Premessa
SE FOSSI PAPA .... SUBITO UN NUOVO CONCILIO !!!
di Federico La Sala
Una nota sull’incontro di Ciampi e Ratzinger *
Se fossi nei panni di Papa Benedetto XVI e ... avessi ancora un po’ di dignità di uomo, di studioso, di politico, e di cristiano - oltre che di cattolico, dopo l’incontro di ieri con il Presidente della Repubblica Italiana, di fronte all’elevato ed ecumenico discorso di Carlo Azeglio Ciampi (lodevolmente, L’Unità di oggi, 25.06.2005, a p. 25, riporta sia il discorso del Presidente Ciampi sia di Papa Benedetto XVI), considerato il vicolo cieco in cui ho portato tutta la ’cristianità’ (e rischio di portare la stessa Italia), prenderei atto dei miei errori e della mia totale incapacità ad essere all’altezza del compito di "Vescovo di Roma e Pastore della Chiesa universale", chiederei onorevolmente scusa Urbe et Orbi, e ....convocherei immediatamente un nuovo Concilio!!!
* Il Dialogo/Filosofia, Sabato, 25 giugno 2005
PER I DISCORSI DI BENEDETTO XVI E CARLO A. CIAMPI, SI CFR. I FILE ALLEGATI ALLO STESSO TESTO, NEL SITO "EDDYBURG".
L’Italia ferita, come curare l’albero malato della politica?
di Bruno Forte (Il Sole-24 Ore, 10 aprile 2011
«Su quale bilancia si pesa la vita di un uomo? Secondo quale ordine si tirano le somme, da cui risultano il guadagno e la perdita di questa vita, e appare chiaro il suo senso ultimo?» Con queste parole, il 4 novembre 1945, Romano Guardini introduceva a Tubinga la commemorazione dei martiri della Rosa Bianca, gli studenti universitari fucilati su ordine del Tribunale del Reich per aver diffuso volantini in cui denunciavano con verità e coraggio la follia della guerra e le menzogne di Hitler (La rosa bianca, Morcelliana, Brescia 1994, 34).
Guardini rispondeva alla domanda individuando un triplice criterio per misurare una vita: l’ordine delle cose materiali e dunque dell’onestà, del rispetto e della prudenza nel loro uso; quello dell’azione e dell’opera, e dunque del coraggio, della fortezza e della perseveranza nel perseguire gli scopi; e, infine, l’ordine dei beni spirituali e dunque dell’amore e della fede, del sacrificio e del dono di sé. I giovani della Rosa Bianca - ispirandosi al Vangelo come norma di vita - avevano dato senso e valore alla loro esistenza secondo questo triplice ordine.
Un triplice ordine corrispondente a quello del vero, del bene e del bello. E a questa stessa impostazione che vorrei ispirarmi nell’osservare - al di fuori della mischia e con il senso della misura più alto possibile - la scena politica del nostro Paese, in questa stagione convulsa tanto sul piano interno, quanto su quello delle relazioni internazionali.
La verità è la prima misura su cui verificare un cuore e una vita: si può dire che la grandezza di uno spirito si misuri dal grado di verità che è capace di sopportare. La verità non ha bisogno di essere difesa si difende da se stessa Chi si preoccupa troppo di difendere la verità, invece di testimoniarla nella pacatezza delle sue convinzioni, dimostra di credervi poco. Alla verità si corrisponde, si obbedisce: non ci si serve di essa, è la verità che va servita. Proprio così la verità libera dalla maschera, dalle apparenze, dalle false certezze. Gesù stesso ha voluto indicare la perfetta equivalenza di verità e libertà: «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32).
Possiamo dire che quanti ci governano oggi siano testimoni della verità? Ci dà questa impressione la scena dei dibattiti parlamentari di questi giorni? Quanti fra gli italiani potrebbero affermare con certezza che coloro che li governano - espressione del loro voto - agiscano secondo una logica che non sia quella fatua dello scegliere ciò che è utile e fa piacere, ma quella profonda, segnata da scelte costose sul piano personale, nascoste agli occhi degli uomini, e per chi crede note al cuore di Dio?
Di quale fra i personaggi della scena pubblica si potrebbe dire quanto Gesù dice di Natanaele: «Ecco davvero un uomo in cui non c’è falsità» (Gv 1,47)? Non il calcolo utilitaristico, non la ricerca dell’immagine, non il chiasso delle apparenze, ma la verità deve essere l’ispirazione profonda di chi intenda servire il bene comune e non servirsene.
La bontà è il secondo criterio di misura del peso e del valore di un uomo: inseparabile dal vero, il bene ne è il volto operativo, l’irradiazione pratica, lo splendore che riscalda e conforta. Come la Verità, così il Bene è inseparabile dalle radici nascoste, dall’essere profondo: «Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni» (Mt 7,16-18).
Di quanti politici è possibile pensare che siano come l’albero buono, che produce i suoi frutti nella fedeltà, perché sceglie di fare il bene anche quando questa scelta possa apparire improduttiva o perdente, testimoniando di preferire la forza della bontà e della benevolenza a ogni logica di potere e di affermazione di sé? E di quanti possiamo pensare che vogliano essere buoni, conservando il tratto che rende dolce la bontà: la simpatia?
Il senso dell’umorismo,la cordialità, l’accoglienza del cuore, sono normalmente la riprova di un albero buono, che non ha bisogno di schermi o di difese, che dà i suoi frutti nell’umiltà e nella pace. E se non sempre è la stagione dei frutti, sia dato a ogni cittadino di esercitare realmente, attraverso un sistema elettorale giusto, quella sapienza del bene, che sa riconoscere ogni uomo nella sua stagione.
Infine, è il bello la misura di un’esistenza: non il bello esteriore, che incanta e acceca, ma quello profondo, rivelato nel segno dell’amore e del dono. In un testo stupendo Agostino afferma che colui che è «l’uomo dei dolori» (Is 53,2) è anche «il più bello tra i figli degli uomini» (Sal 45,3), e che ciò può spiegarsi soltanto con la chiave dell’amore: «Egli non aveva bellezza né decoro per dare a te bellezza e decoro. Quale bellezza? Quale decoro? L’amore della carità, affinché tu possa correre amando e amare correndo... Guarda a Colui dal quale sei stato fatto bello» (In Io. Ep., IX, 9). È qui che si può cogliere quale sia lo specifico di un politico cristiano: credere nel Dio crocifisso, affidarsi al Padre che consegna suo Figlio per noi, questa è la fede, questa la bellezza, anticipo di eternità. In quanti dei nostri politici «cristiani» - quale che sia la loro appartenenza - traspare questa bellezza, quest’amore? Dov’è lo sguardo sereno, abbandonato in Dio senza alcuna ostentazione, di un Alcide De Gasperi? Chi dei protagonisti dell’attuale scena politica passerà al vaglio del triplice criterio proposto da Guardini per misurare il valore di un’esistenza vissuta? Lascio a ciascuno di rispondere a queste domande, se vorrà farlo. A me basta averle sollevate, per amore di tutti, guardando al bene comune della nostra Italia, sconcertata e ferita.
Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr. (cliccare sui titoli, per leggere gli articoli):
Lettera aperta al Presidente della Repubblica on. Giorgio Napolitano
dei “ragazzi di Barbiana”
dell’11 aprile 2011
Signor Presidente,
lei non può certo conoscere i nostri nomi: siamo dei cittadini fra tanti di quell’unità nazionale che lei rappresenta.
Ma, signor Presidente, siamo anche dei "ragazzi di Barbiana". Benché nonni ci portiamo dietro il privilegio e la responsabilità di essere cresciuti in quella singolare scuola, creata da don Lorenzo Milani, che si poneva lo scopo di fare di noi dei "cittadini sovrani".
Alcuni di noi hanno anche avuto l’ulteriore privilegio di partecipare alla scrittura di quella Lettera a una professoressa che da 44 anni mette in discussione la scuola italiana e scuote tante coscienze non soltanto fra gli addetti ai lavori.
Il degrado morale e politico che sta investendo l’Italia ci riporta indietro nel tempo, al giorno in cui un amico, salito a Barbiana, ci portò il comunicato dei cappellani militari che denigrava gli obiettori di coscienza. Trovandolo falso e offensivo, don Milani, priore e maestro, decise di rispondere per insegnarci come si reagisce di fronte al sopruso.
Più tardi, nella Lettera ai giudici, giunse a dire che il diritto - dovere alla partecipazione deve sapersi spingere fino alla disobbedienza: “In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando avallano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate”.
Questo invito riecheggia nelle nostre orecchie, perché stiamo assistendo ad un uso costante della legge per difendere l’interesse di pochi, addirittura di uno solo, contro l’interesse di tutti. Ci riferiamo all’attuale Presidente del Consiglio che in nome dei propri guai giudiziari punta a demolire la magistratura e non si fa scrupolo a buttare alle ortiche migliaia di processi pur di evitare i suoi.
In una democrazia sana, l’interesse di una sola persona, per quanto investita di responsabilità pubblica, non potrebbe mai prevalere sull’interesse collettivo e tutte le sue velleità si infrangerebbero contro il muro di rettitudine contrapposto dalle istituzioni dello stato che non cederebbero a compromesso.
Ma l’Italia non è più un paese integro: il Presidente del Consiglio controlla la stragrande maggioranza dei mezzi radiofonici e televisivi, sia pubblici che privati, e li usa come portavoce personale contro la magistratura. Ma soprattutto con varie riforme ha trasformato il Parlamento in un fortino occupato da cortigiani pronti a fare di tutto per salvaguardare la sua impunità.
Quando l’istituzione principe della rappresentanza popolare si trasforma in ufficio a difesa del Presidente del Consiglio siamo già molto avanti nel processo di decomposizione della democrazia e tutti abbiamo l’obbligo di fare qualcosa per arrestarne l’avanzata. Come cittadini che possono esercitare solo il potere del voto, sentiamo di non poter fare molto di più che gridare il nostro sdegno ogni volta che assistiamo a uno strappo.
Per questo ci rivolgiamo a lei, che è il custode supremo della Costituzione e della dignità del nostro paese, per chiederle di dire in un suo messaggio, come la Costituzione le consente, chiare parole di condanna per lo stato di fatto che si è venuto a creare.
Ma soprattutto le chiediamo di fare trionfare la sostanza sopra la forma, facendo obiezione di coscienza ogni volta che è chiamato a promulgare leggi che insultano nei fatti lo spirito della Costituzione. Lungo la storia altri re e altri presidenti si sono trovati di fronte alla difficile scelta: privilegiare gli obblighi di procedura formale oppure difendere valori sostanziali. E quando hanno scelto la prima via si sono resi complici di dittature, guerre, ingiustizie, repressioni, discriminazioni.
Il rischio che oggi corriamo è lo strangolamento della democrazia, con gli strumenti stessi della democrazia. Un lento declino verso l’autoritarismo che al colmo dell’insulto si definisce democratico: questa è l’eredità che rischiamo di lasciare ai nostri figli.
Solo lo spirito milaniano potrà salvarci, chiedendo ad ognuno di assumersi le proprie responsabilità anche a costo di infrangere una regola quando il suo rispetto formale porta a offendere nella sostanza i diritti di tutti. Signor Presidente, lasci che lo spirito di don Milani interpelli anche lei.
Nel ringraziarla per averci ascoltati, le porgiamo i più cordiali saluti
Francesco Gesualdi, Adele Corradi, Nevio Santini, Fabio Fabbiani, Guido Carotti, Mileno Fabbiani, Nello Baglioni, Franco Buti, Silvano Salimbeni, Enrico Zagli, Edoardo Martinelli, Aldo Bozzolini
La proposta dei vescovi sui “problemi cruciali” é il “consolidamento di una democrazia governante”, vale a dire prevalenza dei poteri sui diritti, rafforzamento dell’esecutivo, sistema elettorale maggioritario, legge che regoli la democrazia interna ai partiti: ma i padri della Costituzione l’avevano respinta, allora che neutralità é?
La Chiesa non può essere “neutra” (al fianco del potere) quando il paese precipita nella disperazione
di Raniero La Valle *
C’è un caso serio che si è aperto nella Chiesa italiana e nella stessa comunità civile. È un’agenda di “problemi cruciali” e di cose da fare (detta “un’agenda di speranza per il futuro del Paese”) che è stata presentata dai vescovi a conclusione della recente Settimana Sociale dei cattolici tenutasi a Reggio Calabria. Che qualcuno si preoccupi di quel che ci sarebbe da fare in questo povero Paese per riaprire i cuori alla speranza è certamente una cosa positiva, come è positivo dire che tra le cose più ragionevoli e giuste da fare ci sia di accogliere gli stranieri.
È motivo però di grande sconforto e allarme trovare che i “primi temi” indicati siano quelli attinenti al “consolidamento di una democrazia governante” (espressione che nell’attuale gergo politico indica la prevalenza dei poteri sui diritti) e che questi temi vengano identificati così: a) rafforzamento dell’esecutivo; b) sviluppo del federalismo; c) sistema elettorale maggioritario; d) bipolarismo; e) legge che disciplini la vita dei partiti e ne regoli la democrazia interna (ipotesi discussa, ma respinta, alla Costituente); e tutto ciò in una “forma di governance” che si preferisce definire “poliarchica” invece che democratica, con un richiamo non pertinente a Benedetto XVI che nell’enciclica “Caritas in veritate” usava sì il termine “poliarchico”, ma non per incoraggiare una frammentazione feudale dei poteri negli ordinamenti interni, bensì per sostenere una pluralità dei poteri sul piano internazionale, contro il mito di un unico governo mondiale e di un unico Impero.
In questo complesso di tesi e di programmi politici proposto ora dai vescovi è riconoscibile l’ideologia propria di un gruppo minore del Partito democratico vicino a Veltroni; ma la Chiesa che c’entra? L’opzione che essa in tal modo propone all’Italia si presta in effetti a due gravi critiche, una nel merito, l’altra nel metodo. Sul piano del merito la piattaforma politica avanzata dalla Conferenza episcopale sembra non tenere conto della drammaticità della situazione italiana, oggi dominata da un potere oltracotante e corruttore, che non viene mai nominato, grazie alla scelta indicata dal Rettore della Cattolica, Ornaghi, di fare un’analisi intenzionata a “restare neutra rispetto agli schieramenti politici”.
Ora, nell’astrazione di un Paese assunto senza schieramenti politici, senza partiti, senza alcun giudizio sulle pratiche del governo in atto, sulle sue politiche e le sue leggi, l’idea della CEI è che sia “indilazionabile il completamento della transizione istituzionale”, nel senso indicato di una prevalenza dell’esecutivo, del maggioritario, del bipolarismo, del federalismo. Invece, sulla base dell’esperienza disastrosa dell’ultimo ventennio molti italiani pensano a un ripristino della rappresentanza, a una riabilitazione del Parlamento, a uno sviluppo del pluralismo delle culture politiche e dei partiti, e ad elezioni veritiere basate su un voto libero ed eguale.
Siamo, certo, nell’opinabile. Ma rispetto ai fini specifici della Chiesa ragioni non troppo opinabili dovrebbero spingerla a opzioni opposte a quelle adottate: il bipolarismo, nella settaria versione italiana, ha rotto infatti l’unità spirituale del Paese, ha spronato a una legislazione e a provvedimenti amministrativi spietati contro la vita degli stranieri (anche quella nascente), ha seminato rancore ed odio, e lascia per cinque anni incontrollato il governo anche se decide guerra, politiche di impoverimento e nucleare. Inoltre, con la complicità del maggioritario, ha separato dalla politica il movimento cattolico ed esclude ogni forma di partecipazione autonoma dei cattolici alla competizione tra i partiti.
Sul piano del metodo la pronunzia ecclesiastica si presenta come fatta in nome di “noi tutti come Chiesa e come credenti, chiamati al grande compito di servire il bene comune della civitas italiana”; e benché formalmente il documento sia riconducibile al Comitato organizzatore della Settimana, esso è stato approvato dal Consiglio permanente della CEI, mentre lo stesso Comitato è un’articolazione permanente della Conferenza episcopale, presieduto com’è da un vescovo nominato da lei e incaricato com’è di monitorare il seguito da dare alla Settimana mettendosi in relazione, quasi come alto Direttorio, con “le diverse forme di presenza capillare dei cattolici nella società italiana”.
Il documento, come è proprio dei migliori documenti ecclesiastici, chiama a testimoni apostoli, evangelisti e profeti, fa appello al tesoro dell’attuale magistero pontificio ed episcopale, chiede conferma al Concilio, unisce cielo e terra, eucaristia e politica, si rivolge non a una parte, ma a tutti i cattolici e a tutti gli italiani, e parla in nome della fede. Ma in base a quale carisma sceglie tra l’una o l’altra legge elettorale e forma di governo, e in base a quale sussidiarietà si sostituisce, nel dettare l’agenda politica, alla responsabilità dei cattolici come cittadini, così come dei cittadini non cattolici?
I cattolici e il caimano
di Silvia Ballestra (l’Unità, 11 aprile 2011)
Forse è troppo chiedere ai cattolici italiani di comportarsi come una categoria politica, seppur molto vasta e diffusa nella società. E quindi sarebbe forse fuori luogo pensare a una mobilitazione, che so, a una manifestazione di cattolici, o a una grande adunata. L’ultima che si ricorda è quella del Family Day dove decine di leader cattolici con due o tre famiglie si precipitarono in cerca d’applausi.
Eppure sarebbe bello vedere un sussulto identitario dei cattolici italiani, sapere cosa pensano davvero, cosa sentono nel loro intimo, quando vedono Silvio Berlusconi vantarsi di rappresentare i valori cristiani. “Sono qui a rappresentare la maggioranza del popolo italiano che crede nella tradizione cristiana. Questi valori non potranno mai essere sconfitti”, ha detto l’altro giorno davanti ai seguaci del ministro Rotondi. E poi, tra un’invocazione al Signore (“Al buon Dio chiedo di dare uno sguardo dall’alto perché abbiamo bisogno anche di lui per riuscire”) e una promessa a Giovanardi (“Se Tremonti non trova cinquanta milioni per la famiglia te li do di tasca mia”), ha molto apprezzato che dalla platea gli ha gridato “Santo subito”.
Per una volta niente barzellette zozze con bestemmia allegata, niente doppi sensi e ammiccamenti sessuali. Qualche tempo fa fece rumore sui giornali la decisione di Telecom di sostituire Belen come testimonial: si disse che non era gradita alle famiglie italiane, poco adatta ai loro valori. E Silvio sì, invece? Davvero i cattolici italiani possono tollerare un simile testimonial? Un devoto così furbetto? Forse anche per loro sarebbe ora di dire: quel signore non ci rappresenta.
Nostalgia di Costantino?
di Giancarlo Zizola (Rocca, 7, 1° aprile 2011)
Nel discorso pronunciato al Quirinale il 24 giugno 2005, nella sua prima visita ufficiale, Benedetto XVI formulava un riconoscimento solenne della «sana laicità dello Stato, in virtù della quale le realtà temporali si reggono secondo le norme loro proprie». Ma il papa subito precisava che la laicità dello Stato è legittima «senza tuttavia escludere quei riferimenti etici che trovano il loro fondamento ultimo nella religione». E rafforzava questo paradigma aggiungendo che «l’autonomia della sfera temporale non esclude un’intima armonia con le esigenze superiori e complesse derivanti da una visione integrale dell’uomo e del suo eterno destino» (1).
Probabilmente non erano molti allora a notare che la rilettura ratzingeriana della laicità - come anche l’interpretazione massimalista sulla libertà religiosa nel discorso dell’11 gennaio scorso al Corpo Diplomatico - si proiettava, al di là della comunità cattolica, anche sullo Stato, invitato a riconoscere nel suo ordinamento i paradigmi propri dell’ordinamento della confessione maggioritaria in Italia.
La visione etica della laicità veniva invocata cioè, insieme al classico principio della collaborazione tra Stato e Chiesa per il bene comune, per legittimare le esigenze della Chiesa, anche se nei modi di un potere di persuasione morale, per misure legislative forgiate secondo i suoi principi morali e i suoi interessi sui terreni critici del matrimonio e della famiglia, della legislazione del vivente e del finanziamento delle scuole private, malgrado la diversa direttiva formulata dalla Costituzione italiana.
Le ripercussioni concrete di questa piattaforma della politica ecclesiastica non cessano di sgomentare molti seguaci della fede nel Cristo dei Vangeli nel nostro avventurato Paese. In una lettera al nuovo arcivescovo paracadutato dall’alto a Torino, un leader cristiano ben conosciuto di quella comunità cristiana Enrico Peyretti lamentava che la Chiesa «appare come un partito, una forza sociale tra le altre, coi suoi interessi, addirittura interessi economici non puliti, forse peggiori delle offese sessuali, con le sue alleanze calcolate, non di rado impresentabili». E constatava con sofferenza che la gerarchia episcopale dava l’impressione di «vivere nel sogno di una società coincidente con la Chiesa, un matrimonio trono-altare».
Al punto che non sembrava azzardato, con tutte le cautele storiografiche del caso, il parallelo tra «l’odierno catto-berlusconismo della gerarchia cattolica italiana e il catto-fascismo del ventennio violento che fu il fallimento dei pastori e l’abbandono dei fedeli al potere malvagio e falso, può accadere di peggio alla Chiesa? - si chiedeva Peyretti - Questo è peggio della persecuzione». Non è da oggi che si accumulano segnali di una ristrutturazione più o meno raffinata del paradigma «costantiniano» nelle relazioni della Chiesa con gli Stati, e particolarmente con lo Stato italiano.
All’avanzata di una società secolarizzata, che sembra insidiare l’egemonia del cattolicesimo nei paesi di antica cristianità e di fatto mette in crisi la riproduzione sociale della cristianità, il rischio crescente è la nostalgia dello Stato cattolico. L’esito di questa deriva è fra l’altro l’offuscamento delle direttive del Concilio Vaticano II il quale aveva affermato che la Chiesa «in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non si lega ad alcun sistema politico per essere segno e salvaguardia del carattere trascendente della persona umana... La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo... La Chiesa non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile, anzi rinuncerà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti ove constatasse che il loro uso potrebbe far dubitare della sincerità della sua testimonianza».
catto-berlusconismo
L’insorgere di una tentazione neo-costantiniana è senza dubbio facilitato dalla deriva liberistica del governo Berlusconi che ha applicato la politica della privatizzazione anche ai rapporti con la Santa Sede e con la Cei, riducendoli ad un aberrante mercato di privilegi confessionali in cambio di consenso. Anche all’interno della coalizione governativa si nota con allarme che è invalsa una prassi per cui vengono sistematicamente saltati i canali diplomatici dello Stato per privilegiare comunicazioni dirette tra membri del governo e prelati romani e trattare a questo livello privatistico misure legislative di interesse ecclesiastico.
Una prassi del genere è andata incontro al neo-costantinianesimo di settori ecclesiastici, segnando la crisi dell’impianto conciliare della «Gaudium et Spes» sul quale si fondava l’aspettativa che la Chiesa seguisse altre strade, diverse da quella delle posizioni di potere, per farsi strada nel mondo delle anime.
Di fatto, la Chiesa reale ha ceduto alla facilità di una Chiesa «di Stato» esorbitando dal proprio campo con interventi invasivi nei campi in cui, in una società pluralista, lo Stato può e deve legiferare, cioè sulle coppie di fatto, sul trattamento di fine vita, sulla «pillola abortiva» eccetera: altrettanti campi sui quali lo Stato ha competenza ed è tenuto a intervenire con attente mediazioni fra l’ordine dei valori e la complessa realtà sociale in rapida trasformazione. Si tratta di situazioni che di fatto sono presenti nella nostra società, e sui quali il potere civile è pienamente legittimato a legiferare per inquadrarle in un minimo di normativa civile, ad evitare mali maggiori.
Le derive citate rendono attuale il monito dell’abate Rosmini: «quando la Chiesa si fa arbitra delle sorti umane, allora solo è impotente, quello è il tempo del suo decadimento»
strategie interventiste
Le sortite di alcuni vescovi di regime ne hanno dato una corposa convalida, nella congiuntura delle notti orgiastiche del premier. Tra le scorciatoie assolutorie escogitate, nessun discepolo laicista di Machiavelli avrebbe saputo toccare le altezze cognitive raggiunte da Giampaolo Crepaldi, il vescovo che sta dividendo la comunità cristiana di Trieste. In un volume Il cattolico in politica. Manuale per la ripresa» (Cantagalli, 2011), Crepaldi afferma: «Tra un partito che contemplasse nel suo programma la difesa della famiglia fondata sul matrimonio e il cui segretario fosse separato dalla moglie, e un partito che contemplasse nel programma il riconoscimento delle coppie di fatto e il cui segretario fosse regolarmente sposato, la preferenza andrebbe al primo partito». E aggiungeva: «È più grave la presenza di principi non accettabili nel programma che non nella pratica di qualche militante, in quanto il programma è strategico ed ha un chiaro valore di cambiamento politico della realtà più che le incoerenze personali».
Il suo confratello Luigi Negri, vescovo di San Marino e Montefeltro, non esitava a schierarsi a difesa di Berlusconi, adducendo (in un articolo al settimanale Tempi, poi in una intervista a La Stampa) l’appoggio assicurato da questo governo ai «principi non negoziabili», quali la difesa della vita dal suo inizio al suo termine naturale, ai valori della famiglia, avvalorando questi vantaggi come sufficienti a giustificare la mancanza di «indignazione» verso le condotte personali del premier (in realtà, verso le presunte sue violazioni di leggi dello Stato sulla concussione e la prostituzione minorile, contestategli dalla Procura di Milano).
Lo spettacolo di vescovi che si prodigavano ad affondare alcuni principi fondamentali dell’ordine cristiano tradizionale per tenere a galla Berlusconi non poteva lasciare indifferenti. Già al Consiglio Permanente della Cei, aperto i124 gennaio ad Ancona dalla prolusione del Cardinale Bagnasco, si erano manifestate le inquietudini di alcuni vescovi secondo i quali la Chiesa con il suo atteggiamento ancillare nei confronti del regime avrebbe assunto «la responsabilità di intrattenere questo governo». «Un conto è pazientare, tutt’altro sostenere» era stato osservato da chi avvertiva dei gravi danni che una sostanziale collusione col regime avrebbe procurato alla missione pastorale, chiamata a rivolgersi a tutti, al di là di opzioni politiche settarie.
A Crepaldi hanno risposto alcuni gruppi cristiani di Verona (in «Segni dei tempi», anno II, n. 10) indicando il pericolo dell’immoralismo berlusconiano, dei suoi fiancheggiatori e della vasta pletora dei tolleranti per il suo potere destrutturante dal punto di vista civile e politico. Essi contestavano «la pretesa di scindere vita privata e vita pubblica» come uno dei fattori (accanto all’eventuale responsabilità per atti penalmente rilevanti) che «inquinano alla radice la possibilità della costruzione di una vita sociale in cui si possa riconoscere». E parlando della strategia interventista dei vescovi, sottolineava la decadenza dell’autonomia politica del laicato cattolico, costretta - contrariamente alle direttive esplicite del Vaticano II (messo da parte dal Crepaldi) - a rifluire entro i quadri clericali dell’obbedienza agli indirizzi dei vescovi, considerata «tratto distintivo della loroazione politica».
la vera alternativa a Dio
Sulle tesi neo-costantiniane di Negri interveniva poi, uscendo da un prolungato silenzio, l’emerito vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi. In una «Lettera aperta» egli difendeva lo statuto originalmente evangelico dell’«indignazione» e rammentava che tra i principi «non negoziabili» è presente quello fondamentale della solidarietà, in forza del quale ci si deve impegnare non solo in difesa delle vite più deboli ma anche di tutte le vite «minacciate», «come sono quelle di quanti sfuggono la miseria insopportabile o la persecuzione politica, che sono invece fortemente condizionate dal nostro Governo». Del resto, anche sotto il profilo delle «consonanze cristiane», «non si è fatto nulla per favorire la vita nascente con leggi che incoraggino il matrimonio e la procreazione come ha fatto la ’laica’ Francia».
Infine, a contraddire la tesi che il politico va giudicato solo per la politica, Bettazzi ricordava che «chi sta in alto deve dare il buon esempio perché egli tanto più in quest’era mediatica, influisce sull’opinione pubblica. Ed è questo che dovrebbe preoccupare noi vescovi, cioè il diffondersi, soprattutto fra i giovani, dell’opinione che quello che conta è ’fare i furbi’, è riuscire in ogni modo a conquistare e difendere il proprio interesse, il bene particolare, anche a costo di compromessi, come abbiamo visto nei genitori e nei fratelli che suggerivano alle ragazze di casa di vendersi ad alto prezzo». Così si diffonde l’idolatria del fare soldi, del fare ciò che si vuole, concludeva Bettazzi. Si instaura nella società «la vera alternativa a Dio» («o Dio o mammona»), si ignorano le raccomandazioni della Cei sul bene comune come impegno specifico dei cristiani.
la potente armata morale di Ruini
Tuttavia non erano in questione soltanto le propensioni politiche di questo o quel vescovo, o il grado più o meno profetico delle trepidazioni gerarchiche dinanzi all’immoralismo politico. In realtà a trovarsi implicata era un’intera politica ecclesiastica, troppo esposta all’obiezione di perseguire vantaggi materiali mediante uno spericolato compromesso con il regime al comando. E questa situazione rinviava all’opzione decisa fin dagli inizi dell’«era Ruini», nello scenario del pontificato spettacolare di Wojtyla, quando si era adottato per l’avvenire della Chiesa cattolica in Italia il paradigma di un cattolicesimo dimostrativo, presente nella mischia politica e nel frastuono mediatico, ma anche desideroso di allargare il deposito dell’8 per mille concordatario, dei privilegi confessionali, delle leggi conformi al suo credo, in una società pluralista.
Si profilavano fin da allora i presupposti di fenomeni di involuzione, caratterizzati dal ritorno ad una pretesa di autosufficienza della Chiesa verso la società moderna, dal tentativo di costituire nella Chiesa, favorita dai nuovi privilegi concordatari, la base organizzativa di una potente armata morale, quasi a rincorrere il sogno di una nuova cristianità clericale per tamponare le crepe della cristianità sociologica, serrando le fila per far fronte al mondo.
Nel vuoto lasciato dal Partito cattolico dopo la disfatta della Dc era chiaro che la Chiesa cercava di assumere un nuovo potere di supplenza politica nel Paese, come agenzia di valori e lobby di pressione, pronta a scendere in campo direttamente come minoranza attiva, per ottenere per via parlamentare, col favore di governi compiacenti, ciò che evidentemente disperava di raggiungere per le vie lunghe della testimonianza e delle convinzioni.
Una volta constatata la perdita di influsso dei suoi modelli morali sulla vita privata degli individui, la Chiesa operava un completo cambiamento di strategia: senza abbandonare del tutto le vie consuete della sua pastorale delle coscienze, cominciava a dirottare l’investimento principale sul pubblico, cercando di far leva sulla potenza della comunicazione mediatica, sulla legislazione favorevole dello Stato, sugli strumenti concordatari (specialmente nel campo della scuola e in quello del matrimonio) per difendere e promuovere nell’ordine politico statuti di vita privata che possano riprodurre il più fedelmente possibile le sue visioni antropologiche e sociali.
Una prospettiva tale da permettere alla Chiesa istituzionale, al meglio dell’ipotesi, di rimanere una forza sociale consistente e centrale nella società italiana ed europea, valorizzando quel fondo di eredità cristiana che viene considerato un dato strutturale, ben radicato e insostituibile della cultura diffusa del Paese. Di qui la piega neocostantiniana e mondanizzante di una Chiesa che preferisce negoziare spazi per i suoi modelli morali con i poteri politici del momento piuttosto che concentrarsi sulle proprie vie religiose per la formazione degli spiriti liberi.
Con pericoli per lo sviluppo delle dinamiche democratiche (altro che puritanesimo moralistico!), ma anzitutto pericoli «per l’anima della Chiesa stessa, per la sua mistica» ammoniva Achille Ardigò poco prima di morire. «Vedo il pericolo - sottolineava il discepolo di Giuseppe Dossetti - nella volontà ormai esplicita della gerarchia di scendere direttamente, in prima persona, sul terreno politico più operativo, quello dell’organizzazione, delle scelte tattiche, delle valutazioni di convenienza e opportunità, del fine che giustifica i mezzi (...). La Chiesa non può farsi partito politico senza rischiare di dissolvere il proprio fondamento mistico» (2).
Note
(1) Il testo in Osservatore Romano, 25 giugno 2005.
(2) «L’attacco al Concilio e l’interventismo dei vescovi: intervista con Achille Ardigò», La
Repubblica, 7 luglio 2005.