And ne forhtedon na

Costanti, per le loro tesi sostenitori di Bruno Contrada preferiscono le provocazioni ai fatti. In risposta, la voce della sentenza di condanna

Diffidenza nei confronti di Bruno Contrada da Giovanni Falcone, sospetti da parte di Boris Giuliano e sfiducia del Commissario capo Antonino Cassarà
mercoledì 6 agosto 2008.
 

And ne forhtedon na.

La signora Fulvia, di cui non sappiamo il cognome e l’indirizzo di posta elettronica, ci ha scritto un messaggio, a proposito dell’articolo di Benny Calasanzio, dello scorso 31 luglio, intitolato Affinità elettive. Trascorsi dell’avvocato Giuseppe Lipera, difensore di Contrada e in rapporto professionale con la giornalista Marina Salvadore .

Pubblichiamo e replichiamo.

Lettera della signora Fulvia

Anche per Enzo Tortora, difeso dal medesimo Avvocato, si dovrebbe parlare di affinità elettive? Perché Enzo Tortora è stato accusato dai pentiti di mafia, da coloro i quali nella mafia continuavano a stare pur godendo dei benefici previsti dalla legge sui pentiti.

Verrebbe da pensare, se dopo anni atroci di ingiusta quanto immeritata, vergognosa galera è stato liberato e riabilitato. A lei piace per caso la Giustizia che prima ammazza e poi ti rilascia? A lei piace la Giustizia che si inventa il reato di "concorso esterno in associazione mafiosa", reato che non esiste in alcuna parte del mondo?

In nessun Codice Penale? A me no. Io sono garantista , non giustizialista. Comunque è utile leggere anche "immondizie" come quelle da lei riportate su questo sito.

Se accetta il contradditorio poi, ancora più interessante. Ma si prepari a dover pubblicare ogni commento che le sarà inviato da me o da colleghi che seguono la vicenda Contrada, diciamo da prospettive diverse dalle sue.

Così potremo vedere se lei ha paura della verità, che come sa, è una sola.

Così valuteremo anche l’attendibilità o meno di questo sito, e la sua elasticità mentale dinanzi a diverse posizioni. Aspetto di rileggermi pubblicata dopo essere stata approvata dall’amministratore di questo sito, visto che non ho offeso nè denigrato.

Fulvia

Risposte alla signora Fulvia

Signora Fulvia,

premesso che non ha lasciato il suo cognome e l’e-mail, elementi essenziali che non possono non aversi, rispondo anche per Benny Calasanzio; il quale, dopo una lunga attività antimafia a proprie spese - per la cronaca, nel 1992 gli uccisero nonno e zio, Giuseppe e Paolo Borsellino, omonimo del giudice -, è andato in vacanza in un posto senza computer.

Qualcuno intende regalarne uno al nostro gruppo, almeno così ho letto sul blog dei signori Marina Salvadore e Mauro Caiano, ricco di sillogismi deviati e proposizioni apodittiche. Noi potremmo ricambiare recapitando Il primo libro di logica, scritto da Ermanno Bencivenga e pubblicato da Bollati Boringhieri.

Speriamo che la dottoressa Agnesina Pozzi, vicina a quel blog, non dica che questo libro è una minaccia.

Ci sarebbe materia, in rete, per un’edizione aggiornata del volume. Proporrei a Bencivenga un capitolo ex novo, dal titolo "La logica dei ministrieri sulla missione dei capaci, minati per meli in contrade di minerva".

Ci auguriamo che la signora Salvadore, star del glutammato monosodico, non tiri in ballo Travaglio per le nostre parole e la punteggiatura.

Magari il signor Caiano sarà pronto, come lei, signora Fulvia, a proclamare l’unicità della verità.

Secondo la corrente della signora Salvadore, e sua, forse, Contrada è non colpevole per ontologia, o dogma, pare.

Sul solito blog, ho letto, e archiviato, un’esternazione del signor Carminuccio che qui, di seguito, riporto.

"A NAPOLI L’ANTIMAFIA E’ LATITANTE, NON ESISTE; ECCO PERCHE’ IL BASSOLINO E’ FUORI E IL CONTRADA E’ DENTRO! NOI SIAMO PROPRIO UN ALTRO MONDO. I SINISTRI CI GOVERNANO DA SEMPRE E CI GOVERNERANNO IN ETERNO...EPPOI, SI SCIACQUANO LA BOCCA CON LA CAMORRA, IL LORO PARAFULMINI, IL LORO BRACCIO ARMATO!".

Il signor M. Pellicanò gli risponde:

"Carminuccio, condivido la seconda parte del suo messaggio e non la prima se per antimafia lei intende, come me, quella ch’è per buona parte responsabile delle morti di Falcone e Borsellino e del calvario di Contrada".

Alla luce di queste affermazioni, i sostenitori di Contrada non la buttano in politica?

Dia degli argomenti che siano altro da un turbinio di pensieri, riferimenti a uno schieramento, accuse alla cieca rivolte all’antimafia.

"Così potremo vedere se lei ha paura della verità, che come sa, è una sola", m’ha scritto, signora Fulvia; facendosi scappare, poi: "Si prepari a dover pubblicare ogni commento che le sarà inviato da me o da colleghi che seguono la vicenda Contrada, diciamo da prospettive diverse dalle sue".

Io non ho altro punto di vista che quello sui fatti. E, sia chiaro, questo sito non è una piazza per discettazioni di sorta, tanto più se anarchiche.

Mi compiaccio per il suo richiamo alla prospettiva, preceduto dal postulato sulla verità. Rimembro, meditandoli, Husserl, Damish, i maestri del sospetto e l’ermeneutica debole.

Lei e altri amici di Contrada state riducendo la sua vicenda processuale a opinione: prendendovela con quella stampa che non accredita le vostre conclusioni - guarda caso coincidenti con le premesse.

Lei non deve convincermi dell’innocenza di Contrada. È Contrada che deve convincere i giudici. Lo Stato lo ha ritenuto colpevole. Contrada è condannato in via definitiva. Definitiva. Definitiva. In Cassazione.

Riguardo al movimento di cui fa parte, signora Fulvia, non credo che andrà lontano, se le sue argomentazioni saranno di tipo politico o si baseranno su provocazioni diffuse in rete.

Ho letto su Internet - e salvato per ogni utilità - congetture secondo cui saremmo come dei "bambocci" sessantottini, manca poco allevati con Il Capitale al posto delle poppate materne.

Saremmo, nell’Aufklärung di certi pozzi di saggezza, giovani rossi, "cattivi" e indottrinati che, quasi indossando la maglia di Guevara e cantando Venceremos armati di Molotov, infieriscono contro Bruno Contrada.

Siamo seri: ripeto, Contrada lo ha condannato lo Stato in via definitiva, e non "la Voce di Fiore". Mi dispiace per la sua sofferenza fisica e psicologica. Ma Contrada è dispiaciuto per le vittime della mafia, morti in modo inumano e privati per sempre d’ogni diritto? Le ricordo, per rispetto dello Stato e della Giustizia, che Bruno Contrada è stato riconosciuto colpevole di collusione con la mafia. E chi ne sostiene l’innocenza, signora Fulvia, che cosa fa, attacca senza pudore i familiari di quelle vittime in nome della sua assoluzione? Davvero non si capisce più nulla al mondo.

Ho già scritto che, al momento, a Contrada si può riservare solo "quel perdono di cui scrive Paul Ricoeur nel suo La memoria, la storia, l’oblio, e che Luca Possati spiega con queste parole:

’Il perdono è una forma di oblio attivo indirizzato alla colpa e il cui oggetto non è il passato come tale ma il suo senso. È un dono di riconciliazione che si offre, ma che lascia sempre il debitore o l’assassino insolvente. Per quanto l’agente valga sempre di più dei suoi atti, per quanto questi ultimi siano separabili da lui, per quanto egli possa fare dichiarazioni del suo pentimento e del suo rammarico, tali atti continuano comunque a seguirlo e a condannarlo’".

Ancora, saremmo "furbetti del quartierino", "disposti" a farcelo "mettere a quel servizio" dai nostri "celebri MAESTRI per salire nei ranghi" - ciò è sul blog dei signori Salvadore e Caiano.

Forse sognando d’essere allievo di Orazio o di Wittgenstein, il signor Ennio Salvadore, riferendosi a noi, ha scritto nello stesso blog:

"IL LORO CERVELLO...SE L’HANNO, E’STATO LAVATO.......CON OMINO BIANCO...CHE PIU’ BIANCO NON C’E’.LASCIATELI PERDERE,CON LORO E’ TEMPO SPRECATO. A LAVARE LA TESTA ALL’ASINO SI PERDE LA CRUSCA ED IL SAPONE".

Crede, il Nostro, che qui beviamo "Latte+" al Korova Milk Bar, che le sinapsi ci siano impedite dalla droga al plasma del millennio, che un medico debba curarci affinché vediamo chiaro oltre il monte delle sentenze o il muro bianco della contemplazione, di gazzoniana memoria?

Quali gli argomenti dei "pro Contrada"? Sono quelli sul blog dei signori Salvadore e Caiano?

Incidentalmente, mi chiedo se la teoria dualistico-interazionista di Popper ed Eccles possa spiegare la base delle affermazioni del Salvadore.

Abbiamo visto un’intervista di Marina Salvadore con Gianni Minà. Muta, quando il celebre giornalista ha parlato, dal suo punto di vista, del guaio del mondo, il mercato.

Nella fattispecie, s’è mantenuta solo sulle ragioni del Sud, davanti al Nostro, evitando di controbatterne il comunismo. Eppure, nella gestione delle antitesi, la signora Salvadore e compagni, mi scuso, la signora Salvadore e company, in genere voltano la carta dell’appartenenza rossa. Come, nel caso in cui ci fosse, si trattasse d’un reato penale, magari più grave di quello per cui Contrada è stato condannato in via definitiva.

Noi siamo gioachimisti, se la signora Marina non l’ha inteso; peraltro facendo finta di non conoscere, in un suo editoriale in cui ha chiamato in causa Beatrice Borromeo - perché, noi che cosa c’entriamo, se siamo gioachimisti? -, la differenza (non quella teologica) fra "gioachimisti" e "gioachimiti" (Cfr. S. CASTELLANOS DE GARCÍA, Concretización de la ciudad de los Ángeles: su traza y paralelismo con la Jerusalén Celeste, su escudo. Reflejo del Joaquinismo-Franciscano y del apocalipticismo romano renacentista, «Florensia» 13-14, 1999-2000, Dedalo, Bari, pp. 45-96; si veda G. BAUDOT, Utopía e historia en México: los primeros cronistas de la civilización mexicana (1520-1569), Espasa-Calpe, Barcelona, 1983, pagg. 523). (aggiunta in grassetto del 3 agosto 2008).

Nei suoi improperi al nostro indirizzo, Marina Salvadore ignora, poi, che siamo zitariani almeno quanto lei e che, in tempi non sospetti, pubblicammo volentieri una nota del suo collaboratore Gennaro Capodanno.

La signora Salvadore ha sostenuto che "la Voce di Fiore" non ha visite, che siamo sbarbatelli et coetera. Se è contenta, continui così. È vero che summum ius, summa iniuria, ma non è vero il contrario.

Converrà, signora Fulvia, che le divergenze non possono tradursi, molto all’italiana, in arbitrarie denigrazioni.

Nell’epoca del Grande fratello, tutto è permesso. Involgarire la discussione, cioè allontanarsi strumentalmente dal suo oggetto, sino al non ritorno, serve a levare il significato alle cose.

Dopo questi doverosi chiarimenti, arrivo alla sua lettera, signora Fulvia.

Dunque, ricostruendo, il suo messaggio risponde alla seguente logica. Mi corregga se sbaglio.

L’avvocato Giuseppe Lipera (che difese diversi mafiosi di spicco e fondò il partito "Sicilia Libera", nndr, ne parla anche "Casa della Legalità" ) difese Enzo Tortora (è lei a sostenere che l’avvocato Lipera lo difese). Il caso giudiziario del presentatore, falsamente accusato da pregiudicati, si risolse con l’assoluzione piena in Appello (15 settembre 1986).

Contrada è, nella sua versione, signora Fulvia, accusato da pentiti. Dunque, egli è innocente. Sin qui la logica anzidetta. Ammetto repliche, nel merito, ma solo se ho frainteso.

Dall’Archivio di Repubblica, risulta che i difensori di Tortora furono gli avvocati Della Valle, Dall’Ora e Coppola, e non l’avvocato Giuseppe Lipera.

Lei, signora Fulvia, mi ha scritto: "Comunque è utile leggere anche ’immondizie’ come quelle da lei riportate su questo sito".

Nella sentenza di condanna da parte della Corte d’Appello di Palermo è scritto:

"Il Tribunale (...) ha dato conto della diffidenza nutrita nei confronti di Bruno Contrada da Giovanni Falcone, dei sospetti di Boris Giuliano nell’ultimo periodo della sua vita, della sfiducia del Commissario capo dr. Antonino Cassarà, delle prese di posizione del Questore Immordino e di varie testimonianze su fatti specifici, idonei a giustificare quelle diffidenze e quei sospetti (si pensi alla la testimonianza del magistrato elvetico Carla del Ponte ed quella della vedova Ziino)".

Sono "immondizie" le suddette proposizioni? Chi di noi due è in malafede?

Se non fosse sufficientemente chiaro, vale rammentare che Enzo Tortora è stato assolto in appello, cioè in secondo grado di giudizio. Bruno Contrada è stato condannato in Cassazione. Il 10 maggio 2007 la Suprema Corte ha confermato la sentenza con cui la Corte di Appello di Palermo lo aveva condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.

"la Voce di Fiore" si riserva di adire le vie legali contro chiunque, in sostanza, abbia abusato o dovesse abusare, a scopo diffamatorio, delle norme enucleabili dall’articolo 21 della Costituzione; anche segnalando, a tutti gli organi di competenza, la diffusione su blog e siti Internet di notizie evidentemente false sulla vicenda di Bruno Contrada (per esempio, che la condanna è fondata sulle mere dichiarazioni di un solo pentito) - poiché non solo i giornalisti e le testate giornalistiche sono chiamate al rispetto delle norme sulla stampa.

Al primo processo a Contrada il magistrato Antonino Ingroia, stretto collaboratore di Borsellino, chiese 12 anni di reclusione per l’imputato.

Appresso, riporto la situazione di Bruno Contrada prima dell’epilogo della sua vicenda processuale.

Quindi, la parte della sentenza di condanna da cui emergono le differenze tra difesa e giudicanti.

Entrambi i testi sono tratti dalla sentenza di condanna in Corte d’Appello (25 febbraio 2006).

Per un fatto etico, non diffonderei, come su questo sito ha fatto qualcuno dei suoi, la notizia che la colpevolezza di Contrada è stata ricavata dalla mera confessione d’un pentito. Si vedrà che c’è ben altro, in sentenza.

Io non demonizzerei i pentiti, che "servono a scardinare intere organizzazioni criminali" (prof. Federico Stella).

Mi appello all’avvocato Giuseppe Lipera perché, ricordando ai comitati favorevoli a Contrada l’opera scientifica del professor Federico Stella, li indirizzi su altre forme di battaglia democratica per la giustizia.

La invito, signora Fulvia, a voler precisare che cosa intende per "immondizia" in ordine a ciò che è su questo sito.

Atteso che, in ordine alla vicenda di Bruno Contrada, saranno pubblicati sul nostro sito solo elementi nuovi, e in ogni caso mai più offese, attacchi personali e messaggi privi delle generalità dell’autore (nome, cognome ed e-mail), le invio distinti saluti.

2 agosto 2008

Emiliano Morrone

Le carte su Contrada (in Corte d’Appello)

L’imputato, pertanto, veniva tratto a giudizio dinanzi alla Corte di Appello di Palermo, sezione II penale, che disponeva la parziale rinnovazione dell’istruzione dibattimentale con l’acquisizione di documenti, l’escussione di numerosi testi dell’Accusa e della Difesa e l’esame dei nuovi collaboranti Francesco Onorato, Francesco Di Carlo, Giovanni Brusca, Angelo Siino, Salvatore Cucuzza, Giovan Battista Ferrante. All’esito, con sentenza del 4 maggio 2001, egli veniva assolto dalla imputazione ritenuta a suo carico dal Tribunale, perché il fatto non sussiste. In accoglimento,quindi, del ricorso proposto dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo, con sentenza del 12 dicembre 2002, depositata il 3 aprile 2003, la Suprema Corte di Cassazione, sezione II penale, annullava l’impugnata sentenza per vizio di motivazione, con rinvio ad altra sezione della Corte di

Appello di Palermo per nuovo giudizio. L’imputato è stato, pertanto, citato davanti a questa Corte. All’udienza iniziale, celebrata l’undici dicembre 2003, dopo la relazione sul processo, il Procuratore Generale ha chiesto, in parziale rinnovazione della istruzione dibattimentale, esaminarsi Antonino Giuffrè, esponente di spicco di Cosa Nostra e capo della famiglia mafiosa di Caccamo e dell’omonimo mandamento, nelle more determinatosi a collaborare con la giustizia dopo essere stato arrestato in seguito ad una lunga latitanza; disporsi, ai fini indicati, nuovo esame dei collaboranti Maurizio Pirrone ed Angelo Siino; acquisirsi, previa identificazione di tale Lo Verde detto “monocolo” (menzionato dal Siino), la documentazione relativa al rilascio o ai rinnovi del porto di fucile in suo favore. La Difesa ha insistito in tutte le istanze di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale proposte nell’ambito del primo giudizio di appello e non accolte in quella sede, successivamente riassunte nella nota depositata il 12 gennaio 2004. La Corte, quindi, con ordinanza resa alla successiva udienza del 15 gennaio 2004 ha statuito sulle istanze di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale proposte dalle parti, disponendo l’acquisizione dei decreti di archiviazione emessi nei procedimenti a carico del funzionario di Polizia dott. Michele Messineo e dell’avv. Cristoforo Fileccia, rispettivamente evocati dai collaboratori di giustizia Gaspare Mutolo e Pietro Scavuzzo. Ha ammesso, altresì, l’esame del Giuffrè, e del Siino, assunti

all’udienza del 30 gennaio 2004, celebratasi a Milano, nel corso della quale sono stati anche prodotti i due provvedimenti di archiviazione. Alla successiva udienza del 25 marzo 2004 si è dato atto, sulla scorta della nota del 3 marzo 2004 a firma del Procuratore della Repubblica di Palermo - Direzione Distrettuale Antimafia, della assenza di riferimenti (domande, risposte a domande o dichiarazioni spontanee) a Contrada nel corpo del “Verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione” di cui all’articolo 14 legge 13 febbraio 2001 n. 45, trasmesso in forma pressochè integralmente “omissata”, riguardante il collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè. Alla successiva udienza del 15 aprile 2004 il Procuratore Generale ha depositato un supporto informatico (CD ROM) contenente una conversazione intercettata l’undici novembre 2001 all’interno di una autovettura tra tali Pietro Landolina e Salvatore Gottuso. Quindi, all’udienza del 29 aprile 2004 è stata acquisita la nota del precedente 23 aprile della Procura della Repubblica di Palermo- Direzione Distrettuale antimafia, in ordine alla pendenza delle indagini preliminari nel corso delle quali era stata effettuata l’intercettazione ambientale. La Corte, inoltre, ha statuito sulle eccezioni difensive riguardanti la legittimità ed utilizzabilità della intercettazione stessa e ha disposto, al contempo, l’acquisizione dei relativi verbali, oltre che della sentenza irrevocabile della Corte di Appello di Palermo in data 15 marzo 1994 a carico di Farinella ed altri.

Quindi, con ordinanza dibattimentale del 13 maggio 2004 è stata disposta perizia di trascrizione dell’intercettazione ambientale. All’udienza del 17 giugno 2004 è stato assunto l’esame del perito ed è stata disposta la rinnovazione delle operazioni, con la nomina di un collegio di due periti. Alla successiva udienza del 28 ottobre 2004 si è proceduto all’esame degli stessi e del consulente tecnico della Difesa, nonché alla acquisizione, sul consenso delle parti, della relazione a firma del consulente della Pubblica Accusa (essendo state prodotte anche le relazioni a firma dei periti e del c.t. della Difesa). Sono state, inoltre, acquisite la sentenza di condanna del dott. Ignazio D’Antone per concorso esterno in associazione mafiosa, resa dal Tribunale di Palermo in data 22 giugno 2000, quella di conferma, resa dalla Corte di Appello di Palermo il 30 aprile 2003, nonchè la sentenza di rigetto del ricorso per cassazione (n. 892/2004 della sezione VI penale della Suprema Corte), resa il 26 maggio 2004, ed infine è stato ammesso l’esame dei predetti Gottuso e Landolina. Questi ultimi sono stati escussi alla successiva udienza del 25 novembre 2004 quali indagati per reato connesso (il solo Landolina si è avvalso, della facoltà di non rispondere, mentre il Gottuso, avendovi rinunciato, ha assunto la veste di testimone assistito). Infine, le udienze del 10 febbraio, del 24 febbraio, del 10 marzo, del 7 aprile, del 21 aprile, del 5 maggio, del 19 maggio e del 9 giugno 2005 sono state dedicate alla requisitoria del Procuratore Generale.

Le successive udienze del 7 luglio, del 29 settembre,del 13 ottobre del 27 ottobre, del 10 novembre, del 24 novembre, del 15 dicembre, del 12 gennaio 2006 e del 26 gennaio 2006 sono state dedicate all’arringa. Nelle more, in data 14 novembre 2005 il Procuratore Generale ha depositato una memoria relativa ad alcuni dei temi trattati nel processo (la cd. vicenda Gentile, il blitz del 5 maggio 1980, l’allontanamento di Salvatore Riina da Borgo Molara, i rapporti dell’imputato con soggetti affiliati alla massoneria) ed inoltre, sull’accordo delle parti, è stato acquisito stralcio dei verbali in data 2 ottobre 1992 e 4 novembre 1992, relativi agli interrogatori resi al Pubblico Ministero dal collaboratore di Giustizia Giuseppe Marchese. Infine, all’udienza del 24 febbraio 2006, dopo la replica del Procuratore Generale, l’imputato ha reso dichiarazioni spontanee. La Difesa ha rinunciato alla propria replica, limitandosi a ribadire le già formulate richieste conclusive, e la Corte si è ritirata in camera di consiglio per la decisione, resa il 25 febbraio 2006.

Brevi puntualizzazioni sul concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso, sui criteri di valutazione delle chiamate di correo e sulla necessità della valutazione unitaria degli elementi di prova.

Le censure articolate nel primo volume dell’Atto di impugnazione intercettano il tema della configurabilità del concorso esterno nel reato di associazione mafiosa, contestata dai difensori appellanti (pag. 33). Questi ultimi, infatti, operata una disamina della dottrina e della giurisprudenza che si erano espresse in senso contrario ad essa (con riguardo, si intende, al concorso materiale), hanno dedotto che il Tribunale sarebbe stato animato <>, che sarebbero state dichiaratamente fatte proprie dalla sentenza appellata. In essa, infatti, soggiungono i predetti difensori, si afferma che: · <<...il settore delle relazioni tra soggetti appartenenti al mondo della politica, dell’amministrazione, dell’imprenditoria, delle professioni, della magistratura, della finanza, con l’organizzazione mafiosa, ove non si atteggi in forme di vera e propria integrazione nella predetta struttura criminale, è quello che in modo più congeniale si presta alla riconducibilità giuridica alla figura del concorrente esterno>>; · lo strumento giuridico del concorso esterno << seppure abbisognevole di una prudente applicazione da parte del giudice, certamente si configura di indubbia efficacia per la repressione proprio di

quelle forme di collusione che, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, appaiono maggiormente riprovevoli e sintomatiche dell’elevata capacità di infiltrazione della mafia nel tessuto della società civile e pertanto in grado di evidenziare la potente carica eversiva di tale realtà criminale>>. Orbene, dall’epoca del deposito dei motivi di appello, datati primo gennaio 1997 e successivi alla sentenza n. 16 del 1994 (Demitry) ed alla sentenza n. 30 del 1995 (Mannino, in sede cautelare), la Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunziarsi ancora due volte a sezioni unite, con le sentenze n. 22327 del 2003 (Carnevale) e n. 33748 del 2005 ( Mannino, in sede di cognizione piena) nel senso dlla configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa. Essa, peraltro, è presupposta nella stessa sentenza di annullamento con rinvio resa in questo processo, con cui la Corte di Cassazione, nel censurare la pronunzia del giudice di appello, ha rimarcato la distinzione tra la fattispecie in esame e quella del favoreggiamento personale. Ha rilevato che il concorrente esterno << pur non essendo stabilmente inserito nella struttura organizzativa dell’associazione, opera sistematicamente con gli associati, al fine di depistare le indagini di polizia volte a reprimere l’attività criminosa dell’associazione o a perseguire i partecipi di tale attività, in tal modo fornendo uno specifico e concreto contributo ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione medesima; mentre nel reato di favoreggiamento il soggetto aiuta in maniera episodica un associato, resosi autore di reati rientranti o non nell’attività prevista dal vincolo associativo, ad eludere le investigazioni della polizia o a sottrarsi alle ricerche di questa >> (pagina 322) . Nel corso della discussione svolta in questo dibattimento di appello, pur senza rinunciare formalmente al motivo riguardante la configurabilità del concorso esterno in associazione

mafiosa, la Difesa ha richiamato i principi enunciati nelle sentenze Carnevale e Mannino, che, pertanto, si ritiene sufficiente esporre nel modo più conciso possibile. Si è accennato che, già prima della sentenza Carnevale, il concorso eventuale in associazione mafiosa era stato ritenuto configurabile non soltanto nelle forme della determinazione e della istigazione, ma anche come concorso materiale, e cioè nei casi in cui il terzo, pur non essendo mai entrato a far parte dell’associazione (per non averlo voluto o perché non accettato come socio) tuttavia, presti all’associazione stessa - nell’ambito della attività da lui svolta, nelle professioni, nella politica, nelle pubbliche amministrazioni, nella società in genere - un proprio contributo, a condizione che tale apporto, valutato ex ante, e in relazione alla dimensione lesiva del fatto e alla complessità della fattispecie, sia idoneo, se non al potenziamento, almeno al consolidamento ed al mantenimento dell’organizzazione. Le Sezioni Unite della Suprema Corte, con la sentenza del 28 dicembre 1994, n.16 (imp. Demitry), nel confermare la configurabilità del concorso eventuale nel reato di associazione per delinquere di tipo mafioso, avevano delineato la diversità di ruoli tra il partecipe all’associazione e il concorrente eventuale materiale nel senso che: · il primo é colui senza il cui apporto quotidiano, o comunque assiduo, l’associazione non raggiunge i suoi scopi o non li raggiunge con la dovuta speditezza, é, insomma colui che agisce nella “fisiologia”, nella vita corrente quotidiana dell’associazione;

· il secondo è, per definizione, colui che non vuol far parte dell’associazione e che l’associazione non chiama a “far parte” di sé - difettando il requisito della affectio societatis - ma al quale si rivolge per colmare vuoti temporanei in un determinato ruolo, ovvero, soprattutto, nel momento in cui essa entra in fibrillazione ed attraversa una fase “patologica” che, per essere superata, richiede il contributo temporaneo, limitato anche ad un unico intervento, di un esterno (il concorrente, insomma é il soggetto che occupa uno spazio proprio nei “momenti di emergenza” della vita associativa). Tale “parametro clinico” della fibrillazione risulta accantonato nella sentenza Carnevale, nella quale l’accento logico della partecipazione ad associazione mafiosa rispetto al concorso esterno viene posto essenzialmente sul predicato “fa parte di”. Con detta pronuncia, il Giudice di legittimità ha evidenziato che <>, attesa la funzione di estensione della punibilità al partecipe atipico rivestita dall’articolo 110 c.p., ove la sua condotta sia strumentale alla consumazione del fatto tipico. In sintesi, il concorso cosiddetto esterno nel reato di associazione mafiosa è ritenuto configurabile in capo alla persona che, priva della affectio societatis e non inserita nella struttura organizzativa del sodalizio, fornisce un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario, a carattere indifferentemente occasionale o continuativo, purché detto contributo abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione, e l’agente se ne rappresenti, nella forma del dolo generico diretto, l’utili tà per la realizzazione, anche parziale, del programma criminoso . Tali principi sono stati riaffermati con la sentenza 33748/05, che si è occupata dei requisiti del concorso esterno in relazione al sostegno e allo scambio politico-elettorale, evidenziando la necessità che i patti illeciti fra il politico ed il sodalizio mafioso siano ben definiti nelle loro linee essenziali. Segnatamente, la decisione in esame ha sottolineato che il contributo del concorrente deve essere munito di efficienza causale per la realizzazione del "fatto criminoso collettivo", e che, per ritenere avverato tale requisito, non giova il ricorso alla categoria della causalità psichica; non basta, cioè, dichiararsi "disponibili" verso

l’associazione mafiosa, ma occorre porre in essere un apporto attivo, tangibile e concreto. Tale contributo causale, unitamente al "fatto tipico", cioè all’evento di conservazione o rafforzamento del sodalizio, costituisce oggetto del dolo diretto del concorrente non inserito nella compagine sociale. L’appellata sentenza ha fatto buon governo degli enunciati principi, riconducendo al paradigma del concorso esterno in associazione mafiosa uno spettro di condotte di agevolazione, inizialmente circoscritte quanto ai beneficiari, quindi progressivamente estese ed idonee a rafforzare il sodalizio mafioso nel suo complesso; condotte necessariamente illuminate dal dolo diretto in ragione della loro natura (attività di depistaggio delle indagini di polizia, di agevolazione sistematica di latitanti o di ricercati mafiosi o di soggetti in stretti rapporti criminali con “Cosa Nostra”, attività a presidio della regola dell’omertà, come la rivelazione al Riccobono delle lamentele del costruttore Gaetano Siragusa) ma anche della veste professionale dell’imputato e dal bagaglio di conoscenze acquisito in ragione di essa.

La sentenza 33748/05 è stata evocata dalla Difesa anche per le notazioni che riguardano la valutazione del quadro indiziario ed il rapporto tra la analisi e la sintesi globale dei singoli elementi indiziari di prova. In essa, infatti, al paragrafo n. 8 si richiama il principio secondo cui <>. Rinviando al vaglio delle censure riguardanti ogni singolo episodio o circostanza la valutazione del se - ed in quali casi - il Tribunale abbia sommato elementi dotati dei caratteri dell’indizio piuttosto che addendi totalmente neutri, mette conto ricordare che la sentenza di annullamento con rinvio resa in questo processo ha riaffermato il principio della valutazione unitaria e complessiva degli elementi di prova (pagine 258 e segg.) nei seguenti termini: <<... ai sensi dell’art. 192 c.p.p., non può dirsi adempiuto l’onere della motivazione ove il giudice si limiti ad una mera considerazione del valore autonomo dei singoli elementi probatori, senza pervenire a quella valutazione unitaria della prova, che è principio cardine del processo penale, perchè sintesi di tutti i canoni interpretativi dettati dalla norma stessa (...) Nella valutazione della prova il giudice deve prendere in considerazione tutti e ciascuno degli elementi processualmente emersi, non in modo parcellizzato e avulso dal generale contesto probatorio, verificando se essi, ricostruiti in sé e posti vicendevolmente in rapporto, possano essere ordinati in una costruzione logica, armonica e consonante, che consenta, attraverso la valutazione unitaria del contesto, di attingere la verità processuale, cioè la verità del caso concreto (....) Ha violato tale principio la sentenza impugnata che (come risulta all’evidenza nelle conclusioni, raffrontate con quelle rassegnate dal giudice di primo grado, e come si evidenzierà con riferimento alle singole parti della sentenza stessa) ha parcellizzato la valenza significativa di ciascuna fonte di prova, analizzandola e

valutandola separatamente e in modo atomizzato dall’intero contesto probatorio, in una direzione specifica e preconcetta, astenendosi dalla formulazione di un giudizio logico complessivo dei dati forniti dalle risultanze processuali, che tenga conto non solo del valore intrinseco di ciascun dato, ma anche e soprattutto delle connessioni tra essi esistenti; per di più rispetto ad una tipologia di reato contrassegnato da una condotta finalizzata alla conservazione e al rafforzamento dell’associazione criminosa, desumibile, considerata proprio la struttura della condotta stessa, da una serie di elementi che soltanto attraverso una valutazione complessiva possono, almeno di norma, assumere il carattere della specificità. Anzi, nei delitti associativi, il fulcro centrale della prova è costituito, nella prevalenza dei casi, dalla prova logica, dal momento che la prova dell’esistenza della volontà di contribuire alla conservazione e al rafforzamento dell’associazione criminosa è desumibile per lo più dall’esame d’insieme di condotte frazionate ciascuna delle quali non necessariamente dimostrativa dell’apporto fornito alla vita del sodalizio mafioso(...) La valutazione dell’insieme è imprescindibile allorchè si tratti di indizi, ciascuno dei quali abbia una portata possibilistica e non univoca: solo l’insieme può assumere quel pregnante ed univoco significato dimostrativo che consente di ritenere conseguita la prova logica del fatto; prova logica che non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta (o storica), quando sia conseguita con la rigorosità metodologica che giustifica e sostanzia il principio del cosiddetto libero convincimento del giudice (Sez. Un., 4/2-4/6/1992, n. 6682, Musumeci, riv. 191230)>>.

Sebbene non direttamente pertinente al thema decidendum - che attiene alla verifica delle prove storiche e logiche del contributo sistematico e consapevole alla conservazione ed al rafforzamento del sodalizio “Cosa Nostra” dato dall’imputato mediante condotte di depistaggio delle indagini e di agevolazione di associati di rilievodeve essere confutata l’osservazione difensiva secondo cui il Tribunale avrebbe liquidato in poche battute la ricchissima mole di testimonianze rese in favore dell’imputato. Si afferma, infatti (pagine 15-16-19-23-24-25-26-27-28 Volume IX capitolo VII dell’Atto di Impugnazione) :<< Non si sarebbe certamente giunti a dette conclusioni se magari in una o mezza delle 1742 pagine dell’impugnata sentenza si fosse trovato un solo riscontro di attendibilità e di veridicità accordato ad una delle numerosissime testimonianze in favore dell’imputato. Questo stupisce ed annichilisce: per il Tribunale tutte, tutte, tutte le testimonianze rese dalle più alte Autorità dello Stato, Capi della Polizia, ex Ministri, Direttori del SISDe, Alti Commissari per la lotta alla mafia, Prefetti, Questori, Ufficiali dei Carabinieri, Ufficiali della Guardia di Finanza, Funzionari di P.S. e della Squadra Mobile, Alti Funzionari delle Istituzioni, Personaggi estranei alle Istituzioni e persino Magistrati di valore, tutte scompaiono dinanzi ad un pugno di “ex criminali (?)” che la legge tutela e l’umana insipienza valorizza. Tutti, loro stessi e lo Stato che hanno rappresentato e

rappresentano, diventano bugiardi ed inattendibili dinanzi alle “verità rivelate dei pentiti”. Recita la sentenza: “Tali plurime, eterogenee, gravi e concordanti emergenze processuali, che alla luce del principio cardine del processo penale della valutazione unitaria dei risultati acquisiti, consentono di ritenere raggiunta la prova certa della colpevolezza dell’imputato, non sono state in alcun modo incrinate nella loro valenza dimostrativa della fondatezza dell’impianto accusatorio né dalle testimonianze addotte dalla difesa, né dalle tesi sostenute a sua discolpa dall’imputato. Molte delle deposizioni richieste dalla difesa si sono rivelate, infatti, inattendibili perché provenienti da indagati o imputati di reato connesso personalmente interessati a smentire le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, altre sono risultate palesemente mendaci e molte non indifferenti in quanto viziate da stabili rapporti di amicizia o di pregressa collaborazione intrattenuti con l’imputato, altre ancora sono apparse del tutto irrilevanti perché fondate su generici attestati di stima, incapaci di confutare in modo specifico i temi di prova oggetto del processo” (pagg. 1724 e 1725 della sentenza)... In questo processo si sono scontrate due parole e due credibilità: quella di un pugno di criminali mafiosi che si dichiarano pentiti e quella dei più alti Funzionari dello Stato che non hanno nulla di cui vergognarsi e pentirsi, se non del fatto di aver servito fedelmente lo Stato. ...Quello Stato che l’impugnata sentenza riduce a brandelli. Se il libero convincimento dei giudici si fosse basato su fatti e riscontri incontestabili, nulla da obiettare e dinanzi alla prova provata non c’è ragion di Stato che tenga; ma qui si sono viste solo parole contro parole, credibilità precostituita e regalata contro credibilità guadagnata e negata.

Non si può così sbrigativamente privare di valore e valenza processuale un dichiarato rapporto di amicizia, una pregressa collaborazione e gli attestati di stima, tutte premesse queste già deponenti in favore del dr. Contrada, prima ancora dei giudizi che sono stati dati, a meno che non si voglia dedurre che lo Stato Italiano, di cui questa magistratura giudicante fa parte, sia in mano ad un’accozzaglia di inetti, incapaci ed imbecilli che in 35 anni non sono stati capaci di individuare un colluso con la mafia! I Capi della Polizia, i Direttori del SISDe, gli Alti Commissari per la lotta alla mafia, i Prefetti, i Questori e tutti gli altri... · - se con le loro testimonianze hanno detto la verità, Contrada è innocente; · - se hanno mentito, oltre ad essere rei di falsa testimonianza, sono tutti collusi con la mafia (...). Del resto, se si guarda all’altro lato della medaglia, in contrapposizione all’amicizia, alla stima ed alla pregressa collaborazione dei testi della difesa, non si contrappone, forse, la inimicizia, la disistima ed il pregresso antagonismo dei testi dell’accusa? E ai fini della valutazione del disinteresse, è lecito e criticamente e razionalmente accettabile penalizzare i primi e privilegiare i secondi? E, ritornando all’assunto che, invece, sia proprio l’interesse che rende più attendibile una testimonianza (purché si tratti di un sano e legittimo interesse!), dopo aver ribadito che ci rifiutiamo categoricamente di ipotizzare una generalizzata collusione con la mafia nei testi chiamati dalla difesa, prendendo come punto focale l’interesse dello Stato che, dai Capi della Polizia al più umile dei funzionari della Squadra Mobile, tutti sono chiamati a difendere per libera scelta e per fedeltà al giuramento, è chiaro che tutti i menzionati testi della difesa avrebbero potuto tutelarlo:

-  denunciando la collusione di Contrada, se vera e se ne avessero avuto sentore;
-  testimoniando con forza l’innocenza di Contrada, se vera e ne avessero avuto certezza. Come si vede, in ogni caso c’è una testimonianza disinteressata o legittimamente interessata e, soprattutto, basata sulla certezza. Se la stessa indagine la applichiamo agli accusatori, non possiamo assolutamente parlare di disinteresse o di interesse legittimo di tutelare lo Stato. Ne mancano i presupposti e le tradizioni, oltre alle motivazioni. Abbiamo così la sola strada dell’ interesse:
-  interesse alla vendetta (in gran parte, almeno i principali, sono stati accanitamente perseguiti dal Contrada);

-  interesse di aumentare il loro “spessore”, che l’impugnata sentenza misura in maniera direttamente proporzionale al numero degli omicidi commessi ed alla capacità accusatoria;

-  interesse al soddisfacimento degli istinti e delle abitudini;

-  interesse a screditare la credibilità dello Stato, nel caso in cui (come è chiaramente detto per Mutolo in questa sentenza) il pentimento non sia nato da una purificazione in terna, ma prodotto dai rigori del 416 bis;

-  interesse ad accondiscendere ad eventuali complotti;

-  interesse a mantenere lo status e i privilegi di pentito;

-  interesse a mantenere gli impegni presi con altri nel concordare le testimonianze e le accuse da rendere nei processi;

-  altri interessi non meglio decifrabili, ma sicuramente non leciti. Come si vede, non c’è alcun caso che preveda il disinteresse e prescriva la sincerità delle dichiarazioni>>.

Le considerazioni sin qui richiamate non possono essere condivise. Il Tribunale, infatti, ben lungi dall’estrapolare da un deserto argomentativo il complessivo giudizio sulle testimonianze addotte dalla Difesa circa l’onestà professionale di Bruno Contrada, ne ha evidenziato la sostanza ed i limiti laddove esse sono consistite in mere valutazioni, e, caso per caso, le ha motivatamente disattese quando hanno investito fatti specifici (vedi, ad esempio, la testimonianza del funzionario di Polizia Antonino De Luca a proposito della fuga di Oliviero Tognoli). Lo stesso brano della sentenza che viene citato dai difensori appellanti è preceduto da una rassegna conclusiva del quadro probatorio a carico dell’imputato, << fondato su fonti eterogenee, coerenti, assolutamente univoche e convergenti nell’acclararne la colpevolezza>> (pag. 1719). Né, comunque, il contributo dei collaboranti, che non esauriscono il novero di tali fonti, può essere svilito sulla base di generici rilievi riguardanti la contrapposizione tra l’interesse (positivamente apprezzato) dei testimoni indicati dalla Difesa e l’interesse (inteso come calcolo di convenienza a rendere dichiarazioni non veridiche) dei collaboranti stessi. In primo luogo, infatti, su ciascuno di essi il Tribunale ha operato un meticoloso vaglio di attendibilità intrinseca ed estrinseca, nel quadro di una valutazione unitaria degli elementi di prova, in sintonia con le indicazioni successivamente date nella sentenza di annullamento con rinvio, dove si evidenzia che

l’eventuale interesse a mentire deve essere valutato in concreto, nell’ambito della verifica della intrinseca attendibilità di ognuno.

Nella sentenza di annullamento con rinvio, a questo riguardo, è stato rilevato che ha << carattere generale e, perciò, meramente astratta perché riferibile ad ogni accusa nei confronti di organi inquirenti >> , l’affermazione della sentenza impugnata secondo che il giudice di primo grado non avrebbe << attribuito "sufficiente rilievo ad un connotato sicuramente capace di influire nell’equilibrio del rapporto accusa-difesa, vale a dire la particolare condizione professionale dell’imputato, funzionario della polizia palermitana, già titolare di incarichi di punta negli organismi preposti al contrasto della criminalità, in quanto tale per lunghi anni impegnato in indagini nelle quali erano stati coinvolti direttamente molti dei collaboratori escussi, (Buscetta, Mutolo, Marchese, Marino Mannoia), i quali pertanto ben potevano essere portatori di sindrome rivendicatoria nei suoi confronti >> (cfr. pag. 247 della sentenza citata). In secondo luogo, è frutto di una palese forzatura il volere ridurre la valutazione della prova alla contrapposizione tra i collaboratori di giustizia indicati dall’Accusa ed i testimoni indicati dalla Difesa, giacchè alle attestazioni di stima di questi ultimi hanno fatto da pendant i sospetti, le diffidenze e le circostanze di fatto riferiti da alcuni, qualificati testimoni citati dal Pubblico Ministero. Il Tribunale, infatti, ha dato conto della diffidenza nutrita nei confronti di Bruno Contrada da Giovanni Falcone, dei sospetti di Boris Giuliano nell’ultimo periodo della sua vita, della sfiducia del Commissario capo dr. Antonino Cassarà, delle prese di posizione del Questore Immordino e di varie testimonianze su fatti specifici, idonei a giustificare quelle

diffidenze e quei sospetti ( si pensi alla la testimonianza del magistrato elvetico Carla del Ponte ed quella della vedova Ziino) Sono stati indicati e valutati, sia dal Tribunale che nella presente sentenza, i fatti all’origine della sfiducia di Giovanni Falcone, e cioè il silenzio di Contrada sulla telefonata del 7 ottobre 1983 dell’esattore Antonino Salvo e l’immediato colloquio dell’imputato con lui, le dichiarazioni rese da Tommaso Buscetta il 18 settembre 1984 in ordine all’esistenza di un rapporto personale Contrada-Riccobono, le rivelazioni di Oliviero Tognoli in ordine alla circostanze della sua fuga, le rivelazioni della vedova Parisi, il paventato coinvolgimento dei servizi segreti nell’attentato all’Addaura del 1989. Sono state evidenziate, in questa sentenza, anche le ragioni della cautela di Falcone (che non denunciò Contrada e non promosse procedimenti penali nei suoi confronti), con specifico riferimento alle indagini relative al predetto attentato dinamitardo. Sono stati rassegnati, altresì, i fatti che precedettero l’operazione di Polizia nota come “Blitz del 5 maggio ‘80”, alla base dei prudenti ma, al tempo stesso, severissimi giudizi espressi dal Questore Immordino nell’appunto riservato inviato l’undici maggio 1980 al Capo della Polizia sul <> attribuito a Contrada. Si è osservato, ancora, nel capitolo riguardante la condotta tenuta dall’imputato in relazione alla notizia dell’incontro tra Boris Giuliano e Giorgio Ambrosoli, che lo stesso Boris Giuliano, pur legato a Contrada da uno stretto rapporto personale e - negli anni del comune

servizio alla Squadra Mobile, anche professionale - manifestò, di fronte al fallimento di iniziative investigative riguardanti il narcotraffico nell’ambito delle attività compiute tra il 1978 ed il 1979 a Palermo, di concerto con la D.E.A. i propri sospetti all’investigatore statunitense Charles Tripodi, e cioè ad un soggetto estraneo ad un ambiente che avrebbe potuto veicolare i suoi timori e le sue diffidenze. Il Tribunale, infine (capitolo 6.IV, pagine 1399 e seguenti della sentenza appellata) ha richiamato gli analoghi sospetti nutriti dal funzionario di Polizia Antonino Cassarà e riferiti in dibattimento dalla vedova, la teste Laura Iacovoni, << alla quale il marito, pur non entrando nello specifico dei fatti attinenti il proprio lavoro, aveva in più’ occasioni e con assoluta nitidezza manifestato la propria diffidenza, gradualmente maturata nel corso della sua permanenza a Palermo, sia nei confronti dell’odierno imputato che del dott. Ignazio D’Antone, suo stretto collaboratore ed amico>> (pag. 1400 della predetta sentenza). La teste Iacovoni, ha riferito che il marito, appena trasferito a Palermo, aveva avuto un iniziale atteggiamento di fiducia e disponibilità nei confronti del suo nuovo ambiente di lavoro ma che (ibidem, pagine 1402-1403) <> . Il Tribunale (pagine 1404 e seguenti della sentenza appellata) ha rintuzzato ed esaurito le doglianze successivamente riprodotte nel corpo dell’Atto di impugnazione (Vol. VI, capitolo VI, paragrafo VI.3), riguardanti sia rapporti personali tra Contrada e Cassarà, definiti positivi e cordiali da numerosi testimoni della Difesa, sia l’attività svolta da Contrada per la sicurezza personale dello stesso Cassarà ed il suo interessamento nei giorni immediatamente successivi all’omicidio del funzionario di Polizia dr. Montana per un suo eventuale trasferimento in altra sede e ad altro incarico. Conclusivamente, laddove non le ha motivatamente disattese, quel giudice ha considerato di tenore prettamente valutativo - e dunque non incidenti sul quadro probatorio - le testimonianze favorevoli all’imputato; d’altra parte, senza per questo fondare l‘affermazione di responsabilità sulla comprovata esternazione di diffidenze e di sospetti,

ha dato concreta contezza, quando sono emerse, delle circostanze di fatto collegate alle une ed agli altri.

Le doglianze dei difensori appellanti, relative al capo della decisione impugnata concernente il trattamento sanzionatorio, sono state enunciate a pag. 147 del volume XVII dei Motivi nuovi (non ve ne è traccia dell’Atto di Impugnazione), nei seguenti termini: << Senza discernere il vero dal falso, esasperando l’entità dei fatti (in realtà di modesta rilevanza), non tenendo conto della personalità del soggetto, prescindendo dalla pur doverosa constatazione che l’imputato ha sempre vissuto con lo stipendio proprio e di quello della moglie tant’è che abita in una piccola casa popolare e dispone di piccole (se non inconsistenti) somme di denaro (n.b.: l’indagine sviluppata dalla Procura delle Repubblica sul punto ha consentito di pervenire ai risultati cennati), la sentenza non si è attenuta a criteri di equità nella determinazione della pena, ha negato le attenuanti generiche, non ha tenuto conto che anche i giudizi di comparazione tra attenuanti e aggravanti obbediscono all’esigenza di adeguare la pena a funzioni di giustizia e di emenda. E si vorrebbe, addirittura, da talune parti un aumento della pena inflitta>>. Orbene, le circostanze attenuanti possono essere concesse anche d’ufficio dal giudice di appello, così come il loro bilanciamento non è soggetto all’onere di proporre tempestiva impugnazione (art. 597 ultimo comma c.p.p). Nella specie, tuttavia non ricorrono i presupposti per il riconoscimento delle generiche, attesi il concreto disvalore della condotta dell’imputato e la intensità del dolo.

Non vi è dubbio, infatti, come osservato dal Tribunale (pag. 1727 della sentenza appellata) <>.

Parimenti condivisibili appaiono, poi, le considerazioni svolte dal primo giudice in ordine alla elevata intensità del dolo, anch’essa ostativa alla concessione delle circostanze attenuanti generiche, apprezzabile (pag. 1730 della sentenza appellata) <>.


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