Un saggio di Rovatti ci mostra perché non possiamo liquidare quelle teorie
Metodo e forza del pensiero debole
Una delle tesi di Freud è che ciascuno viva la realtà attraverso gli occhiali speciali del suo fantasma inconscio che la colora "surrealisticamente"
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 05.01.2012)
Quando gli psicoanalisti discutono animosamente tra loro tendono a farlo a colpi di diagnosi. L’avversario non viene solo contestato teoricamente ma viene innanzitutto psichiatrizzato come se fosse un paziente. Nei dibattiti filosofici si discute a colpi di "tesi". L’ultimo caso è quello della critica del "nuovo realismo" nei confronti del "pensiero debole". La colpa del pensiero debole come sottoprodotto dell’ermeneutica sarebbe quella di cancellare il peso oggettivo della realtà esterna, di introdurre al posto di questo peso il carattere aleatorio delle interpretazioni che finisce per fare evaporare la nozione stessa di realtà. Sino ad individuare in questa perdita del riferimento stabile alla Realtà la giustificazione ontologica dei sofismi interpretativi di ogni genere.
In un brillante libretto titolato Inattualità del pensiero debole (Forum, Udine) Pier Aldo Rovatti, che condivide con Gianni Vattimo la paternità del pensiero debole oltre alla cura del volume che nel 1983 ne ha sancito la nascita, prende posizione decisa in difesa della sua creatura.
Due le sue argomentazioni principali. La prima: nessuno ha mai sognato di contestare che se piove piove - era uno degli argomenti "forti" contro i debolisti -, ma nessuno può negare che a) non esiste un fatto in sé che non sia preso in una rete stratificata di significazioni (la pioggia può essere benvenuta o maledetta, può dare luogo a valutazioni meteorologiche o a poesie, ecc.) e, soprattutto, che b) il fatto in sé della pioggia apre inevitabilmente sul "vissuto" singolare di chi lo vive e questo vissuto, che pure è un fatto, non è mai semplice come un fatto! Nondimeno il riferimento di Rovatti a questa dimensione non anima chissà quale irrazionalismo, ma agisce come contrappeso critico nei confronti di quei saperi forti che vorrebbero prescindere dalla dimensione affettiva e interpretativa del soggetto e che invocano la Verità, la Vita, la Realtà, la Storia e il Soggetto stesso come assoluti dogmatici.
Mi chiedo, en passant, quanto la psicoanalisi potrebbe apportare a questo dibattito sull’esistenza nuda e cruda della realtà opposta alla natura artefatta delle interpretazioni. Una scarpa è una scarpa, è un fatto, ma per qualcuno - per esempio per un feticista - non è mai solo una scarpa ma diviene un idolo, un talismano, la condizione stessa che rende possibile il desiderio erotico.
E non si tratta affatto, come sarebbe stolto credere, di situazioni patologiche. Anzi, la psicoanalisi non ci obbliga forse a coniugare il tema dell’esistenza della realtà esterna con quello, ricchissimo di implicazioni etiche, della cosiddetta Normalità? Una delle tesi maggiori di Freud è che ciascuno viva la cosiddetta realtà attraverso gli occhiali speciali del suo fantasma inconscio che la colora "surrealisticamente", ovvero senza alcuna preoccupazione realistica. Ma quando Rovatti evoca la complessità stratificata del vissuto non ha in mente innanzitutto la psicoanalisi, ma una nozione di "esperienza" che eredita da Husserl attraverso la mediazione del suo maestro Enzo Paci.
La seconda argomentazione in difesa del pensiero debole avanzata da Rovatti riguarda invece l’importanza che sin dalla sua origine i debolisti hanno assegnato all’intreccio tra realtà e dispositivi di potere.
«L’appello alla Verità e alla Realtà» - scrive Rovatti - «è un appello astratto» se non tiene conto dell’incidenza dei dispositivi del potere. La sfida filosofica del pensiero debole è nei confronti del dogmatismo concettuale che accompagna ogni pensiero dell’assoluto. Per questo Enzo Paci identificava la lotta contro la barbarie nella lotta della ragione filosofica contro ogni pensiero che escludeva la singolarità critica.
Anche nel nome della realtà - una certa psicoanalisi non ha fatto altro che celebrare il culto del "principio di realtà" e ha generato spesso mostri - si possono invocare gli spettri del conformismo e quelli del sacrificio e del terrore. Il riferimento a Foucault è su questo punto cruciale perché riconduce la questione ontologica della verità a quella del potere pensando la storia stessa - come ci ricorda Rovatti - come un "gioco della verità" attraverso i dispositivi organizzati dal potere. Anche tutto l’interesse che nell’ultimo decennio Rovatti ha manifestato verso l’opera di Franco Basaglia e la dimensione della follia si muove proprio in questa direzione: la follia non è un fatto nudo e crudo, non è mai un’evidenza oggettiva - non è una malattia del cervello -, ma è il risultato di pratiche violente di esclusione, di una stigmatizzazione che è innanzitutto storica e sociale.
Questo libretto testimonia come il pensiero debole lungi dall’essere un capitolo minore della storia più recente dell’ermeneutica o del post-modernismo, sia innanzitutto una lezione di metodo: la lotta contro la barbarie è innanzitutto lotta contro la violenza intrinseca nelle fissazioni oggettivistiche della Verità (e della Normalità).
NOTE (ulteriori) SUL TEMA:
UNA QUESTIONE DI ECO. L’orecchio disturbato degli intellettuali italiani
Federico La Sala
L’inattualità del pensiero debole
di Pier Aldo Rovatti (Il Piccolo, 06 dicembre 2011, pagina 41)
Di Grazia: Il recente
dibattito tra debolismo e neorealismo non è tanto interessante per i suoi contenuti intrinseci, ma per
il fatto che rappresenta una spia di un clima e forse anche di un disagio che si estende al di là delle
diverse prospettive filosofiche che si fronteggiano. Ci si richiama soprattutto alla necessità di fare
un passo indietro e di ritrovare un punto di appoggio più sicuro nei fatti. Ora la filosofia del
Novecento ha mostrato abbastanza chiaramente, credo, che l’idea di verità non può più essere
declinata né solo nell’ambito di un tentativo di coerenza logica interna al discorso, né tanto meno
solo all’interno di un’idea razionalistica che prevede la possibilità di adeguazione dell’idea alla
realtà. Ci si deve quindi fare una domanda su questo venir meno di posizioni che ormai apparivano
acquisite.
Ecco, vorrei allora che ci soffermassimo su quella che appare una intrinseca ambiguità e
problematicità di una posizione che fluidifica e temporalizza la verità, che assume il concetto di
verità come una risultante di forze in perenne contrasto; una posizione che tenta di fare a meno
dell’immaginario essenzialistico agganciato alla parola Verità.
In definitiva, fino a che punto un
popolo, un soggetto, una comunità sono in grado di sostenere la visione abissale aperta dalla
prospettiva di un’assenza di punti di riferimenti certi? Sembra, per esempio, che non sia affatto
scontato un utilizzo “di sinistra” o progressivo o emancipativo dell’heideggerismo. Credo sia
importante aprire un discorso su questa ambivalenza, non per risolverla, ma per delimitarne il
campo e capire se può aver ragione Maurizio Ferraris che ha visto i testi debolisti tra i libri in uso
dall’avvocato Ghedini.
Rovatti: «Sono d’accordo. La questione non è per nulla semplice come si
tende invece a presentarla. Non è così semplice descrivere i motivi per cui nasce, più di trent’anni
fa, qualcosa che prende il nome di ‘pensiero debole’ e i cui effetti si sono variamente disseminati
nella cultura critica non solo italiana. Bisognerà pure, un giorno o l’altro, che qualcuno ricostruisca
seriamente questa genealogia (un inizio si può trovare nel libro “Elogio del pudore” che ho
pubblicato, presso Feltrinelli, con Alessandro Dal Lago nel 1989, cioè abbastanza a ridosso
dell’ormai famoso reading del 1983), e magari rifletta sulla storia di una rivista come “aut aut” che
da allora ha fatto del pensiero debole il suo stile di lavoro.
Ci sarebbero da ricostruire tanti aspetti di
questa vicenda, a partire dai percorsi di Gianni Vattimo e dal mio stesso, che non sono così
omologabili ma che non hanno mai smesso di avere un’ispirazione comune... Ma non è qui il
luogo.
Perciò mi limito
a osservare che tra la reazione a caldo, che il pensiero debole produsse all’inizio, e il ritorno di
fiamma cui adesso assistiamo per opera di uno dei suoi promotori, c’è un vistoso tratto che si ripete,
il rifiuto: un rifiuto frettoloso. Allora si ebbe un’immediata scomunica, aureolata di ironia pungente,
come se, denunciando la violenza del pensiero filosofico (ma non solo filosofico), avessimo
commesso un delitto di lesa maestà che andava condannato prima ancora che compreso.
Oggi, in
nome del realismo, un medesimo gesto di rifiuto viene ripetuto, con altrettanta ironia negatrice,
caricando il pensiero debole di innumerevoli nequizie (in un’associazione a delinquere con il
cosiddetto postmodernismo di cui si celebra addirittura la morte). Lo si ritiene perfino responsabile,
con il suo supposto relativismo, della stagione berlusconiana che ha messo in ginocchio il nostro
Paese e che si è tradotta in quella cultura cinica e spettacolarizzata che ben conosciamo perché ci
siamo dentro fino al collo e chissà per quanto tempo. Una nuova ‘barbarie’, come la si è chiamata,
in cui la menzogna è stata “sdoganata” e la verità è un fievole ricordo.
Già: ma “quale” verità
vogliamo resuscitare? Questo è il nocciolo della questione che riguarda tutti, e io credo che il
pensiero debole resti un’essenziale cassetta di attrezzi (molto poco utilizzata) per tentare di
affrontarla senza menare colpi d’ascia a vuoto.
Senza presumere di possedere nella propria tasca la polverina magica di una verità lampante che basta spargere semplicemente su una situazione che
riguarda anche (eccome!) i presunti spargitori di questa presunta verità. Ho letto con un sentimento
di grande amarezza ciò che è stato scritto in proposito (per esempio sulla rivista “MicroMega”):
come l’antico allievo bastona il maestro irridendolo, e come questo maestro (cioè Vattimo) si
prende i colpi con esagerata pietas e quasi offrendosi al parricidio con il discutibile elogio di un
comunismo alquanto velleitario.
Se dio vuole, ho la fortuna di essere sempre stato al di fuori dalle
sirene della religione e dai contorcimenti del cattolicesimo (il che non significa che non mi renda
conto del potere culturale della Chiesa e del gioco di verità che essa conduce, talora imbracciandolo
come un fucile), e perciò propongo di girare pagina e di andare alle cose.
Vengo dunque a quel nodo
che tu definisci “ambiguità” e posso risponderti con chiarezza che tale nodo è importante e reale,
che ci troviamo oggi in una condizione paradossale in cui - come dice alla fine Foucault - sembra
che abbiamo a disposizione solo un “poco” di verità da coniugare con un “poco” di vita. Se Verità e
Vita diventano obiettivi maiuscoli, se ci illudiamo di possederla la Verità (o vogliamo possederla
tutta), e se ci illudiamo di poter possedere una Vita piena, senza buchi né lacune, ci riduciamo
all’impotenza. Peggio, scavalchiamo l’ostacolo e ci collochiamo dall’altra parte, dalla parte di chi
esercita il potere del pensiero, autoattribuendoselo, contro chi questo potere non ce l’ha e forse non
vuole averlo.
Allora lascerei perdere le grandi parole, come Nichilismo o Metafisica o la stessa
parola Verità: ho imparato a dubitarne, a scorgere in esse il trucco e l’implicita violenza, e penso che
a un’etica massima - che nasconde sempre un qualche principio di autorità, o solo un pacchetto di
interessi e di privilegi da affermare - vada contrapposta un’etica minima, più pudica, più aperta agli
eventi concreti, che cerchi di ritardare il più possibile l’effetto unificante della filosofia. Non nego
l’esigenza della Verità, ma dobbiamo tentare di metterla tra parentesi e di ritardarla, se non
vogliamo essere parlati e alla lettera guidati da essa (Marx usava il termine “sussunzione”
riferendolo alle forme di produzione, ma c’è anche una sussunzione intellettuale).
Questo è
l’insegnamento di vita e di consapevolezza critica che ho ricavato dal pensiero debole (e che ho
cercato, per quel che ho potuto, di immettervi). Quanto alla “cultura” dentro la quale siamo
sprofondati sempre di più nell’ultimo decennio, uno dei tratti che la contrassegnano con evidenza è
il fatto che essa ha espulso da se stessa ogni atteggiamento critico. Certo, è diventata una poderosa
fabbrica di falsità, ma cosa caratterizza questo suo modo di produrre? Direi, un appello costante al
cinismo dell’interesse individuale e alla “virtù” della furbizia».
Schiene dritte
L’eretico Martinetti, italiano per caso
Fu uno dei dodici professori che non giurarono al fascismo. E allo studente Lelio Basso disse: “Qui il maestro è Lei”
di Raffaele Liucci (il Fatto, 06.01.2012)
PIERO MARTINETTI (1872-1943) fu tra i migliori italiani del Novecento. Professore di filosofia teoretica a Milano, formò generazioni di allievi (ma non di discepoli), da Guido Morpurgo-Tagliabue a Eugenio Colorni. Antifascista, fu uno dei 12 docenti (su oltre 1200!) che nel 1931 si rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà al fascismo, perdendo così la cattedra. Cultore della filosofia come forma suprema dell’ascesi religiosa, non accettò mai la prepotenza della Chiesa, «la quale, sotto il pretesto del rispetto alla religione, mira a rendere impossibile qualunque altro pensiero». Convinto, sulla scia del prediletto Schopenhauer, che uomini e animali fossero uniti da una parentela universale, elaborò i primi barlumi di un pensiero animalista ante litteram, assai critico verso la vivisezione. Estraneo alle «scuole», alle conventicole e alle mode storicistiche di casa nostra, spesso ripeteva agli amici: «Io sono un cittadino europeo, nato per combinazione in Italia».
Per cogliere la tempra del suo carattere, basti un aneddoto. Quando il socialista Lelio Basso, condannato al confino di Ponza nel 1928, si presentò scortato dagli agenti all’esame di filosofia, Martinetti cominciò a interrogarlo, ma presto lo interruppe più o meno con queste parole: «Io non ho alcun diritto d’interrogarla sull’etica kantiana: resistendo a un regime oppressivo Lei ha dimostrato di conoscerla molto bene. Qui il maestro è Lei. Vada, trenta e lode».
Il suo epistolario, ora disponibile grazie alle amorevoli cure di Pier Giorgio Zunino, ci proietta nella cittadella interiore di un alieno, rispetto alla melassa italiota. Prendiamo il giuramento imposto dal regime agli accademici. Fior di antifascisti, da Marchesi a Calamandrei, si adeguarono. Lo abbiamo fatto, si giustificheranno nel dopoguerra, per impedire che a educare le nuove generazioni fossero soltanto gli scalzacani del duce. Può essere. Ma quale differenza con le scarne parole indirizzate da Martinetti al ministro della pubblica istruzione Balbino Giuliano: «Sono addolorato di non poter rispondere con un atto di obbedienza. Per prestare il giuramento richiesto dovrei tenere in nessun conto o la lealtà del giuramento o le mie convinzioni morali più profonde: due cose per me ugualmente sacre». Lo splendore dell’intransigenza.
Non a caso, sono soprattutto due i «chiarissimi professori» che escono ammaccati da questo carteggio. Il primo è padre Agostino Gemelli, il teorico della «riconquista cattolica» all’ombra dei labari littori, un ragno velenoso che farà di tutto per imprigionare nella propria tela il pensiero eretico di Martinetti. Il secondo è Giovanni Gentile, archetipo dell’accademico arrampicatore e manovriero, «servo a tutti», rovesciando un celebre motto di Kant. Rifulge, invece, Ernesto Buonaiuti, straordinaria figura di sacerdote modernista, perseguitato senza tregua dai pretastri in camicia nera.
Le pagine più affascinanti del carteggio sono forse quelle dell’ultimo decennio, dal ’32 in poi, quando Martinetti, costretto ad abbandonare l’università, si ritirò nel suo eremo piemontese di Castellamonte. Una vita solitaria e spartana, ma operosissima, mentre i suoi libri erano sequestrati dalla prefettura e messi all’indice dal Sant’Ufficio. Pochi i corrispondenti epistolari, fra i quali spicca Nina Ruffini, nipote del giurista Francesco, un altro dei professori che non giurarono. Nel crepuscolo della sua vita, Martinetti verga alcuni delle più perspicue riflessioni sulla natura del potere totalitario sviluppate in quegli anni.
Un’analisi che non lascia scampo. Un mondo in cui le vittime amano «le dittature, l’ordine dispotico, l’uguaglianza nel servaggio». L’Italia ridotta a un «branco di schiavi», cosicché i «pochi spiriti isolati appariscono come dei nemici del bene pubblico». E tuttavia, anche se «le tenebre prevalgono sempre, la luce non si spegne mai completamente». Per questo pubblicare libri resta «l’unica forma di bene che oggi sia lecito fare».
Morì il 23 marzo del ’43, senza fare in tempo a gioire per il crollo del regime.
Piero Martinetti, Lettere (1919-1942), a cura di Pier Giorgio Zunino con la collaborazione di Giulia Beltrametti, Olschki, pagg. LXXXI-264, • 36,00