I NUOVI BOIARDI DI STATO L’economista Tito Boeri punta il dito su Eni, Enel, Snam rete gas, Autostrade spa: «Sono i nuovi poteri. Pur di mantenere il monopolio impongono costi molto elevati all’intero sistema economico» di Bruno Perini*
Tito Boeri, docente ordinario alla Bocconi di Milano, direttore della Fondazione Rodolfo De Benedetti e fondatore del sito di informazione economica lavoce.info, non ha dubbi: se si dovesse disegnare una nuova mappa dei poteri economici in Italia bisognerebbe partire dai «futuri ex monopolisti, i managers a capo di società privatizzate in settori che dovevano essere liberalizzati, ma che sono rimasti in condizioni di monopolio». Sono i padroni dell’energia, del gas e dei trasporti, per certi aspetti anche quelli delle telecomunicazioni. «E’ inutile nascondersi - dice Tito Boeri - gruppi come Eni, Enel, Snam rete gas e Autostrade, pur di mantenere le loro posizioni di monopolio, impongono costi molto elevati all’intero sistema economico. Si spera che il governo Prodi riesca a farli diventare ex-monopolisti perché il governo guidato da Silvio Berlusconi è stato molto accondiscendente nei loro confronti».
Un giudizio molto netto il tuo.
Non potrebbe essere altrimenti. I gruppi di cui stiamo parlando sono figli di una trasformazione incompiuta. Alle (parziali o totali) privatizzazioni dovevano seguire le liberalizzazioni dei settori chiave dell’economia, ma queste non sono mai avvenute o non si sono istituite autorità forti di regolazione dei mercati.
Che cosa dà così tanto potere ai futuri ex monopolisti?
In alcuni casi è la presenza dello Stato nell’azionariato. La timidezza con la quale i governi hanno gestito la liberalizzazione è determinata anche dal fatto che lo Stato incassa lauti dividendi dalle società partecipate. In altri casi sono gli azionisti privati ad essere fortemente rappresentati nel processo politico, a differenza degli utenti.
Mi puoi fare un esempio?
Prendiamo il caso del gas, da cui poi derivano anche i costi della bolletta elettrica, perché l’elettricità è generata in gran parte bruciando il gas. Il gruppo Eni sembra opporsi in tutti i modi ai tentativi di aumentare la capacità di importazione di gas. Questo fa lievitare i costi, ma nessuno si attiva per impedire che i proprietari e gestori della rete remino contro il paese. Non lo fa il Tesoro, che potrebbe intervenire, dato che controlla l’impresa. Non lo fa Confindustria, di cui Eni è grande contribuente. Si limita a tuonare contro i prezzi dell’energia, ma non usa fino in fondo il proprio potere cogente nei confronti di un associato.
Secondo te il governo Prodi ha qualche possibilità di cambiare rotta?
Lo spero. Il disegno di legge Bersani, il cosiddetto Bersani 2, chiede una delega per, me lo auguro, attuare vere liberalizzazioni in questo settore. Utile che ci fossero segnali in questa direzione nel Dpef. Negli ultimi Dpef di liberalizzazioni proprio non si parlava. Misura evidente dell’importanza attribuita al problema dal Governo Berlusconi.
E gli altri futuri ex-monopolisti?
Autostrade Spa continua a operare potendo imporre agli utenti pedaggi molto elevati. Nel libro «Oltre il Declino», di cui sono curatore assieme a Riccardo Faini, Andrea Ichino, Giuseppe Pisauro e Carlo Scarpa, abbiamo ricordato che nel 2002 i Nars, un gruppo tecnico di valutazione del Cipe, aveva espresso parere favorevole all’abbassamento delle tariffe autostradali, ma alla fine si sono accettate pressoché in toto le proposte di aumento dei pedaggi formulate da Autostrade Spa. E il titolo in borsa è balzato alle stelle
Da dove nasce questa anomalia?
Dalla liberalizzazione sono nati soggetti economici che hanno il potere economico e la forza politica per bloccare i passi successivi. Questi gruppi hanno una forte influenza sul potere politico. Vi è poi una seconda anomalia, legata alla devolution all’italiana. Il decentramento ha dato molti poteri alle Regioni e ai Comuni e questo trasferimento di poteri ha rafforzato i poteri economici locali che, dalle società municipalizzate al commercio, sono in grado di bloccare le liberalizzazioni. Noterai che non ho inserito tra i grandi poteri economici, molti grandi gruppi industriali. Questi, dopo l’introduzione dell’euro, non essendo più protetti dalle svalutazioni competitive, sono impegnati in una lotta di sopravvivenza che, peraltro, è una battaglia competitiva dell’intero paese. E’ un esempio del fatto che, quando cambia il contesto in cui le imprese operano, queste possono diventare forza motrice anziché palla al piede del Paese. Sempre che lo stato non ceda alle richieste di aiuti, ma il potere di contrattazione di questi gruppi si è molto affievolito
Come ha agito il governo Berlusconi verso i nuovi poteri?
Come dicevo, il governo Berlusconi non ha fatto nulla per la liberalizzazione dei mercati. L’ex presidente del consiglio forse non ha voluto rischiare di perdere coesione nella sua maggioranza (i cui parlamentari erano nella maggioranza avvocati, notai, commercianti e liberi professionisti) e ha sempre agito con orizzonti molto brevi, non realizzando i grandi vantaggi che sarebbero derivati per l’economia del paese dalla liberalizzazione di questi settori.
E il governo Prodi quante possibilità ha di riuscire a scalfire il potere dei nuovi monopoli?
Direi che il governo Prodi ha più possibilità di lavorare in direzione di una liberalizzazione delle professioni e, spero, abbia la lungimiranza di intervenire nell’energia. A differenza del governo Berlusconi, legato a doppio filo ai lavoratori autonomi, Prodi rappresenta maggiormente il lavoro dipendente, un’area sociale che è meno ostile a una maggiore concorrenza nei servizi e nelle professioni.
Un’ultima domanda che esula dall’argomento di questa intervista ma che ha molto a che fare con i temi di cui ti occupi da sempre: il mercato del lavoro. Che cosa si deve fare con la legge Biagi, abolirla, rifarla, modificarla?
E’ un tema delicato. In un articolo comparso su lavoce.info Pietro Garibaldi ed io abbiamo proposto un «sentiero verso la stabilità» che faciliti l’ingresso nel mercato senza creare precarietà e segregazione. I problemi strutturali del nostro mercato del lavoro sono tutti legati all’ingresso. Difficile entrare nel mercato del lavoro formale per giovani in cerca del loro primo impiego e per donne dopo la maternità o lunghi periodi passati a lavorare a casa. Ma è difficile rientrare anche per chi è costretto a uscirne durante una fase di una vita che diventa sempre più lunga. Il rientro è difficile anche per chi sceglie di stare per un po’ fuori dal mercato, cosa che avverrà in modo sempre più frequente. Per non fare deprezzare il nostro capitale umano in un percorso lavorativo che non può che allungarsi assieme alla vita vissuta, si può avere bisogno di prendere, ogni tanto, dei «periodi sabbatici». Deve essere possibile entrare prima, uscire e poi rientrare, senza trovarsi di fronte a ostacoli insormontabili.
* il manifesto, 23 giugno 2006.
Il partito del giù le tasse
di TITO BOERI *
Erano in tanti sabato a sfilare per le vie di Roma contro le tasse. Di Prodi, ma non solo: le proteste fiscali a cavallo fra due legislature non chiamano mai in causa un solo governo. Come Tremonti e Visco si contendono il merito del boom delle entrate, dunque dell’incremento della pressione fiscale, nel 2006, così la rivolta contro le tasse non può che scaturire anche dalle leggi di bilancio della passata legislatura.
Le Finanziarie tra il 2002 e il 2005 ci hanno lasciato in eredità una crescita di due punti, dal 42 al 44 per cento, del rapporto fra spesa pubblica primaria e prodotto interno lordo. Il governo Berlusconi, in quegli anni solidamente al potere, ha obbligato tutti gli italiani, inconsapevolmente, a firmare una cambiale esigibile dal primo governo fiscalmente responsabile.
A differenza del suo predecessore, chi oggi siede al tavolo di Quintino Sella è abituato a onorare i debiti e, a parte l’operazione Tfr, evita di ricorrere a una tantum creative. Ma la Finanziaria 2007 non si limita a coprire i pagamenti lasciati in sospeso dal governo precedente. Fa lievitare la spesa pubblica e la pressione fiscale ben oltre quanto sarebbe necessario per riportare il disavanzo in linea con gli impegni presi a livello europeo. Questo significa che la spesa rischia ora di assestarsi a livelli più alti in modo permanente, secondo un consolidato meccanismo di tax push per cui le spese si adeguano rapidamente alle maggiori entrate. Sarà ancora più difficile, dopo questa Finanziaria, invertire la rotta.
Sostiene Jean-Claude Juncker, forse il più longevo uomo politico pan-europeo, che «i politici sanno bene cosa devono fare, ma il problema è che non sanno come farsi rieleggere una volta che hanno fatto queste cose». Se si rilegge il primo Documento di Programmazione Economica del governo Prodi e poi si guardano le cifre della Finanziaria viene da dargli ragione. Il Dpef è consapevole del fatto che l’unico modo per risanare i conti pubblici risiede nell’abbassare il rapporto fra spesa pubblica e pil. Identifica le aree cruciali per interventi di contenimento della spesa. Ma la Finanziaria razzola male, anzi malissimo. Dopo il primo passaggio in Aula, non solo non riduce le spese, ma addirittura le aumenta e non di poco (fino a 6,5 miliardi secondo i calcoli riportati su www.lavoce.info) rispetto a quanto sarebbe accaduto in assenza della manovra e in rapporto al prodotto interno lordo, al netto del ciclo economico. E nuove spese si stanno aggiungendo in questi giorni. Il tratto di mare fra il sapere cosa occorre fare e il metterlo in pratica è ampio e profondo come nella frase del primo ministro lussemburghese. Dobbiamo perciò rassegnarci ad altri cinque anni con più spesa pubblica e più tasse? Forse no. Ci sono due fatti che ci fanno, timidamente, sperare che Juncker abbia torto. Il primo è che ci sono, in verità, molti politici che «non sanno cosa devono fare». I Dpef della passata legislatura ne sono l’esempio. Applicano la strategia degli annunci. «Vendono» imminenti quanto consistenti sgravi Irpef alle famiglie, tagli all’Irap pagata dalle imprese e annunciano una lunga serie di misure non ancora definite nei loro contenuti e poi spesso inattuate. È una consapevole strategia dell’illusione. Viene perciò legittimo chiedersi se Berlusconi, quando era alla guida del governo, sapesse davvero «cosa bisognava fare». E dato che dal palco di Roma non si è udita una sola parola di autocritica sulla gestione dei conti pubblici nella passata legislatura, l’interrogativo rimane attuale. Questa è una discontinuità importante rispetto alla legislatura appena iniziata. Non basterebbe a farci sperare in qualcosa di meglio, se non ci fosse anche un secondo motivo per ritenere che il veterano Juncker abbia torto.
Il secondo fatto è la veemente reazione dell’opinione pubblica a una Finanziaria che fa aumentare la spesa e le tasse. In genere le ribellioni avvengono quando si tagliano le spese, soprattutto quando si intaccano gli interessi presidiati dal sindacato. Questa volta il sindacato è stato addirittura favorevole alla manovra, tranne che alla vigilia dell’accordo sul pubblico impiego. C’è stata, invece, la protesta, neanche troppo silenziosa, dell’elettore mediano, di cui è espressione anche la manifestazione di Roma. Le avvisaglie peraltro si erano già viste nelle ultime settimane di campagna elettorale, dove il centro-sinistra aveva perso quasi interamente il vantaggio nei confronti del centro-destra perché credibilmente descritto come «partito delle tasse».
Come rivelano i sondaggi d’opinione, è aumentata in Italia la percentuale di chi preferisce avere meno tasse e meno trasferimenti piuttosto che uno Stato che chiede di più offrendo di più al contribuente. Tutto questo fa pensare che il clima sia cambiato nel Paese e che il gioco del rinvio ai posteri di decisioni difficili non possa continuare all’infinito. Se Prodi e il centro-sinistra vogliono continuare a governare, se ambiscono a farlo per almeno due legislature, il tempo minimo per completare le riforme strutturali necessarie a far ripartire il Paese, devono davvero mettersi a fare, e al più presto, le cose che sanno di dover fare. Forse lo hanno capito. Perché la scelta di privatizzare Alitalia, bloccando il drenaggio di denaro pubblico e lasciando al mercato la decisione sulle alleanze, segna un importante cambiamento di rotta. Speriamo che non riguardi solo il volo.
* La Stampa, 04.12.2006