Eu-ropa

"CERVELLI" ITALIANI ALL’ESTERO: A LONDRA, GENIO SI DICE IN ITALIANO. Reportage di Marcello Sorgi - a c. di Federico La Sala

sabato 20 gennaio 2007.
 

Genio a Londra si dice in italiano

Riuniti a Westminster i "cervelli" che hanno lasciato il nostro Paese

di MARCELLO SORGI *

LONDRA. L’appuntamento è per lunedì mattina, nella sala della vecchia chiesa metodista di Westminster. Ed è sicuro, già adesso, che i posti saranno esauriti. Uno dice: cervelli italiani all’estero, ma quanti potranno essere: dieci, venti, cinquanta? Invece si scopre che nel solo Regno Unito, e in gran parte a Londra e dintorni, ci sono settecento italiani, giovani e di successo, che fanno lustro a un paese come il nostro, ma nel quale, quasi certamente, non potranno mai tornare a lavorare.

L’iniziativa di questo censimento, che culminerà nell’incontro di Westminster, è venuta dall’ambasciatore italiano a Londra, Giancarlo Aragona, da sempre attento alle esigenze di una comunità, come quella italiana, che nella sola capitale inglese supera le centomila unità. «Con questi numeri, parlare di rientro di cervelli è delicato - avverte l’addetto scientifico dell’ambasciata, professor Salvator Roberto Amendolia -, ma conoscere questi nostri connazionali, incontrarli, sentire direttamente quali sono le loro esigenze e i loro progetti, se non altro segna un punto di partenza».

Si somigliano, le storie di questi trenta-quarantenni, molti dei quali hanno ormai un look anglofilo, giacche di tweed e pantaloni di velluto colorato. All’inizio c’è sempre una buona laurea, l’invito del proprio relatore a fare un’esperienza fuori, una borsa di studio e l’idea di un viaggio, magari un po’ più lungo di una vacanza. Poi, arrivati all’estero, la scoperta di un diverso modo di fare ricerca, la sorpresa di sentirsi adeguati, l’ambizione, il successo che o arriva o ti cacciano via.

«A me è andata proprio così - racconta il professor Luigi Gnudi, 43 anni, di Parma, diabetologo, da 15 anni da dieci anni a Londra dopo un’esperienza in Usa - Dopo la specializzazione in endocrinologia a Padova, il mio maestro mi ha proposto di andare a Boston. Lì, con mia moglie, siamo rimasti quattro anni. Tornati in Italia, all’università stavano per assumere come ricercatore uno che aveva dieci anni più di me. Avrei dovuto aspettarne altri dieci: così, dopo un po’ di mesi come precario, tra guardie notturne, borse di studio e paghe a gettoni, quando un mio collega mi ha detto che c’era una possibilità a Londra non ci ho pensato due volte».

Intervistato, selezionato tra concorrenti di diverse nazionalità e assunto, Gnudi oggi è primario di un reparto al Guy’s Hospital del Kings college, uno dei quattro maggiori atenei londinesi, l’anno prossimo diventerà ordinario. Tra un convegno in America e uno in Sudafrica, sul rientro a casa ogni tanto ci riflette, per dirsi subito dopo: «Ho moglie e due figli, una casa di proprietà, un buon incarico e uno stipendio superiore a quello di tanti miei colleghi di corso. In Italia chi mi dà un posto così?».

«Io infatti a tornare non ci penso proprio - obietta il professor Vincenzo Maurino, napoletano, 41 anni, primario al Moorfields eye Hospital, il più grande ospedale oculistico del mondo -. In Italia ci vado ogni tanto, per qualche consulenza o per convegni scientifici, ma credo di esser fortunato a trovarmi qui. Quasi quasi ringrazio il collega raccomandato che, senza alcun titolo, al concorso a cui mi ero presentato mi ha fregato il posto!».

Se si scende un po’ d’età, e s’approda a una fascia in cui magari il successo è alle viste, ma non è ancora arrivato, le opinioni cambiano. Triestina, 35 anni, ingegnere elettronico e ricercatrice in materia di nanotecnologie, Cristina Bertoni da cinque anni e mezzo lavora all’Università di Cranfield, quaranta minuti da Londra, un piccolo ateneo con tremila studenti e professori di cento diverse nazionalità del mondo. Spiega: «Sono arrivata con una borsa di studio europea finanziata, tra gli altri, da Fiat e Magneti Marelli. Sono stata confermata dopo un primo ciclo di tre anni. Adesso avrei la possibilità di tornare ed entrare al Centro ricerche dell’Elettrolux di Pordenone: anche se l’industria è una cosa diversa dall’università, credo che accetterò».

Realista, Silvia Marson, 34 anni, chimica di Pordenone, anche lei a Cranfield come ricercatrice nel campo delle apparecchiature diagnostiche, conferma: «Quando vai all’estero fai una scelta di vita, un investimento complessivo, un guadagno che non è solo di soldi. L’importante, se pensi di tornare, è costruire il proprio percorso per poi potersi riciclare al meglio, e va da sé, non solo in un ambito difficile come quello universitario».

Al dunque, il problema non è tanto quello del rientro, ma il timore, il dubbio, troppo spesso la certezza, della porta chiusa alle proprie spalle, della mancanza di una scelta: «Sapere che se si vuol tornare non si può, o che negli atenei italiani al massimo puoi trovare incarichi a termine», sintetizza la messinese Simona Milio, 31 anni, dal 2000 alla prestigiosa London School of economics, come ricercatrice in materia di autonomie regionali nell’istituto in cui di recente è andato a parlare Napolitano.

«Un ritorno di massa è impossibile - spiega Amendolia -. Ma dai dati in nostro possesso risulta che il sistema inglese giudica per il settanta per cento superiori come formazione i laureati italiani che approdano nel Regno Unito. Ne facciamo pochi insomma, ma molto buoni, soggetti ben preparati, che da noi non trovano prospettive e diventano risorse in regalo per altri paesi».

Che le cose possano cambiare, anzi che in parte lo siano già, e nuove leggi, almeno sulla carta, siano nate per agevolare il cosiddetto «rientro dei cervelli», gli italiani di Londra lo sanno, ma non ci credono molto. «Ogni tanto ricevo una mail, ma si capisce subito che si tratta di entrare in un reticolato burocratico, senza venirne a capo» sostiene Gnudi. C’è chi giura che l’ex ministro Moratti, in uno di questi appuntamenti con i ricercatori italiani all’estero, alla fine ammise di aver le mani legate dall’impenetrabile resistenza baronale del mondo accademico italiano», conclude la Marson.

Così il sottosegretario Luciano Modica, un matematico e tecnico di buona volontà inviato da Mussi a Londra come avamposto del ministero dell’Università, è avvertito: nella vecchia chiesa di Westminster lo attende la carica, inarrestabile, di ben settecento cervelli.

* La Stampa, 20/1/2007 (8:44)


AMBASCIATA D’ITALIA DI LONDRA. PER L’INCONTRO: http://www.gginternet1.co.uk/eclipse/italianembassy/


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