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Rwanda, ritorno su una colpevole cecità internazionale, dieci anni dopo il genocidio - di Colette Braeckman - selezione a cura di pfls

martedì 23 maggio 2006.
 

-  DIECI ANNI DOPO IL GENOCIDIO

-  Ruanda, ritorno su una colpevole cecità internazionale

-  di Colette Braeckman,

-  giornalista di Le Soir (Bruxelles), autrice fra l’altro di Nuovi predatori, Fayard. Paris. 2003.
-  (traduzione dal francese di José F. Padova)

Un milione di morti in cento giorni e il mondo non ne avrebbe saputo nulla? Dall’indipendenza, nel 1962, in poi, tutti coloro che s’interessavano al Ruanda sapevano che il fuoco covava. Già nel 1959, assistiti dai belgi, che avevano puntato sulla maggioranza etnica, quella degli Hutu, questi ultimi avevano scacciato dal Paese più di 300.000 Tutsi.

Dopo l’entrata in guerra, nell’ottobre 1990, del Fronte patriottico ruandese (FRP) - un’organizzazione politico-militare che si batteva per il ritorno degli esiliati e i cui membri, rifugiati in Uganda, si esprimevano in inglese - ogni avanzata si era tradotta in un massacro di Tutsi.

In agosto 1993, sotto le pressioni dei finanziatori, accordi di pace furono sottoscritti ad Arusha, in Tnazania. Essi prevedevano l’impianto di un governo di transizione nel quale il FPR sarebbe stato rappresentato a fianco dell’opposizione politica, con la garanzia di una forza di pace dell’ONU. In quell’epoca soltanto i diplomatici stranieri si mostrarono ottimisti. A tal punto che i Paesi membri del Consiglio di sicurezza considerarono sufficiente dotare il Ruanda di un contingente di 2.548 uomini (invece dei 4.500 che richiedeva il comandante della Missione ONU per l’assitenza al Ruanda (Minuar), il generale canadese Roméo Dallaire) e di limitare la sua azione al capitolo VI della Carta delle Nazioni Unite, che vieta il ricorso alla forza. È anche vero che il Ruanda, povero e apparentemente privo di interesse strategico, subì il contraccolpo del disastro degli Stati Uniti in Somalia, di qualche mese precedente, e che nessuno, a parte belgi e francesi, desiderava veramente impegnarvisi (1).

Tuttavia inquietanti indizi non mancavano: in luglio 1993 i «duri» del regime avevano raccolto fondi pèer lanciare la “Radio-televisione delle mille colline”, che denigrava gli accordi di pace, diffondeva nell’etere una propaganda piena di odio contro il FPR, contro i Tutsi in generale e il contingente belga, accusato di parzialità a favore del FPR. Già a partire da febbraio 1993 decine di migliaia di giovani Hutu furono reclutati e addestrati all’impiego delle armi da fuoco e del machete nei campi che si vedevano dalle strade. Come hanno potuto ignorare questa mobilitazione i cooperanti militari belgi e francesi, che tenevano informati i loro governi dei minimi movimenti di truppe?

In questo stesso periodo crediti anticipati dalla Banca mondiale venivano stornati per acquistare armi da fuoco e da taglio. Grazie a fondi garantiti dal Crédit Lyonnais, l’Egitto aveva effettuato numerose forniture di armi e di munizioni. In ottobre 1993 in Burundi l’assassinio da parte di militari Tutsi di Melchior Ndadaye, un presidente hutu legalmente eletto, contribuì ad acuire la tensione in Ruanda.

In gennaio 1994 i sospetti si trasformarono in certezza quando un informatore confermo alla Minuar che tutti i Tutsi erano stati debitamente schedati. Egli descrisse l’addestramento degli Interhamwe (coloro che uccidono insieme), la costituzione di depositi di armi e munizioni e fornì la prova delle sue affermazioni conducendo alcuni caschi blu in un sotterraneo nella sede del partito presidenziale, trasformato in deposito di armi. Mise anche in evidenza le minacce che pesavano sui caschi blu belgi.

Ma il telegramma in codice che il generale Dallaire inviò a New York il 15 gennaio, chiedendo l’autorizzazione a smantellare i depositi segreti di armi, non ottenne la risposta attesa: il Dipartimento delle operazioni per il mantenimento della pace, diretto a quel tempo da Kofi Annan, gli vietò qualsiasi azione (2). Al massimo gli ambasciatori dei Paesi occidentali esposero il problema al presidente Juvénal Habyarimana e questi, mentre negava la realtà dei fatti ... fece distribuire le armi in tutti i comuni.

Di abbandono in abbandono

Malgrado gli avvertimenti formulati in febbraio a Kigali dal ministro belga degli QAffari esteri, Willy Claes, malgrado l’assassinio di Félicien Gatabazi, ministro del Lavori pubblici e dirigente del Partito socialdemocratico, malgrado le lettere indirizzate al generale Dallaire da numerosi ufficiali superiori che denunciavano un «piano machiavellico», malgrado il moltiplicarsi degli attentati e il crescere, quasi tangibile, della violenza, nulla cambiò. Il mandato della Minuar non fu modificato e il Consiglio di sicurezza si accontentò, il 17 febbraio, di esprimere la sua inquietudine.

Il 6 aprile 1994 l’attentato contro l’aereo del presidente Habyarimana (i cui autori e mandanti sono a tutt’oggi ignoti...) segnò l’inizio del genocidio. La campagna di assassini mirati, diretti contro personalità Hutu moderate e semplici cittadini Tutsi - operazione pianificata da mesi ed eseguita con determinazione - fu presentata come «espressione della collera popolare» in seguito alla morte del capo dello Stato. In quel momento le forze dell’ONU erano disperse in tutto il Paese, mancavano di munizioni e di personale e, quando il generale Dallaire e il suo aiutante, Luc Marchal, nella mattinata del 7 aprile appresero che dieci caschi blu belgi incaricati di proteggere il primo ministro erano in difficoltà, non fu neppure presa in considerazione la possibilità di portare loro aiuto.

Mentre i cadaveri erano raccolti dai camion della nettezza urbana, le squadre dei killer percorrevano in lungo e in largo la città e il generale Dallaire chiedeva rinforzi, ci si preoccupava di evacuare i cittadini stranieri. A questo scopo i francesi spedirono 450 uomini, i belgi 450 paracadutisti in Ruanda e altri 500 in Kenya, 80 italiani si aggregarono all’operazione, mentre 250 ranger americani si trovavano in Burundi. Se avessero unito le loro forze a quelle della Minuar, queste truppe occidentali avrebbero potuto senza dubbio fermare i massacri a Kigali, fare tacere la radio estremista e imporre un cessate il fuoco.

Ma su ordine dei rispettivi governi queste forze si limitarono a una missione di evacuazione dei residenti stranieri, abbandonando i civili tutsi, comprese le coppie miste, gli impiegati delle ambasciate, fra i qualim il personale del Centro culturale francese, e decine di Tutsi che si erano posti sotto la protezione dell’ONU. Anche i caschi blu furono abbandonati alla loro impotenza. Su ordine del presidente François Mitterrand i francesi badarono a evacuare la vedova del rpesidente Habyarimana, che apparteneva al clan dei «duri», e a trasportare in posti sicuri qualche personalità del regime.

Il Ruanda non era ancora al limite dell’abbandono: il 12 aprile il ministro Willy Claes, traumatizzato dall’assassinio dei dieci cacshi blu, annunciava al segretario generale dell’ONU Boutros-Ghali che il contingente belga della Minuar stava per essere ritirato e si lanciava in un’azione diplomatica per tentare di persuadere gli altri Paesi a fare altrettanto.

Nello stesso tempo il rappresentante del Ruanda, legato agli estremisti, sedeva nel Consiglio di sicurezza come membro non permanente; rappresentanti del suo governo erano ricevuti a Parigi in veste ufficiale, e la Francia, tramite Goma nel Kivu settentrionale, continuava a fornire armi. Gli americani e i britannici da parte loro si opposero al rafforzamento degli effettivi della Minuar, come se la sola emergenza fosse quella di non fare nulla. Il segretario di Stato americano Madeleine Albright d’altra parte badò a impedire che si facesse uso del termine «genocidio», che comportava l’obbligo di intervenire e a fine aprile Boutros-Ghali parlava ancora di «guerra civile». Il 21 aprile la risoluzione 912 del Consiglio di sicurezza optò per una riduzione della forza dell’ONU in Ruanda, che avrebbe compreso meno di 500 caschi blu. Questi erano sprovvisti di alimenti, di munizioni, di veicoli e perfino di acqua potabile, impotenti a soccorrere i civili che chiedevano protezione o assistenza, anche se condussero con coraggio e buoni risultati numerose operazioni di evacuazione.

La stampa, quando s’interessò al Ruanda, lo fece per filmare dall’Uganda i corpi che andavano alla deriva sul lago Vittoria o per seguire il massiccio esodo degli Hutu i quali, dopo aver portato a compimento il loro crimine, erano fuggiti verso la Tanzania per sfuggire alle rappresaglie.

Molto prima sia Philippe Gaillard, in nome del Comitato internazionale della Croce rossa, sia Medici senza frontiere, il cui personale era stato massacrato a Butare assieme ai malati (3), sia lo stesso generale Dallaire avevano moltiplicato le loro sconvolgenti testimonianze e le richieste di aiuto. Bisognò aspettare l’11 e il 12 maggio perché il commissario dell’ONU per i diritti dell’uomo, José Ayala Lasso, venuto sul luogo, facesse alfine uso del termine «genocidio». Fino a quel momento la stampa, in grande maggioranza, parlava ancora di «massacri interetnici», di «lotte tribali». Mentre le carneficine erano sostenute e organizzate dal governo interinale messo in piedi dopo la morte di Habyarimana, il Ruanda era descritto come uno «Stato in fallimento», piombato in una specie di barbara anemia. Come se si dovesse trasporre a ogni costo il cliché somalo in questo paese molto gerarchizzato, nel quale i cittadini hanno l’abitudine di obbedire agli ordini venuti dall’alto.

Schiacciante responsabilità della Francia

Soltanto nel mese di giugno la tragedia cominciò a emozionare l’opinione pubblica. Il Consiglio di sicurezza, malgrado l’opposizione americana, finì per votare in favore di una Minuar 2 rinforzata, ma l’ONU non trovava né gli uomini né il denaro per mandare a effetto questa missione. Gli Stati Uniti, contattati perché fornissero i veicoli e i blindati, volevano essere pagati in anticipo... Quanto al FPR, avanzava lentamente ma con sicurezza verso Kigali, chiudendo la tenaglia sui suoi avversari e le loro vittime e considerava un intervento straniero ormai inutile; non soltanto perché la maggior parte dei Tutsi erano già morti, ma soprattutto perché non intendeva affatto farsi scippare la vittoria. Fu allora che la Francia mise le mani avanti: il 22 giugno ottenne dal Consiglio di sicurezza l’autorizzazione a lanciare un’operazione secondo il capitolo VII, che autorizza l’impiego della forza.

Se ormai era troppo tardi per salvare centinaia di migliaia di civili, scomparsi durante le prime settimane del genocidio, e se solamente da 10.000 a 15.000 persone poterono essere raccolte nei campi di Nyarushishi e di Bisesero, era ancora possibile tentare di salvare la carta del governo interinale. Quest’ultimo accolse i francesi con entusiasmo, sperando che l’operazione «Turquoise» arrestasse l’avanzata del FPR e imponesse una negoziazione sulla base di una ripartizione del territorio. Ma la rapida avanzata delle truppe del FPR e infine la commozione dell’opinione pubblica riuscirono a dividere il governo francese. Contro i militari che volevano «rompere le reni al FPR» e non nascondevano la loro solidarietà per i loro vechi compagni d’armi Hutu, dei «francofoni» che essi avevano istruito ed equipaggiato, il primi ministro Eduard Balladur decise di limitare le ambizioni dei militari dell’operazione «Turquoise». Costoro, obbligati a prendere contatto con il FPR, dovettero accontentarsi di creare nell’ovest del Paese una «zona umanitaria sicura» verso la quale conversero tutti i gruppoi estremisti e il governo interinale, che inquadravano con loro milioni di civili hutu.

In questa zona i francesi furono impotenti nell’impedire numerosi massacri, ma rifiutarono di disarmare miliziani e militari, si guardarono bene dall’arrestare i responsabili del genocidio che in seguito si rifugiarono nello Zaire e non vietarono le trasmissioni grondanti odio della Radio delle mille colline. I francesi, che avevano portato con loro elicotteri da combattimento, aerei Jaguar e Mirage, un centinaio di blindati e mortai, ma troppo pochi autocarri e medicinali, nulla poterono di fronte all’epidemia di colera che scoppiò a Goma e causò la morte di più di 40.000 rifugiati hutu.

A questo punto la stampa, attirata sul posto dalla presenza francese e la facilità delle comunicazioni e finalmente sensibilizzata alla tragedia ruandese, si presentò all’appuntamento, insieme alle organizzazioni umanitarie. Il nuovo potere si installò a Kigali in un vero e proprio deserto: i qudri dello Stato avevano preso la fuga, portando seco incartamenti, veicoli e depositi bancari, 300.000 orfani erravano attraverso il Paese. Ma la comunità internazionale recalcitrava davanti all’intervento e all’aiuto da dare al FPR, mentre gli uni denunciavano il «doppio genocidio» gli altri esigevano che il regime desse «pegni di riconciliazione», quando i corpi giacevano ancora insepolti nei fossati.

In realtà, malgrado le sue buone relazioni con gli Stati Uniti e il Regno Unito, il FPR pagava per il fatto di aver conquistato il potere in un aese francofono senza aver ottenuto l’assenso delle ex potenze coloniali. La presenza nei campi del Kivu di più di due milioni di rifugiati Hutu, inquadrati dagli autori del genocidio e nutriti dall’aiuto umanitario, avrebbe destabilizzato durevolmente la regione. Nell’ottobre 1996, dopo aver chiesto invano all’Alto commissariato per i rifugiati (HCR) e alle altre agenzie dell’ONU di allontanare dalla frontiera del suo Paese la minaccia rappresentata da quei campi, Paul Kagame, che dirigeva il FPR, lanciò un’offensiva destinata a costringere al ritorno i rifugiati ruandesi e a disperdere gli altri attraverso l’immenso Zaire (divenuto in seguito Repubblica democratica del Congo).

La comunità internazionale, impotente a prevenire un genocidio pianificato e annunciato, assisteva a un nuovo tornante della tragedia: dopo sette mesi il maresciallo Joseph Désiré Mobutu, sostenuto fino alla fine dai francesi, veniva rovesciato da Laurent Désiré Cabila e dai suoi alleati ruandesi e ugandesi. Finché, nel 1998, scoppia una nuova guerra, perché i Ruandesi erano costantemente alla caccia degli Interhamwe in fuga e al passaggio si abbandonavano, insieme ai loro alleati ugandesi, al saccheggio delle risorse del Congo. Al milione di morti del genocidio si sarebbero aggiunti più di tre milioni di vittime congolesi, anch’esse dimenticate, prese in trappola dalla guerra, dal saccheggio delle risorse naturali e da una sorda lotta fra francofoni e anglofoni per il controllo del cuore dell’Africa.

Il presidente ruandese Paul Kagame il 13 febbraio ha lanciato un appello ai dirigenti africani riuniti a Kigali per partecipare al summit dedicato al Nuovo partenariato per lo sviluppo dell’Africa (Nepad), invitandoli a lottare contro il «malgoverno - cattiva governance», una delle cause, a suo avviso, del genocidio del 1994 in Ruanda. Si potrebbero aggiungere le responsabilità di Paesi e Istituzioni - Nazioni Unite, Stati Uniti, Francia, Belgio - che, a quell’epoca, non hanno saputo reagire, malgrado le richieste di aiuto venute da questo Paese. Colette Braekman

-  (1) Lynda Melvern, A people betrayed. The role of the West in the Rwanda’s Genocide, Zed books, Londres, 2000, e Gérard Prunier, Histoire d’un génocide, Dagorno, Paris, 1997.
-  (2) Romeo Dallaire, J’ai serré la main du Diable, la faillite de l’humanité au Rwanda, La Libre Expression, Montréal, 2003.
-  (3) Allison Desforges, « Aucun témoin ne doit survivre, génocide au Rwanda », rapporto redattoper Human Rights Watch, Fédération internationale des droits de l’homme, Paris, 1999.

-  LE MONDE DIPLOMATIQUE | mars 2004 | Page 20



Sull’argomento, cercando la parola "Ruanda", si trovano numerosi articoli in:

-  http://www.ildialogo.org/estero/index31122005.htm



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