Centinaia di migliaia di persone per l’ultimo addio al giovane ministro. In piazza striscioni, bandiere e slogan contro la Siria e contro Hezbollah
Beirut, tensione ai funerali di Gemayel. Il premier Siniora chiede aiuto all’Onu
Scontri fra sciiti e sunniti dopo le esequie, alcuni feriti. E Nasrallah chiede ai suoi di finire l’occupazione dell’aeroporto *
BEIRUT - Dolore e tensione. "Ma noi non abbiamo paura". Questo il clima in Libano dopo l’assassinio del ministro dell’Industria Pierre Gemayel. A Beirut una gran folla ha raccolto l’appello dei partiti della maggioranza parlamentare antisiriana riuniti nella coalizione delle "Forze del 14 marzo", e si è riversata nella piazza dei Martiri, davanti alla cattedrale maronita di Saint George. Almeno mezzo milione di persone ha accolto il feretro di Gemayel, moltissimi gli striscioni dei partiti cristiani della Falange, del Partito socialista progressista druso e del movimento sunnita Mostqabal. Ma anche striscioni su cui si leggeva: "Non più morte", "Vogliamo vivere" (con il ritratto di Gemayel), "La patria prima della politica". Dall’altare Nasrallah Sfeir, patriarca della Chiesa cristiano-maronita libanese, ha officiato il rito. E in un messaggio inviato ai funerali, Benedetto XVI ha nuovamente condannato l’assassinio come un "atto inqualificabile" invocando "la solidarietà di tutti i libanesi".
Scontri fra gruppi rivali, alcuni feriti. Scontri tra gruppi di sunniti e sciiti libanesi hanno provocato alcuni feriti in un quartiere del centro di Beirut non lontano dalla Piazza dei Martiri, subito dopo le esequie di Gemayel. Gli scontri sono scoppiati quando, di ritorno dai funerali, un gruppo di sostenitori del movimento Mostaqbal - guidato da Saad Hariri, figlio ed erede politico dell’ex premier Rafik Hariri, ucciso in un attentato nel 2005 - hanno attraversato il quartiere di Basta, abitato da sciiti, simpatizzanti dei movimenti prosiriani Hezbollah e Amal. I due gruppi si sono affrontati a colpi di bastone e alcune persone sono rimaste ferite, prima che l’esercito intervenisse in forza per ristabilire l’ordine.
Il funerale. Al suono delle campane, la salma di Gemayel è partita stamattina dalla cittadina di Bikfaya, paese d’origine della famiglia, a nord-est di Beirut, scortata da un lungo corteo, mentre da tutte le regioni del Paese affluivano verso Beirut cortei di pullman e auto con le bandiere del Libano e dei vari partiti politici antisiriani. Dopo la cerimonia, il feretro di Gemayel ha fatto ritorno a Bikfaya, luogo della sepoltura.
I presenti. Alla funzione funebre hanno partecipato gli esponenti della maggioranza parlamentare antisiriana tra cui il premier Fuad Siniora, Saad Hariri (sunniti), Walid Jumblatt (druso), Samir Geagea (cristiano). Con loro il presidente del Parlamento, lo sciita Nabih Berri, e il mufti sciita della regione di Tiro, Sayed Ali Amin. Assente l’ex generale Michel Aoun, principale rivale cristiano della maggioranza: "Non ci sarò per evitare che la mia presenza possa causare problemi ed essere sfruttata da provocatori". Presenti, inoltre, il viceministro degli Esteri francese Philippe Douste Blazy, il viceministro degli Esteri italiani, Ugo Intini, il segretario generale della Lega Araba, Amr Mussa.
Antisiriani attaccano Hezbollah. I leader della maggioranza parlamentare antisiriana hanno sferrato un duro attacco contro Hezbollah e il presidente filosiriano Emile Lahud, in un comizio seguìto ai funerali. "Il conto alla rovescia per l’elezione di un nuovo presidente è cominciato - ha detto Amin Gemayel, leader delle Falangi libanesi e padre del ministro assassinato - la seconda rivoluzione per l’indipendenza è cominciata oggi e non si fermerà finché non avremo raggiunto gli obiettivi". Riferendosi a Hezbollah, Jumblatt ha affermato che "non riuscirà a spezzare il nostro rifiuto della dittatura e la nostra richiesta del monopolio della forza da parte dello Stato". E Hariri ha sollecitato il movimento sciita a "ritornare all’opzione politica libanese".
La reazione di Hezbollah. Sayyed Hassan Nasrallah, il leader delle milizie sciite di Hezbollah, ha chiesto alle centinaia di sciiti che hanno bloccato l’aeroporto di Beirut di sospendere la manifestazione. "Più che chiedere vi prego di sgombrate le strade. Non vogliamo nessuno per strada", ha detto Nasrallah nel corso di una telefonata diffusa da Al Manar, la televisione di Hezbollah. In serata centinaia di manifestanti avevano bloccato la strada per lo scalo aereo della capitale libanese per denunciare -a loro dire- gli insulti al loro leader Nasrallah, durante i funerali di Pierre Gemayel.
Onu. Che la tensione sia alle stelle lo si capisce dal fatto che il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha accolto a New York la richiesta del premier libanese Siniora di ricevere aiuto nell’inchiesta sull’assassinio di Gemayel. Il Consiglio ha approvato all’unanimità una lettera che invita la commissione che indaga sull’assassinio dell’ex premier Hariri ad aiutare le autorità libanesi a consegnare alla giustizia gli assassini di Gemayel. L’inchiesta guidata dal belga Serge Brammertz sta già indagando su altri 14 omicidi politici in Libano.
* la Repubblica, 23 novembre 2006
Beirut, in 200mila alle esequie di Gemayel*
Pierre GemayelAlmeno 200mila persone a Beirut per i funerali del ministro dell’industria assassinato martedì. La folla ha reso omaggio a Pierre Gemayel ha avuto lacrime di dolore per il trentaquattrenne ministro libanese, ucciso in un agguato, e di collera per colui che molti accusano di essere il mandante di quell’omicidio: il presidente siriano Bashar Assad. Una marea umana, almeno duecentomila persone secondo le stime, ha inondato le strade intorno alla cattedrale maronita di San Giorgio in cui si è celebrata la funzione funebre. Dentro la chiesa hanno preso posto famigliari e dignitari che commossi hanno seguito il rito officiato dal patriarca Nasrallah Sfeir. Dopo il rito la battaglia politica è ripresa in tutta la sua forza. Su un palco allestito nella vicina piazza dei Martiri, protetti da un vetro antiproiettile, si sono avvicendati i leader del fronte anti-siriano.
La giornata del dolore è iniziata a Bikfaya, la cittadina sulle montagne a est di Beirut in cui Pierre Gemayel era nato. Dopo un’ultima preghiera nella casa del XIX secolo della famiglia dello scomparso ministro, che già nel 1982 aveva pagato un tributo di sangue con l’assassinio dell’allora presidente libanese Bashir Gemayel, zio di Pierre, il feretro è stato portato a spalla lungo la strada principale del villaggio tra due ali di folla. Le donne lanciavano riso e petali di fiori sulla bara avvolta nella bandiera libanese e con le insegne della Falange cristiana, il partito di Gemayel. Poi la salma è stata caricata su un carro funebre diretto nella capitale.
Quando verso mezzogiorno il corteo funebre è arrivato a Beirut, il centro della capitale era già affollato da decine di migliaia di persone accorse a dare l’ultimo saluto al giovane ministro scomparso. Le vie più importanti erano presidiate da centinaia di agenti e militari in assetto antisommossa, nel timore di incidenti. Proprio dal padre della vittima, l’ex presidente Amin Gemayel, era arrivato però un appello a far sì che la cerimonia non fosse occasione di disordini.
La bara è stata scaricata dall’auto e portata a spalla fino alla chiesa, tra la folla che premeva sventolando bandiere libanesi, foto del defunto ministro e di un altro "martire", l’ex premier Rafik Hariri assassinato il 14 febbraio del 2005. Negli ultimi due anni, le vittime nel fronte politico antisiriano sono state sei. Nella cattedrale, oltre ai famigliari, hanno preso posto i leader politici, compreso il presidente del parlamento Nabih Berri, la cui fazione Amal è alleata di Hezbollah e dunque vicina alla Siria. C’erano anche il ministro degli Esteri francese Philippe Douste-Blazy e il segretario generale della Lega Araba Amr Moussa e il sottosegretario della Farnesina Ugo Intini. Insieme con il ministro, è stato ricordato la sua guardia del corpo Samir Shartuni, morto anch’egli nell’agguato.
Nella stessa piazza dei Martiri in cui al termine della funzione cristiana è stato ricordato Gemayel, il 14 marzo del 2005 un milione di persone si radunò per l’oceanica manifestazione di protesta che per l’omicidio Hariri convinse e di fatto costrinse la Siria a ritirare in tutta fretta le truppe che ancora aveva in Libano. La gente era meno oggi, ma il clima non è cambiato: il Libano vuole liberarsi per sempre dal giogo siriano.
«Cacciate l’agente di Bashar da Baabda», urlava la gente riferendosi al palazzo presidenziale, occupato da Emile Lahoud considerato la quinta colonna della Siria a Beirut. Un gruppo di giovani ha distrutto ritratti di Lahoud, Bashar e del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, i principali sostenitori di Hezbollah che in luglio ha trascinato il paese in guerra contro Israele. Anche contro il leader del Partito di Dio, Hassan Nasrallah, se l’è presa la folla. «Nasrallah, vieni a vedere qual è la maggioranza» nel paese, è stato uno degli altri slogan.
A Beirut tutti attendono un «nuovo 14 marzo» un’altra, imponente manifestazione antisiriana come quella che, nel 2005, aveva raccolto un milione di dimostranti in Piazza dei Martiri ad un mese dall’attentato contro Hariri e segnato la fine della trentennale tutela militare di Damasco sul Paese dei Cedri.
In attesa che si «calmino le emozioni», il movimento Hezbollah avrebbe deciso di rinunciare, almeno «nei prossimi giorni», alle preannunciate manifestazioni di piazza e a qualsiasi azione di protesta contro il primo ministro Siniora. I giorni precedenti l’attentato erano stati segnati dalla rottura dei colloqui per la formazione di un governo di unità nazionale e le dimissioni dei ministri sciiti che non avevano impedito al premier di deliberare sul tribunale internazionale per l’assassinio di Rafik Hariri.
Non meno dure sono state le parole arrivate dal palco. «Questo è l’inizio del conto alla rovescia per l’elezione di un nuovo presidente», ha detto Amin Gemayel. Nonostante lo strazio per la morte del figlio, ha parlato di «inizio di una seconda rivoluzione per l’indipendenza del Libano». Il leader druso Walid Jumblatt è tornato ad accusare la Siria. «Non uccideranno la nostra determinazione a vivere, non uccideranno la nostra determinazione a rifiutare la cultura della morte», ha assicurato.
Il leader cristiano Samir Geagea si è scagliato invece contro l’intenzione di Hezbollah di far cadere il premier Fouad Siniora e formare un governo di unità nazionale. «Questo è il nostro governo ed è legittimato dal nostro parlamento, dalla nostra presenza e dal sangue dei nostri martiri», ha detto. Gemayel, ha proseguito, è stato ucciso per impedire alla giustizia di fare il suo corso contro gli assassini di Hariri e ora l’unico modo per impedire nuove morti eccellenti è far lavorare la Corte internazionale approvata dall’esecutivo Siniora.
Sull’omicidio Gemayel ora indagherà la stessa squadra di inquirenti internazionali, guidata dal magistrato belga Serge Brammertz, chiamata a investigare sull’attentato del febbraio dello scorso anno ad Hariri. Ieri sera Siniora ha chiesto ufficialmente l’aiuto delle Nazioni Unite per le indagini e il Consiglio di sicurezza glielo ha accordato. «Siamo decisi a sostenere il governo del Libano nei suoi sforzi per portare davanti alla giustizia gli esecutori, gli organizzatori e i mandanti dell’assassinio di Pierre Gemayel», hanno scritto i quindici membri dell’esecutivo Onu in una lettera al segretario generale Kofi Annan.
* www.unita.it, Pubblicato il: 23.11.06 Modificato il: 23.11.06 alle ore 18.40
LETTERATURA
Il Libano di Gibran, ieri come oggi
di Fulvio Panzeri (Avvenire, 25.11.2006)
C’ è un nuovo e ritrovato interesse per l’opera di Gibran, un autore che non ha mai smesso di affascinare il pubblico e le generazioni grazie ai temi forti della sua spiritualità e soprattutto per la necessità di non porre fratture tra le due dimensioni, quella dell’Oriente, la cultura in cui è cresciuto e quella dell’Occidente a cui non ha mai guardato, con sospetto, anzi, ha cercato di trovare punti di accordo tra le due realtà conoscitive.
È molto utile quindi riscoprire Gibran nella sua interezza, non solo come l’autore di un libro cult, come Il profeta, sentito con grande intensità da generazioni sempre diverse, ma anche come uomo di pensiero, nella sua integralità di scrittore. Infatti è uno scrittore che "disorienta", come sottolinea Alexander Najjar, nella recente bella biografia (pagine 224, euro 18,00) tradotta da Il leone Verde. Come interpretare anche dal punto di vista letterario, un libro come Il profeta? Non è un romanzo, non è un saggio e nemmeno un’opera poetica. È letteratura allo stato puro che colloquia con i temi della spiritualità. È il tentativo di svelare all’uomo la sua «nuda realtà», quella che può raggiungere la persona spirituale, «colei che - sottolinea sempre Gibran - avendo fatto esperienza di tutte le cose terrene, le rifiuta».
Così Gibran, come sottolinea il biografo, resta assente dalla maggior parte dei dizionari e dei testi occidentali dedicati alla letteratura. Forse perché è impossibile classificarlo anche come autore: «scrittore arabo che scrive in inglese, nato in Libano, ma residente negli Stati Uniti, a cavallo tra Oriente e Occidente». Uno che conosce bene i due mondi e sa quali sono i rischi della cultura occidentale e sa come evitarli, ma chiede anche alla cultura araba il bisogno di un’innovazione. In Italia i tempi sembrano maturi per fare i conti "critici" definitivamente con Gibran: l’Universale Economica di Feltrinelli nella collana dei classici traduce un’antologia di Gibran, Scritti dell’ispirazione, materiali diversi, dalle poesie agli aforismi, ai racconti sapienziali, come la favola di una viola, il messaggio rivoluzionario di un eretico, l’insegnamento trasmesso dal Discepolo al Maestro, un libro che dimostra come l’autore possa toccare il cuore di lettori sempre così diversi. È la forza della sua spiritualità che nasce da un bisogno continuo di spoliazione, di verità, di sentire autentico.
C’è anche un forte amore verso il Libano, il suo paese, quello vero, quello autentico, «scritto da Dio» e sacro nella sua dimensione di terra dei cedri. In questo frangente, quando il Libano torna a far parlare di sé, in cui l’ingerenza siriana è ancora fortissima, come dimostra la cronaca di questi giorni, Gibran riesce a dare ancora risposte, a farci capire sia attraverso l’antologia, sia attraverso la biografia, aspetti che è necessario conoscere di questo lembo di terra. Rileggere nella biografia il suo celebre articolo del 1920, in cui dichiara il suo amore per il Libano e per i suoi figli e biasima i politici che l’hanno tradito, vuol dire ripensare a ciò che succede oggi. E’ un articolo che le autorità siriane, allora molto irritate, sopprimono dalla rivista su cui viene pubblicato. Diceva Gibran, ascoltando il suo cuore: «Il vostro Libano è un problema internazionale su cui speculano poteri oscuri... Il vostro Libano è uno scacchiere su cui si affrontano un capo religioso e un capo militare. Il mio Libano è un tempio che visito in spirito quando il mio sguardo è stanco di osservare il volto di una civiltà che cammina sulle ruote».
Kahlil Gibran, Scritti dell’ispirazione, Feltrinelli. Pagine 208. Euro 8.00
Festivaletteratura.
Maalouf: «Generosità è la parola del futuro»
Lo scrittore libanese: «I problemi del presente nascono da rivoluzioni fatte da conservatori, dal mondo arabo a Occidente, imponendo individualismo e legge del profitto»
di Alessandro Zaccuri - Inviato a Mantova (Avvenire, venerdì 6 settembre 2019)
Il video si trova in rete abbastanza facilmente, con tanto di sottotitoli in inglese e francese. Siamo verso la fine degli anni Cinquanta e il presidente egiziano Nasser sta riferendo di un incontro con il leader dei Fratelli Musulmani: «Sapete cosa mi ha chiesto? Che imponessi il velo in Egitto, e che ogni donna che usciva per strada si coprisse il capo!». Le risate del pubblico lasciano intendere quanto una pretesa del genere risulta inconcepibile al Cairo. «Ma era così anche a Baghdad e, in generale, in tutto il mondo arabo», spiega l’accademico di Francia Amin Maalouf, che ieri a Mantova ha dialogato con lo storico Donald Sassoon sulle origini della crisi europea. Sullo sfondo - oltre a Sintomi morbosi, il saggio che lo stesso Sassoon ha pubblicato di recente da Garzanti - c’è il nuovo libro di Maaoluf, che ancora una volta intreccia la propria vicenda personale con lo scenario politico dell’ultimo mezzo secolo. Il naufragio delle civiltà (traduzione di Maria Lorusso, La nave di Teseo, pagine 346, euro 29,00) è il racconto di un intellettuale nato a Beirut nel 1949 in una famiglia di cristiani mediorientali e affermatosi come scrittore in lingua francese. Nel frattempo, anche grazie al suo lavoro di giornalista, si è trovato a essere testimone di molti eventi cruciali degli ultimi decenni. Una data, su tutte, ricorre con insistenza nel libro. «Il 1979 - ribadisce Maalouf - è stato l’anno del grande capovolgimento».
Come mai?
Basta ripercorrere la cronologia. In febbraio l’ayatollah Khomeini torna a Teheran, in maggio Margaret Thatcher diventa primo ministro del Regno Unito. Sono i due volti di uno stesso fenomeno, che si verifica simultaneamente in Oriente e in Occidente. All’improvviso non sono più i progressisti a fare la rivoluzione, ma i conservatori. Il trionfo dell’islamismo politico coincide con il predominio del libero mercato. E il sistema di potere sovietico inizia a dissolversi, anche se ancora non vuole prenderne atto. Pochi anni prima la sconfitta degli Usa in Vietnam aveva alimentato l’illusione di un’espansione del comunismo in tutti i continenti, dall’Africa all’Asia. Da questo eccesso di sicurezza l’errore, fatale, dell’impegno militare in Afghanistan.
Dove l’Urss trova il suo Vietnam.
Dove si trova faccia a faccia con i mujahidin, espressioni militari di quell’islamismo politico che è l’altra novità decisiva del periodo. In questo caso, però, il punto di svolta va situato ancora prima, per l’esattezza nel 1967. Dalla guerra con Israele, infatti, non esce sconfitto soltanto l’Egitto, ma l’intero disegno del nazionalismo arabo di cui Nasser si era fatto portatore. Con molte ambiguità, questo è indubbio. Ma è altrettanto fuori discussione che nel suo progetto non trovava posto alcuna forma di fondamentalismo. Lo ripeto: per tutti gli anni Sessanta e per buona parte dei Settanta l’islamismo come lo intendiamo oggi è praticato da gruppuscoli pressoché irri- levanti, dei quali l’opinione pubblica araba diffida perché li considera agenti provocatori delle potenze occidentali. Lo scenario cambia drasticamente in seguito ai fattori che già abbiamo elencato, ai quali andrà aggiunta la straordinaria disponibilità economica (i cosiddetti petrodollari) da parte di quei Paesi che, come l’Arabia Saudita, patrocinano un’interpretazione rigorista dell’islam.
Un’altra rivoluzione conservatrice, dunque?
Sì, un altro elemento che contribuisce a ridefinire in maniera impressionante gli scenari geopolitici. Non vanno trascurate, inoltre, l’elezione di Giovanni Paolo II nell’ottobre del 1978 né l’ascesa di Deng Xiaoping in Cina nel marzo dello stesso anno. In un periodo brevissimo si assiste a un continuo ridefinirsi di realtà che apparivano consolidate e immutabili. È l’avvio di un processo che porterà, tra l’altro, alla fine dei regimi comunisti in Europa orientale, con conseguenze anche in molte altre nazioni, Italia compresa.
Lei conosce bene la nostra politica interna.
La conoscevo una volta, quando nel vostro Paese c’era il più importante Partito comunista occidentale e uno scarto di pochi punti elettorali rispetto alla Democrazia Cristiana assumeva un significato di portata molto ampia. A un certo punto, però, non sono più riuscito a orientarmi nelle vicende italiane. Se devo essere sincero, faccio fatica anche a capire il Libano, ormai.
Posso chiederle il motivo?
Credo che sia a causa del rovesciamento di cui parlavamo prima. I cambiamenti non sono avvenuti solo al vertice, ma si sono riverberati nella mentalità delle persone comuni, che hanno perso interesse alla politica. La convinzione comune, oggi come oggi, è che per governare un Paese sia sufficiente mettere in atto una serie di soluzioni tecniche, improntate al più sfrenato pragmatismo. Basta con il welfare, basta con gli investimenti in ambito culturale. Quel che conta è il mercato e il mercato soltanto...
Non è una prospettiva incoraggiante.
Sono d’accordo, ma non è neppure una strada obbligata. Ogni volta che sono tentato dal pessimismo, cerco di ricordare a me stesso che viviamo in un’epoca straordinaria. Per la prima volta disponiamo di strumenti formidabili, che ci potrebbero permettere di risolvere tutti i nostri problemi. Manca soltanto un tassello.
Quale?
La consapevolezza che questi stessi problemi, per essere superati, vanno prima individuati con chiarezza. Avremmo bisogno di un guizzo di creatività, magari nella sua forma più semplice: la convocazione di gruppi di lavoro ristretti, incaricati di affrontare volta per volta una questione specifica. Non sto parlando di convegni imponenti, né di assise globali, ma di piccoli gruppi di persone autorevoli, determinate e, più che altro, generose.
Le sembra possibile, in quest’era dominata dall’individualismo?
Senz’altro è necessario ed è sicuramente possibile. La magnanimità non è affatto un valore del passato, come si continua ad affermare con leggerezza. I giovani, in particolare, sono capaci di una dedizione e di una gratuità addirittura commoventi. Tendiamo a dimenticare, per esempio, che l’avvento del digitale è avvenuto grazie al lavoro appassionato di molti che, almeno in una fase iniziale, si sono spesi senza attendersi alcuna retribuzione. Poi, come al solito, è prevalsa la logica limitata del profitto.
Limitata in che senso?
Nel senso che non riesce a comprendere che la generosità non è soltanto apprezzabile in sede morale, ma anche conveniente sul piano economico e sociale. Lo dimostra, tra l’altro, la politica di riconciliazione attuata da Nelson Mandela nel Sudafrica del dopo-apartheid: un gesto nobile, non si discute, ma anche un modo lungimirante, e vantaggioso per tutti, di governare la complessità.