milioni di euro e tra poco nascerà un parco archeologico unico al mondo. Poi c’è il laboratorio-Volterra, gli scavi perpetui e l’«Ombra della Sera», la statuetta più famosa e oscura.
Dove non arrivano scienza e storia, c’è il maltempo ad allearsi e diventare strumento del Grande Sito. A Baratti, sul lungomare della provincia di Livorno, un’alluvione seguita da una devastante erosione ha portato alla luce una necropoli sconosciuta e poco distante sono affiorate le mura poligonali dell’antica Populonia, una delle roccaforti etrusche. Qui sembra quasi di vederli gli etruschi. Come accade a Murlo, borgo senese, dove l’esame del Dna ha dimostrato che i paesani sono i più diretti discendenti di questo popolo. Guardateli negli occhi, se vi capita di andare in quel paese: potreste parlare con il pronipote di un lucumone.