Il rapporto sullo stato di salute della Terra indica un crollo della biodiversità e la riduzione vertiginosa delle risorse
Allarme del Wwf: "Un pianeta non basta. Entro il 2050 risorse insufficienti"
"Bisogna cambiare, se non lo faremo conseguenze certe e terribili"*
ROMA - Gli ecosistemi naturali si stanno degradando a un ritmo impressionate, senza precedenti nella storia della specie umana e la conseguenza più immediata è la perdita di biodiversità. Le conseguenze di questi processi sono catastrofiche già nel medio periodo: entro il 2050 le risorse della Terra non saranno più sufficienti, se continueremo a sfruttarle a questi ritmi. Sono le conclusioni del "Living Planet Report 2006", l’ultimo rapporto del WWF, giunto alla sua sesta edizione, presentato oggi a livello mondiale proprio da uno dei paesi a più rapido sviluppo, la Cina. "Fare dei cambiamenti che migliorino i nostri standard di vita e riducano il nostro impatto sulla natura non sarà facile - ha detto il direttore generale di Wwf International, James Leape - ma se non agiamo subito le conseguenze sono certe e terribili".
L’uomo distruttore. Secondo il rapporto, che è stato redatto dopo due anni di studi, la perdita di biodiversità già segnalata nelle precedenti edizioni è sempre più marcata e il consumo di acqua, suolo fertile, risorse forestali e specie animali ha raggiunto livelli intollerabili per il pianeta. Il rapporto dimostra che in 33 anni (dal 1970 al 2003) le popolazioni di vertebrati hanno subito un ’tracollo’ di almeno 1/3 e nello stesso tempo l’impronta ecologica dell’uomo - cioè quanto ’pesa’ la domanda di risorse naturali da parte delle attività umane - è aumentata tanto che la Terra non è più capace di rigenerare ciò che viene consumato.
Il ruolo dell’Italia. Il consumo incontrollato riguarda tutti i paesi e l’Italia, sebbene dietro al resto dell’Europa, è al 29esimo posto nella classifica mondiale delle nazioni scialacquatrici. E’ evidente, secondo il Wwf, che anche l’Italia deve cambiare rotta al più presto e imboccare la strada della sostenibilità del proprio sviluppo, integrando le politiche economiche con quelle ambientali.
Correre ai ripari. "Siamo in un debito ecologico estremamente preoccupante, considerato che i calcoli dell’impronta ecologica sono per difetto - ha spiegato Gianfranco Bologna, direttore scientifico del Wwf Italia - Consumiamo le risorse più velocemente di quanto la Terra sia capace di rigenerarle e di quanto la Terra sia capace di ’metabolizzare’ i nostri scarti. E questo porta a conseguenze estreme ed anche molto imprevedibili".
Per questo, secondo Bologna, "è tempo di assumere scelte radicali per quanto riguarda il mutamento dei nostri modelli di produzione e consumo. Il nostro futuro dipenderà da come impostiamo oggi la costruzione delle città, da come affrontiamo la pianificazione energetica, da come costruiamo le nostre abitazioni e da come tuteliamo e ripristiniamo la biodiversità".
I dati. Il rapporto del Wwf ha analizzato in tutto 695 specie terrestri, 344 di acqua dolce e 274 specie marine. Negli oltre trent’anni presi in considerazione le specie terrestri si sono ridotte del 31%, quelle di acqua dolce del 28% e quelle marine del 27%. Il secondo indice, l’Impronta Ecologica, misura la domanda in termini di consumo di risorse naturali da parte dell’umanità. Il "peso" dell’impatto umano sulla Terra è più che triplicato nel periodo tra il 1961 e il 2003. Questo rapporto mostra che la nostra impronta ha già superato nel 2003 del 25% la capacità bioproduttiva dei sistemi naturali da noi utilizzati per il nostro sostentamento. Nel rapporto precedente era del 21%.
In particolare, l’impronta relativa alla CO2, derivante dall’uso di combustibili fossili, è stata quella con il maggiore ritmo di crescita dell’intera impronta globale: il nostro "contributo" di CO2 in atmosfera è cresciuto di nove volte dal 1961 al 2003. L’Italia ha un’impronta ecologica (sui dati 2003) di 4,2 ettari globali pro capite con una biocapacità di 1 ettaro globale pro capite, dimostrando quindi un deficit ecologico di 3,1 ettaro globale pro capite.(24 ottobre 2006)
* www.repubblica.it, 24.10.2006
«Un pianeta non basta, tanto che nel 2050 ce ne vorranno due se continua l’attuale ritmo di consumo di acqua, suolo fertile, risorse forestali, specie animali tra cui le risorse ittiche. Gli ecosistemi naturali si stanno degradando ad un ritmo impressionate, senza precedenti nella storia della specie umana». È quanto riporta con grande chiarezza il «Living Planet Report 2006», l’ultimo rapporto del Wwf, giunto alla sua sesta edizione, lanciato oggi al livello mondiale proprio da uno dei paesi a più rapido sviluppo, la Cina.
Le risorse naturali del pianeta sono sfruttatate a una velocità 25 volte superiore rispetto al tempo che ci vuole per rigenerarle. Non solo. La ricerca sottolinea che il degrado procede a «un tasso senza precedenti nella storia umana». E indica lo sfruttamento intensivo del pianeta sulla base di alcuni indici di calcolo.Il primo è il «living planet index», Indice del Pianeta Vivente ,che misura la salute degli ecosistemi, e l’«ecological footprint», l’Impronta Ecologica, misura la domanda in termini di consumo di risorse naturali da parte dell’umanità, che misura la domanda umana di risorse naturali. Il pesò dell’ impatto-umano sulla Terra è più che triplicato nel periodo tra il 1961 e il 2003.
Negli oltre trent’anni presi in considerazione - tra il 1970 e il 2003- le specie terrestri si sono ridotte del 31%, quelle di acqua dolce del 28% e quelle marine del 27%, quelle tropicali sono diminuite del 55%.
Il paese che consuma più risorse sono gli Stati Uniti, che ogni anno distruggono 2,819 milioni di ettari di verde. Segue la Cina, con 2,152 milioni di ettari. In Europa, la Gran Bretagna supera gli altri paesi, sfruttando ogni anno 333 milioni di ettari.
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www.unita.it, Pubblicato il: 24.10.06 Modificato il: 24.10.06 alle ore 17.24
Lo "sviluppo" spiegato com’è
Un breve filmato che spiega di che lagrime e di che sangue gronda quello che chiamano "sviluppo"
Vi raccomando la visione di un interessante documentario: The Story of Stuff, che si trova su youtube anche in versione italiana, doppiata o sottotitolata. Utile per spieare in termini molto semplici (un semplice cartone animato, con un testo parlato con chiarezza) le conseguenze del ciclo lineare estrazione > produzione > commercializzazione > consumo > smaltimento sulle nostre vite e sul pianeta. Qui sotto il link alle tre parti del documentario, nell’edizione doppiata in italiano.
Dopo il primo, pubblicato a febbraio, l’Ipcc ha varato il secondo capitolo del documento.
Lo studio si concentra sulle drammatiche conseguenze del riscaldamento globale
Clima, trovato l’accordo sul rapporto Onu
"A rischio 20-30% specie vegetali ed animali"
Tra le situazioni più a rischio, l’accesso all’acqua per milioni di persone e la tutela della biodiversità *
BRUXELLES - La scienza alla fine ha prevalso sulla politica, almeno per il momento. Dopo un temuto rinvio dovuto alle pressioni di Stati Uniti e Cina e Arabia Saudita, preoccupate per le conclusioni decisamente allarmanti, l’Ipcc, l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa dei cambiamenti climatici, ha finalmente trovato l’accordo sul secondo capitolo del rapporto 2007. Dopo il primo capitolo sulla fisica dei cambiamenti, pubblicato nel febbraio scorso, quello attuale è il dossier che prende in esame le conseguenze pratiche dei mutamenti.
E sono conseguenze che fanno paura. Un innalzamento della temperatura media globale di 2-2,5 gradi rispetto al presente, si legge nel testo approvato, "potrà causare un forte aumento degli impatti" con spostamenti geografici di specie, perdite totali di biodiversità, riduzione della produttività agricola e delle risorse idriche in vaste aree. E questo determinerà un maggiore rischio di estinzione per circa 20-30% delle specie vegetali ed animali. In Australia e Nuova Zelanda le proiezioni climatiche stimano una forte perdita di biodiversità entro il 2020.
Gli impatti dei cambiamenti climatici, dicono gli esperti dell’Ipcc, "sono già in atto a livello globale e regionale e saranno più forti nel futuro". Inoltre, "molti sistemi naturali in tutto il pianeta sono stati già affetti da cambiamenti climatici regionali, in particolare da aumenti di temperature".
"Alla fine abbiamo un documento che spero attirerà l’attenzione in tutto il mondo", ha annunciato il presidente dell’Ipcc, Rajendra Pachauri. "Stiamo facendo le ultime correzioni della bozza - ha aggiunto - il lavoro non è facile ed è un documento complesso". Nella notte, tra mille tensioni, è stata fatta un’estenuante opera di limatura, correggendo alcuni aggettivi e alcune definizioni ("alto rischio" riferito al timore di perdita di biodiversità è divenuto ad esempio "crescente rischio"), ma la sostanza delle conclusioni messe insieme dallo staff di oltre duemila scienziati coordinato dall’Ipcc non è cambiata ed è la stessa anticipata dalla stampa nei giorni scorsi.
L’allarme per le conseguenze pratiche sulla vita umana e gli ecosistemi portate dal riscaldamento globale lanciato nel documento è pesantissimo. Stando alle previsioni basate su proiezioni scientifiche, già tra venti anni centinaia di milioni di persone rimarranno senza acqua a causa della siccità, mentre epidemie come la malaria si estenderanno anche in zone non tropicali. Nel 2050 l’Europa potrebbe perdere tutti i suoi ghiacciai e nel 2100 metà della vegetazione mondiale potrebbe essere estinta. Inoltre si ripeteranno ondate di calore anomalo in grado di uccidere migliaia di persone ed eventi climatici estremi come inondazioni e alluvioni.
Rispetto al precedente rapporto, pubblicato dall’Ipcc nel 2001, quello attuale è molto più allarmato e circostanziato e soprattutto affronta il riscaldamento globale non più come una vaga minaccia per un futuro lontano, ma come un fenomeno che sta già producendo i suoi effetti. "I cambiamenti climatici - spiega Neil Adger, uno dei leader della delegazione britannica nell’organismo Onu - non è qualcosa che riguarda il futuro, è già tra noi". Dopo l’estate l’Ipcc pubblicherà anche il terzo capitolo del suo rapporto 2007 nel quale vengono affrontati i possibili rimedi per contrastare il riscaldamento globale e mitigarne gli effetti.
* la Repubblica, 6 aprile 2007
Il mondo è agli sgoccioli
di Pasquale Colizzi *
Il mondo è un malato terminale. Che scoperta! Però si comporta come un signore di mezza età che ha saputo di avere un cancro e non vuole decidersi a cambiare stile di vita. La sua tragica filosofia è: se ho ancora pochi anni da vivere voglio scialacquare, non mi frega di niente e di nessuno. Già vice di Bill Clinton, Al Gore è stato il candidato democratico sconfitto alle elezioni presidenziali del 2000 da un George W. Bush che, dopo due mandati disastrosi, sta diventando una patata bollente anche per il partito repubblicano. Dopo la morte del figlio, con una presa di coscienza subitanea e fulminante (spettacolare e molto americana), Al Gore ha deciso di dedicarsi alla causa ambientale. Forte della sua straordinaria capacità di divulgatore, da tempo sta facendo un tour americano ed europeo per illustrare i contenuti dello spettacolo drammatico di un pianeta che va in malora. Adesso Una scomoda verità (ripreso dal regista Davis Guggenheim) arriva nei cinema.
Il documentario fonde affari privati e problemi globali. La scelta di inserire tutta una digressione sul giovane Al Gore, le sue origini, l’attività politica, la tragedia familiare e la "conversione" sulla via di Damasco sono la parte francamente più trascurabile. Lo preferiamo vivace, arguto, preoccupato ma non pessimista mentre illustra al giovane pubblico delle università o ai convegni le conseguenze del surriscaldamento globale. Su e giù con un montacarichi per raggiungere tutte le parti del megaschermo che utilizza, Al Gore e il suo staff hanno innanzitutto portato prove evidenti. Ribaltando la teoria sostenuta da (pochi) scienziati, secondo cui il clima cambia ciclicamente e in modo naturale, molti studi dimostrano che è stata l’attività umana a stravolgerlo. Le foto mostrano i ghiacciai di dieci anni fa e quello che è rimasto oggi: in Groenlandia si sono dimezzati. I grafici sull’incidenza di eventi castrofici, come gli uragani e le onde anomale, raccontano che sono raddoppiati negli ultimi 30 anni. La malaria è riuscita ad arrivare a 7000 piedi fin sulle Ande colombiane. Epidemie dai contorni incerti minacciano larghe parti del pianeta. Le prospettive: se si continua così nel 2050 un milione di specie animali e vegetali saranno irrimediabilmente scomparse, l’Artico sarà sciolto e il livello delle acque salirà di 20 piedi. Addio Salento, andremo a fare il bagno sull’Appennino.
In America Una scomoda verità (con la sua campagna attiva e le 10 cose che ognuno di noi può fare) è stato presentato al Sundance festival e ha ottenuto adesioni di insospettabili come il tele predicatore e leader necon Pat Robertson. Ma anche velenose campagne contro: su YouTube è apparso un video, L’armata dei pinguini di Al Gore, in cui l’ex vice presidente è dipinto come un imbonitore di sostenitori-pinguini e della situazione in Medio Oriente e dell’inquinamento dà la colpa alle (povere) compagnie petrolifere. Il Wall Street Journal, nonostante le note posizioni conservatrici, ha scoperto e denunciato che dietro il prestanome autore del video c’era, guarda un po’, la Exxon Mobil. Eppure non serve molto per convincersi che educazione ambientale nelle scuole e una serie attività politica sono l’unico mezzo per evitare che in 25 anni i morti per catastrofi e inquinamento raddoppino fino a 300mila persone l’anno. In California nevica e le arance sono da buttare, in Europa in pieno inverno spira una leggera brezza primaverile. Inequivocabile? Forse. Intanto in Italia siamo indietro anni luce sulle energie alternative. E gli uragani che hanno infestato gli Usa adesso sono rimbalzati qui da noi. Dobbiamo iniziare a chiuderci in casa?
* l’Unità, Pubblicato il: 19.01.07, Modificato il: 19.01.07 alle ore 18.14
Si è aperta oggi in Africa la conferenza Onu per la lotta al riscaldamento globale. Si cerca una difficile intesa per ridurre drasticamente i gas serra dopo il 2012
Clima, al via il vertice di Nairobi il mondo davanti alla sfida più difficile
Danni catastrofici se non si tagliano le emissioni del 50% entro il 2050. L’obiettivo deve fare i conti con l’opposizione di Bush e il ruolo di Cina e India
di VALERIO GUALERZI *
NAIROBI - Undici giorni per decidere cosa fare nei prossimi quindici anni. Da oggi fino al 17 novembre si svolge a Nairobi, in Kenya, la dodicesima conferenza internazionale sui cambiamenti climatici organizzata dalle Nazioni Unite. Al vertice partecipano oltre seimila delegati di circa duecento paesi. All’ordine del giorno, gli interventi per ridurre i danni dei cambiamenti climatici già in atto (in primis proprio in Africa), il confronto sull’attuazione degli obiettivi fissati dal protocollo di Kyoto, e, soprattutto, le trattative per cercare di gettare le basi per un suo rinnovo con obiettivi molto più ambiziosi a partire dal 2012, quando scade il termine della prima ratifica che fissa il traguardo di un -5% nelle emissioni di gas serra rispetto ai livelli del 1990. La comunità internazionale arriva all’appuntamento sulla scorta di previsioni nefaste e segnali incoraggianti.
Previsioni drammatiche. Da un lato la comunità scientifica è ormai pressoché concorde sul fatto che il tempo a disposizione sta scadendo e rimangono tra i 10 e 15 anni per ingranare la retromarcia e scongiurare gli effetti più drammatici del riscaldamento globale. Secondo Greenpeace, ma il consenso su questo aspetto va ormai molto oltre i ristretti confini del mondo ambientalista, entro il 2020 bisogna arrivare alla riduzione delle emissioni del 30 per cento da parte dei paesi industrializzati, e almeno al 50 per cento entro il 2050. L’obiettivo è infatti quello di scongiurare una concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera in grado di portare entro il 2100 a un aumento della temperatura media di due gradi centigradi, limite oltre il quale la dinamica del clima potrebbe impazzire.
Qualcosa è cambiato. Dall’altro lato, l’aria che si respira rispetto ad altre vigilie è quella di una maggiore consapevolezza della minaccia che incombe sull’umanità. Coscienza che ha conquistato spazio anche negli Stati Uniti, il paese maggiormente responsabile dei rischi (con circa il 5% di popolazione crea quasi il 25% delle emissioni), ma sinora il più ostinato nel negarli. Il presidente Bush formalmente resta un nemico giurato di Kyoto, ma intorno a lui tutto sta cambiando e negli Usa negli ultimi mesi è stato tutto un fiorire di iniziative di singole istituzioni o singole imprese volte a ridurre le emissioni come se il Protocollo fosse stato sottoscritto anche da Washington.
I costi economici. A metà tra auspici negativi e positivi, sta il rapporto commissionato dal governo britannico all’ex economista capo della Banca mondiale Nicholas Stern sulle ripercussioni economiche di un mondo con maggiori inondazioni, maggiore siccità, maggiori rischi di epidemie, e zone costiere fertili rese inaccessibili dall’innalzamento dei mari, con conseguenti maggiori flussi migratori. Il documento, reso pubblico qualche giorno fa, vede nero, prevedendo costi elevatissimi e un mondo alle prese con una crisi ben più dura di quella del 1929. Allo stesso tempo sembra però poter conquistare alla causa della lotta all’effetto serra anche vasti settori dell’economia. Intervenire ora, è il ragionamento di Stern, costa relativamente poco, farlo dopo avrebbe un prezzo esorbitante.
Consapevolezza europea. Il problema dei costi della lotta ai cambiamenti climatici è proprio uno dei nodi principali al centro delle trattative di Nairobi. Gli Stati Uniti rifiutano di sottoscrivere qualsiasi accordo che stabilisca limiti rigidi alle emissioni per due motivi. Il primo è il fatto che secondo l’amministrazione Bush l’economia americana sarebbe costretta a fronteggiare delle spese che ne frenerebbero la crescita. Ma se fino a qualche tempo fa c’erano solo gli ambientalisti a sostenere che passare a uno sviluppo sostenibile può essere un formidabile volano economico, ora affermano di pensarla così molti leader europei, Tony Blair e Angela Merkel su tutti.
Schwarzy contro Bush. Persino il governatore repubblicano della California Arnold Schwarzenegger, che ha fissato per il grande stato americano un ambiziosissimo piano che dovrebbe portare entro il 2020 a una riduzione delle emissioni del 25% rispetto a quelle del 1990, sembra essersi convertito a questo credo. Sorprendentemente, la motivazione di Terminator non è infatti solo di carattere ambientale ma anche economica, con la dichiarata intenzione di rendere le aziende californiane più competitive e di fare della Silicon Valley la nuova patria dell’energia solare.
Aspettando il ricambio. La previsione è quindi che da Nairobi arriveranno dei segnali importanti, ma ancora nulla di concreto perché se è vero che gli Usa sono di fatto avviati verso una politica di riduzione delle emissioni, questo non sarà sancito in maniera solenne fino a quando alla Casa Bianca ci sarà Bush. La vera discussione sul Kyoto dopo 2012 potrà decollare quindi solo nel 2009. E anche con un nuovo presidente americano fissare un nuovo accordo con obiettivi ambiziosi non sarà comunque semplice.
Il problema di Cina e India. Resta infatti aperto il secondo ostacolo all’adesione Usa, quello sul ruolo dei paesi in via di sviluppo. Cina, Brasile e India nella prima fase del Protocollo sono state esonerate dal tagliare i gas serra per non comprometterne la crescita. In questa fase le tre nazioni sono invece oggetto di grandi investimenti in tecnologie pulite e fonti rinnovabili da parte dei paesi occidentali che "pagano" così le riduzioni che non sono in grado di fare in casa propria. Un flusso di fondi e "know how" particolarmente apprezzato, soprattutto da Pechino, alle prese con devastanti problemi ambientali. Guai però a parlare a questi tre paesi di futuri tagli alle emissioni stabiliti per legge. I cambiamenti climatici, è il ragionamento di Cina, India e Brasile, sono responsabilità di chi ha inquinato sino ad ora e spetta quindi all’Occidente risolverli.
Un difficile compromesso. Secondo Washington concedere un’ulteriore deroga rappresenterebbe però dare ulteriori vantaggi alla concorrenza di tre temuti rivali economici. Alla conferenza di Nairobi spetterà quindi il difficile compito di gettare le basi per trovare un punto di possibile mediazione in grado di preparare un Kyoto post 2012 con a bordo gli Stati Uniti, ma anche con un coinvolgimento più stringente dei paesi in via di sviluppo. (6 novembre 2006)
L’umanità insostenibile
Living Planet 2006, il rapporto del Wwf sullo stato degli ecosistemi, presentato ieri in Cina, dice che la vita naturale declina veloce. E che gli umani consumano più risorse di quanto la Terra riesca a rigenerare: è la nostra «impronta ecologica» di Marina Forti (il manifesto, 25.10.2006)
Questa volta fa notizia il rapporto Living Planet, pubblicato ieri dal Wwf internazionale, come ogni due anni, per aggiornare sullo stato degli ecosistemi del pianeta. Fa notizia e con ragione: il rapporto «pianeta vivente» 2006 avverte che se l’umanità continua a consumare risorse naturali al ritmo attuale, entro il 2050 ci servirà due volte la capacità biologica del pianeta. Insomma: avanti così il collasso è inevitabile, e anche abbastanza vicino.
Living Planet è il risultato di due anni di studio sui dati del 2003. Descrive lo stato della biodiversità (l’insieme dei viventi che popola il pianeta) e la pressione degli umani sulla biosfera. Per questo usa due indicatori: il primo è battezzato «indice del pianeta vivente» (Living Planet Index) e misura i trend della vita sul pianeta. Più precisamente, osserva 1.313 specie di vertebrati (pesci, anfibi, rettili, uccelli, mammiferi) di tutto il mondo: sono solo una parte di tutte le specie viventi del pianeta, ma il trend di queste popolazioni è indicativo dello stato di tutta la biodiversità. Ebbene, tra il 1970 e il 2003 la popolazione dei vertebrati è declinata di circa un terzo: stiamo degradando gli ecosistemi naturali a un ritmo che non ha precedenti nella storia dell’umanità.
L’altro indice usato dagli scienziati che hanno lavorato con il Wwf è l’«impronta ecologica» (Ecological Footprint). E’ un termine noto a ecologi e ambientalisti, forse meno al pubblico più generale (e per nulla a chi determina le decisioni politiche): l’«impronta ecologica» misura la domanda di terra e acqua biologicamente produttiva necessaria agli umani per produrre ciò che consumano. Ovvero: la terra coltivabile, i pascoli, le foreste, i banchi di pesca necessari a produrre il cibo, fibre e legname che consumiamo; più il territorio necessario ad assorbire i rifiuti che produciamo inclusi quelli generati consumando energia (quindi anche l’anidride carbonica che fa effetto serra e modifica il clima) e il territorio che occupiamo per le nostre infrastrutture (il consumo d’acqua dolce non è incluso; il rapporto vi dedica un capitolo a sé).
Ebbene: nel 2003 l’impronta ecologica globale dell’umanità era di 14,1 miliardi di ettari globali (cioè ettari biologicamente produttivi, con capacità media di produrre e assorbire risorse), pari a 2,2 ettari globali per persona. Ma la «biocapacità» totale era di 11,2 ettari globali, pari a 1,8 ettari procapite. Dunque eccediamo la biocapacità del pianeta, ed è così ormai dalla metà degli anni ’80: ormai la domanda eccede l’offerta del 25%. E’ il «debito ecologico».
Se andiamo a guardare per aree mondiali scopriamo lo squilibrio di sempre: le impronte ecologiche più pesanti sono quelle di Emirati arabi uniti e Stati uniti, la più bassa in assoluto quella dell’Afghanistan; tutti i paesi industrializzati sono ben sopra la media mondiale, l’India al di sotto. La Cina sta circa a metà, poco sotto la media: paese in rapida crescita economica, avrà un ruolo chiave nell’uso più o meno sostenibile delle risorse nei decenni a venire: per questo il Wwf internazionale ha deciso di presentare il suo rapporto ieri proprio a Pechino.
L’Italia ha un’impronta ecologica pro capite di 4,2 ettari globali, con un deficit ecologico di 3,1 ettari pro capite rispetto alla nostra biocapacità. E questo ci mette al 29esimo posto mondiale. Viene da pensare che nei decenni del grande sviluppo industriale il mondo ha discusso di esaurimento delle risorse naturali come limite allo sviluppo, dal petrolio (risorsa non rinnovabile) in poi. Ma ancora prima delle materie prime naturali, quallo che sta finendo è la capacità della Terra di assorbire i nostri rifiuti e rigenerarsi. L’umanità trasforma le risorse naturali in rifiuti molto più in fretta di quanto la natura ritrasformi i rifiuti in risorse.
E’ la catastrofe? Sì, a meno che si inverta la rotta. Il Wwf ipotizza diversi «scenari» e dice che è ancora possibile la transizione a una situazione sostenibile: ma questo implica prendere subito decisioni, perché le politiche e gli investimenti avviati ora persisteranno per gran parte del secolo. Ed è questo che preoccupa: i dirigenti mondiali non hanno finora mostrato di comprendere l’urgenza del problema.
TERRA MADRE 2006
IL CAPO DELLO STATO INTERVIENE A TERRA MADRE
Napolitano: «Impegno contro il cieco sfruttamento»
«Non è possibile sfruttare in modo discriminato le risorse naturali»
(www.lastampa.it, 26/10/2006)
TORINO. «Non è possibile sfruttare senza sosta e in modo discriminato le risorse naturali e da Italia e Unione europea deve giungere un chiaro impegno per tutelare l’ambiente». È questo il messaggio che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha lanciato intervenendo alla cerimonia inaugurale di ’Terra madrè a Torino, l’incontro mondiale tra oltre 1600 comunità del cibo.
«L’Italia e l’Europa possono svolgere un importante ruolo per affrontare la grande sfida della tutela di un ambiente troppo spesso devastato da una crescita senza regole - ha detto Napolitano - e da un cieco sfruttamento di risorse preziose e limitate come l’acqua e la terra».
Al capo dello Stato non è certo sfuggito l’ultimo rapporto del Wwf sulla riduzione impressionante delle materie prime e delle risorse alla quale la Terra andrà incontro se lo sfruttamento prosegue al ritmo degli ultimi anni. E, davanti ai delegati di 144 Paesi del mondo riuniti a Torino, Napolitano indica la strada da seguire: si deve partire anzitutto «dalla consapevolezza dei limiti e delle insufficienze del passato - ha aggiunto Napolitano - e da una rinnovata attenzione ai temi dello sviluppo, riconoscendo anzitutto l’importanza che per i Paesi più poveri ha tuttora l’agricoltura e favorendo quindi le loro produzioni con un’apertura effettiva dei nostri mercati ai loro prodotti».
Deve, insomma, attecchire «una nuova idea di agricoltura - insiste Napolitano - che indichi valori di vita, modelli di consumo, comportamenti verso l’ambiente naturale e modalità di lavoro e impiego all’intera società e che operi per salvaguardare la qualità delle produzioni agroalimentari locali».
Per «una nuova idea di agricoltura» che contempli la salvaguardia delle produzioni agroalimentari locali, ma anche l’apertura dei nostri mercati ai prodotti dei Paesi più poveri, è necessario, ha aggiunto Napolitano, «un complesso e articolato sforzo nel quale credo possa avere un grande e positivo ruolo la creazione ’di una retè che coinvolga tutte le realtà e le figure sociali interessate: i contadini, gli allevatori e i pescatori, gli artigiani, i produttori locali e i cuochi, le università e i centri di ricerca».
Il capo dello Stato ha sottolineato l’importanza dell’impegno e del contributo dell’Italia «come e più di quanto ha fatto finora affinché davvero la nostra terra sia una madre per tutti». «Dare possibilità di lavoro e di sviluppo ai contadini e ai produttori di cibo nei loro Paesi - ha concluso Napolitano - è certamente una delle vie maestre per combattere il triste fenomeno del lavoro forzato e di tutte le forme di sfruttamento del lavoro che, purtroppo, si vanno sempre più diffondendo anche nei nostri Paesi».
Il capitalismo e questa terra sfinita
di Piero Sansonetti *
Se sfogliate un giornale di ieri - uno qualsiasi - troverete questa schizofrenia: in prima pagina c’è scritto che la terra ha gli anni contati, cioè gliene restano 44 (perché un gigantesco sviluppo dei consumi in occidente, in nessun modo governato e controllato, la sta portando al collasso con milioni di anni di anticipo sul disegno della natura); in seconda pagina c’è scritto che in Italia (per la verità, non solo lì) le classi dirigenti e il ceto politico si stanno dando da fare per aumentare la velocità dello sviluppo e per incrementare i consumi. Se andate avanti, e sfogliate ancora il giornale, trovate la discussione sulle pensioni, tutta costruita su questo assioma: la vita media sta aumentando e questo rischia di fare saltare i tetti della spesa pubblica. Scusate l’ingenuità (e la paradossalità) della domanda: come è possibile prevedere un aumento della vita media (che oggi è di circa 80 anni) se gli scienziati ci dicono che l’anno X è, per tutti, il 2050, e dunque che noi vecchietti ce la caviamo ma i nostri figli, i bambini, hanno poche speranze di raggiungere la sessantina?
Detta così può darsi che sembri un ragionare scherzoso. Non lo è. Il contrasto tra la serietà con la quale si prende qualsiasi previsione economica di Luca Cordero di Montezemolo o di Tito Boeri, e la leggerezza (l’ignoranza: la completa ignoranza) con la quale si affrontano gli ammonimenti degli scienziati sul destino della Terra, è impressionante. Dice Montezemolo: “la mia azienda se non mi riempite di soldi pubblici e se non punite un po’ gli operai, perde competitività”. Ok. Dicono gli scienziati: “il pianeta, se non si ferma lo spreco di consumi e risorse dei grandi paesi dell’occidente, non ce la fa, e entro mezzo secolo inizia la corsa verso la catastrofe”.
La grandissima parte dell’intellettualità e del ceto politico occidentale si allarma e si agita per la denuncia di Montezemolo e neanche prende in considerazione la minaccia - cioè la previsione - degli scienziati. Dice: è vero. E poi tranquillamente prosegue a discutere, a ragionare, ad agire, lungo l’unica via che conosce: lo “sviluppismo puro”, cioè quel tipo di mondo nel quale l’unico metro per distinguere tra bene e male è misurare quanto uno produce e quanto uno consuma (più produce e più consuma più è bene...). Un’altra parte di intellettualità e di ceto politico (e anche una piccola porzione di scienziati esperti) nega il rischio catastrofe, anzi accusa le “cassandre catastrofiste”. Naturalmente è vero: i dati offerti dal “Living Planet Report” (pubblicati, appunto, ieri) sono catastrofisti. Nel senso che dicono: “o ci fermiamo, o correggiamo le politiche e le economie mondiali, e in particolare quelle dell’occidente, o ci sarà una catastrofe”. La catastrofe però non è la forma di una specie di ricatto, è la più probabile delle conclusioni di un ciclo economico e politico ormai fuori controllo.
Naturalmente possiamo dividerci finché vogliamo tra chi dice che la catastrofe è imminente e chi dice che è ancora lontana. Alcuni scienziati pensano che il pianeta possa sopportare gli attuali livelli di “violenza” e di rapina delle sue energie e risorse, per molto più di 50 anni. Forse potrà sopportare tutto questo per uno o persino per due secoli. Non c’è però nessuna possibilità di negare un fatto: le risorse del mondo sono limitate, noi ne stiamo consumando più di quelle che il pianeta riesca a riprodurre, e lo stiamo facendo in modo del tutto squilibrato (perché l’occidente consuma 10 volte più del resto del mondo); tutto questo, in un tempo che nessuno è in grado di indicare con chiarezza, porterà al collasso, e il collasso avrà conseguenze terrificanti sull’umanità.
Si capisce o no la portata di questa riflessione, e l’enorme sproporzione tra questo problema e tutti gli altri? Temo di no. Del resto l’informazione (la stampa la Tv) è molto sensibile all’influenza aviaria, che già, nell’ultimo lustro, ha provocato un centinaio di morti, e rischia di diventare una pandemia (dicono, ma non è sicuro, anzi per la verità è improbabile), ma in nessun modo si preoccupa della pandemia in corso, quella per mancanza di acqua potabile, che provoca migliaia di morti al giorno, milioni all’anno. Non è strano? Non ci hanno insegnato da bimbi che i numeri sono numeri, e sono oggettivi, e hanno un peso nel determinare il senso della realtà?
Cos’è allora che dobbiamo rivedere e mettere in discussione? Una cosa semplicissima: il modello, il sistema nel quale stiamo vivendo - quello che i politologi e gli esperti definiscono sistema capitalistico - il quale sicuramente ha molti vantaggi ma porta nel suo “dna” un enorme e definitivo difetto: la dittatura della crescita dei consumi e quindi il rischio di rovina del pianeta. E’ roba da bolscevichi ottusi pensare che quel sistema vada rivisto e in alcune sue parti rovesciato?
* www.liberazione.it, 26 ottobre 2006