Una pagina della storia italiana

Perdonami madre perché ho sparato. Ho sparato contro un uomo uguale a me. Ma con una divisa diversa. Ho sparato perché devo resistere

martedì 21 novembre 2006.
 

È l’8 settembre, ma non di un anno qualunque. Del 1943. C’è grande festa perché si pensa che la guerra sia finita. Ma non è questa la realtà. La realtà è che la guerra, in Italia, è appena iniziata. Perché è proprio in quel momento, che nel caos più totale, inizia la volontà di resistere. Contro chi, non è ben chiaro. Non è guerra dichiarata ma solo resistenza, pura e vera resistenza. Si scappa, ci si unisce, si trovano armi e se necessario si spara. I nazisti sono forti ma il desiderio di libertà lo è di più. Non ci sono solo i nazisti, ma anche i repubblicani, o “repubblichini”. E la guerra diventa, civile, di un uomo uguale ad un altro uomo, di un italiano che spara ad un altro italiano. Tutto è confuso. Non ci sono direttive, non ci sono ordini, lo sbaraglio è il più totale. I militari scappano, cercano di tornare a casa, alla loro casa, incontrano i nazisti e vengono uccisi per essere fuggiaschi. Intanto sulle montagne cominciano a salire i primi ragazzi e i militari, quelli che a casa non ci vogliono tornare. Passano i primi mesi e la confusione non scema. Passano i primi mesi e ora si ha un nemico: l’invasore tedesco, che tratta i territori occupati come fossero territori conquistati e non amici. C’è chi resta chiuso in casa, perché se sei un renitente ti sparano. E c’è chi a casa non ci vuole restare, quelli che vogliono salire sulle colline, perché tutto intorno la gente muore e loro non vogliono mettersi da parte. “Stasera, potrebbe essere l’ultima sera” ripete un compagno ad un altro. Stasera potrebbe essere l’ultima sera, perché domani ti sparano. Passano altri mesi, ma la guerra non finisce. Le speranze di quelli che vogliono solo la pace, le speranze di quelli che vogliono solo dimenticare al più presto quella stupida guerra, sono vane speranze. Sulle colline c’è più gente di prima, ci si muove, si fanno attacchi, si uccide, spesso si esagera. Si esagera a premere il grilletto, perché la paura ed il rancore per un amico ucciso, sono più forti della compassione e della pietà. Arriva il ’44, marzo ’44: una vera svolta quella di Salerno. Mentre gli alleati salgono, i partigiani diventano forti. Molte città vengono liberate prima che gli americani possano arrivarci. E non contano le rappresaglie. Non conta il paese di Marzabotto in cui sono 770 le vittime, civili. Conta solo la libertà. La volontà di cancellare le camice nere, di cancellare venti anni di storia e di aiutare chi, in quel momento, si comportò da liberatore. La potenza è nel movimento e non nella forza. La potenza è unire chi non ha nulla in comune, chi viene dalla campagna e chi dalla città. I bambini, per Natale, vogliono fucili e non giocattoli. Vogliono partecipare e non scappare. Tutti gli altri hanno paura. Non vogliono più né fucili né bombe, non vogliono prendere posizioni. Aspettano l’aiuto delle forze che effettivamente liberano l’Italia, quelli che la forza ce l’hanno nei fucili e nei carri armati e che l’Italia non sanno neanche com’è. I partigiani sono la parte meno importante. Importante è però ricordare la forza di chi le armi non le aveva mai prese ma che, per propria volontà, decise di sparare. Sparare indiscriminatamente, a volte troppo, perché la guerra è solo casi estremi, la guerra è decidere tra la tua vita è quella di un uomo che fino a pochi anni prima abitava vicino a te. La guerra è temere la morte del proprio fratello, perché indossa la divisa contro cui tu combatti. Migliaia di ragazzi che scappano dai proiettili che ti cadono addosso, e che forse ti colpiscono. La guerra ha un senso che, chi non l’ha vissuta non può capire. Non ha senso. E forse, tutte queste mie parole non hanno alcun senso.

Francesco Parise


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