Italia

MAFIA E "PROFESSIONISTI DELL’ANTIMAFIA". Leonardo Sciascia, un quaquaraquà?! Sì, non rinnego nulla. Sono stato io - a dirlo, Francesco Petruzzella.

domenica 7 gennaio 2007.
 

Dopo 20 anni si rivela l’autore dell’accusa: Francesco Petruzzella, allora studente, esce allo scoperto e assicura di non essere pentito

"Sono stato io a chiamare Sciascia un quaquaraquà"

di ATTILIO BOLZONI *

ERA iscritto a Giurisprudenza e faceva pratica con le parti civili al maxi processo. È stato uno dei fondatori del Coordinamento antimafia, nel 1987 aveva ventiquattro anni. "Sono stato io a scrivere quel comunicato su Sciascia e non lo rinnego, quella vicenda non si può capire se non la trasportiamo nella terribile Palermo di quel tempo", racconta Francesco Petruzzella.

Vent’anni dopo si rivela e ricostruisce cosa accadde in Sicilia quando lo scrittore di Racalmuto lanciò, violentissima sulle pagine del Corriere, la polemica sui Professionisti dell’Antimafia.

Oggi il ragazzo che diede del "quaraquaqua" a Leonardo Sciascia è un impiegato dello Stato "che non ha fatto carriera con l’antimafia", fa volontariato con i bambini a rischio dei quartieri popolari di Palermo, è amico di molti magistrati della Procura, pubblica articoli e saggi su riviste siciliane, raccoglie scritti su Cosa Nostra e dintorni. In questa intervista ci spiega cosa lo spinse, in quel lontano gennaio dell’87, a "collocare ai margini della società civile" lo scrittore che con i suoi bellissimi libri aveva fatto conoscere la mafia a tutti gli italiani.

Lo rifarebbe? Riscriverebbe ancora quel comunicato?

"Non mi pento di nulla, certo la mia fu una reazione rabbiosa ma la crescita umana e culturale di un’intera generazione siciliana è stata scandita dai morti, dai funerali, dal terrore. Quando lessi quella mattina del 10 gennaio 1987 l’articolo di Sciascia, rimasi pietrificato. Perché l’ha fatto?, mi chiesi. Perché Sciascia non si è limitato a descrivere uno scenario ma ha invece indicato due uomini - Orlando il sindaco del grande cambiamento di Palermo e Borsellino un magistrato integerrimo - come esempi dell’antimafia che fa carriera?".

E fu a quel punto che decise di scrivere il famoso comunicato, subito la lettura dell’articolo?

"No, per un giorno intero non ci fu una sola reazione. Cercai di procurarmi in libreria "La mafia durante il fascismo", il saggio di Cristopher Duggan dal quale Sciascia aveva preso spunto per la sua riflessione. A Palermo non lo trovai. La mattina dopo il Giornale di Sicilia titolò in prima pagina: ’Sciascia accusa: l’Antimafia serve pure a fare carriera’. Chiamai al telefono Giovanni Ferro, che era il segretario dell’Arci. Poi chiamai un paio di amici del Coordinamento, mi chiusi nel mio studio e cominciai a battere sui tasti della macchina per scrivere. Vennero fuori quelle due cartelle. Telefonai a Carmine Mancuso, il presidente del Coordinamento antimafia. Gli feci avere la mia lettera, la lesse e disse che andava bene. Dopo qualche ora la diffuse ai giornali e e alle agenzie di stampa come la posizione ufficiale del Coordinamento. Solo dopo la pubblicazione di quella nota, solo in quel momento - era lunedì 12 gennaio - esplose il putiferio. Prima di allora, tutti erano stati zitti, nessuno aveva sentito la necessità di rispondere qualcosa a Sciascia".

E poi invece intervennero tutti, poi la polemica si trascinò per anni..

"Poi i nostri nomi furono subito pubblicati uno per uno sul giornale locale. Tutti quelli del consiglio direttivo. Il titolo era: ’Chi sono gli accusatori: una tessera rossa con la piovra nera’. Un segnale brutto per Palermo, fare i nomi pubblicamente di chi stava contro la mafia. Eravamo pochi, eravamo soli soprattutto. In quel periodo avevamo paura anche di riunirci nelle nostre case, il clima di quegli anni era infame. C’erano morti dappertutto".

Quanti erano gli iscritti al Coordinamento antimafia?

"All’inizio una ventina, poi circa trecento. C’era Carmine Mancuso, il figlio del maresciallo di pubblica sicurezza ucciso insieme al giudice Cesare Terranova. C’era Angela Lo Canto, un’impiegata delle esattorie. C’erano alcuni poliziotti, molti studenti, qualche vecchio militante del Pci. Andavamo in giro per le scuole a parlare di mafia quando nessuno ne parlava, incontravamo magistrati come Falcone e Borsellino, stavamo cercando di non sprofondare in quella palude che era la Palermo degli Anni Ottanta".

Ma quell’attacco così duro contro Sciascia perché? Solo la rabbia di un momento, solo una reazione a caldo a quella che vi era sembrata - a torto o a ragione - una provocazione troppo pesante in una città dove di mafia si moriva ogni giorno?

"La mia famiglia è di Racalmuto, il paese di Sciascia. E io Sciascia l’ho sempre amato, come d’altronde tutti i siciliani. Ma quell’articolo ha rappresentato uno spartiacque nella vicenda palermitana. Mentre noi cercavamo di ribellarci allo strapotere della mafia e andavamo in piazza a gridare ’Palermo è nostra e non di Cosa Nostra’, gli intelletuali siciliani se ne stavano in silenzio, non si schieravamo, facevano finta di non vedere e di non sentire in una città dove era impossibile non vedere e non sentire. Poi Sciascia addirittura parlò dei rischi dell’antimafia, non dei rischi della mafia. E fece quei due nomi, Orlando e Borsellino. Due personaggi che stavano provando per la prima volta a spacccare un sistema di potere mafioso. In quel periodo Sciascia era anche molto legato ai radicali. avevano preso posizioni estreme sulla giustizia. Si era iscitto al Partito radicale anche uno come il boss Piromalli, dal carcere dell’Ucciardone di Palermo arrivavano segnali di consenso e simpatia per la battaglia radicale per il giusto processo.. Ecco, Sciascia avrebbe dovuto meglio calibrare le sue parole. E soprattutto non fare quegli esempi così infelici".

Ma in fondo - esempi a parte - in fondo non aveva torto, il tempo per certi versi gli ha dato ragione. Anche la vedova di Paolo Borsellino dopo vent’anni, qualche giorno fa ci ha detto che "Leonardo Sciascia aveva capito tutto prima degli altri"..

"Sì è vero, certuni hanno fatto carriera con l’antimafia. Ma allora - insisto sulla Palermo di allora - di quella riflessione non ne avevamo bisogno. Al contrario avremmo avuto bisogno di un sostegno, di una solidarietà da parte di intellettuali come Sciascia che non è mai arrivata. Il Coordinamento antimafia era nato con l’obbiettivo di costitursi parte civile al maxi processo in rappresentanza dei cittadini. Ci ritrovammo soli. Dopo l’articolo sui Professionisti dell’Antimafia ancora più soli di prima".

Dopo vent’anni lei rimane convinto di avere ragione, di non avere sbagliato nulla con quel comunicato..

"Dopo vent’anni penso ancora che da Leonardo Sciascia mi sarei aspettato un altro gesto, la sua voce alta si sarebbe dovuta far sentire per aiutare i siciliani onesti a liberarsi dalla mafia. Poche settimane prima dell’articolo sui Professionisti dell’Antimafia, proprio Repubblica dedicava una pagina a Paolo Borsellino che denunciava la situazione delle indagini antimafia, il vuoto totale. In quei mesi si aspettava la sentenza del maxi processo, c’erano migliaia e migliaia di siciliani coinvolti, interessati a fermare quel lavoro che Falcone e Borsellino e qualche altro magistrato avevano faticosamente portato avanti. Palermo era avvolta nella paura. E Sciascia, il nostro migliore scrittore, il raffinato intellettuale, se la prendeva proprio con l’antimafia. No, dopo vent’anni non rinnego nulla".

* la Repubblica, 7 gennaio 2007


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