Al padre

Ciò che la vita mi ha insegnato, vorrei condividerlo con chi ha voglia di imparare - di Francesco Parise

Ricordi, pensieri ed emozioni dalla Bosnia
lunedì 18 dicembre 2006.
 

“Allah aqbar” cantano i muezzin. E cantano tre, quattro volte al giorno. Un canto straziante, pieno di fede, al quale la gente si volta. Al quale anche un individuo di un’altra religione non può resistere. Perché è il canto di un popolo, di una sofferenza, di un Dio. Un bambino un giorno venne da me e mi diede un proiettile. Provai a pensare che effetto facesse sentire i colpi di mitragliatrice dalla collina, mentre il muezzin cantava. Provai a sentire il rumore che fa il bossolo di una mitragliatrice mentre canta il muezzin. È un triste rumore. Un bambino un giorno, venne da me e mi diede un proiettile, e io mi chiesi il perché di tale azione, e cosa significasse quel proiettile per lui. Una ragazza bosniaca, che avevamo conosciuto e che parlava l’italiano, ci disse che lei aveva degli amici serbi, ma non poteva dimenticare quello che i padri di questi amici avevano fatto a suo padre. Li tollerava solo perché doveva farlo. Qualcuno ci disse, durante uno dei nostri tanti incontri, che ci vorranno cinque generazioni per riportare tutto alla situazione precedente: il più grande melting pot dell’Europa, dove il numero dei matrimoni misti superava di gran lunga quello dei matrimoni tra uguali etnie. Etnie e non altro. La lingua è la stessa, il territorio è uguale, il cibo è uguale. Ciò che cambia è la religione. Ma non è mai stato un problema. Non fin quando qualcuno ha deciso che, tanti popoli diversi nella loro uguaglianza, non potevano più vivere insieme. Sarajevo trasuda di proiettili, quelli che sono ancora nei muri delle case delle persone che non possono permettersi di ristrutturare i macelli della guerra. Sarajevo grida morte in ogni strada. Grida il nome di Gabriele Moreno Locatelli, morto durante una manifestazione totalmente pacifica, mentre simbolicamente attraversava i due fronti e cadeva sotto il tiro di mitragliatrici che avevano promesso di non sparare. Grida il nome del suo compagno, colui che ci raccontò questa storia, un uomo con i segni di una granata in fronte, e che ora soffre per l’uranio impoverito. Grida il nome dei bambini che hanno trovato la morte per caso. Grida le lacrime del nostro accompagnatore, mentre ci raccontava come i suoi due figli, mentre giocavano a pallone in una piazza, quella piazza in cui ci trovavamo, avevano assaporato il triste sapore dei mortai. Ma di contro, sorridono i bambini, uguali nei vestiti di una settimana, che ridono e cantano. Sorridono i miei amici clown che ogni giorno si recavano in ospedale a fare i “Patch Adams”. Sorride la mia stanchezza e quella dei miei compagni, la forza usata per percorrere chilometri in bicicletta. Sorride la mia fame, e quella dei miei compagni. Fame che mi ha fatto scoprire nel pane il più nobile degli alimenti, perché quando hai fame e non c’è nulla da mangiare, il pane ti sostiene e ti rinvigorisce. Sorride il viso di una donna che ci ha ospitato in casa sua a bere del kafa, e che, per farci sentire in patria, ci ordinò una pizza, nonostante non avesse tanti soldi da spendere. Sorride la lingua degli uomini, quella che non ha parole, ma solo gesti e tanto amore, quella che fa comunicare un bosniaco ed un italiano. Ma Sarajevo non è solo proiettili e morte. Sarajevo cerca di ricrescere, rinascere, resuscitare. Resuscita nelle vie del centro in cui tanti ragazzi e ragazze bellissime, passeggiano il sabato sera, sperando che ci saranno tempi migliori. Loro, i sopravvissuti ad una guerra lacerante, che inchiodò milioni di persone in una città per tre anni. I ragazzi, i futuri nonni di bimbi, che, si spera, ritorneranno a cantare e giocare insieme, come facevano nel lontano 1980. Sarajevo resuscita nelle mie lacrime quando penso a quei giorni, nella lacrime dei miei compagni scout, ragazzi che ora sono guerrieri della luce, come scrive Paulo Coelho, ragazzi che a sedici, diciassette e diciotto anni, con la forza di uno zaino ed una bicicletta vollero scoprire cosa significava la parola guerra. Tutto quello che ho visto, è ora una forma limpida nel mio cuore e nella mia mente. Ci sono voluti degli anni per comprendere il vero senso di ciò che avevo sentito e provato, perché da ragazzo di sedici anni quale ero, non compresi ciò che dovevo comprendere. Quello che ho compreso è che: “era curioso pensare che tutti, in Europa come in Asia, erano sotto il medesimo cielo. E anche le persone sotto il cielo erano più o meno le stesse in ogni luogo - ovunque, in tutto il mondo, centinaia o migliaia di persone come questa, che non sapevano nulla delle rispettive esistenze, separate com’erano da mura di odio e di menzogne, eppure affatto simili - persone che non avevano mai appreso a pensare ma che racchiudevano nei cuori e ventri e muscoli il potere che un giorno avrebbe messo il mondo sottosopra.”

Francesco Parise

9/11/06


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