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LA "FORZA ITALIA" DELL’ITALIA E LA "PAROLA ITALIA" DELL’ITALIA. La denigrazione del chirurgo italiano Gino Strada e la espulsione della sua organizzazione Emergency (quasi due milioni di vite salvate) dall’Afghanistan. Un commento di Furio Colombo - a cura di pfls

domenica 15 aprile 2007.
 

[...] il patto d’acciaio fra opposizione della Repubblica italiana e servizi segreti afghani ha tentato la seconda strada: Gino Strada è un fiancheggiatore. L’offesa è grande, perché investe non solo una persona coinvolta su vasta scala e da molti anni in una missione umanitaria celebre, rispettata, onorata nel mondo, ma l’intero governo italiano e tutte le sue istituzioni che hanno chiesto a Gino Strada di addossarsi la missione di salvezza.

Ma - come si è detto - la violenza dell’accusa cala come un macigno sulla speranza di salvezza dell’ostaggio afghano Ajmal. La mano assassina dei talebani e la fiera fermezza che finalmente ha preso il sopravvento contro i piagnoni del salvare le vite hanno la responsabilità congiunta del delitto [...]

Professione avvoltoio

di Furio Colombo *

Mai - in un Paese democratico - è stato così macabro il mestiere di fare opposizione. Viene espressa senza pudore costernazione (l’ex ministro degli Esteri Fini alla Camera) e anche risoluta indignazione (l’intervento di Magdi Allam alla trasmissione «Annozero») per il ritorno dell’ostaggio Mastrogiacomo vivo. Ogni giorno che passa si capisce di più che i nostri colleghi di opposizione alla Camera e al Senato erano pronti a una solenne iniziativa bipartisan intorno alla salma, prima di richiedere, con corruccio e con bandiera sullo sfondo, le dimissioni o l’impeachment di Prodi e D’Alema in quanto mandanti dello sgozzamento di Mastrogiacomo.

Il violento attacco a Gino Strada era già pronto. Se salva tutti è un fiancheggiatore. Se non salva nessuno è un incapace e un dilettante che ha rubato il gioco agli esperti.

È andata male ma per la professione avvoltoio non tutto è perduto. Il progetto è di sostenere l’azione di guerriglia antigoverno buttando avanti due cadaveri l’autista e l’interprete di Mastrogiacomo.

Qui il rito ricorda l’antica cerimonia Parsi praticata un tempo a Bombay: esporre i cadaveri su una griglia in cima a una altura fino a che saranno stati del tutto sbranati dai lugubri uccelli addetti alla funzione.

Nella nostra disgraziata repubblica il compito di nutrire con i cadaveri l’assalto al governo se lo sono assunti deputati e senatori della diroccata casa delle libertà guidati, questa volta, da Gianfranco Fini.

Gianfranco Fini ha fatto così il suo debutto con tre caratteri distintivi che - se esistesse un sistema giornalistico normale - dovrebbero identificarlo per sempre.

I tre caratteri sono il furore per aver salvato la vita di Mastrogiacomo, l’uso di falsa citazione presentata come fonte esclusiva («Io so quello che dico» significa possesso di informazione o documento) e l’impetuoso schierarsi con altro governo (sceglie Karzai contro Prodi, fatto raro per un ex ministro degli Esteri) nel momento in cui descrive, come se vi avesse assistito, un conflitto fra il primo ministro afghano, detto anche «il sindaco di Kabul» per la modesta area afghana che riesce a governare, e il presidente del Consiglio italiano.

Il leader di Alleanza Nazionale sembra ora la voce-guida di un partito transnazionale italo-afghano, forse copiando inconsciamente il modello assai più nobile dei radicali di Pannella. Infatti nel discorso accusatorio di Fini, l’uomo delle Seychelles (è appena tornato, molto abbronzato da una sua spensierata vacanza) si fa portavoce di altro governo. Anzi, più che del primo ministro Karzai, Fini parla a nome del capo dei Servizi segreti afghani quando grida, con un linguaggio da processo di Verona «so quel che dico!» e agitando fogli di carta intestata della Camera, come se fossero documenti riservati. Saetta nell’aula del Parlamento italiano la parola «ricatto». È il modo in cui lo statista Fini definisce e descrive l’impegno del governo italiano, e in particolare di Prodi e D’Alema per salvare un cittadino italiano. «Ricatto», parola estrema per significare il livore seguito all’avvenuto salvataggio - mentre tutti i bipartisan aspettavano la salma - è nel retro pensiero oscuro e incattivito di Fini, una serratura a due scatti. Prima si apre, perché Karzai, pressato, si convince a liberare cinque detenuti di seconda fila della guerra locale (nessuno, fra gli influenti alleati, gli permetterebbe di tenere a Kabul personaggi-chiave del terrorismo internazionale). E quei cinque detenuti sono la vita di Mastrogiacomo.

Poi la serratura ha un secondo scatto e si chiude quando, anche a nome di altri paesi ma certo non dell’Italia, i deputati e senatori di Berlusconi e di Fini fanno una tale canea sul salvataggio di Mastrogiacomo, da suggerire un tradimento italiano. Viene detto e ripetuto alla Camera e al Senato italiano che - con i buoni uffici del pro-talebano Gino Strada - i cinque liberati sono la punta di diamante del conflitto che spacca il mondo. Vengono usate e agitate voci di burocrati americani e inglesi anonimi e di quarto livello per screditare ogni sforzo del governo italiano per l’altro ostaggio, Adjmal, che durante le manifestazioni dell’opposizione italiana contro il governo di questo paese è ancora vivo, ancora salvabile.

Ma tramite l’euforica intesa scattata tra parlamentari italiani, ora guidati da Fini, e i Servizi segreti afghani, Karzai riceve il messaggio. Il messaggio, urlato nelle due aule parlamentari italiane era: mai più aprire le carceri di Kabul. L’hanno avuta vinta, nessuno è uscito e Adjmal è morto.

È una vicenda che non toglie nulla all’orrore del comportamento talebano. Ma ridistribuisce i pesi della tragedia, qualcuno salva e qualcuno condanna a morte. Come ha detto a Santoro la sera di giovedì in tv un soldato israeliano «la nostra posizione è trattare sempre, trattare con tutti. In un paese in cui tutti sono soldati, ogni soldato deve sapere che non sarà abbandonato». E infatti, alcuni nostri colleghi dell’opposizione erano presenti quando padri, madri e sorelle dei soldati israeliani tenuti in ostaggio da Hamas e da Hezbollah sono venuti a Roma, alla commissione esteri del Senato, per dirci «aprite qualunque canale, con chiunque, noi tratteremo».

Vivono in un Paese in cui non si pratica il gioco della salma e l’aggressione più violenta a chi si permette di salvare gli ostaggi.

E qui ci confrontiamo con il più vile dei comportamenti di cui mai si sia macchiata la parte detta "Opposizione" di un Parlamento democratico: la stretta alleanza fra certi deputati e senatori italiani da un lato e Servizi segreti afghani dall’altro per la denigrazione del chirurgo italiano Gino Strada e la espulsione della sua organizzazione Emergency (quasi due milioni di vite salvate). E’ lo stesso Gino Strada, descritto come un fuorilegge allo sbando su tutti i giornali di Berlusconi e nel Parlamento italiano, a cui l’altra settimana la cantante americana Joan Baez, arrivata bene informata dal suo paese, ha dedicato il concerto di Roma. Contro Gino Strada sono state tentate due strade di attacco. La prima di essere un incompetente e un dilettante che si impiccia di compiti che spettano alle istituzioni. Ma le istituzioni, saggiamente, hanno chiesto aiuto al solo personaggio credibile ed estraneo alla guerra in tutta quella parte del mondo. E Mastrogiacomo è tornato a casa vivo.

Allora il patto d’acciaio fra opposizione della Repubblica italiana e servizi segreti afghani ha tentato la seconda strada: Gino Strada è un fiancheggiatore. L’offesa è grande, perché investe non solo una persona coinvolta su vasta scala e da molti anni in una missione umanitaria celebre, rispettata, onorata nel mondo, ma l’intero governo italiano e tutte le sue istituzioni che hanno chiesto a Gino Strada di addossarsi la missione di salvezza.

Ma - come si è detto - la violenza dell’accusa cala come un macigno sulla speranza di salvezza dell’ostaggio afghano Ajmal. La mano assassina dei talebani e la fiera fermezza che finalmente ha preso il sopravvento contro i piagnoni del salvare le vite hanno la responsabilità congiunta del delitto.

Naturalmente l’accusa a Gino Strada, espressa con una sola voce da deputati e senatori italiani e da Servizi segreti talebani è il ricatto finale. Impedisce la liberazione di Ramatullah Hanefi, l’uomo che ha agito su incarico e per conto del governo italiano e ha salvato il giornalista italiano. Ma in Italia c’è chi lo accusa perché lo aspettava in compagnia della salma per dire: «Vedete? Dovevano pensarci i Servizi...». E c’è - spiace dirlo - chi non si indigna al punto di esigere la liberazione immediata di Ramatullah Hanefi per l’onore del governo italiano, che Hanefi ha rappresentato e che per questo è detenuto. Chiedo, da senatore, con una lettera inviata oggi al mio gruppo e al presidente Marini, di incontrarlo al più presto a Kabul per verificare le sue condizioni.

furiocolombo@unita.it

* l’Unità, Pubblicato il: 15.04.07, Modificato il: 15.04.07 alle ore 14.52


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