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11 SETTEMBRE 2006. Quinto anniversario: una memoria sprecata! TRE GUERRE PERDUTE. L’analisi di BARBARA SPINELLI

lunedì 2 ottobre 2006.
 
[...] è il momento dell’Europa, del multilateralismo, dell’Onu, perché l’impero Usa periclita. L’impero non garantisce più sicurezza mondiale, non garantisce neppure più il punto nevralgico che è Israele. Negli Stati Uniti si moltiplicano le polemiche contro la lobby ebraica, in Israele aumentano le voci di chi considera l’America non più parte della soluzione ma del problema: lo studioso Jason Gitlin, su Haaretz di venerdì, sostiene che «gli Stati Uniti non sono più una risorsa nella regione ma un peso». Israele scopre l’importanza dell’Onu, cerca contatti e aiuti in Europa, in Italia. È una novità [...]

IL QUINTO ANNIVERSARIO 11 settembre, la memoria sprecata

di Barbara Spinelli (La Stampa, 10.09.2006)

INIZIATA da George W. Bush subito dopo l’attacco alle Torri di New York, la guerra contro il terrorismo non accenna a finire e già è durata molto tempo: cinque anni, più della prima guerra mondiale, poco meno della seconda. E nessuna vittoria in vista, nessuna indicazione su come l’impresa potrebbe andare a finire, ma anzi un proliferare di guerre etnico-religiose, di aggressioni terroriste in vari punti del globo, di disarticolazioni dei poteri statali in Medio Oriente, nel Golfo, in Afghanistan, in Pakistan, in India, nelle Filippine. Disarticolazione è un vocabolo terrorista, le Brigate Rosse si ripromettevano simile risultato quando attaccavano «il cuore dello Stato». Oggi la disarticolazione è epidemia planetaria e non sono le democrazie e neppure l’America ad avvantaggiarsene, anche se traumi come quello del 2001 in America non si sono riprodotti. Un grafico di Foreign Policy illustra l’approdo cui siamo giunti a cinque anni dall’11 settembre: fra il 2002 e il 2005 gli attacchi terroristici contro l’America sono scesi da 62 a 51 rispetto al ‘98-2001, e i morti sono diminuiti drasticamente (2991 fra il 1998 e il 2001, 3 fra il 2002 e il 2005). L’America è al momento risparmiata ma non l’Asia centrale e sud-orientale, l’Africa, e in primis il Medio Oriente (10.615 morti e 5517 attentati nel 2002-2005, contro 609 morti e 1376 attentati nel 1998-2001).

Alcuni esperti americani si consolano con queste cifre: l’avversario non è in grado di nuocere come nel 2001 e in fondo si torna al pre-11 settembre. Ma un’America che si protegge dal mondo mettendo a repentaglio il mondo non può sentirsi né vittoriosa né sicura. Il suo governo s’è lanciato in guerre mondiali con la pretesa di imitare il coinvolgimento Usa nei conflitti europei del ’900, ma il suo disegno è per la verità isolazionista, autarchico. I critici di Bush impiegano un termine calzante, quando ne riassumono i difetti: lo chiamano incurious. La persona incurious è priva di curiosità, di desiderio di conoscere, d’apprendere: ignora volontariamente le cose attorno a sé, è disattenta, distratta, prigioniera di sue astratte fantasie. La politica della memoria, nelle mani dell’incurious, produce danni perché è disordinata, procede a casaccio, dunque è inservibile. La sua tentazione è la self-fulfilling prophecy, la profezia che si auto-realizza e che di regola non è affatto una profezia ma una falsa definizione dei fatti: le conseguenze di tali definizioni sono diabolicamente reali, ma non per questo è reale anche l’originaria definizione.

Lo stesso vale per la memoria, che è una profezia sui generis: ogni giorno Bush evoca le guerre antitotalitarie del ’900, ma quasi si direbbe che non sa quel che evoca. La lotta odierna contro il terrore ha temporaneamente protetto gli americani in America (il tempo di vincere questa o quella elezione), ma ha frantumato l’influenza statunitense nel pianeta. Per cinque anni è stata condotta senza pensare il mondo, addirittura ignorandone la fattura. È stata ed è fatta con vista breve, con conoscenza nulla, con ricordi storici storti. È perduta in Iraq, può naufragare in Afghanistan. Con le guerre Usa nel ’900 ha poco a che vedere. Allora il centro dell’Occidente era forte. Oggi i mondi attorno all’America franano e il centro non tiene. Come nell’oracolo poetico di Yeats: «Things fall apart; the centre cannot hold; Mere anarchy is loosed upon the world», pura anarchia si rovescia sul mondo. Nonostante questo precipitare i discorsi ufficiali restano eguali a se stessi, e non solo in America: sono ripetitivi, vacui, annunciano offensive globali contro terrori globali senza riconoscere che il terrorismo ha preso forme ormai locali, nazionali, distinte. Gli slogan sul conflitto globale sono un regalo che ogni giorno facciamo a Bin Laden, aggrappato a quest’immagine che lusinga la sua potenza e nasconde le sue spossatezze. È vero, dopo l’11 settembre gli occidentali e parte dell’Islam (innanzitutto sciita) solidarizzarono con l’America e la missione afghana. Ma continuare a invocare l’iniziale unità senza domandarsi quel che nel frattempo è accaduto sul terreno è poco sensato. I talebani sono di ritorno da molto tempo in numerose province nel Sud e nell’Est (compresa la zona assegnata agli italiani) ed è impressionante come le due cose s’intreccino: la ripetitività dei discorsi occidentali e la negligenza dei fatti. Son ripetitivi non solo i governanti Usa ma anche la Nato, gli europei. In questi giorni lo stupore li ha assaliti, di fronte alla forza talebana che si consolida nelle zone trasferite dagli Usa alla Nato - è «sorpreso» il generale James Jones, comandante delle truppe atlantiche in Europa, s’è detto «sorpreso» il segretario alla Difesa Rumsfeld, a Kabul nel dicembre 2005: sono anni che in Afghanistan siamo sempre più esterrefatti. Neppure ci siamo accorti che sradicare le colture di oppio senza rassicurare i suoi diseredati coltivatori è consegnare questi ultimi ai talebani. Quando una sorpresa dura troppo a lungo c’è qualcosa che non va: il buon senso sta svanendo. La potenza che aveva ambizioni imperiali, a forza di sorprendersi, si perde. Forse ha ragione lo storico Niall Ferguson: gli imperi moderni, Usa in testa, durano ben poco, molto meno degli antichi.

Il fatto è che la guerra in Afghanistan non è solo lotta al terrorismo come sostiene il ministro della Difesa Parisi. Per ottenere risultati pratici deve conquistare anche cuori e anime delle popolazioni, dar loro la sicurezza che manca, aiutare lo Stato centrale a ridivenire autorevole. Se fosse solo lotta al terrorismo la missione in Afghanistan dovrebbe terminare, tanto somiglia - sempre più - all’esiziale intervento sovietico. D’altronde il terrorismo talebano è già stato in parte indebolito, non con la guerra bensì con interventi su flussi bancari e con l’intelligence. Per questo è utile esaminare le nostre sconfitte e imparare da esse, non solo in Iraq ma anche in Afghanistan: questa è vera memoria, non quella che ogni minuto evoca Hitler e Churchill. Se usano questa memoria viva, pratica, i responsabili italiani ed europei potranno rinegoziare con la Nato la missione, correggendo gli errori Usa. Altrimenti avranno ragione Fini e coloro che non vedono differenza alcuna, fra le scelte di Prodi e quelle di Berlusconi dopo l’11 settembre.

Eppure le differenze ci sono, innumerevoli. Oggi è l’ora dell’Europa ed è grande merito di Prodi, di D’Alema, averlo intuito presentandosi come custodi-sentinelle della tregua in Libano. Il conflitto libanese è stato cruciale perché ha evidenziato proprio questo: è il momento dell’Europa, del multilateralismo, dell’Onu, perché l’impero Usa periclita. L’impero non garantisce più sicurezza mondiale, non garantisce neppure più il punto nevralgico che è Israele. Negli Stati Uniti si moltiplicano le polemiche contro la lobby ebraica, in Israele aumentano le voci di chi considera l’America non più parte della soluzione ma del problema: lo studioso Jason Gitlin, su Haaretz di venerdì, sostiene che «gli Stati Uniti non sono più una risorsa nella regione ma un peso». Israele scopre l’importanza dell’Onu, cerca contatti e aiuti in Europa, in Italia. È una novità che tanti analisti Usa trascurano quando sostengono che nulla è realmente cambiato dopo l’11 settembre. Anche Berlusconi vorrebbe cancellare la novità, opponendosi all’operazione libanese.

L’Europa ha vantaggi notevoli, se i governi volenterosi congiungono le proprie forze: è capace di maggiore attenzione alle situazioni locali, e per esperienza storica sa i pericoli dei nazionalismi ideologici-millenaristi. Non globalizza tutto, generalizzando. Ma soprattutto è più restia a usare la memoria come arma politico-elettorale, come ancor oggi fanno Bush, Cheney, Rumsfeld. La memoria è una delle grandi vittime di questi cinque anni. È stata usata a sproposito, manipolata, sprecata. Si è parlato di Hitler e del cedimento democratico che va sotto il nome di appeasement con leggerezza stupefacente. Per questa via Bin Laden ha guadagnato lo statuto di possente avversario, contro il quale l’Occidente schiera eserciti. Forse la prima cosa da fare è dimenticare questi paragoni, smetterli per un po’, comunque approfondirli. Non descrivono le situazioni effettive, non aiutano. L’Iran che cerca spazio nell’universo musulmano somiglia alla Prussia dell’800 più che a Hitler: secondo Vali Nasr, studioso degli sciiti, Teheran aspira a divenire una potenza regionale come la Germania di Bismarck, e della disputa atomica si serve a tale scopo. È impregnato di messianesimo, ma quel che cerca è una resa dei conti con i regimi sunniti, non uno scontro democrazia-dittatura né la rovina d’Israele. La democrazia è anzi strumento privilegiato dagli sciiti: il loro peso nella regione aumenta enormemente, se ovunque è applicata la regola democratica «un uomo, un voto». Comunque la voce iraniana s’è fatta grossa perché le guerre Usa hanno magnificato il suo peso, innalzando gli sciiti in Iraq e indebolendo i sunniti talebani in Afghanistan (Vali Nasr, The Shia Revival, La Rinascita Sciita, Norton 2006).

Negoziare con l’Iran è inevitabile, con o senza sanzioni, e chi è preveggente in Israele lo vede: Shlomo Ben Ami, negoziatore a Camp David nel 2000, consiglia su Haaretz la «distensione con l’Iran», e la sua «integrazione in una politica di stabilità regionale prima che la bomba sia acquisita». Gideon Samet, sullo stesso quotidiano, spera nei mediatori europei e chiede che Olmert cambi la strategia nucleare: «Perché Israele non consente ad abbandonare la politica ormai antiquata dell’ambiguità (ammettere e non ammettere il possesso della bomba), e non accetta supervisioni del proprio programma nucleare in cambio di supervisioni internazionali in Iran?». Ma per far tutte queste cose urge mutare linguaggio, ripensare la storia passata, connetterla meglio col presente, rimeditare parole come democrazia, profezia, impero. L’Europa può farlo, se non sarà incurious come l’America di Bush.


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