I vestiti nuovi dell’Imperatore
di Hans Christian Andersen
Molti anni fa viveva un imperatore, il quale amava tanto possedere abiti nuovi e belli, che spendeva tutti i suoi soldi per abbigliarsi con la massima eleganza. Non si curava dei suoi soldati, non si curava di sentir le commedie o di far passeggiate nel bosco, se non per sfoggiare i suoi vestiti nuovi: aveva un vestito per ogni ora del giorno, e mentre di solito di un re si dice: - E’ in Consiglio! - di lui si diceva sempre:
E’ nello spogliatoio -
Nella grande città, dove egli abitava, ci si divertiva molto. ogni giorno arrivavano stranieri, e una volta vennero due impostori; si spacciarono per tessitori e dissero che sapevano tessere la stoffa piu straordinaria che si poteva immaginare. Non solo i disegni e i colori erano di singolare bellezza, ma i vestiti che si facevano con quella stoffa avevano lo strano potere di diventare invisibili a quegli uomini che non erano all’altezza della loro carica o che erano imperdonabilmente stupidi.
Sarebbero davvero vesti meravigliosi! - pensò l’imperatore - Con quelli indosso, io potrei scoprire quali uomini nel mio regno non sono degni della carica che hanno; potrei distinguere gli intelligenti dagli stupidi. Ah! si! mi si deve tessere subito questa stoffa! -
E diede molti soldi in mano ai due impostori perchè incomiciassero a lavorare. Essi montarono due telai, fecero finta di lavorare, ma non avevano assolutamente niente sul telaio. Chiesero senza complinenti la seta più bella e l’oro piu brillante, li ficcarono nella loro borsa e lavorarono con i telai vuoti, senza smettere mai, fino a tarda notte.
Adesso mi piacerebbe sapere a che punto è la stoffa! - pensò l’imperatore; ma in verità si sentiva un po’ agitato all’idea che una persona stupida, o non degna della carica che occupava, non avrebbe potuto vederla. Egli, naturalmente, non pensava di dover temere per sè; tuttavia preferì mandare un altro, prima, a vedere come andava la faccenda.
Tutti gli abitanti della città sapevano dello straordinario potere della stoffa, e ognuno era desideroso di conoscere quanto incapace o stupido fosse il proprio vicino di casa.
Manderò dai tessitori il mio vecchio, bravo ministro! - pensò l’imperatore. - Egli può vedere meglio degli altri che figura fa quella stoffa, perchè è intelligente e non c’è un altro che sia come lui all’altezza del proprio compito! -
Così quel vecchio buon ministro andò nella sala dove i due tessitori lavoravano sui telai vuoti: - Dio mio! - pensò spalancando gli occhi - non vedo proprio niente! - Ma non lo disse forte.
I due tessitori lo pregarono di avvicinarsi, per favore, e gli domandarono se il disegno e i colori erano belli; e intanto indicavano il telaio vuoto. Il povero vecchio continuò a spalancare gli occhi, ma non riuscì a vedere niente perchè non c’era niente.
Povero me! - pensò. - Sono dunque stupido? Non l’avrei mai creduto! Ma ora nessuno deve saperlo! O non sono adatto per questa carica? No, non posso andare a raccontare che non riesco a vedere la stoffa! -
E allora, non dice niente? - chiese uno dei tessitori.
Oh! incantevoli, bellissimi! - esclamò il vecchio ministro, guardando da dietro gli occhiali. - Che splendidi disegni, che splendidi colori! Sì, sì ! dirò all’imperatore che mi piacciono in un modo straordinario! -
Ah! ne siamo davvero contenti! - dissero i due tessitori, e presero a enumerare i colori e a spiegare la bizzarria del disegno. Il vecchio ministro stette bene a sentire per ripetere le stesse cose, quando fosse tornato dall’imperatore; e così fece.
Allora i due impostori chiesero altri soldi, e ancora seta e oro; l’oro occorreva per la tessitura. Si ficcarono tutto in tasca, e sul telaio non ci arrivò neanche un filo. Tuttavia essi seguitarono, come prima, a tessere sul telaio vuoto.
Dopo un po’ di tempo l’imperatore mandò un altro valente funzionario, a vedere come procedeva la tessitura, e a chiedere se la stoffa era finita. Gli successe proprio come al ministro; guardò, guardò; ma siccome non c’era niente all’infuori dei telai nudi, non potè vedere niente.
Non è forse una bella stoffa? - dissero i due impostori; e gli mostravano e gli spiegavano il bellissimo disegno che non c’era per niente.
Stupido che sono! - pensò l’uomo. - Dunque, vorrà dire che non sono degno della mia alta carica? Sarebbe molto strano! Ma non bisogna farsi scoprire ! - E così prese a lodare il tessuto che non vedeva, e parlò del piacere che gli davano quei bei colori e quei graziosi disegni.
Sì, è proprio la stoffa piu bella del mondo! - disse all’imperatore.
Tutti i cittadini discorrevano di quella stoffa magnifica. Allora l’imperatore stesso volle andare a vederla mentre era ancora sul telaio. Con uno stuolo di uomini scelti, tra i quali anche quei due bravi funzionari che già c’erano stati, egli si recò dai due astuti imbroglioni che stavano tessendo con gran lena, ma senza un’ombra di filo.
Eh!? non è "magnifique"? - dissero i due bravi funzionanari. - Guardi, Sua Maestà, che disegni, che colori! - E indicavano il telaio vuoto, perchè erano sicuri che gli altri la vedevano, la stoffa.
Che mi succede? - pensò l’imperatore. - Non vedo nulla! Terribile, davvero! Sono stupido? O non sono degno di essere imperatore? Questa è la cosa piu spaventosa che mi poteva capitare! -
Oh! bellissimo! - disse. - Vi concedo la mia suprema approvazione! - E annuiva soddisfatto, contemplando il telaio vuoto; non poteva mica dirlo, che non vedeva niente! Tutti quelli che s’era portato dietro, guardavano, guardavano, ma, per quanto guardassero, il risultato era uguale; eppure dissero, come l’imperatore:
Oh! bellissimo! - E gli suggerirono di farsi fare, con quella stoffa meravigliosa, un vestito nuovo da indossare al grande corteo che era imminente.
Magnifique! Carina, excellent! - dicevano l’un l’altro; e sembravano tutti profondamente felici, dicendo queste cose.
L’imperatore diede ai due impostori la Croce di Cavaliere da appendere all’occhiello e il titolo di Nobili Tessitori.
Per tutta la notte, prima del giorno in cui doveva aver luogo il corteo, gli imbroglioni restarono alzati con piu di sedici candele accese; tutti potevano vedere quanto avevano da fare per ultimare i vestiti nuovi dell’imperatore. Finsero di staccare la stoffa dal telaio, con grandi forbici tagliarono l’aria, cucirono con ago senza filo e dissero infine:
Ecco, i vestiti sono pronti! - Giunse, allora, l’imperatore in persona, con i suoi più illustri cavalieri: e i due imbroglioni tenevano il braccio alzato come reggendo qualcosa e dicevano:
Ecco i calzoni, ecco la giubba, ecco il mantello! - e così via di seguito.
E’ una stoffa leggera come una tela di ragno! Si potrebbe quasi credere di non avere niente indosso, ma è appunto questo, il suo pregio! -
Si! - dissero tutti i cavalieri, ma non vedevano niente, perchè non c’era niente.
E adesso, vuole la Sua Imperiale Maestà graziosamente consentire a spogliarsi? - dissero i due imbroglioni.
Così noi Le potremo mettere questi vestiti nuovi proprio qui, dinanzi alla specchiera! -
L’imperatore si spogliò e i due imbroglioni fingevano di porgergli, pezzo per pezzo, gli abiti nuovi, che, secondo loro, andavano terminando di cucire; lo presero per la vita, come per legargli qualcosa stretto stretto: era lo strascico e l’imperatore si girava e si rigirava davanti allo specchio.
Dio, come sta bene! Come donano al suo personale questi vestiti! - dicevano tutti.
Che disegno! Che colori! E’ un costume prezioso ! -
Qui fuori sono arrivati quelli col baldacchino che sarà tenuto aperto sulla testa di Sua Maestà durantc il corteo! - disse il Gran Maestro del Cerimoniale.
Si, eccomi pronto! - rispose l’imperatore. - Non è vero che sto proprio bene? - E si rigirò un’altra volta davanti allo specchio fingendo di contemplare la sua tenuta di gala.
I ciambellani che dovevano reggere lo strascico, finsero di raccoglierlo tastando per terra; e si mossero stringendo l’aria: non potevano mica far vedere che non vedevano niente!
Giuseppe con Suo Figlio |
E così l’imperatore aprì il corteo sotto il sontuoso baldacchino e la gente per le strade e alle finestre diceva:
Dio! Sono di una bellezza incomparabile, i vestiti nuovi dell’imperatore! Che splendida coda dietro la giubba! Ma come gli stanno bene! -
Nessuno voleva mostrare che non vedeva niente, perchè se no significava che non era degno della carica che occupava, oppure che era molto stupido. Nessuno dei tanti costumi dell’imperatore aveva avuto tanta fortuna.
Ma se non ha niente indosso ! - gridò un bambino.
Signore Iddio! La voce dell’innocenza! - disse il padre; e ognuno sussurrava all’altro quello che aveva detto il bambino.
Non ha niente indosso! C’è un bambino che dice che non ha niente indosso! -
Non ha proprio niente indosso! - urlò infine tutta la gente.
E l’imperatore si sentì rabbrividire perchè era sicuro che avevano ragione; ma pensò: "Ormai devo guidare questo corteo fino alla fine!" E si drizzò ancor piu fiero e i ciambellani camminarono reggendo la coda che non c’era per niente.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL SOGNO DI UNA "COSA" DI BENEDETTO XVI: UNA CHIESA "PER MOLTI", NON "PER TUTTI".
FLS
#FILOLOGIA E (#DISAGIO DELLA) #CIVILTÀ: #ANTROPOLOGIA (COME #ANDROLOGIA) E #TEOLOGIA-#POLITICA COME #COSMOTEANDRIA - #OGGI.
#Earthrise #Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #Koyaanisqatsi #Ubuntu
* APPUNTI PER IL CONGRESSO MONDIALE DI #FILOSOFIA #ROMA2024 (#WCP2024 - XXV World Congress of #Philosophy). "I soggetti sono due, e tutto da ripensare". In memoria di #FrancaOngaro #Basaglia e di #LauraLilli...
Sorpresa, il padre sta tornando. Anche grazie allo smart working
di Massimo Calvi (Avvenire, martedì 7 giugno 2022
Papà è tornato a casa. Dopo decenni di «assenza inaccettabile», il padre ha finalmente fatto ritorno tra le mura domestiche, ha voglia di famiglia, di passare del buon tempo coi figli, e di lasciare loro qualcosa di più e di diverso da un’eredità di soli beni materiali. Che cosa? È presto per dirlo, ma la semplice presenza di un padre, restituito alla famiglia dalla nuova dimensione che ha assunto la casa dopo l’esperienza della pandemia, dei lockdown e del lavoro da remoto che ne è seguito, è già di per sé sufficiente a mettere in moto un cambiamento capace di segnare un’epoca.
Claudio Risé, psicoterapeuta e psicoanalista di formazione junghiana, il tema lo conosce a fondo: per anni ha indagato la crisi del ruolo paterno e l’origine e le conseguenze che l’espulsione dei padri dal nucleo familiare hanno provocato nelle persone e nella società. In un noto libro del 2003, Il Padre, l’assente inaccettabile, ma anche in Il mestiere di padre, come in molti altri saggi, ha aiutato a leggere in questa uscita di scena della figura paterna una delle ragioni del declino del senso religioso e della capacità di dare un significato alle prove della vita, spiegando molto del buio che ha segnato l’esistenza delle giovani generazioni.
Oggi Risé è in libreria con un nuovo testo, Il ritorno del padre (Edizioni San Paolo), aggiornamento del precedente, che sta riscuotendo grande interesse perché coglie un cambiamento forse inatteso, e apre uno sguardo rinnovato sui fenomeni in atto. Ciò che si starebbe manifestando è il tramonto della cultura degli anni Settanta e Ottanta e dei miti che hanno caratterizzato quella stagione, comprese le leggi che hanno contribuito all’indebolimento della famiglia. A guidare l’uscita dal deserto rappresentato dal «cinquantennio dei comportamenti sfrenati e dell’affettività gelida» sono i Millennials, i nati tra il 1980 e il 1990, ovvero i figli di chi è stato studente nel ’68, dunque la generazione che per prima si è trovata a pagare in pieno il prezzo di quella rivoluzione.
Uno degli effetti più visibili del cambio nei costumi sociali che ha caratterizzato gli anni 70 è stato il rigetto del matrimonio: a un certo punto per una generazione di maschi sposarsi è diventata una prospettiva da evitare, anche per la paura di ritrovarsi a vivere il dolore di un’esperienza traumatica che spesso era stata sperimentata in prima persona. Oggi invece, a detta di Risé, il giovane maschio è tornato a desiderare un nucleo all’interno del quale scambiare affetti e cure, «e se trova una ragazza che condivida questo sogno è ormai spesso in grado di sposarla».
Sull’espressione che usa Risé, «in grado» ci si potrebbe scrivere un intero saggio, perché è proprio l’uscita di scena del padre uno dei fattori all’origine del crollo dell’autostima nei figli. Ma è nella modalità in cui sta avvenendo questo clamoroso ritorno del padre, che si può cogliere l’intuizione di uno sguardo nuovo, forse quello che più merita di essere seguito nel tempo. Il cammino di riavvicinamento del padre alla famiglia era in corso da tempo, sottotraccia, e la pandemia lo ha probabilmente fatto detonare: la costrizione durante i periodi di lockdown prima e la possibilità dello smart working poi, potrebbero aver segnato un punto di non ritorno, grazie all’aumento significativo del tempo che il padre ha incominciato a passare in casa.
Questo movimento interessa tutte le età dai Millennials in avanti: generazioni forse meno avventurose delle precedenti, ma desiderose di stare di più con i figli e di migliorare la situazione affettiva propria e della prole. E non è proprio il padre di famiglia, come notava poeticamente Péguy, il solo avventuriero del mondo moderno?
Anche il fenomeno recentissimo della Great Resignation, la grande dimissione, che può essere letta dalle nostre parti come l’indisposizione ad accettare lavori totalizzanti, e che qualcuno ha visto come una forma di deriva individualistica e di rinuncia alla dimensione comunitaria della vita in azienda, per Risè può invece esprimere una tensione positiva. E se fosse una richiesta di tempo che prelude alla realizzazione come padri? L’embrione cioè di un desiderio che può rimettere al centro dell’esistenza «gli affetti, la famiglia e la fede, rimossi spesso negli ultimi 50 anni dalle ambizioni economiche e ansie per i diversi tipi di status sociale». Non è la rinuncia al lavoro, insomma, quello che starebbe andando in scena, ma un poderoso processo di riconquista di quell’equilibrio familiare precedente alla rivoluzione industriale e all’avvento - dopo l’assenza delle figure paterne causato dalle due guerre - di imprese sempre più simili a voraci realtà aziendali che hanno finito per inghiottire ogni attività degli uomini arrivando ad ostacolare «la trasmissione diretta della maschilità».
La tarda modernità del ’900 descritta da Risé è una società inquietante, un mondo in cui le imprese-Grandi-madri hanno contribuito a creare il mito del guadagno e del successo per legare gli esseri umani alla dimensione delle cose, del consumo e dell’appagamento dei soli bisogni materiali, una società popolata da individui gentili, allegri, fintamente buoni, ma fondamentalmente fragili, soli, sradicati e incapaci di vedere la ferita, affrontare la perdita, sopportare il sacrificio, e dunque di elevarsi verso l’alto.
Se la cancellazione del padre è stato il processo con cui l’Occidente ha voluto eliminare l’esperienza di Dio non è detto che ora riportando il padre a casa tornerà anche tutto il resto - e d’altra parte la riscoperta della "famiglia di una volta" dovrebbe saper fare selezione conservando solo le cose buone. Il dato vero è che un po’ ovunque, dagli Stati Uniti all’Europa, oggi si legifera per agevolare il nuovo protagonismo dei padri. Processi che vanno sostenuti e rafforzati: la storia procede per cicli, dunque la decadenza non è un destino ineluttabile, matrimonio e natalità possono ancora rifiorire, la famiglia come gesto d’amore e «dono di sé agli altri» può ancora farsi rivedere. Per ora c’è che, fosse anche per qualche ora di smart working in più, il padre vuole ritornare. E, come sostiene Risé, «il padre non ritorna mai da solo, ma lo segue anche tutto il mondo Famigliare».
Il ritorno del padre (Edizioni San Paolo 2022, pp. 220, euro 18,00) è il nuovo libro di Claudio Risé, psicoterapeuta e psicoanalista, già docente di Scienze sociali alle Università di Trieste-Gorizia, dell’Insubria (Varese) e della Bicocca (Milano). Il testo è un’edizione, completamente rivista alla luce delle profonde trasformazioni avvenute in questi anni, di un suo celebre saggio, Il Padre l’assente inaccettabile, uscito sempre per San Paolo nel 2003. Quasi due decenni dopo siamo di fronte a una svolta epocale. Scrive Risé: «Dal punto di vista psicologico il padre porta nella vita umana l’esperienza dinamica del muoversi, dell’andare. Fa dell’esistenza un movimento verso la pienezza con Dio e, allo stesso tempo, dona una liberazione dall’attaccamento, dall’egoistico trattenere e trattenersi, freno di ogni ricerca e divenire». Risé lavora da decenni sulla psicologia del maschile e sui problemi derivanti dalla crisi della figura paterna. Su questo tema ha pubblicato per San Paolo anche Il mestiere di padre. Tra i suoi testi più noti, Essere Uomini e Parsifal (Red edizioni), Cannabis. Come perdere la testa e a volte la vita (San Paolo 2007); Il maschio selvatico/2 (San Paolo 2015); Donne selvatiche (con M. Paregger, San Paolo 2015).
Scenari.
Il Dio della fragilità: il Vangelo e le sfide della Chiesa
Il monaco belga Arnold, in Perù dal 1974 e tra i fondatori della teologia andina, rilancia il tema della kenosis, l’abbassamento divino. Piaghe come la pedofilia impongono nuove prospettive
di Roberto Righetto (Avvenire, venerdì 31 dicembre 2021)
La questione dell’indicibiità di Dio è esposta in questo modo da Simone Weil nel saggio L’ombra e la grazia: «Dio può essere presente nella creazione solo nella forma dell’assenza. Il male indica che bisogna collocare Dio a una distanza infinita». E ancora: «Dio non vuole essere temuto attraverso una visibilità ingombrante e soffocante, ma vuole essere cercato, perché ama dissimularsi dentro le pieghe della realtà, in attesa che qualcuno avverta il battito lieve della sua presenza».
Per la filosofa francese nell’atto della creazione Dio si ritira per lasciare spazio all’uomo e al cosmo. È questo il senso del riposo del settimo giorno, commenta il monaco belga Simon Pierre Arnold, che ricorda che secondo la Lettera agli Ebrei questo riposo continua ancora per consentire «una totale riconciliazione nella libertà». Anche l’esistenza del male diviene una prova di questa autolimitazione divina. Discorso alto e difficile, che il filosofo Luigi Pareyson definiva “temerario” e che è stato più volte affrontato da scrittori e pensatori, da Wiesel a Buber, dalla Hillesum a Bonhoeffer, il quale nella debolezza di Dio vede il segno della sua presenza accanto all’umanità ferita, e che ora viene applicato da Arnold, che vive in Perù dal 1974 ed è ritenuto uno dei fondatori della teologia andina, alla condizione della Chiesa oggi.
Un’analisi coraggiosa e a tutto campo che si rivela proficua in vista del Sinodo, contenuta nel saggio Dio è nudo. Inno alla divina fragilità di Simon Pierre Arnold, ora pubblicato da Queriniana (pagine 236, euro 26,00). Si può considerare una sorta di invito a compiere una discesa agli inferi per la fede cristiana, in conseguenza della crisi dovuta alla pandemia - in cui il cattolicesimo è stato spesso incapace di accompagnare la sofferenza delle persone colpite dal Covid e di dire a tutti parole significative sul vivere e sul morire - e alla piaga della pedofilia. Ciò è possibile solo abbandonando l’immagine di un Dio “mago dell’ordine” del cosmo ed assumendo quella di un Dio fragile, quella che san Paolo nella Lettera ai Filippesi chiama kenosis, simbolizzata dalla morte in croce di Gesù: «Qui, Dio non solo si spoglia, ma lo si spoglia, lo si umilia, lo si ridicolizza, lo si sfida a essere Dio secondo le categorie della teologia di Satana. Questo divino Servo sofferente, vulnerabile, re deriso da un’umanità insensata, muore d’amore nella nudità, trafitto da parte a parte. Ma in questa contemplazione del Dio nudo del Vangelo non bisogna dimenticare la Resurrezione. San Giovanni, in particolare, ci descrive in dettaglio la scena della tomba vuota con le bende per terra e il sudario accuratamente piegato. Gesù risorto è un Dio per sempre ferito d’umanità».
Questo abbassamento di Dio quale emerge dal Vangelo, sin dalla nascita di Gesù in una mangiatoia, ha un rilievo anche storico e scientifico. Sulla scia di Teilhard de Chardin, Arnold vede l’Incarnazione come «un mistero avvolgente» che rimane in atto nel cuore della storia e penetra tutta la realtà creata. E non confligge certo con la teoria dell’evoluzione, semmai conferisce un senso del tutto nuovo alla selezione delle specie, che non può essere vista come «un incontro di boxe il cui obiettivo sarebbe l’eliminazione sistematica del diverso e del debole. Dal punto di vista della fede, la selezione non ha come obiettivi, contrariamente alle crudeli evidenze, l’esclusione e il trionfo dell’individuo sul gruppo. Essa è, al contrario, la dinamica della reciproca emulazione verso più vita in comune, verso la cultura e la spiritualità».
Ma torniamo al cattolicesimo, che Arnold sferza per uscire dalla catalessi: «All’interno delle nostre Chiese - egli dice -, come schizofrenici, ci stiamo sgretolando in lotte interne di retroguardia tra conservatori e progressisti, mentre le vere urgenze sono innegabilmente altrove». Vista dal suo Perù, dove ha fondato in riva al lago Titicaca il monastero della Risurrezione, la Chiesa appare «troppo patriarcale e clericale, ossessionata da una visione puritana e dicotomica del mondo». Una requisitoria alquanto severa ma la situazione ecclesiale che stiamo vivendo «è drammatica, peggio dell’epoca che generò Lutero».
Come rispondere a questa crisi? Tornando semplicemente al Vangelo, siglando una nuova configurazione plurale ed egualitaria delle nostre relazioni, seguendo l’esempio di Gesù che rinunciò a tutti i suoi privilegi e invitò gli apostoli a non rivendicare posti d’onore e a concepire la gerarchia non come posizione di potere ma come servizio, sul modello della lavanda dei piedi. E inaugurò una nuova stagione nei rapporti fra uomo e donna.
«Aggrappandoci alle nostre scale - insiste l’autore - e ai nostri privilegi, chiudiamo la breccia attraverso la quale potrebbe penetrare lo Spirito. Il luogo del servizio, dove Gesù si è messo e dove vuole vederci, non ammette tuttavia alcuna eccezione. Non si tratta di un’ideologia astratta e facoltativa, ma piuttosto di un’anti-gerarchia vincolante per tutti e per tutte». Ma «tra le macerie di una Chiesa peccatrice», ci sono anche segni positivi, dal rispetto per i diritti umani al risveglio delle donne, dalla crescita della sensibilità collettiva per l’ecologia alla denuncia degli abusi sugli innocenti.
Tutte battaglie che dopo la Laudato si’ e la Fratelli tutti la Chiesa in qualche modo fa proprie. Ma l’urgenza vera di una Chiesa che torna al Vangelo è quella di tornare a proclamare all’uomo contemporaneo la proposta della fede. Che significa condivisione delle pene e delle gioie di tutti gli uomini ma non una rinuncia all’annuncio della resurrezione. Si chiede Arnold: «Nel nostro mondo sofisticato, da dove potrebbe sorgere ancora lo stupore? Come immaginare una Chiesa che si ritrae, come il suo Signore, che si rende sempre più invisibile per lasciare tutto lo spazio al Vangelo?»
È dal monachesimo e dalla sua scuola del dialogo nel silenzio, esemplificata dai detti dei Padri del deserto («crateri nascosti di senso nuovo e forte che ci salverebbero dalla logorrea onnipresente dell’abbrutimento mediatico: chi saprà osare nuovi detti per un nuovo deserto?»), che può venire una spinta positiva, ma non per cercare oasi perfette isolate dal mondo. Il modello proposto è quello della comunità trappista di Thibirine, capace di una presenza silenziosa ma efficace in una terra non cristiana, una presenza che contempla anche la possibilità del martirio.
Non a caso uno degli ultimi paragrafi del libro si intitola Ripensare la Chiesa in categoria di visitazione: «È giunto il momento di scambiare l’imposizione universale con l’osmosi e la commensalità che ricreano sinfonicamente il mondo, come nell’incontro tra Maria ed Elisabetta».
ARTE, RELIGIONE, E ANTROPOLOGIA. SAN GIUSEPPE, TERESA D’AVILA, E IL CARMELO TERESIANO...
#DIVINACOMMEDIA: #DUESOLI (#DANTE2021)! PER UNA MIGLIORE #LETTURA DELLA FIGURA DEL PADRE NELL’OMBRA #RICORDARSI DEL #RICONOSCIMENTO DI #SANGIUSEPPE PROPOSTO DA #TERESADAVILA E DI #COMENASCONOIBAMBINI
Quel padre nell’ombra
Il più bel dipinto su san Giuseppe rimasto per secoli ignoto
di Claudio Strinati (L’Osservatore Romano, 04 dicembre 2021)
Uomo probo e riservato, padre maturo, amorevole, sollecito. Questo è il san Giuseppe dipinto nella bellissima pala d’ altare della chiesa di Santa Maria Assunta nel piccolo remoto borgo di Serrone, oggi depositata presso il museo capitolare diocesano di Foligno. Un’ opera d’ arte tanto importante in un luogo così appartato! Un grande dipinto ad olio su tela, alto quasi tre metri per due, rimasto ignoto per secoli fino a che, una quarantina d’ anni fa, fu visto e studiato da un manipolo di esperti guidati da Bruno Toscano, uno dei maggiori storici dell’arte del nostro tempo.
Ne rimasero incantati ma si accorsero che non c’erano testimonianze o documenti antichi che parlassero dell’autore. E non c’erano firme sull’opera tranne una lettera G segnata sulla pialla dietro alla figura del tenero Bambino Gesù in piedi. Lettera che può far individuare l’autore in un artista misterioso e pressoché dimenticato, Giovanni Demostene Ensio, aristocratico pittore attivo in area romana per committenti provenzali tra fine Cinquecento e inizio Seicento, aggregato all’ Accademia di San Luca e noto solo per lusinghiere testimonianze documentarie.
Risultò, infatti, evidente, oltre alla meravigliosa bellezza, la mirabile composizione dei colori fatti di materiali preziosi di origine soprattutto minerale, di cui si sa che il maestro Giovanni Demostene Ensio fosse tra i pochissimi in quel tempo a utilizzare, confermando l’ ipotesi di Toscano che aveva immaginato un ignoto pittore di origine francese o fiamminga, operoso in Italia nei primi anni del diciassettesimo secolo.
Il quadro rappresenta la bottega di san Giuseppe che non è qui un semplice artigiano ma un tecnico di primo livello che lavora il legno anche per l’edilizia. Il pittore descrive infatti con cura scientifica, veramente fiamminga, tutti gli strumenti di lavoro, le assi e i piani su cui il maestro ebanista sta lavorando, nonché la poderosa porta di ingresso al laboratorio fabbricata da Giuseppe stesso, appena aperta per far entrare la morbida luce del mattino. Questa rischiara il sorriso sul volto del Bambino Gesù che, sotto gli occhi seri, attenti e scrupolosi del padre sta legando un pezzetto del filo bianco proveniente dal gomitolo utilizzato dalla mamma nel cucito, per fabbricare un giocattolino a forma di croce, chiara premonizione della sua Passione futura. Con amorevole evangelica umiltà, il pittore rappresenta una miriade di cose sparse per il laboratorio, dai trucioli per terra, alla scatola di lavoro della Vergine agli zoccoli abbandonati al suolo. Tutto forgiato da quell’uomo saggio e avveduto. È lui che ha progettato, costruito e attrezzato il grande ambiente compresa la magnifica finestra bifora che si vede in fondo facendolo sembrare una cattedrale piuttosto che un laboratorio. Ed è lui che ha plasmato il clima familiare e morale che genera sia la composta quiete espressa dalla giovane moglie assorta nei suoi pensieri, sia la crescente consapevolezza del divino fanciullo colto nel momento magico della prima scoperta della famiglia intorno a noi e del mondo che si aprirà di fronte.
Il volto di Giuseppe immerso nell’ombra è nitidamente percepibile. E in questo modo rifulge il padre putativo della tradizione che significa la funzione paterna svincolata dal fattore biologico primario che compete esclusivamente alla madre.
Quasi che il pittore volesse farci vedere, attraverso tale umanissima rappresentazione di san Giuseppe, come questo principio, insondabile e apparentemente discriminante, non valga solo per lui, ma valga in realtà per tutti gli esseri umani anche se i nostri figli non sono figli di Dio.
Ma il pittore ci dice che invece è proprio così. Tutti, maschi o femmine o quant’altro, siamo, in quanto embrioni, feti e persone, figli di Dio perché il corpo generato dalla madre funziona a seguito dell’esito della fecondazione dell’ovulo da parte dello spermatozoo ma la vita in sé che possiamo chiamare l’ anima scaturisce da qualcos’ altro che possiamo chiamare il divino.
di Claudio Strinati
Segretario Generale dell’ Accademia Nazionale di san Luca
NOTA:
ARTE, RELIGIONE,E ANTROPOLOGIA.
SAN GIUSEPPE, TERESA D’AVILA, E IL CARMELO TERESIANO... *
"[...] è bene ricordare che, il culto del santo nel Carmelo entra già dalle origini dell’Ordine. La devozione a san Giuseppe, a livello personale e locale, si viveva fin dalla venuta dei carmelitani in Europa, anche se la festa del santo Patriarca, a livello di Ordine, non appare sino alla seconda metà del XV secolo.
Tale devozione nel Carmelo teresiano, va essenzialmente unita a santa Teresa. È uno dei legati più ricchi e caratteristici che la Santa lasciò ai suoi figli. Non si comprende il Carmelo teresiano senza san Giuseppe, senza l’esperienza giuseppina della Santa. Per la Santa Madre, i conventi che fonda, a immagine del primo (Avila 1562), sono ‘case’ di san Giuseppe. Per questo procura che la maggior parte di essi porti il nome e titolo di san Giuseppe.
Dei diciassette, fondati dalla Santa, undici stanno sotto il titolo di san Giuseppe. Se non tutte le fondazioni della Santa Madre portano quel titolo, non ce n’è nessuna dove non ci sia un’immagine del Santo che presieda e protegga la comunità. È un’ulteriore manifestazione, più della sua devozione ed esperienza giuseppina, il diffondere nei conventi le immagini del santo, la maggior parte delle quali ancora si conserva.
È da notare, a questo riguardo, il dato che portava con sé in tutte le fondazioni, una statua di san Giuseppe, che riceveva il titolo di “Patrocinio di san Giuseppe” [...]" (Antonio Faita, "Un inedito di Giuseppe Sarno: san Giuseppe con Gesù Bambino presso la chiesa teresiana di Gallipoli", Fondazione Terra d’Otranto, 19.03.2020).
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. “De Domo David. 49 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò, Fondazione Terra d’Otranto, 10.11.2019).
Federico La Sala
Nuove Litanie.
San Giuseppe ora diventa anche patrono di esuli, afflitti e poveri
Le Litanie in onore di san Giuseppe, approvate nel 1909, sono state integrate con sette invocazioni attinte dagli interventi dei Papi sulla figura del patrono della Chiesa universale
di Redazione Catholica (Avvenire, lunedì 3 maggio 2021)
Nel 150° anniversario della dichiarazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa universale, papa Francesco ha reso nota la lettera apostolica Patris corde, con l’intento di «accrescere l’amore verso questo grande Santo, per essere spinti a implorare la sua intercessione e per imitare le sue virtù e il suo slancio»; e ha indetto un Anno speciale dedicato al padre putativo di Gesù, iniziato lo scorso 8 dicembre.
Alla luce di tutto ciò la Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti ha inviato una lettera ai presidenti delle Conferenze episcopali informandoli che «è parso opportuno aggiornare le Litanie in onore di san Giuseppe, approvate nel 1909 dalla Sede Apostolica» e «integrandovi sette invocazioni attinte dagli interventi dei Papi che hanno riflettuto su aspetti della figura del Patrono della Chiesa universale».
Sono queste: «Custode del Redentore» (san Giovanni Paolo II, Redemptoris custos); «Servo di Cristo» (san Paolo VI, omelia del 19.3.1966, citata in Redemptoris custos n. 8 e Patris corde n. 1); «Ministro della salvezza» (san Giovanni Crisostomo, citato in Redemptoris custos, n. 8); «Sostegno nelle difficoltà» (Francesco, Patris corde, prologo); «Patrono degli esuli, degli afflitti, dei poveri» (Patris corde, n. 5).
«Sarà compito delle Conferenze dei vescovi disporre la traduzione delle Litanie nelle lingue di loro competenza e pubblicarle» si legge sempre nella lettera firmata dal segretario del dicastero, l’arcivescovo Arthur Roche, e dal sottosegretario, padre Corrado Maggioni. «Tali traduzioni non avranno bisogno di conferma della Sede Apostolica. Secondo il loro prudente giudizio, le Conferenze dei vescovi potranno anche introdurre, al luogo opportuno e conservando il genere letterario, altre invocazioni con le quali san Giuseppe è particolarmente onorato nei loro Paesi».
Albero di Jesse *
L’albero di Jesse (o Iesse) è un motivo frequente nell’arte cristiana tra l’XI e il XV secolo: rappresenta una schematizzazione dell’albero genealogico di Gesù a partire da Jesse, padre del re Davide, il quale è di particolare importanza nelle tre religioni abramitiche, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam.
Origine
Il tema iconografico trae spunto da un famoso annuncio messianico contenuto nel capitolo 11 del libro del profeta Isaia (11,1.10) [1] da cui ha origine il suo nome greco [2]. Gli artisti combinarono la frase con la genealogia di Gesù come appare nel vangelo secondo Matteo [3] o secondo il Vangelo di Luca (3, 23-38)[4], genealogie che tuttavia presentano vistose differenze.
La più antica rappresentazione conosciuta dell’albero di Jesse è datata 1086, e compare nel Codice Vissegradesi, vangelo dell’incoronazione di Vratislao II di Boemia[5].
Iconografia
Jesse viene solitamente rappresentato coricato, semi-coricato o nell’iconografia meno antica seduto[6][7]. Nell’arte romanica, solitamente, egli è rappresentato coricato all’aperto mentre in quella gotica appare più spesso dentro ad un letto riccamente adornato, come nelle vetrate della chiesa di Saint-Étienne a Beauvais che datano al 1520.
Spesso Jesse appare addormentato, la testa appoggiata su una mano. Questa posizione è, a volte, associata ad un sogno profetico concernente la discendenza del dormiente. Dal suo fianco o dal suo ventre o anche dal dorso[7] o più raramente dalla sua bocca, s’innalza un albero i cui rami sorreggono gli antenati di Gesù, in particolare Davide riconoscibile per la sua arpa, fino a Maria. Le vetrate della cattedrale di Chartres rappresentano, dal basso in alto Davide, Salomone, Roboamo, Abias ed infine Maria. Ogni artista, a seconda del testo che ha utilizzato, del proprio gusto e dello spazio che ha a disposizione, aggiunge altri personaggi dell’Antico Testamento, spesso i profeti che gli esegeti del Medioevo pensavano avessero annunciato la venuta di Cristo (sono quattordici sulle vetrate di Chartres). Alla sommità si trova Gesù, a volte in croce, a volte bambino, sulle ginocchia della madre.
Nel XIII secolo, l’albero si sviluppa verticalmente, ed è solo nel XV che comincia a ramificarsi lateralmente[6]. Ancora presente nell’iconografia cristiana del XV sec., il motivo declina nel XVI per scomparire con la Controriforma[6].
Esistono naturalmente anche altre forme di rappresentazione della genealogia di Gesù, che non utilizzano l’albero di Jesse, il più famoso è quello dipinto nelle lunette della Cappella Sistina da Michelangelo tratto dal Vangelo secondo Matteo[8].
I supporti
L’albero di Jesse è stato un motivo popolare in tutte le arti: si trovano esempi nei manoscritti miniati, le stampe, le vetrate, la scultura monumentale, gli affreschi, le tappezzerie o nei ricami[6].
Manoscritti
Il motivo appare in parecchie bibbie romane, ad esempio nella Bibbia di Lambeth, sotto forma di una B maiuscola decorata all’inizio del Libro di Isaia o del vangelo di Matteo. La bibbia di San Benigno, del XII secolo, una delle più antiche che ci sono pervenute, mostra Jesse e le sette colombe rappresentanti i sette doni dello Spirito Santo[9]. La bibbia dei Cappuccini (ultimo quarto del XII sec.) conservata nella Bibliothèque nationale de France ne è un altro esempio, l’albero di Jessi decora la L maiuscula del Liber generationis nel vangelo di Matteo[10].
Poiché il re Davide era considerato l’autore dei Salmi, i salteri erano sovente illustrati con un albero di Jesse, soprattutto i manoscritti inglesi, dove l’albero di Jesse s’arrotola attorno alla B maiuscola del testo latino Beatus Vir all’inizio del primo salmo. Uno dei primi esempi è il salterio di Huntingfield, della fine del XII secolo. La British Library possiede un bellissimo salterio del XIV sec., detto di Gorleston. In questi due esemplari Jesse è allungato ai piedi della lettera B. Si potrebbero citare ancora il salterio di Macclesfield (Fitzmuseum, Cambridge) ed il Salterio e le Ore del duca di Bedford [11].
Alcuni manoscritti consacrano una pagina intera al motivo, aggiungendovi personaggi, per esempio la sacerdotessa di Apollo Sibilla Cumana del salterio d’Ingeburg (inizio del XII sec.). Presso Colonia, in un lezionario di prima del 1164 si descrive un Jesse insolito, morto in una tomba o bara, da cui l’albero cresce[12].
Una prestigiosa rappresentazione dell’Albero di Jesse si trova nella cappella Roano (voluta dall’Arcivescovo Giovanni Roano), detta cappella del Crocifisso, sita all’interno del Duomo di Monreale in Sicilia.
Evoluzione
L’albero di Jesse, contaminato dalla popolarità del tema della parentela santa si modifica fino a diventare, a partire dal X secolo, il modello da cui deriveranno le successive rappresentazioni degli alberi genealogici[13] e in particolare per sintetizzare figurativamente la genealogia delle famiglie reali[14].
Per Tilde Giani Gallino l’albero di Jesse dell’abbazia di Saint-Denis rappresenta, dissimulato, un fallo di dimensioni sproporzionate. Questa rappresentazione è risultato dell’inconscia compensazione del suo ideatore, l’abate Sugerio, che - sfavorito dalla natura, causa imbecille corpusculum - proiettò, tramite quello che per lui era simbolo di forza e autorità, la sua «volontà di potenza».[15][16]
L’immagine dell’albero che nasce direttamente dal fianco di Jesse, affermatasi nei secoli XI-XII, ha una sconcertante analogia con la scena in cui si vede Brahmā seduto su un loto che esce dal ventre di Viṣṇu, secondo i testi sacri Veda. Nell’arte romanica i personaggi sono collocati direttamente sui rami e non nei calici dei fiori come avverrà dopo un paio di secoli, analogamente a quanto rappresentato nelle sculture buddhiste in Birmania, Cambogia, Cina ed altre parti dell’Estremo Oriente. Queste immagini si ritrovano a Worms, Issoudun (cappella dell’Ospedale), Rouen (cattedrale), Sens (cattedrale).[17]
* Fonte: Wikipedia (ripresa parziale, senza immagini e senza note).
Nota della Presidenza CEI sul Ddl Zan.
Troppi i dubbi: serve un dialogo aperto e non pregiudiziale *
La Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana, riunitasi lunedì 26 aprile, coerentemente a quanto già espresso nel comunicato del 10 giugno 2020, nel quadro della visione cristiana della persona umana, ribadisce il sostegno a ogni sforzo teso al riconoscimento dell’originalità di ogni essere umano e del primato della sua coscienza. Tuttavia, una legge che intende combattere la discriminazione non può e non deve perseguire l’obiettivo con l’intolleranza, mettendo in questione la realtà della differenza tra uomo e donna.
In questi mesi sono affiorati diversi dubbi sul testo del ddl Zan in materia di violenza e discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere, condivisi da persone di diversi orizzonti politici e culturali. È necessario che un testo così importante cresca con il dialogo e non sia uno strumento che fornisca ambiguità interpretative.
L’atteggiamento che è stato di Gesù Buon Pastore ci impegna a raggiungere ogni persona, in qualunque situazione esistenziale si trovi, in particolare chi sperimenta l’emarginazione culturale e sociale.
Il pensiero va in particolare ai nostri fratelli e sorelle, alle nostre figlie e ai nostri figli, che sappiamo esposti anche in questo tempo a discriminazioni e violenze.
Con Papa Francesco desideriamo ribadire che «ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare ogni marchio di ingiusta discriminazione e particolarmente ogni forma di aggressione e violenza» (Amoris Laetitia, 250).
Alla luce di tutto questo sentiamo il dovere di riaffermare serenamente la singolarità e l’unicità della famiglia, costituita dall’unione dell’uomo e della donna, e riconosciamo anche di doverci lasciar guidare ancora dalla Sacra Scrittura, dalle Scienze umane e dalla vita concreta di ogni persona per discernere sempre meglio la volontà di Dio.
Auspichiamo quindi che si possa sviluppare nelle sedi proprie un dialogo aperto e non pregiudiziale, in cui anche la voce dei cattolici italiani possa contribuire alla edificazione di una società più giusta e solidale.
La Presidenza della CEI
28 Aprile 2021
* Fonte: Chiesa Cattolica Italiana
Omofobia.
In Spagna arcivescovo indagato per una frase. Caso che fa riflettere
Il rischio è di introdurre nel nostro ordinamento il cosiddetto "reato di opinione", anche chi afferma verità affermate dalla Chiesa cattolica da sempre
di Marcello Palmieri (Avvenire, mercoledì 10 giugno 2020)
La cosiddetta Legge Mancino, recepita negli articoli 604 bis e 604 ter del codice penale, punisce «con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi».
Non solo. Lo stesso testo normativo istituisce la pena della «reclusione da sei mesi a quattro anni» per «chi in qualsiasi modo incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi». Sono ben precise e tassative - come d’altronde impone il diritto penale - le fattispecie punite, in quanto i concetti di discriminazione o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi risultano pacificamente chiari alla stragrande maggioranza dei cittadini.
Lo stesso non può dirsi per le fattispecie che vorrebbero essere incluse in questa legge: locuzioni come "identità di genere" e "orientamento sessuale" - contenuti nei testi in discussione presso la commissione Giustizia della Camera - rimandano a concetti tutt’altro che definiti, sui quali anche la comunità scientifica non si è ancora pronunciata in modo univoco. E il rischio, qualora queste proposte diventassero legge, sarebbe quello di introdurre nel nostro ordinamento il cosiddetto "reato di opinione", per la cui commissione basterebbe riferire un pensiero personale.
Né più né meno di quanto successo nel 2014 all’arcivescovo di Malaga (Spagna), indagato penalmente per aver affermato che la sessualità è destinata alla procreazione, evidentemente impossibile all’interno di una coppia omosessuale: una situazione, insomma, che si porrebbe in evidente contrasto il diritto alla libertà di pensiero sancita dalla nostra Costituzione. Affermare questo, tuttavia, non significa voler negare una doverosa tutela a quelle persone che, per via delle loro tendenze omo, si trovassero oggetto di qualsiasi tipo di violenza.
Già ora, infatti, il nostro ordinamento punisce penalmente chi uccide una persona, oppure la percuote, la diffama, la riduce o la mantiene in schiavitù, la sequestra, la violenta, la minaccia, la obbliga a fare o non fare una cosa, oppure ancora la rende vittima di stalking. Anche in questo caso, si tratta fatti (odiosi e delittuosi) ben chiari. Non di (liberi) pensieri, per di più su concetti tutt’altro che condivisi.
LA “DIVINA COMMEDIA” E IL CUORE DEL “PADRE NOSTRO”, “L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE”...
PLAUDENDO ALL’ECCEZIONALE LAVORO DELLA REDAZIONE DELLA FONDAZIONE “TERRA D’OTRANTO”, ANCHE ALLA LUCE DI QUESTO ULTIMO CONTRIBUTO, CREDO CHE OGGI (19 MARZO 2021), ALL’INTERNO DI UN ORIZZONTE STORICO SEGNATO DA UNA PANDEMIA PLANETARIA, SIA OPPORTUNO RIFLETTERE SUL FATTO CHE QUESTO ANNO (2021) è l’anno dedicato all’Anniversario della morte (1321) di Dante Alighieri e che a Lui è stata dedicato come giorno di memoria il 25 marzo, giorno di memoria liturgica anche dell’Annunciazione (vale a dire del concepimento del Bambino).
Accogliendo la sollecitazione di questa importante connessione, forse, è meglio ripensare a “come nascono i bambini” (antropologicamente, filosoficamente e teologicamente), alla figura dell’uomo Gesù, all’”Ecce Homo”(«Ecco l’uomo», gr. «idou ho anthropos») di Ponzio Pilato, e, ancora, alla lezione di Dante.
A mio parere, la sua lezione non è solo “poetico-letteraria”, ma è anche teologica e politica: la sua “Monarchia” con l’indicazione relativa ai “due soli” ha, infatti, il suo fondamento teologico e antropologico nell’amore (charitas) del “Cantico dei cantici” (cioè, di Salomone - non di Costantino: rileggere il c. XIV del “Paradiso”) e pone le condizioni per rileggere l’intera figura di san Giuseppe! Egli non è affatto un falegname che prepara la croce per inchiodarci su il bambino che gli è stato affidato, ma lo sposo di Maria, discendente della casa di Davide (“de domo David”: -https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/10/de-domo-david-39-autori-per-i-400-anni-della-confraternita-di-san-giuseppe-di-nardo/#comment-257181) che, come Salomone, ha saputo decidere e portare in salvo la madre vera e il bambino vero! O no?!
La statuina.
La devozione e l’affidamento di papa Francesco a san Giuseppe «dormiente»
Una devozione che risale alla giovinezza di Bergoglio e ci porta dritto al cuore della sua vocazione sacerdotale
di Mimmo Muolo *
Papa Francesco e san Giuseppe. Una devozione che risale alla giovinezza del Pontefice e ci porta dritto al cuore della sua vocazione sacerdotale. Come pure all’inizio del suo ministero petrino.
È infatti nella chiesa di San José di Buenos Aires che nel 1953 il diciassettenne Jorge Mario Bergoglio scopre la vocazione al sacerdozio. Ed è il 19 marzo 2013 - sei giorni dopo l’elezione a Vescovo di Roma e Pastore della Chiesa universale - che egli inaugura il proprio Pontificato con un’omelia incentrata sul ruolo di custode del padre putativo di Gesù. Non stupisce dunque la decisione di dedicare al santo la Lettera apostolica di ieri e di proclamare l’anno "giuseppino" (con relative indulgenze plenarie). Si può anzi dire che questi due gesti del Pontefice costituiscano gli ultimi anelli (per il momento) di una catena di affetto e devozione che lega Jorge Mario Bergoglio al casto sposo della Vergine.
Francesco ha del resto raccontato più volte come a san Giuseppe sia solito affidare intenzioni di preghiera e speciali intercessioni per il suo ministero. Nel suo studio personale a Casa Santa Marta, ci sono infatti due statue che raffigurano il santo. Una in particolare gli è molto cara e lo accompagna da sempre, da quando viveva nel Collegio Maximo di San Miguel di cui era rettore. Si tratta di un’immagine insolita, per noi italiani ed europei, ma molto diffusa tra i fedeli sudamericani: una statua che raffigura san Giuseppe dormiente.
Ora, sappiamo dalla Scrittura quanto il sonno sia stato determinante nella vicenda terrena del falegname custode della Sacra Famiglia. E anche nella Lettera apostolica di ieri papa Francesco si sofferma sui sogni in cui Giuseppe dà ascolto all’Angelo per prendere in sposa Maria, per fuggire in Egitto onde sottrarre Gesù Bambino alla persecuzione di Erode e infine per fare ritorno a Nazaret, una volta morto il malvagio re.
Per questo il Papa ha l’abitudine di infilare sotto la statua del santo addormentato biglietti che contengono problemi, richieste di grazia, preghiere dei fedeli. È come se invitasse san Giuseppe a "dormirci su", e magari a mettere una buona parola davanti a Dio, per risolvere situazioni difficili e aiutare i bisognosi, rinnovando così il suo ruolo di padre misericordioso e tutto proteso verso coloro che ama.
Lo confidò egli stesso il 16 gennaio 2015 a Manila nell’incontro con le famiglie: «Io amo molto san Giuseppe perché è un uomo forte e silenzioso. Sulla mia scrivania ho un’immagine di San Giuseppe mentre dorme e quando ho un problema o una difficoltà io scrivo un biglietto su un pezzo di carta e lo metto sotto la statua di San Giuseppe affinché lui possa sognarlo. (...) Ma come san Giuseppe, una volta ascoltata la voce di Dio, dobbiamo riscuoterci dal nostro sonno; dobbiamo alzarci e agire».
In definitiva, per papa Francesco lo sposo della Madonna è un santo davvero speciale, che protegge e aiuta perfino quando dorme.
Più volte nei suoi discorsi il Pontefice ha fatto riferimento alla figura del santo. In una delle omelie di Santa Marta, il 18 dicembre 2018, Francesco disse: «Giuseppe è l’uomo che sa accompagnare in silenzio» ed è «l’uomo dei sogni». Il 1° maggio scorso ha accolto a Santa Marta la statua di san Giuseppe lavoratore solitamente posizionata all’ingresso della sede nazionale delle Acli a Roma. Ma sicuramente, prima di ieri, l’espressione più compiuta della devozione giuseppina del Papa si trova nell’omelia di inizio pontificato.
«Giuseppe è "custode" - disse -, perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge». L’eco di queste parole risuona ora nella Lettera apostolica "Patris corde".
Leggi anche
* Fonte: Avvenire, mercoledì 9 dicembre 2020
Sul terma, nel sito, si cfr.:
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...
FLS
Papa Francesco indica l’ultima carta per cambiare il paradigma dell’umano
Fratelli tutti. Poiché è sull’amore, questa è un’enciclica laica, di una straordinaria laicità, perché l’amore non si lascia irretire in un solo stampo, in un unico codice
di Raniero La Valle (il manifesto, 07.10.2020)
È una lettera sconcertante e potente questa che papa Francesco, facendosi “trasformare” dal dolore del mondo nei lunghi giorni della pandemia, ha scritto a una società che invece mira a costruirsi “voltando le spalle al dolore”.
Per questo la figura emblematica che fa l’identità di questa enciclica, prima ancora che quella di Francesco d’Assisi, è quella del Samaritano, che ci pone di fronte a una scelta stringente: davanti all’uomo ferito (e oggi sempre di più ci sono persone ferite, tutti i popoli sono feriti) ci sono solo tre possibilità: o noi siamo i briganti, e come tali armiamo la società dell’esclusione e dell’iniquità, o siamo quelli dell’indifferenza che passano oltre immersi nelle loro faccende e nelle loro religioni, o riconosciamo l’uomo caduto e ci facciamo carico del suo dolore: e dobbiamo farlo non solo con il nostro amore privato, ma col nostro amore politico, perché dobbiamo pure far sì che ci sia una locanda a cui affidare la vittima, e istituzioni che giungano là dove il denaro non compra e il mercato non arriva.
Ci si poteva chiedere che cosa avesse ancora da dire papa Francesco dopo sette anni di così eloquenti gesti e parole, cominciati a Lampedusa e culminati ad Abu Dhabi nell’incontro in cui si è proclamato con l’Islam che “se è uccisa una persona è uccisa l’umanità intera”, ragione per cui non sono più possibili né guerre né pena di morte.
E per Francesco neanche l’ergastolo, che “è una pena di morte nascosta”, e tanto meno le esecuzioni extragiudiziarie degli squadroni della morte e dei servizi segreti. Ebbene, la risposta sul perché dell’enciclica è che ormai non si tratta di operare qualche ritocco qua e là, ma si tratta di cambiare il paradigma dell’umano, che regge tutte le nostre culture e i nostri ordinamenti: si tratta di passare da una società di soci a una comunità di fratelli.
Perciò questa seconda lettera (l’altra è stata la Laudato sì, mentre la prima era in realtà di Ratzinger) non è un’enciclica sociale; solo una volta il papa si fa sfuggire di aver scritto un’”enciclica sociale”; in realtà essa non ha nessuna somiglianza con il “Compendio della dottrina sociale della Chiesa” fatto pubblicare nel 2004 da papa Wojtyla, in cui si pretendeva di definire per filo e per segno tutto ciò che si doveva fare nella società.
Questa invece è un’enciclica sull’amore perché passare da soci a figli vuol dire passare dalla ricerca dell’utile all’amore senza ragione: i migranti non si devono accogliere perché possono essere utili, ma perché sono persone, e i disabili e gli anziani non si devono scartare perché una società dello scarto è essa stessa inumana.
Poiché è sull’amore, questa è un’enciclica laica, anzi di una straordinaria laicità, perché l’amore non si lascia irretire in un solo stampo, in una sola proposta, in un unico codice. È impressionante come papa Francesco lasci aperte sempre altre possibilità, altre considerazioni del reale, altre strade possibili, perfino dinanzi al peccato e all’errore; sempre è invocata la pluralità, mai il relativismo, sempre il gusto delle differenze, dell’inedito, del non ancora compreso; il poliedro, mai la torre di Babele, dalla pretesa unificante.
Ci vuole fantasia per costruire la società fraterna e non è facile passare dal “legame di coppia e di amicizia” all’accoglienza verso tutti e all’”amicizia sociale”. Alle volte sembra di leggere una lezione di laicità al mondo, alle culture fissiste, come il liberismo, che fa della proprietà privata, che è “un diritto secondario”, un valore primario e assoluto, mentre originario e prioritario è il diritto all’uso comune dei beni creati per tutti; come c’è una lezione al populismo e al nazionalismo, incapaci di farsi interpellare da ciò che è diverso, di aprirsi all’universalità, chiusi come sono nei loro angusti recinti come in “un museo folkloristico di eremiti localisti”; il male è che così si perdono proprio beni irrinunciabili come la libertà o la nazione: l’economia che si sostituisce alla politica non ha messo fine alla storia ma ruba la libertà; e con la demagogia il rischio è che si perda il concetto di popolo, “mito” e istituzione insieme, a cui non si può rinunziare perché altrimenti si rinunzia alla stessa democrazia.
La stessa fraternità, dice Francesco, va strutturata in un’organizzazione mondiale garantista e efficiente, sotto “il dominio incontrastato del diritto”, anche se un progetto per lo sviluppo di tutta l’umanità “oggi suona come un delirio”.
Mentre l’enciclica si distribuiva in piazza san Pietro ed era tolto l’embargo, nelle chiese si leggeva, tra le letture del giorno, questa frase del profeta Isaia: “Egli (il Signore) si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi”. Sembrava un giudizio scritto per l’oggi, mentre Francesco è assediato, fin dentro al tempio, da mercanti e falsi difensori della fede.
È forse questo il segreto di questa enciclica: c’è, per un mondo malato, dove “tutto sembra dissolversi e perdere consistenza”, da giocare l’ultima carta, cambiare i soci in fratelli. Si potrà poi essere anche cattivi fratelli, incapaci di memoria, di pietà, di perdono, però tutti si riconosceranno investiti della infinita dignità dell’umano, questa verità che non muta, accessibile a tutti e obbligante per tutti.
Ma per essere fratelli ci vuole un padre. Perciò tutto il ministero di papa Francesco è volto a “narrare” al mondo la misericordia del Padre; lui che è il primo pastore della religione del Figlio, si mette nei panni del Figlio (com’è del resto suo compito) per recuperare la religione del Padre, per dare agli uomini un Padre in cui si riconoscano finalmente fratelli. Una cosa così “religiosa” che la voleva perfino la Rivoluzione francese; solo che, dice ora papa Francesco, se la fraternità non si esercita veramente anche la libertà e l’uguaglianza sono perdute. E il mondo, ora, sarebbe perduto con loro.
La storia del “Lloroncito”, il Bambino Gesù di Santa Teresa d’Avila
Racconta la tradizione che quando la santa partì per un viaggio il volto del Bambino Gesù iniziò a lacrimare
di Gaudium Press*
Teresa di Gesù, la santa, mistica e Dottore della Chiesa, era molto devota all’infanzia di Gesù. Ne è prova la presenza dell’immagine del Bambino Gesù in ciascuna delle sue fondazioni carmelitane. Esiste anche una leggenda che afferma che la splendida immagine del Bambino Gesù oggi venerata nella chiesa di Santa Maria della Vittoria di Praga (Repubblica Ceca) apparteneva alla religiosa riformatrice dell’Ordine del Carmelo.
Per questo, non stupisce che tra i tesori di valore spirituale lasciati dalla santa ci siano varie immagini del Bambino Gesù. Una di queste, quella nota come “El Lloroncito”, richiama l’attenzione in modo particolare.
La bella immagine - che ricorda proprio il Bambino Gesù di Praga, perché con la mano destra benedice e con la sinistra sostiene un globo che rappresenta l’universo - si trova nel convento San José di Toledo (Spagna), una delle fondazioni di Santa Teresa di Gesù.
L’immagine, alta appena 20 centimetri, intagliata nel legno e risalente al XVI secolo, venne portata dalla santa a Toledo quando nel 1569 vi fondò il convento, la sua quinta fondazione.
Secondo la tradizione carmelitana, la piccola immagine è chiamata “El Lloroncito” perché quando Santa Teresa d’Avila doveva partire e lasciare il convento di Toledo il volto del Bambino Gesù iniziò a lacrimare.
Così è scritto nel museo del convento che custodisce questo tesoro: “Il giorno 8 giugno 1580, Santa Teresa si congedava dalle sue religiose di Toledo per recarsi a Segovia. Il cuore naturalmente affettuoso della santa soffriva molto in questi congedi, soprattutto quando pensava che non avrebbe rivisto le sue figlie. Quella volta né lei né le sue amate religiose si sbagliavano, perché tutte presentivano che la Madre era giunta al termine del suo viaggio terreno. Secondo una pia tradizione, perfino un’immagine del Bambino Gesù si associò al dolore delle monache, versando lacrime quando la santa abbandonò il suo amato convento di Toledo. Da allora questa immagine viene chiamata con il soprannome affettuoso ‘Niño Lloroncito’”.
L’immagine del Bambino Gesù ha un ricco corredo composto da vari abiti ricamati, pezzi di oreficeria, scarpe e sonagli, oggetti abituali della dote delle religiose.
“Io sono Gesù di Teresa”
Un’altra tradizione parla dell’incontro personale che Santa Teresa ebbe con il Bambino Gesù.
Si dice che il fatto avvenne nel monastero dell’Incarnazione di Avila un giorno in cui la Madre stava scendendo le scale e inciampò in un bel bambino che le sorrideva. Suor Teresa, sorpresa nel vedere un bambino all’interno del convento, gli si rivolse chiedendogli: “E tu chi sei?”, al che il bambino rispose con un’altra domanda: “E chi sei tu?”. La Madre disse: “Io sono Teresa di Gesù”. Il bambino, con un sorriso ampio e luminoso, le disse; “Io sono Gesù di Teresa”.
*
[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicott i]
*
Gaudium Press | Fri Sep 02 2016 - QUI IL LINK ALL’ARTICOLO ORIGINALE
*
Fonte: Aleteia (ripresa parziale).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CARMELITANI SCALZI ED ECUMENISMO: STORIA E MEMORIA. Ritrovato nel salernitano "file" perduto del tardo Rinascimento
FLS
Il pARTicolare.
Raffaello e la Madonna del Divino Amore
di Federica Maria Marrella [2018]*
Ci fu un saggio. Una volta.
Un saggio scritto che lessi con una voracità a me inconsueta, poiché la lentezza in realtà mi caratterizza, generalmente.
Eppure, quel saggio raccontava una storia bellissima. La storia di un dipinto simbolo e ritmo di perfezione.
Tondo in cui il tutto ha bisogno del singolo elemento, di ogni singolo particolare.
Verrà esposto a Torino nella Pinacoteca Agnelli, dal 17 marzo al 28 giugno, un dipinto di Raffaello Sanzio generalmente custodito a Napoli, nel museo di Capodimonte. L’opera è La Madonna del Divino Amore, realizzata nel periodo romano dell’artista, precisamente nel 1516 - 1518. Anni in cui la volta della cappella Sistina di Michelangelo Buonarroti era stata già compiuta. Anni in cui lo stile stesso di Raffaello si modifica, si espande nelle forme, nei tondi e negli angoli, come quella punta di ginocchio che tiene seduto il bambin Gesù.
Ma osserviamo l’opera.
Raffaello ritrae Maria, la madre Anna, Gesù e San Giovannino. Questo è il gruppo centrale, sapientemente ritratto e scolpito, poiché i corpi paion scolpiti, disegnati di sguardi, presentimenti, dettagli e silenziosi discorsi.
Maria e Anna, i capi leggermente appoggiati, sembrano sostenersi nell’osservare il miracolo di fronte a loro. Un sostegno muto e abbondante di sentimento. Lo stesso dialogo silenzioso e di sguardi realizzato nel cartone di Leonardo (Il Cartone di Sant’Anna, Louvre, Parigi). Quel cartone famoso, creato anche esso molti anni prima, nel 1499-1500, cartone in cui sant’Anna guarda, però, la figlia. E la figlia guarda il Cristo. E san Giovannino guarda anche egli il Cristo. E anche qui i corpi sono possenti. Entrambi gli artisti erano rimasti colpiti e, forse consciamente, forse inconsciamente ispirati dai corpi del Buonarroti. Quei corpi di scultura che si realizzano anche in pittura, nel disegno, nello studio della forma umana.
Le Conversazioni sono sempre materia molto complessa. Eppure la massa scultorea del cartone di Leonardo, i sentimenti umani concretizzati anche con la matita in uno sfumato misterioso, il movimento creato nella roccia umana, quel peso presente e concreto, tipico dell’umanesimo leonardesco che vedeva nell’uomo e nel suo corpo il più grande mistero di ogni tempo, ecco tutto questo in Raffaello sparisce. Questa possanza fisica, che si nota osservando ogni soggetto singolarmente, nel dialogo degli sguardi prende leggerezza, eleganza. Quella perfezione di cui parla Ernst H. Gombrich raccontando La madonna della seggiola (1514), altra opera di Raffaello. Quella perfezione e leggerezza che ha bisogno del tutto per esistere.
Eppure, il tutto nel dipinto di Raffaello, non si ferma al primo piano, al dialogo silenzioso ma serrato tra madre e figlia e tra i piccoli protagonisti. Il dialogo di fronte al mistero, pretende anche la solitudine del silenzio. Il distacco. La paura. Il disagio. madonna-del-divino-amore-dopo-il-restauro-img_5938
Queste parole sembrano così lontane dalla creazione di Raffaello Sanzio, il pittore che diede vita alla perfezione della natura, alla leggerezza, al tratto perfetto. All’armonia. Il pittore che, secondo le parole di Pietro Bembo, diede vita alla natura stessa. Raffaello invece, in questo dipinto, ritrae il dolore, la perplessità, la paura del mistero e dell’incomprensibile. Ritrae la pretesa e la ricerca di solitudine.
Eccolo, il pARTicolare.
Sullo sfondo, Giuseppe. San Giuseppe, perché ha già l’aureola. È già santo, anche nel suo tormento. Con le braccia conserte, ci sembra di vederlo che cammina avanti e indietro, su quel corridoio nascosto dalla luce perfetta che inonda il soggetto in primo piano. San Giuseppe, con la sua aureola, le sue braccia conserte, la sua mano tesa ad accartocciarsi il mantello, la sua testa confusa e i suoi pensieri legittimi, cammina, avanti e indietro. Crea un solco, su quel pavimento grigio.
Lo potremmo togliere, San Giuseppe, come ha giocato Gombrich sul dipinto de La Madonna con la seggiola. Il grande storico dell’arte aveva provato con la mano a coprire un elemento del dipinto e si è accorto che tutto il resto crollava.
La perfezione geometrica e l’armonia aveva bisogno del tutto.
E anche qui, senza san Giuseppe, questa conversazione crollerebbe.
Perché di fronte al miracolo, è concessa, anzi non solo concessa, è richiesta la paura. È da vivere il dubbio. Il dubbio che solca i pavimenti.
Che si stringe nel petto.
E che ci rende santi.
E quella distanza diventa unione nei colori. Il manto di Maria, azzurro, si unisce a quel cielo terso, in cui spicca il volto barbuto di San Giuseppe. Ogni elemento si unisce. Nel dialogo silenzioso, e dove non è possibile, nella Natura.
Federica Maria Marrella
* ArtSpeciallyDay, sabato 8 dicembre 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO" DI RAFFAELLO.
FLS
Coronavirus. Epidemia e teologia, l’ebook di Fazzini
Un istant ebook che individua nella pandemia in cui siamo emersi un fatto “apocalittico”, nel senso etimologico del termine: non un evento da fine del mondo, ma di una rivelazione
di Redazione Agorà (Avvenire, mercoledì 25 marzo 2020)
“Si può fare una teologia del Covid-19? È possibile pensare teologicamente il coronavirus? Che cos’ha da dire la parola umana su Dio di fronte alla pandemia che da alcune settimane stravolge la nostra vita e la storia del mondo?”.
Esordisce con queste domande l’istant ebook Dio in quarantena. Una teologia del coronavirus (Emi, 2020, scaricabile gratuitamente su https://www.emi.it/dio-in-quarantena-un-ebook-gratuito) firmato da Lorenzo Fazzini, giornalista e saggista, direttore dell’Editrice missionaria italiana, disponibile da oggi. Una breve e densa riflessione in cui Fazzini individua nella pandemia in cui siamo immersi un fatto “apocalittico”, nel senso etimologico del termine: non un evento da fine del mondo, ma di una rivelazione che “ci dirà il senso. Il perché. La ragione. Ovvero: eschaton come il tempo ultimo che ci dice il significato. Di noi, degli altri, del mondo, di Dio”.
L’analisi di Fazzini inanella una serie di eventi, da lui appunti interpretati in chiave apocalittica, che hanno segnato l’inizio di terzo millennio: l’11 settembre, lo tsunami asiatico, la crisi finanziaria, l’ecatombe del terremoto di Haiti, il dramma delle migrazioni, l’elezione di papa Francesco dopo le dimissioni di un pontefice. Fino a due segnali convergenti: simbolicamente, la fine della cristianità nel rogo di Notre Dame; la recente certificazione di papa Bergoglio - “non siamo più in un regime di cristianità” - rispetto al cambio di epoca che stiamo vivendo.
Fazzini arricchisce il suo ragionamento di vari spunti letterati, da Cormac McCarthy a Marilynne Robinson, filosofici (Hans Jonas, Paul Ricoeur) e teologici (Dietrich Bonhoeffer e il gesuita australiano Richard Leonard), per concludere che la forza della solidarietà e l’eroismo umano che questi eventi “da fine del mondo” ci offrono, e che il coronavirus sta mettendo sotto i nostri occhi nel sacrificio di medici, infermieri e operatori sanitari, dicono molto della “salvezza ancora possibile” che ci sta davanti.
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
*
A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe.
Contemplando con fede la casa di Nazareth ogni credente può scorgervi un modello
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 29 dicembre 2019)
La vita nasce da una relazione che si apre all’infinito, perché ogni essere umano che viene al mondo è segno dell’amore sconfinato di Dio. La famiglia è scrigno prezioso che ha la responsabilità di dare forma a questa continua promessa di futuro.
Oggi il rito romano pone la festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, icona universale di un’intimità domestica portatrice di un messaggio rivoluzionario: Dio abita in mezzo a noi. Contemplando la casa di Nazareth ogni credente non può non scorgervi un’ispirazione e un modello: i piccoli gesti di cura e attenzione vissuti tra quelle mura testimoniano lo stile dell’agire di Dio nella storia. Ecco perché per i cristiani farsi compagni di strada degli ultimi significa prima di tutto essere luce di speranza e di amore per le persone più vicine: tutti abbiamo bisogno di aprirci continuamente alla vita attraverso relazioni d’amore.
Altri santi. San Davide, re (X sec. a.C.); san Tommaso Becket, martire (1118-1170).
Letture. Sir 3,3-7.14-17; Sal 127; Col 3,12-21; Mt 2,13-15.19-23.
Ambrosiano. Pr 8,22-31; Sal 2; Col 1,13b.15-20; Gv 1,1-14.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.... *
Il viaggio.
Papa in Thailandia: bambine costrette a prostituirsi, sfigurata dignità
Francesco nell’omelia della messa allo Stadio nazionale di Bangkok tocca la piaga della prostituzione, anche minorile, legata al turismo sessuale, piaga particolarmente sentita in Thailandia
di Gianni Cardinale, inviato in Thailandia (Avvenire, giovedì 21 novembre 2019)
Questa mattina primo bagno di folla per Papa Francesco nella sua visita in Thailandia. Siamo al St. Louis Hospital di Bangkok, fiore all’occhiello della diocesi ed eccellenza nel campo sanitario del Paese. E’ stato fondato 120 anni fa e ad accogliere il Papa sono in tantissimi: medici, infermiere, impiegati, operai con i loro familiari, semplici fedeli. Tutti con la bandierina thai e della Santa Sede. Questo è l’ultimo dei tre appuntamenti della mattinata.
L’incontro è nel grande auditorium con da una parte il ritratto del re e della regina, dall’altro una immagine di Gesù con la Vergine Maria.
"Tutti voi, membri di questa comunità sanitaria - dice Papa Bergoglio -, siete discepoli missionari quando, guardando un paziente, imparate a chiamarlo per nome". "I vostri sforzi e il lavoro delle tante istituzioni che rappresentate sono la testimonianza viva della cura e dell’attenzione che siamo chiamati a dimostrare per tutte le persone, in particolare per gli anziani, i giovani e i più vulnerabili", aggiunge. E poi ricorda come in questi 120 anni di vita del St. Louis "quante persone hanno ricevuto sollievo nel loro dolore, sono state consolate nelle loro oppressioni e accompagnate nella loro solitudine!”. Di qui il grazie “per il dono della vostra presenza nel corso di questi anni”, e la richiesta “di far sì che questo apostolato, e altri simili, siano sempre più segno ed emblema di una Chiesa in uscita che, volendo vivere la propria missione, trova il coraggio di portare l’amore risanante di Cristo a coloro che soffrono". La visita del Papa si chiude con un incontro privato con alcuni malati.
In precedenza il Papa ha già incontrato le autorità politiche del Paese e ha visitato la principale autorità buddista della Thailandia. Nel discorso rivolto ai rappresentanti del governo, al corpo diplomatico e ai leader politici al Government House ribadisce che “la crisi migratoria non può essere ignorata". "La stessa Tailandia, - sottolinea - nota per l’accoglienza che ha concesso ai migranti e ai rifugiati, si è trovata di fronte a questa crisi dovuta alla tragica fuga di rifugiati dai Paesi vicini” (QUI IL DISCORSO) . Di qui il rinnovato auspicio “che la comunità internazionale agisca con responsabilità e lungimiranza”, in modo da risolvere “i problemi che portano a questo tragico esodo” e a promuovere “una migrazione sicura, ordinata e regolata”.
Nel suo intervento Francesco rivolge anche un pensiero "quelle donne e a quei bambini del nostro tempo che sono particolarmente feriti, violentati ed esposti ad ogni forma di sfruttamento, schiavitù, violenza e abuso".
Esprime la sua “riconoscenza al governo tailandese per i suoi sforzi volti ad estirpare questo flagello, come pure a tutte le persone e le organizzazioni che lavorano instancabilmente per sradicare questo male e offrire un percorso di dignità”.
Auspica che nascano sempre più “artigiani dell’ospitalità”, uomini e donne che “si prendano cura dello sviluppo integrale di tutti i popoli, in seno a una famiglia umana che si impegni a vivere nella giustizia, nella solidarietà e nell’armonia fraterna". E invita a coniugare libertà Thai (vuol dire proprio questo) e solidarietà, afinché “le persone e le comunità possano avere accesso all’educazione, al lavoro degno, all’assistenza sanitaria, e in tal modo raggiungere i livelli minimi indispensabili di sostenibilità che rendano possibile uno sviluppo umano integrale".
Dopo l’incontro con il mondo diplomatico e della politica Papa visita il Patriarca Supremo dei Buddisti, Somdej Phra Maha Muneewong, nel Tempio Wat Ratchabophit Sathit Maha Simaram. Qui ribadisce che “il cammino interreligioso” può testimoniare "anche nel nostro mondo, tanto sollecitato a propagare e generare divisioni e esclusioni, che la cultura dell’incontro è possibile” (QUI IL DISCORSO COMPLETO). Perché “quando abbiamo l’opportunità di riconoscerci e di apprezzarci, anche nelle nostre differenze, offriamo al mondo una parola di speranza capace di incoraggiare e sostenere quanti si trovano sempre maggiormente danneggiati dalla divisione".
Il Pontefice rimarca "quanto sia importante che le religioni si manifestino sempre più quali fari di speranza, in quanto promotrici e garanti di fraternità". E ringrazia la Thailandia perché fin dall’arrivo del cristianesimo, circa quattro secoli e mezzo fa, "i cattolici, pur essendo un gruppo minoritario, hanno goduto della libertà nella pratica religiosa e per molti anni hanno vissuto in armonia con i loro fratelli e sorelle buddisti". Tra i doni offerti da Papa Francesco al patriarca buddista dell, vi è "il Documento sulla Fraternità umana di Abu Dhabi".
La mattinata di Papa Francesco in Thailandia si chiude quando in Italia comincia ad albeggiare. Il fuso orario segna sei ore di differenza. Nel pomeriggio di Bangkok si è svolta la visita di cortesia al re e la messa nello Stadio Nazionale.
Nell’omelia della messa, con 60mila fedeli che riempiono lo stadio, papa Francesco torna ad alludere al problema del turismo sessuale. Nell’omelia il Pontefice rivolge un pensiero particolare a "quei bambini, bambine e donne esposti alla prostituzione e alla tratta, sfigurati nella loro dignità più autentica". (QUI L’OMELIA)
E poi anche "a quei giovani schiavi della droga e del non-senso che finisce per oscurare il loro sguardo e bruciare i loro sogni; penso ai migranti spogliati delle loro case e delle loro famiglie". E poi ai tanti altri che "possono sentirsi dimenticati, orfani, abbandonati". E poi "ai pescatori sfruttati, ai mendicanti ignorati". Tutti questi, sottolinea il Papa, "fanno parte della nostra famiglia, sono nostre madri e nostri fratelli".
Da qui un duplice l’appello. Primo: a non privare "le nostre comunità dei loro volti, delle loro piaghe, dei loro sorrisi, delle loro vite". Secondo: non privare "le loro piaghe e le loro ferite dell’unzione misericordiosa dell’amore di Dio". -Infatti "l’evangelizzazione non è accumulare adesioni né apparire potenti, ma aprire porte per vivere e condividere l’abbraccio misericordioso e risanante di Dio Padre che ci rende famiglia".
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
«Dio diventi neutro: basta con il maschile»
Berlino, lite sul sesso di Dio
La ministra: «Sia neutro»
di Paolo Lepri (Corriere della Sera, 22.12.2012)
-*** «Dio deve diventare neutro: basta indicarlo con il maschile». Il ministro per la Famiglia tedesco, Kristina Schröder, cristiano-democratica, nota per le battaglie contro il femminismo, in un’intervista ha detto di trovarsi in imbarazzo con la sua piccola Lotte, un anno e mezzo, parlando di Dio.
BERLINO - Qual è il «sesso di Dio» spiegato ai bambini? Non si tratta di un dibattito teologico-grammaticale che potrebbe escludere quel 16 per cento della popolazione mondiale che secondo un recente studio del «Pew Forum on Religion and Public Life» si professa non credente.
È qualcosa di più, e riguarda tutti coloro che hanno figli piccoli, perché il problema del «genere» nell’educazione infantile è ormai all’ordine del giorno in molti Paesi europei. Lo dimostra la proposta del governo francese di inserire nel libretto di famiglia la dizione «genitore 1» e «genitore 2» al posto del padre e della madre, e il riaffacciarsi in Svezia del pronome neutro per sostituire il «lui» e il «lei» nell’asilo.
In Germania, è stato il ministro per la Famiglia, Kristina Schröder, cristiano-democratica, nota per le sue battaglie contro il «femminismo storico», a fare discutere tutti. In questo caso, si è iniziato a parlare di religione, ma il vero scontro è sulla figura dell’uomo e della donna nell’immaginario dei bambini.
In un’intervista al settimanale Die Zeit, Kristina Schröder ha detto di trovarsi in imbarazzo con la sua Lotte (un anno e mezzo) parlando di Dio al maschile, come avviene nella lingua tedesca, e ha aggiunto che sarebbe meglio usare l’articolo «das», con cui si precedono i nomi di genere neutro. «Ciascuno - ha detto - dovrebbe decidere per conto proprio». Una riflessione, questa, che è stata accompagnata da critiche al «sessismo» delle fiabe e della letteratura per bambini in cui «raramente si trovano figure positive di donne».
Le parole della Schröder sono state accolte con una raffica di proteste. Christine Haderthauer, ministro per gli Affari sociali della Baviera, le ha definite una «sciocchezza intellettualistica». Un altro esponente cristiano-sociale, il parlamentare Stefan Müller, ha osservato che «Dio appare a noi come il Padre di Cristo e così dovrebbe rimanere». Secondo un eminente teologo cattolico, padre Wilhelm Imkamp, l’idea di rendere neutro il Padreterno è «stupida, insolente e testimonianza di opportunismo».
L’unico a gettare acqua sul fuoco è stato Klaus-Peter Willsch, parlamentare della Cdu nell’Assia (il Land dove Kristina Schröder sarà capolista nelle elezioni del prossimo autunno), suggerendo che «per chi cerca una figura di genere neutro, c’è Gesù Bambino». Alla parola Christkind, infatti, si accompagna «das». «Per chi crede in Dio l’articolo è indifferente», ha risposto il portavoce della cancelliera, Steffen Seibert, durante il consueto briefing del governo.
Secondo un collaboratore di Kristina Schröder, Benedetto XVI «ha scritto che Dio non è né uomo né donna» e quindi «i critici del ministro non dovrebbero essere più "papali" del Papa». E lei, la diretta interessata? Ha ricordato alla Bild che si stava riferendo ad una bambina e non ai tanti adulti «inciampati» sulle sue parole. Ma non è detto che tutto finisca qui.
Tre donne «forti» dietro tre padri della fede
di Marco Garzonio (Corriere della Sera, 25 ottobre 2012)
Il IV secolo è fine di un’epoca e nascita di tempi nuovi anche per i modelli femminili nella cultura cristiana e nella società. Mentre le istituzioni dell’Impero si sfaldano, popoli premono ai confini, corruzione e violenze dilagano e le casse sono vuote, causa guerre ed evasione fiscale, alcune donne sono protagoniste delle trasformazioni almeno tanto quanto gli uomini accanto ai quali la storia le ha accolte. Elena, madre di Costantino, Monica madre di Agostino, Marcellina sorella di Ambrogio.
Ma ci son pure Fausta, moglie di Costantino, da lui fatta assassinare per sospetto tradimento (violenza in famiglia anzi tempo) e la compagna di Agostino, giovane cartaginese vissuta anni more uxorio («coppia di fatto» si direbbe oggi) col futuro santo vescovo d’Ippona. Gli diede pure un figlio, Adeodato, di lei però non è rimasto nemmeno il nome: una rimozione del femminile, nonostante la straordinaria autoanalisi ante litteram compiuta da Agostino nelle Confessioni; un archetipo delle rimozioni collettive della donna praticate dalla cattolicità e di tanta misoginia e sessuofobia che affliggeranno la Chiesa per secoli e ancora la affliggono. Ma andiamo con ordine nel considerare i tipi.
La madre solerte, forte, premurosa, ambiziosa, molto attaccata al figlio maschio, possessiva: è il modello di madre che emerge dalle testimonianze. In parte è un’icona ritagliata sul prototipo della matrona romana, su cui s’innesta la novità del cristianesimo. Questo dalle origini si dibatte in una contraddizione. C’è l’esempio di Gesù che «libera» la donna dalle sudditanze; per lui non è alla stregua di una «cosa» (come negli usi romani); negli incontri rivela l’alta considerazione verso una persona non certo inferiore all’uomo e contraddice così la cultura del tempo. Narrano i vangeli che Gesù si mostra a Maria di Magdala e alle altre donne come il Risorto davanti al sepolcro vuoto: loro sono le protagoniste, a esse affida l’annuncio pasquale. Dall’altra parte c’è San Paolo che invita le mogli a stare sottomesse ai mariti e ispira la visione di un ruolo ancillare, silenzioso, subordinato.
Ecco, allora: Elena anticipa quella che in epoche successive sarà la Regina Madre. Locandiera, legata a Costanzo Cloro cui darà un figlio, Costantino, fa di tutto perché questi diventi padrone dell’Impero: tesse rapporti, guida, consiglia. Verrà ricambiata: Costantino cingerà lei del diadema imperiale (invece della «traditrice» Fausta) introducendo nell’iconografia una coppia un po’ incestuosa: madre e figlio. Psicologicamente Costantino sarà in un certo modo sottomesso a Elena. A Gerusalemme lei troverà le reliquie del Santo Sepolcro. Dei chiodi della Croce ornerà la corona imperiale (posta sul capo dei padroni del mondo sino a Napoleone) per dire che chi governa è sottomesso a Dio, e farà il morso del cavallo del figlio: anche i sovrani devono frenare le pulsioni. Madre altrettanto ingombrante, sul piano degli affetti in questo caso, fu Monica per Agostino.
Questi aveva cercato di liberarsene partendo per Roma senza dir nulla ma Monica non si scoraggiò, lo inseguì e raggiunse sino a Milano, capitale ai tempi. Qui convinse il figlio, all’apice del successo come retore, a rispedire in Africa la compagna e si diede da fare perché trovasse a corte una moglie. Intanto s’era pure spesa affinché Agostino conoscesse Ambrogio, che a Milano contava più delle insegne imperiali. Così l’amore di madre si trasformò: cadde il progetto di ascesa sociale, venne la conversione e il futuro padre della Chiesa riprese la via dell’Africa, senza più Monica però, che morirà sulla via del ritorno.
Un altro genere di donna, che ebbe e ha importanza nella Chiesa, nei costumi, nella cultura è incarnato da Marcellina. La sorella di Ambrogio, dopo aver contribuito a crescere i fratelli, prese il velo con papa Liberio. Grazie a lei si prospettò una scelta di vita ricalcata sul modello del monachesimo orientale, di cui Ambrogio era estimatore: la verginità (su questa il Patrono di Milano compose una delle sue opere principali), la consacrazione, il chiostro in cui ritirarsi, pregare e, in taluni sviluppi, lavorare, garantire il prosieguo delle tradizioni e aprirsi al mondo attraverso opere di carità. Costantino, Ambrogio, Agostino e lo loro donne: esempi d’una storia plurale che continua, viene costruita giorno dopo giorno ancora, si evolve.
La Chiesa oggi dialogo possibile tra fede e modernità
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 25 ottobre 2012)
È stato molto importante il Sinodo che ha radunato duecentocinquanta Vescovi venuti dai cinque continenti insieme a numerosi teologi e collaboratori. Importante per il tema che dovrà avere concreti seguiti da parte di tutte le Diocesi cattoliche e riguarda una nuova evangelizzazione della fede di cui la Chiesa sente estremo bisogno; ma è importante anche perché ha coinciso con il cinquantenario del Concilio Vaticano II.
I Vescovi riuniti nel Sinodo hanno rievocato il Concilio, ma il Papa stesso lo ha ricordato e insieme a lui i relatori del Sinodo. Sono state formulate molte domande e date molte risposte; domande in alcuni casi volutamente provocatorie e risposte in larga misura discordanti tra loro così come discordanti sono state le interpretazioni sull’essenza del Vaticano II. Alcuni interventi sono stati fatti non solo dai Vescovi e dai teologi del Sinodo ma anche da teologi e Vescovi che ne hanno scritto su giornali cattolici e sulla stampa di informazione e da laici interessati ai temi in discussione.
Insomma sull’attuale stato della Chiesa cattolica l’attenzione del “popolo di Dio”, della gerarchia
che lo guida o pretende di guidarlo e di quanti - credenti o non credenti o credenti in altre religioni
sono interessati al dibattito sui valori della religione, è stata intensa. Vogliamo anche noi cogliere
l’occasione che l’attualità ci offre ed esprimere una nostra valutazione.
Benedetto XVI diffonderà prossimamente un suo nuovo libro sulla figura di Gesù e si è pubblicamente già posto due domande: «Chi siamo noi? Che cos’è la Chiesa?». Nell’attuale crisi di valori queste domande interessano tutti molto al di là dei recinti delle Chiese cristiane che del resto rappresentano la religione storicamente più radicata nel nostro continente, anche se è proprio in Occidente che la sua crisi imperversa ed è l’Occidente l’obiettivo territoriale e culturale della nuova evangelizzazione che il Sinodo ha lanciato. Ce n’è dunque abbastanza per risvegliare il nostro interesse.
* * *
Il Vaticano II durò tre anni. Il Concilio precedente si era svolto novant’anni prima e aveva avuto come risultato più visibile la proclamazione dell’infallibilità del Papa nonché il recepimento delle indicazioni fornite pochi anni prima dal “Sillabo”. L’essenza di quell’imponente raduno di Vescovi e di teologi fu il rafforzamento del centralismo curiale e cioè d’una gerarchia verticistica, depositaria della politica della Santa Sede, e dell’insegnamento cattolico, dell’interpretazione delle Scritture, della formazione del clero e del suo reclutamento, dei tribunali ecclesiastici. Tutto ciò avveniva mentre i Bersaglieri di La Marmora entravano nella città del Papa dalla breccia di Porta Pia abbattendo definitivamente il potere temporale della Chiesa.
Novant’anni dopo il nuovo Concilio indetto da Giovanni XXIII con un obiettivo che non è eccessivo definire opposto al precedente: rilanciare il tema della pastoralità e insieme ad esso quello del confronto e del dialogo con il pensiero moderno: un capovolgimento spettacolare arricchito da molti altri temi affidati allo studio di altrettante commissioni di Vescovi, di teologi, di storici del pensiero religioso. Riguardavano il contributo del laicato cattolico, la posizione della donna nella Chiesa, il celibato dei sacerdoti, la modifica della liturgia, lo sfoltimento e il risanamento della Curia, la diffusione delle Scritture tra i fedeli e quindi il rapporto diretto dei fedeli con Dio senza più il monopolio dell’interpretazione sacerdotale.
Insomma una spinta al rinnovamento che suscitò fughe in avanti e fughe all’indietro dentro il Concilio e fuori di esso. Nel frattempo Papa Roncalli era morto. Paolo VI che gli succedette cercò di impedire e comunque di gestire sia il radicalismo degli innovatori sia quello dei tradizionalisti ad oltranza. In parte ci riuscì anche se si verificò nel frattempo il piccolo scisma dei lefebvriani concentrato sulla liturgia, sulla messa celebrata non più in latino ma nelle lingue parlate nei vari paesi e sul celebrante rivolto verso la platea dei fedeli e non più verso il tabernacolo con i fedeli alle sue spalle.
Non era soltanto una questione di forma, ma di sostanza: la liturgia aveva rappresentato infatti per molti secoli la custodia ben sigillata della ritualità tradizionale. La sua innovazione aveva aperto quella custodia e liberato una creatività che in qualche modo riscopriva il ruolo essenziale del “popolo di Dio” rispetto ai sacerdoti e alla gerarchia. La pastoralità diventava l’elemento essenziale e dunque la predicazione del Cristo e degli apostoli così come le Scritture l’avevano trasmesse, nelle diverse letture che di esse potevano farsi.
Per gli innovatori più radicali quest’apertura della liturgia alla creatività significava qualche cosa di più: il rito diventava subordinato alla pastoralità, cioè al dialogo tra le anime. E Dio perdeva alcuni dei suoi connotati acquistandone altri. Dio perdeva i connotati della nazionalità, perdeva soprattutto l’appartenenza a questa o a quella Chiesa cristiana e perfino a questa o quella religione monoteista.
Il Dio trascendente non poteva esser rivendicato come cattolico o luterano o mormone o battista, ma neppure come ebreo, neppure come musulmano. Dio era ecumenico, il Vaticano II aveva proclamato l’ecumenismo e il dialogo tra le diverse religioni come un obiettivo fondamentale; aveva anche aperto al dialogo con i non credenti. Da un lato con finalità di proselitismo, dall’altro come confronto di anime nel rispetto delle loro credenze o non credenze.
Restava ferma la fede nel Cristo incarnato in Gesù di Nazareth, nel suo sacrificio e nella sua resurrezione. Restava il mistero trinitario, sconosciuto alle altre due religioni monoteiste. Ma attorno a questo pilastro c’era e c’è un amplissimo spazio per il dialogo, il confronto e l’incontro.
* * *
La rievocazione del Vaticano II ha reso attuale un altro tema tutt’altro che secondario: l’apostolicità della Chiesa cattolica. Se quella parola ha un senso - e certamente ce l’ha - significa che la parola dei Vescovi riuniti in apposite sedi è sicuramente consultiva ma può dar luogo anche a deliberazioni che la gerarchia dovrà rendere operative.
Papa Ratzinger che all’epoca del Vaticano II fu uno dei più fervidi sostenitori dei suoi contenuti innovativi, ha colto l’occasione del Sinodo degli scorsi giorni per sottolineare che quella cattolica non è e non dev’essere una Chiesa conciliare; i Concili nella visione del Papa, sono soltanto organi consultivi e così pure i Sinodi e i singoli Vescovi titolari di Diocesi. Il Papa sarà sempre molto sensibile ai loro suggerimenti, ma non si tratta in nessun modo di organi “costituenti”. Quand’anche proclamassero nuovi dogmi, quei dogmi saranno già stati deliberati dal Vicario di Cristo e il Concilio funzionerà soltanto come “amplificatore” di quanto è già stato elaborato e deliberato da chi siede sul trono di Pietro.
Su questo punto tuttavia il dibattito è aperto e chi lo ha posto al centro delle sue riflessioni è stato Carlo Maria Martini, da poco scomparso.
Martini partiva da un dato sorprendente: in duemila anni di storia del Cristianesimo cattolico i Concili sono stati 21, con una media di uno ogni cento anni. Ma la media, come sempre avviene nella statistica, nasconde una realtà storica abbastanza sorprendente: i 21 Concili si sono addensati in certi periodi e in altri non si sono tenuti affatto. Se ne tennero tre o quattro a cavallo del terzo e quarto secolo; altri a cavallo del decimo e undicesimo, altri ancora due secoli dopo. Infine ci fu il Concilio di Trento e poi un salto di quasi trecent’anni, fino al Vaticano I con in mezzo un Conciliofarsa voluto da Napoleone.
Una Chiesa così organizzata si può definire apostolica? I Vescovi sono i discendenti degli apostoli allo stesso titolo per cui il successore di Pietro è il vicario di Cristo in terra. Senza entrare nel controverso tema se si tratti di organi consultivi o deliberanti, resta il fatto che andrebbero convocati (ma possono anche autoconvocarsi) con maggiore frequenza e regolarità. Una delle proposte martiniane fu un Concilio in occasione d’ogni Giubileo e nell’intervallo molteplici Sinodi.
Una Chiesa del genere avrebbe capacità di ecumenismo molto maggiore di quella attuale e vedrebbe aumentare il peso del laicato cattolico, degli oratori rispetto alle parrocchie, della libertà religiosa resa più fertile dalla ravvicinata convivenza tra le varie Chiese cristiane nonché con le altre due religioni monoteistiche. Se il Papa, in quanto Vescovo di Roma, ricevesse la sua preminenza da questo titolo e non soltanto dal Conclave cardinalizio e se anche i Concistori assumessero un più ampio spazio consultivo, ecco che la Curia verrebbe a configurarsi come una sorta d’Intendenza e non come la sede effettiva del potere cattolico.
Sono questioni molto delicate. Non c’è dubbio alcuno che la Chiesa non sarebbe durata duemila anni senza un’architettura centralistica, ma non c’è egualmente dubbio che quell’architettura l’ha coinvolta in un “temporalismo” che spesso ne ha distorto le funzioni ed ha tradito proprio quella predicazione evangelica e quella pastoralità che avrebbero dovuto rappresentare la sostanza del Cristianesimo. La Chiesa delle Crociate, la Chiesa corrotta e simoniaca che dette indegno spettacolo tra il Quattrocento e il Seicento, la Chiesa-Stato che ha rappresentato l’ostacolo principale alla mancata nascita della nazione italiana, la sua partecipazione alle guerre in Europa in subordine a volte alla Spagna a volte alla Francia e infine i roghi dell’Inquisizione e delle streghe, non sono brevi episodi dei quali pentirsi. L’istituzione-Chiesa ha preservato la predicazione e la pastoralità per duemila anni, l’abbiamo già detto, ma il suo costo è stato altissimo e continua in forme per fortuna molto più attenuate ma comunque responsabili della secolarizzazione e dell’allontanamento dell’Europa dall’icona del Cristo crocifisso e poi risorto.
Se proprio l’Europa è diventata terra di missione e di nuova evangelizzazione, un motivo ci sarà. L’architettura distorta della religione non ne è il solo ma certamente ne è uno dei principali.
* * *
Infine il dialogo con la modernità. Non è e non sarà un dialogo facile. La modernità è un’epoca che ha combattuto l’assoluto mettendo al suo posto il relativismo. Ha detronizzato la metafisica, ha sottolineato l’autonomia della coscienza e il desiderio della conoscenza. Ha affidato l’etica all’autonoma responsabilità dell’individuo.
Un dialogo è auspicabile ma difficilmente potrà portare ad esiti positivi se la Chiesa terrà ferma i paletti dei principi non negoziabili.
Il solo principio non negoziabile dal punto di vista della Chiesa è il Cristo figlio di Dio. A me è accaduto da vecchio laico non credente d’incontrare un sacerdote come Carlo Maria Martini con la sua incrollabile fede in un Cristo risorto, da lui definito “sempre risorgente”, quindi non un’icona immobile ma una presenza dinamica da riconquistare quotidianamente.
A quel Cristo sempre risorgente non ho contrapposto ma ho affiancato Gesù di Nazareth, figlio di Maria e di Giuseppe, predicatore e profeta dei deboli, degli oppressi e degli esclusi, figlio dell’uomo.
Questo e non altro è il dialogo possibile tra la modernità e la Chiesa. Il tempo delle evangelizzazioni è finito ed è cominciato invece il tempo delle fertili contaminazioni tra diversi, animati da sentimenti di carità. La carità come la intendeva Gesù quando esortava ad amare il prossimo come si ama se stessi. Per lui quello era il solo modo di adorare il Dio di tutti e di ciascuno. Per noi è la visione del mondo dei giusti, un’utopia che può realizzarsi se ciascuno di noi lo vorrà.
UN PARROCO CRITICA IL PAPA
Don Matteo di Ca’ Onorai «Benedetto XVI vestito come un re mentre la Chiesa torna al passato»
di Silvia Bergamin
Sfarzo imbarazzante in mondovisione a Natale davanti al figlio di Dio nato povero e nudo
Riprendiamo questo articolo da Da Il Mattino di Padova
http://espresso.repubblica.it/dettaglio-local//2065310&print=true *
CITTADELLA. Un prete di campagna che invita alla sobrietà il Papa. Lui è don Matteo Ragazzo, il parroco di Ca’ Onorai. Giovane, determinato, con un grande appeal tra i ragazzi. Nell’ultimo numero del bollettino mensile delle parrocchie di Cittadella, ha criticato la ricchezza «ostentata» dalla Chiesa. E un certo clima da «restaurazione» che sembra pervadere il pontificato di Benedetto XVI. A Natale «il Papa, dopo la Santa Messa di mezzanotte - osserva don Matteo - si è inginocchiato davanti al bambino Gesù appena deposto nella mangiatoia. Era collegato in mondovisione quindi tutti hanno visto com’era vestito il Santo Padre.
Aveva un mantello con un’apertura alare di 7-8 metri, tutto in raso e damasco dorato, una mitria con gemme e diamanti di tutte le grandezze incastonate, il pallio con spilloni in oro, casula rifinita con bordi in oro che richiamavano i disegni del mantello, camice ricamato, anello d’oro, scarpe luccicanti in tinta con i paramenti: senza esagerare credo che difficilmente Alessandro Magno, Cesare Ottaviano Augusto, lo Zar Pietro il Grande, Napoleone o la regina d’Inghilterra siano riusciti a raggiungere uno sfarzo del genere!
Il giorno di Natale, la scena era veramente imbarazzante: un vecchio Papa vestito da Dio, di fronte a Dio, vestito da bambino piccolo, povero e nudo». Un prete ha o meno il diritto di dirle, queste cose? Don Matteo affronta la questione: «Amo la Chiesa come mia madre, il Vescovo come mio padre e il Papa come se fosse mio nonno. Ma se mio nonno fa qualcosa di strano ho il dovere di dirglielo».
L’ornamento natalizio fornisce lo spunto per una critica più ampia: «Che cosa sta succedendo nella Chiesa? Cosa stanno facendo a Roma? Perché il Papa si veste con il guardaroba di 50-100-200 anni fa e per le celebrazioni in San Pietro si fa costruire un trono alto 5 metri? Perché, mentre in tutto il mondo si parla inglese, la grande novità liturgica della Chiesa è la Messa in latino? Come mai, qualche mese fa i vescovi italiani si sono trovati per trattare il tema della Parola di Dio e, come conclusione del Sinodo, hanno concesso anche alle donne il ministero del “Lettorato”: cioè, finalmente, anche loro possono leggere ufficialmente in chiesa! Senza accorgersi che le donne leggono in chiesa da duemila anni, da quando esiste la Chiesa!».
E’ lo sfogo, il disagio, di un prete che vede una gerarchia ecclesiastica «ferma e pesante», che non sembra in linea con una «realtà sociale e pastorale delle parrocchie che corre e cambia in continuazione». E una gerarchia così che pastorale può dare? «Sinceramente, quando vedo il Papa che va in piazza San Pietro con il “Camauro” rosso bordato di ermellino bianco in testa, non so se ridere o piangere e mi chiedo come può, un Papa che sceglie di vestirsi così, darmi dei consigli o suggerirmi delle linee efficaci, per trattare i miei ragazzi, le mie famiglie, la mia comunità parrocchiale?» Ma «per fortuna Dio esiste, e la Chiesa è sua! Un Dio che si fa piccolo, povero e nudo. Ultimo con gli ultimi, sofferente con chi soffre, coraggioso di fronte alle difficoltà e alla morte. Non so che cosa abbia detto Gesù Bambino al Papa, quando l’ha visto arrivare vestito in quel modo, sono sicuro che gli avrà suggerito parole illuminanti e utili per il suo ministero».
(10 febbraio 2009)
Il Pontefice approva un testo dove Roma viene posta al di sopra
Lo strale più forte contro i protestanti, "carenze" per gli ortodossi
Documento voluto da papa Ratzinger
"L’unica chiesa di Cristo è quella cattolica" *
CITTA’ DEL VATICANO - Roma contro Lutero e la Riforma per affermare il primato del Papa e della chiesa cattolica sulle altre. Perché Cristo ha costituito "sulla terra un’unica Chiesa", che si identifica "pienamente" solo nella Chiesa cattolica e non nelle altre comunità cristiane. E’ quanto afferma il documento "Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa" redatto dalla Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede, diffuso oggi dalla Santa Sede e approvato dal Papa che ne ha ordinato la pubblicazione.
Il testo è firmato dal Prefetto della Congregazione, il cardinale William Levada, e dal segretario, monsignor Angelo Amato e porta la data del 29 giugno, solennità dei santi Pietro e Paolo, scelta, evidentemente, non a caso. Come non a caso arriva una precisazione sul Concilio Vaticano II: "Nel periodo postconciliare - dice l’articolo - la dottrina del Vaticano II è stata oggetto, e continua ad esserlo, di interpretazioni fuorvianti e in discontinuità con la dottrina cattolica tradizionale sulla natura della Chiesa: se, da una parte, si vedeva in essa una ’svolta copernicana’, dall’altra, ci si è concentrati su taluni aspetti considerati quasi in contrapposizione con altri. In realtà - spiega la congregazione - l’intenzione profonda del Concilio Vaticano II era chiaramente di inserire e subordinare il discorso della Chiesa al discorso di Dio".
Nel testo si legge anche che il Vaticano riconosce nelle altre comunità cristiane non cattoliche, in particolare nella Chiesa ortodossa, l’esistenza "numerosi elementi di santificazione e di verità". Ma vi sono anche - indica il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicato oggi - "carenze", in quanto tali confessioni non riconoscono "il primato di Pietro", ovvero del Papa di Roma. Tale primato - avverte tuttavia la nota - "non deve essere inteso in modo estraneo o concorrente nei confronti dei vescovi delle Chiese particolari".
Sì al dialogo anche con le chiese "particolari" ma, afferma l’ex Sant’Uffizio, "perché il dialogo possa veramente essere costruttivo, oltre all’apertura agli interlocutori, è necessaria la fedeltà alla identità della fede cattolica". Le comunità protestanti, nate dalla riforma luterana del XVI secolo, non possono essere considerate, dalla dottrina cattolica, "chiese in senso proprio", in quanto non contemplano il sacerdozio e non conservano più in modo sostanziale il sacramento dell’Eucarestia.
"L’identificazione della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica - è quanto afferma in un’intervista monsignor Angelo Amato - non è da intendersi come se al di fuori della chiesa cattolica ci fosse un ’vuoto ecclesiale’, dal momento che nelle chiese e comunità ecclesiali separate si danno importanti ’elementa ecclesiae’". "Il volto nuovo della Chiesa - aggiunge - non implica rottura ma armonia in una comprensione sempre più adeguata della sua unità e della sua unicità".
Il segretario della Congregazione spiega anche perché sia stato scelto, nel documento, lo stile delle domande con risposte. "E’ un genere - osserva - che non implica argomentazioni diffuse e molto articolate, proprie ad esempio delle Istruzioni o delle Note dottrinali. Nel nostro caso invece si tratta di alcune brevi risposte a dubbi relativi alla corretta interpretazione del Concilio".
* la Repubblica, 10 luglio 2007
Nuovo documento della Congregazione per la dottrina della fede
Ribadita la Dominus Iesus
Nuovi ostacoli sulla via dell’ecumenismo
Riportiamo di seguito le notizie dell’agenzia SIR del 10-7-2007 sul nuovo documento della Congregazione per la dottrina della fede dal titolo : "Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa" che affronta questioni legate all’ecumenismo. L’attuale documento si muove nel solco della Dominus Iesus che tanta polemica suscitò nel 2000 all’atto della sua promulgazione e che di fatto può considerarsi come il primo atto di Papa Ratzinger quando era ancora Cardinale. Nulla di nuovo dunque, se non la constatazione che il cammino ecumenico si fa sempre più difficile ed impervio. Il nuovo documento può essere letto al seguente link:
10/07/2007 12:00
SANTA SEDE: DOCUMENTO, “FUGARE VISIONI INACCETTABILI” PER “PROSEGUIRE IL DIALOGO ECUMENICO”
“Un chiaro richiamo alla dottrina cattolica sulla Chiesa”, che “oltre a fugare visioni inaccettabili, tuttora diffuse nello stesso ambito cattolico, offre preziosi indicazioni anche per il proseguimento del dialogo ecumenico, che resta sempre una delle priorità della Chiesa cattolica”. E’ il nuovo documento della Congregazione della dottrina della fede, “Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa”, diffuso oggi dalla sala stampa vaticana. Il testo - 16 pagine, articolate in cinque quesiti a domanda e risposta - intende “richiamare il significato autentico di alcuni interventi dl Magistero in materia di ecclesiologia perché la sana ricerca teologia non venga intaccata da errori e da ambiguità”, in modo da rispondere ad “interpretazioni errate”, “deviazioni e inesattezze”. Punto di partenza, la costituzione dogmatica Lumen Gentium ed i decreti conciliari sull’ecumenismo (Unitatis Redintegratio) e sulle Chiese orientali (Orientalium Ecclesiarum), e gli “approfondimenti e orientamenti per la prassi” offerti da Paolo VI nell’Ecclesiam Suam e da Giovanni Paolo II nell’Ut Unum Sint. Non mancano “puntualizzazioni e richiami” più recenti della stessa Congregazione per la Dottrina della Fede, come quelli contenuti nella Dominus Iesus.
10/07/2007 12:00
SANTA SEDE: DOCUMENTO, “IL CONCILIO NON HA CAMBIATO LA PRECEDENTE DOTTRINA DELLA CHIESA”
“Il Concilio ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato” la precedente dottrina sulla Chiesa, “ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente”. A ribadirlo è il nuovo documento della Congregazione per la dottrina della fede, “Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa”, diffuso oggi dalla sala stampa vaticana. Nel primo quesito, citando le parole di Paolo VI nel suo discorso di promulgazione della Lumen gentium, la Congregazione pontificia fa notare che “c’è continuità tra la dottrina esposta dal Concilio e quella richiamata nei successivi interventi magisteriali”: anche la Dominus Iesus “ha solo ripreso i testi conciliari e i documenti post-conciliari, senza aggiungere o togliere nulla”. Nonostante ciò, la dottrina del Concilio, denuncia il dicastero vaticano, “è stata oggetto, e continua ad esserlo, di interpretazioni fuorvianti e in discontinuità con la dottrina cattolica tradizionale sulla natura della Chiesa”, concentrandosi “su singole parole di facile richiamo” e “favorendo letture unilaterali e parziali della stesa dottrina conciliare”. “L’idea di popolo di Dio, la collegialità dei vescovi come rivalutazione del ministero dei vescovi insieme con il primato del Papa, la rivalutazione delle Chiese particolari all’interno della Chiesa universale, l’apertura ecumenica del concetto di Chiesa e l’apertura alle altre religioni”: queste le acquisizioni centrali dell’ecclesiologia conciliare, così come viene delineata nella Lumen gentium. Su tutto, puntualizza la Congregazione per la dottrina della fede, si staglia però “la questione dello statuto specifico della Chiesa cattolica, che si esprime nella formula secondo cui la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, di cui parla il Credo, ‘subsistit in Ecclesia catholica’ (sussiste nella Chiesa cattolica, ndr.).
---------------------------------------
10/07/2007 12:01
SANTA SEDE: DOCUMENTO, “DIVISIONE TRA I CRISTIANI OSTACOLO ALLA PIENA REALIZZAZIONE DELLA CHIESA”
“L’universalità propria della Chiesa, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, a causa della divisione dei cristiani, trova un ostacolo per la sua piena realizzazione nella storia”. E’ una delle affermazioni centrali del nuovo documento della Congregazione per la dottrina della fede, diffuso oggi dalla sala stampa vaticana. Il secondo e il terzo quesito, in particolare, si soffermano sull’”unica Chiesa di Cristo, una santa, cattolica e apostolica”, come recita la Lumen gentium. “Secondo la dottrina cattolica - spiega il testo - mentre si può rettamente affermare che la Chiesa di Cristo è presente e operante nelle Chiese e nelle comunità ecclesiali non ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica grazie agli elementi di santificazione e di verità che sono presenti in esse, la parola ‘sussiste’, invece, può essere attribuita esclusivamente alla sola Chiesa cattolica, poiché si riferisce appunto alla nota dell’unità professata nei simboli della fede”. La “preoccupazione” di fondo del documento, dunque, è “salvaguardare l’unità e l’unicità della Chiesa, che verrebbe meno se si ammettesse che vi possano essere più sussistenze della Chiesa fondata da Cristo”. Per i padri conciliari, precisa la Congregazione per la dottrina della fede, “l’identificazione della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica non è da intendersi come se al di fuori della Chiesa cattolica ci fosse un ‘vuoto ecclesiale’”: al contrario, con l’espressione “subsistit in”, il Concilio ha voluto affermare “da un lato, che la Chiesa di Cristo, malgrado le divisioni dei Cristiani, continua ad esistere pienamente soltanto nella Chiesa cattolica, e, dall’altro, l’esistenza di numerosi elementi di santificazione e di verità al di fuori della sua compagine, ovvero nelle Chiese e comunità ecclesiali che non sono ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica”: di qui il carattere “a prima vista paradossale” dell’ecumenismo cattolico, in camino verso “l’unità con tutti i cristiani”. “Il Concilio ha voluto insegnare che la Chiesa di Gesù Cristo come soggetto concreto in questo mondo può essere incontrata nella Chiesa cattolica”, si legge ancora nel testo, in cui il quarto e quinto quesito sono dedicati al rapporto con le Chiese orientali separate, chiamate “Chiese sorelle delle Chiese particolari cattoliche” perché “restano unite alla Chiesa cattolica per mezzo della successione apostolica e della valida eucaristia”, e con le comunità ecclesiale nate dalla Riforma, con le quali “la ferita è molto più profonda”.
VATICANO: CHIESA CATTOLICA UNICA VOLUTA DA CRISTO
(di Elisa Pinna) *
Cristo ha "costituito sulla terra un’unica Chiesa", che si identifica"pienamente" solo nella Chiesa cattolica: è quanto ribadisce un documento pubblicato oggi dalla Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede, che però riconosce alle altre confessioni cristiane, e in particolare agli ortodossi,"numerosi elementi di santificazione e verità".
La nuova nota dottrinale, firmata dal Prefetto del Dicastero vaticano per la fede, lo statunitense William Levada, ed approvata da Benedetto XVI lo scorso 29 giugno, è un testo agile, con stile didascalico, di una quindicina di pagine, diviso in tre parti: una prefazione, una sezione dialogica con cinque risposte ad altrettanti quesiti, e un articolo di commento. Il titolo è "Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa". Scopo dichiarato del libriccino è quello di sgombrare l’orizzonte teologico dalle tante confusioni e interpretazioni "infondate" che si sono accumulate negli anni attorno al documento conciliare ’Lumen Gentium’ (1963) e in particolare su un passaggio in cui i padri conciliari affermano che ’la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica’. In tale pronunciamento, alcuni studiosi cattolici - tra cui é citato esplicitamente il brasiliano Leonardo Boff - hanno visto la possibilità che la Chiesa di Cristo "sussista", con pari pienezza, anche in altre chiese cristiane, oltre che in quella romana. Si tratta - puntualizza il documento della Congregazione per la Fede - di "interpretazioni infondate", "inaccetttabili", che hanno "frainteso" l’insegnamento dottrinale del Concilio Vaticano II. La parole ’sussiste’ - afferma il testo - "può essere attribuita alla sola Chiesa cattolica", che presenta "perenne continuità storica" e "la permanenza di tutti gli elementi istituiti da Cristo". Nonostante questo dato di principio, il documento apre la porta dell’ecumenismo: benché le altre chiese cristiane abbiano alcune "carenze" (in particolare il fatto di non riconoscere il primato del Papa su tutti gli altri vescovi), esse "non sono affatto spoglie di significato e di peso" nel "mistero della salvezza". "Infatti - si afferma in uno dei passaggi chiave - lo Spirito di Cristo non ricusa di servirsi di esse come strumento di salvezza, il cui valore deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica". Inoltre - puntualizza la nota in un’altra frase di rilievo ecumenico - "sarà sempre necessario sottolineare che il Primato del successore di Pietro, Vescovo di Roma, non deve essere inteso in modo estraneo o concorrente nei confronti dei vescovi delle chiese particolari".
La nota del Vaticano ribadisce, sulla scia dello spirito conciliare, che il titolo di "Chiese particolari" spetta alle diverse comunità nazionali ortodosse, accomunate alla Chiesa cattolica dal riconoscimento del sacerdozio e dell’eucarestia. Viceversa le comunità protestanti, nate dalla riforma luterana del sedicesimo secolo, non possono essere considerate, dalla dottrina cattolica, "chiese in senso proprio", in quanto non contemplano il sacerdozio e non conservano più in modo sostanziale il sacramento dell’Eucarestia. Nessun accenno, nel documento, all’ebraismo e all’Islam. Del resto sarebbe stato fuori luogo perché si tratta di un testo tutto interno alla dottrina cristiana e alla riflessione teologica innescata dal Concilio vaticano II.
* ANSA» 2007-07-10 16:28
"BRUCEREM IL VATICAN...."
di Angela Azzarro *
COME FAR ARRIVARE LA VOCE DEL GAY PRIDE AI MEDIA? COSA PENSA IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DI CIÒ CHE I SUOI ELETTORI, NON QUELLI DELLA DESTRA, GLI HANNO CHIESTO? FARÀ LA LEGGE SULLE UNIONI CIVILI E QUELLA CONTRO LE DISCRIMINAZIONI OMOFOBICHE? DIRÀ CHE LE OFFESE DA PARTE DEL VATICANO CONTRO GAY, LESBICHE, TRANS NON SONO PIÙ ACCETTABILI IN UNO STATO LAICO? *
Ventiquattro ore dopo il Family day i più grandi giornali e telegiornali italiani non avevano avuto dubbi: il titolo di apertura era stato dedicato - nella stampa scritta, a caratteri cubitali - al presunto milione che aveva occupato piazza San Giovanni in difesa dei valori tradizionali. I giorni successivi la litania non era cambiata: tutto un susseguirsi di dichiarazioni e servizi per dire che quella manifestazione chiedeva, pretendeva una risposta da parte della politica.
Il giorno dopo il Pride, con un milione di donne e uomini in piazza per chiedere l’estensione dei diritti a tutte e tutti, la stampa e i tg non hanno avuto lo stesso riguardo. Portare tante persone, gay, lesbiche, trans, non è bastato per conquistare i titoli di apertura, né per sperare che il lunedì fosse dedicato alle reazioni della politica. Che cosa farà da oggi il governo Prodi? Cosa pensa il presidente del Consiglio di ciò che i suoi elettori, non quelli della destra, gli hanno chiesto? Farà la legge sulle unioni civili e quella contro le discriminazioni omofobiche? Dirà che le offese da parte del Vaticano contro gay, lesbiche, trans non sono più accettabili in uno Stato laico?
Silenzio. Un assordante silenzio, con Prodi che preferisce denunciare «la brutta aria» che c’è nel Paese, riferendosi alla destra che blocca le decisioni. Insomma, per parafrasare la sua dichiarazione: aria fritta. La distanza tra i cittadini, le cittadine e la politica, anche e soprattutto quella fatta dai media, non era mai stata così ampia. Drammatica. La crisi della politica e della rappresentanza così pesante e disarmante. Se il Papa parla e offende gay, lesbiche o trans accusandoli di essere pedofili e perversi le prime pagine sono assicurate, blindate. Si riempiono subito di titoli cubitali. Poche le proteste. Poche le voci di editorialisti che si sollevano per dire che così cresce l’odio, la violenza contro gli omosessuali. Poche voci si sollevano dal pulpito dei grandi quotidiani per dire che non approvare una legge sulle unioni civili è un fatto grave, che lede l’uguaglianza sancita dalla Costituzione.
A questo punto resta la domanda: che cosa fare per conquistare spazio, visibilità alle ragioni della civiltà e della laicità? Non è bastato, nel silenzio degli organi di informazione, portare un milione di persone in piazza. Non è bastato riempire piazza San Giovanni con una manifestazione rabbiosa, ma pacifica, dura ma anche orgogliosa. No, non è bastato. Bisogna forse arrivare a gesti eclatanti davanti al Vaticano o al Parlamento, bruciarsi come gesto disperato, come un ultimo tentativo di vedersi riconosciuto un diritto? Certo è che così non si può andare avanti. La totale impermeabilità tra media e politica da una parte e società civile dall’altra è talmente alta che non si può stare più indifferenti.
Fa bene Aurelio Mancuso, presidente dell’Arcigay, a lanciare lo sciopero fiscale e a invitare lesbiche, gay, trans a restituire le tessere elettorali. In Italia le persone non eterosessuali sono considerate cittadine di serie B, non godono degli stessi diritti. Tanto vale allora non assumersi neanche i doveri oppure esasperare lo scollamento privandosi della possibilità di decidere chi votare e chi no. Forse così i politici capirebbero, forse così capirebbe anche la Chiesa che dei contributi Irpef vive. Lo capirebbero anche le cosiddette famiglie tradizionali al cui welfare contribuiscono quegli uomini e quelle donne che, oggi, non possono avere una relazione riconosciuta e tutelata, oppure come single non possono sperare in nessuna facilitazione.
Il Pride di sabato è riuscito perché ha parlato un linguaggio che coinvolge tutte e tutti. Non riguarda solo gay, lesbiche e trans. Lo ha dimostrato l’ampia partecipazione in maniera organizzata del movimento femminista e l’ampia presenza di eterosessuali. E’ importante che quel coinvolgimento continui e che le associazioni omosessuali non siamo lasciate sole in questo momento, forse il più delicato, quello più duro da digerire. Non si aspetti l’ennesima esternazione del Papa per risollevare la richiesta delle unioni civili. Deve essere un sentire comune, una richiesta continua, condivisa, in ogni sede, in ogni occasione. Ma prima di tutto bisogna affrontare il rapporto con l’informazione, metterlo al centro dell’azione politica. Oggi sicuramente i giornali daranno molto più spazio alle polemiche sullo spettacolo annullato a Bologna "La Madonna piange sperma", perché considerato blasfemo, che alle richieste di un milione di persone.
Primo Maggio: al Quirinale il valore del lavoro *
Primo maggio al Quirinale all’insegna del valore del lavoro come base della Repubblica democratica.
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della Festa del Lavoro riceve al Quirinale, come tradizione, i nuovi Maestri del Lavoro del Lazio.
Per onorare la memoria di tutti i caduti sul lavoro ed esprimere, a nome dei cittadini italiani, la commossa solidarietà e l’affettuosa partecipazione al dolore delle tante famiglie coinvolte, il Capo dello Stato conferisce ad alcune lavoratrici e lavoratori che hanno perso la vita sul lavoro, in casi che hanno scosso la coscienza collettiva, la "Stella al merito del lavoro alla memoria", quale simbolico omaggio all’estremo sacrificio compiuto da tutte le vittime degli infortuni sul lavoro e come monito, per il presente e per il futuro, della inaccettabilità della tragica catena di morti bianche.
Il riconoscimento del diritto al lavoro e della tutela del lavoro è altresì sottolineato dal Presidente Napolitano con la consegna della "Stella al merito del lavoro" a cinque lavoratori delle diverse realtà territoriali produttive del paese, in rappresentanza di tutti gli insigniti per l’anno 2007, che nello svolgimento quotidiano delle loro mansioni si sono particolarmente distinti per perizia professionale ed efficienza e hanno dato un importante contributo nel campo dell’innovazione, della sicurezza sul lavoro e della formazione delle giovani leve.
Primo Maggio, tutti in piazza perché il lavoro sia solo vita
di Luigina D’Emilio *
Il Primo Maggio è una giornata di festa. È la festa del lavoro e dei lavoratori. Ma proprio in un giorno così non va dimenticato che c’è un diritto ancora oggi non garantito per chi lavora: il diritto fondamentale alla sicurezza della propria vita.
Per ricordarlo, proprio nella giornata che celebra i lavoratori, verrà osservato un minuto di silenzio in tutte le piazze italiane. Anche a Torino, città simbolo scelta da Cgil, Cisl e Uil, che dopo 13 anni torna a ospitare la manifestazione nazionale. Tante le iniziative previste per celebrare il lavoro, ma tutte sotto un unico slogan: l’Italia riparte dal lavoro. Questo l’eco che risuonerà anche dal mega concertone di Piazza San Giovanni a Roma. Le morti bianche, è il tema caldo della giornata, lavoro e diritti all’insegna della festa e dell’impegno sociale, con uno sguardo al futuro e un occhio al passato.
Durante la lunga kermesse musicale, infatti, sarà data attenzione non solo alle vittime del lavoro, ma anche a chi ha lottato nel corso degli anni per conquistare traguardi importanti e dire basta a qualsiasi forma di sfruttamento. Non poteva passare in sordina, il sessantesimo anniversario della strage di Portella della Ginestra, nel Palermitano, dove la banda di Salvatore Giuliano sparò su una folla di circa 2000 contadini siciliani, donne, uomini, bambini, anziani che si riunirono per manifestare dopo secoli di sottomissione a un potere feudale.
Ma non è primo maggio senza musica che ormai da diciassette anni, celebra la festa dei lavoratori con il tradizionale concerto promosso da Cgil, Cisl e Uil. A guidare lo spettacolo Paolo Rossi e Claudia Gerini, che daranno il via alla manifestazione canora dedicata alla storia del Rock nel nostro Paese. Quest’anno, infatti, il concerto, renderà omaggio ai 50 anni italiani della musica che ha cambiato il mondo contemporaneo, facendo da colonna sonora a intere generazioni di adolescenti. I 50 anni dell’arrivo del rock in Italia sarà il filo conduttore della giornata. Grande assente Adriano Celentano, ma l’apertura sarà tutta sua grazie a “Ciao ti dirò”, la canzone presentata assieme a Luigi Tenco, Girogio Gaber e Enzo Jannacci al primo festival italiano del Rock and Roll nel 1957.
Interessante anche la parata d’artisti proposta per il 2007 che, c’è da sperare non farà rimpiangere le scorse edizioni. Tra i grandi nomi spicca quello di Chuck Berry, uno dei padri del rock’n’roll. La maratona porterà sul palco anche Daniele Silvestri, Irene Grandi (che farà un omaggio a Patti Smith con “Because the night”), Pfm, i Nomadi (ricorderanno i 40 anni di Dio è morto), i Tiromancino (con una cover di “Sunshine of your Love” dei Cream), Carmen Consoli, Loredana Bertè (in una versione rock di Ragazzo Mio di Luigi Tenco), Modena City Ramblers, Casino Royal, Velvet ( omaggio a John Lennon per celebrare i 40 anni di “Sgt Pepper’s Lonely Heart Club Band”), Afterhours, Verdena, Aprés la Classe, Tetes des Bois, Vibrazioni, Piotta, Riccardo Sinigallia, Bandabardò, Khaled con Enzo Avitabile, Avion Travel.
Tra i momenti della serata il ricordo di Rino Gaetano affidato ad una band composta, tra gli altri da Paolo Rossi e dal nipote del cantante de “il cielo è sempre più blu”, Alessandro Gaetano.
* l’Unità, Pubblicato il: 30.04.07, Modificato il: 30.04.07 alle ore 20.07
DISCORSO DEL SANTO PADRE PAOLO VI
AI PELLEGRINI CONVENUTI NELLA BASILICA VATICANA
NELLA FESTA DI SAN GIUSEPPE ARTIGIANO
Venerdì, 1° maggio 1970
La vostra venuta coincide quest’oggi con il 1° maggio, giorno dedicato alla celebrazione del Lavoro, che, come tutti sanno, ha assunto nella società moderna una valutazione di primaria importanza, e che la Chiesa ha onorato con tanti suoi insegnamenti.
Quali siano le dottrine, quali i problemi, quali gli avvenimenti che si riferiscono al Lavoro Noi adesso non intendiamo trattare. Solo ci basti invitare voi tutti a innalzare al Signore una speciale preghiera per il mondo del lavoro secondo alcune particolari intenzioni.
Vogliamo pregare affinché il concetto del lavoro sia visto nel piano di Dio in ordine alla natura ed alla persona umana, la quale mediante il lavoro esplica il suo ingegno e le sue energie e perfeziona se stessa, e mediante il lavoro conquista il dominio delle cose e le pone al proprio servizio.
Perciò pregheremo affinché il lavoro, e specialmente quello moderno che pone strumenti meravigliosi nelle mani dell’uomo, sia considerato come sintesi, non come contrasto fra il suo ingegno e la sua opera, e sia così in sempre più larga misura estesa l’efficienza dell’attività umana e insieme diminuita la fatica, così che l’uomo trovi nel lavoro la sorgente del progresso, cioè del benessere sia materiale che spirituale.
Pregheremo parimente affinché la distinzione fra gli uomini, che deriva dalla diversa funzione esercitata nell’esecuzione e nell’incremento del loro operare, non li renda avversari fra loro, ma collaboratori, li educhi alla solidarietà, non alla separazione sociale, non accresca in loro l’egoismo e la lotta, ma piuttosto il senso dell’ordine reclamato dalla complessità dell’impresa e dal pubblico bene, e trovi il suo giusto e libero equilibrio nella saggia partecipazione alla responsabilità dell’organizzazione dell’impresa stessa e nell’equa distribuzione dei profitti economici e dei diritti civili.
Ancora bisogna pregare per la concordia fra le categorie sociali, anche nella fase sempre aperta della difesa dei rispettivi interessi, per la tutela e la promozione economica e morale delle classi sociali oggi meno favorite, e specialmente per la schiera ancora immensa degli umili, dei poveri, dei disagiati, dei bisognosi, degli oppressi, dei disoccupati, dei profughi, degli emigranti, dei lavoratori impegnati a fatiche estenuanti e malsane.
Pregheremo specialmente per i giovani, quelli delle nuove leve del lavoro, affinché siano convenientemente istruiti e preparati, siano socialmente, moralmente e spiritualmente assistiti, in modo che essi sentano e vivano la dignità della loro condizione: non decadano nella volgarità e nel disgusto dell’ambiente, dove spesso la fatica, la disciplina, la promiscuità, il gregarismo li obbligano a vivere; possano integrare con l’educazione, la cultura, il risparmio, la ricreazione, l’amicizia, la preghiera, la pesante e monotona loro attività; e sappiano prepararsi alla felicità e al dovere dell’amore sano e della famiglia buona, ed insieme nutrire la coscienza del servizio leale e generoso alla comunità civile.
Pregheremo anche per la donna introdotta oggi in ogni campo di lavoro, affinché, tanto dotata di umane qualità e tanto educabile ad ogni perfezionamento, ella possa dimostrare la sua capacità ed il suo valore, possa conservare la sua peculiare personalità spirituale e morale, e possa infondere negli ambienti nei quali presta l’opera sua quel senso del dovere, quella delicatezza pia, dignitosa e gentile di sentimento e di costume, ch’è propria della sua privilegiata natura.
E infine una preghiera per ogni singolo lavoratore, perché ami il proprio lavoro, lo compia con dedizione, con dignità, con onestà, vi acquisti abilità e competenza, senta nel suo animo la parentela che lo unisce a Cristo lavoratore e salvatore, e sappia in sé alimentare quella coscienza religiosa e morale che lo rende vero uomo forte, diritto, generoso e libero, ed insieme sincero cristiano chiamato alla dignità, alla speranza e alla beatitudine del regno di Dio.
San Giuseppe, oggi venerato come esempio e come protettore del mondo del lavoro, voglia avvalorare la nostra preghiera. A voi tutti la Nostra Benedizione.
Siamo debitori di un vivo ringraziamento ai cinquecento operai di Prato, venuti, insieme col loro Vescovo, a dirci tutto il loro affetto per il 50° anniversario del Nostro sacerdozio. Sappiamo bene che, per compiere questo atto gentile, avete voluto sostare appositamente a Roma, nel pellegrinaggio che vi porterà a Pompei: ne cogliamo occasione per raccomandarci alle preghiere, che eleverete in quel celebre santuario mariano. Avrete un ricordo per Noi, vero? Per le Nostre intenzioni nell’universale ministero pontificale, per il peso quotidiano della sollicitudo omnium Ecclesiarum, della sollecitudine per tutte le Chiese (2 Cor. 11, 28), per le sofferenze e le ansie del mondo. E Noi ricambieremo la vostra carità con una particolare invocazione al Signore e alla Vergine Santa per voi, per le vostre famiglie, per i vostri figli, per il vostro lavoro, e soprattutto perché continuiate ad essere figli fedeli della Chiesa, facendo onore, sempre, al nome cristiano. Vi accompagna la Nostra Apostolica Benedizione, che impartiamo a voi, al vostro zelantissimo Vescovo e, per il suo tramite, all’intera città e diocesi di Prato.
Un paterno saluto rivolgiamo ora al gruppo dei fedeli di Bozzolo e di Cicognara-Roncadello Po, venuti pellegrini a Roma a conclusione delle manifestazioni commemorative del loro venerato parroco, l’indimenticabile Don Primo Mazzolari.
Siate i benvenuti, figli carissimi ! Se grande è la gioia vostra per questo odierno incontro col Papa, non minore è la consolazione che Noi stessi proviamo nel vedere i vincoli di affetto e di venerazione che ancora vi legano a colui che per tanti anni, con fede generosa e dedizione piena, fu guida e padre delle vostre anime. Niente più prezioso e desiderabile di questa intima unione spirituale tra clero e fedeli. Né potevate offrire alla memoria dello scomparso tributo più degno di questa pubblica testimonianza di amore e venerazione alla persona del Vicario di Cristo; testimonianza, nella quale ci piace ravvisare la conferma dei vostri impegni di vita cristiana e il proposito di rimanere «forti nella fede» (1 Petr. 5, 9).
È questo il significato che Noi amiamo attribuire anche alla lampada che ci avete chiesto di benedire e di accendere, e che arderà perennemente sulla tomba del vostro antico parroco, mettendo in pratica in tal modo l’esortazione dell’apostolo Paolo: «Tenete viva la memoria dei vostri capi che vi hanno predicato la parola di Dio, e considerando quale è stata la fine della vita da essi vissuta, imitate la loro fede» (Hebr. 13, 7).
Critiche al Papa: «È terrorismo»
L’Osservatore contro Rivera
Prodi: «Serve serenità e buon senso» *
Sono «terrorismo» i «vili attacchi» contro il Papa fatti durante il concerto del Primo Maggio ripreso in diretta Tv. È durissimo, al limite dell’insulto, il giudizio dell’Osservatore Romano sulle frasi pronunciate da Andrea Rivera sul palco del concerto per il 1° maggio di piazza San Giovanni a Roma. «Tutto questo - ricorda il quotidiano della santa Sede - di fronte a circa 400mila persone e ad un più numeroso pubblico televisivo»,
Andrea Rivera, presentatore della prima parte del concerto, ha parlato brevemente di alcune posizioni della Chiesa. Ma con un tono più satireggiante che polemico: «Il Papa ha detto che non crede nell’evoluzionismo. Sono d’accordo, infatti la Chiesa non si è mai evoluta». E ancora: «Non sopporto che il Vaticano abbia rifiutato i funerali di Welby. Invece non è stato così per Pinochet, a Franco e per uno della banda della Magliana».
La presa di posizione del Vaticano non sembra preoccupare più di tanto il presentatore. «Per me è sovrano il popolo e non gli autori del concerto - dice - Voglio dare voce alla gente comune che non può mai dire in tv quel che pensa». E continua: «Non è forse vero che a Welby sono stati negati i funerali concessi invece a Pinochet? Chi è l’ipocrita?».
Al giornale del Vaticano non è bastato che i segretari di Cgil, Cisl e Uil avessero preso le distanze dal presentatore. Secondo l’organo ufficiale della Santa Sede le parole del conduttore Andrea Rivera sarebbero solo espressione di una sconcertante superficialità, rimarca il giornale, ma la loro pericolosità «non è altrettanto superficiale»: «Sono di queste ore gli attacchi e le minacce, pesanti, rivolte al Presidente della Cei, l’Arcivescovo Angelo Bagnasco, cui è arrivata l’apprezzata solidarietà del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che si sta battendo con coraggio anche sul tema degli incidenti sul lavoro», e di queste ore sarebbero anche gli slogan «nei cortei inneggianti ai terroristi, i messaggi che appaiono su Internet, provenienti da br in carcere, un’offensiva che cerca di trovare terreno fertile nell’odio anticlericale. Un odio purtroppo coscientemente alimentato da chi fa del laicismo la sua sola ragione d’essere, per convenienza politica».
* l’Unità, Pubblicato il: 02.05.07 Modificato il: 02.05.07 alle ore 18.15
«Gli scriteriati ci sono sempre» mentre occorre piuttosto che tutti «usino il buonsenso». Così il presidente del Consiglio Romano Prodi ha commentato le polemiche sorte dopo le battute dell’attore Andrea Rivera contro la Chiesa durante il concerto del primo maggio. «Bisogna usare serenità e buonsenso - ha detto Prodi rispondendo ai cronisti sulle frasi usate dall’Osservatore Romano - ma purtroppo sono mesi e mesi che si alzano continuamente i toni. Di questo il Paese non ha bisogno. Il Paese ha bisogno di serenità. Questo è l’unico messaggio che va a tutti».
Sulle "provocazioni" di Rivera in occasione del concerto del primo maggio che si è svolto in piazza San Giovanni a Roma e le durissime parole dell’Osservatore Romano è intervenuto anche il consigliere di amministrazione Rai Sandro Curzi: «Quando si arriva a parlare di terrorismo per la battuta di un giovane comico o di un artista di strada, mi pare che si faccia, anche se involontariamente, della pericolosa provocazione». Continua l’ex direttore del Tg3: «Scrivere: Anche questo è terrorismo. È terrorismo lanciare attacchi alla Chiesa. È terrorismo alimentare furori ciechi e irrazionali contro chi parla sempre in nome dell’amore, l’amore per la vita e l’amore per l’uomo.... tutto ciò significa in tutta evidenza rischiare di fare esattamente ciò di cui si accusa l’avversario, anzi il nemico».
Anche per il capogruppo del Prc al Senato, Giovanni Russo Spena, «l’Osservatore Romano sta veramente esagerando. Tacciare di terrorismo, un’accusa gravissima, la battuta di un comico, significa aver perso completamente il senso delle proporzioni».
E poi, «l’Osservatore Romano è andato completamente fuori misura», dice Daniele Capezzone della Rosa nel Pugno. «Si sta perdendo il senso delle cose e della misura afferma anche Pino Sgobio, capogruppo del Pdci alla Camera - una battuta di un comico non può essere letta e interpretata come atto terroristico».
Solidale con Rivera si dice il segretario nazionale della Film-Cgil, Giorgio Cremaschi, «che ha la mia piena e convinta solidarietà. È un delirio», afferma su quanto scritto dall’Osservatore Romano.
Di festa «sporcata da mediocri comizi da politicanti, approfittando delle dirette televisive e di piazze piene per la festa dei lavoratori» parla invece Carlo Giovanardi dell’Udc. Contro le "provocazioni" lanciate dal comico parla un po’ tutta l’opposizione: «Ascoltando le parole pronunciate da Andrea Rivera dal palco della festa del 1° maggio viene un senso di preoccupazione e di disgusto per il degrado politico, civile e culturale che sommerge il Paese», arriva addirittura a soistenere Sandro Bondi di Forza Italia. Mentre a riportare un po’ di serenità è il deputato dei Verdi, Roberto Poletti, che commentando le polemiche sulle affermazioni di Andrea Rivera dice: «Le accuse a Rivera sono figlie di un clima preoccupante di intolleranza e le polemiche dell’Osservatore Romano sono inaccettabili».
* l’Unità, Pubblicato il: 02.05.07, Modificato il: 02.05.07 alle ore 18.14
Lettera dei deputati ex diessini, verdi e Rifondazione sulla presa di posizione dell’Osservatore Romano che ha definito "terrorismo" le parole del presentatore Andrea Rivera .
Primo maggio, la "Cosa Rossa" attacca
"Dal Vaticano un attacco spropositato"
E’ il primo atto politico che vede insieme Sinistra democratica e sinistra radicale.
In Senato via libera da Pdci e verdi per il coordinamento unico. Sabato il lancio di Sinistra democratica *
ROMA - Un "attacco spropositato" perché "le minacce e il terrorismo sono una cosa troppo seria per confonderle con le parole, sgradite o irriverenti che siano". Prendono carta e penna i parlamentari della "Cosa Rossa", dai mussiani della nascitura Sinistra democratica a Rifondazione e Comunisti, e dicono la loro sulle polemiche scatenate dall’Osservatore Romano contro Andrea Rivera, il presentatore del concertone del Primo maggio che tra una canzone e l’altra si è permesso di dire cose del tipo: "Ha ragione il Papa ad essere contro l’evoluzionismo: la Chiesa non si è mai evoluta". Oppure: "Mi spiace che la Chiesa non abbia concesso i funerali a Welby dopo averli celebrati per Franco, Pinochet e uno della banda della Magliana".
"Lo spropositato attacco alle parole di Andrea Rivera - si legge nella lettera - è molto preoccupante. Non è un paese normale quello in cui diventa un attentato esprimere un’opinione o fare una battuta sulle scelte compiute dalle gerarchie ecclesiastiche. Le minacce e il terrorismo sono una cosa troppo seria per confonderle con le parole, sgradite o irriverenti che siano. Torniamo alla Costituzione che tutela la libertà di espressione. E teniamo tutti i nervi a posto".
A seguire i nomi di deputate e deputati: Lomaglio, Acerbo, Buffo, Cacciari, Aurisicchio, Longhi, Attili, Nicchi, Di Serio, Trupia, Maderloni, Gentili, Grillini, Bandoli, Deiana, Migliore, Sperandio, Falomi, Duranti, De Cristofaro, Ali Rashid, Luxuria, Caruso, Iacomino, Pettinari, Scotto, Leoni, Zanotti.
La lettera si appella al "buon senso" di tutti e alla libertà di espressione garantita dalla Costituzione. Ma il documento, al di là delle singole firme, è l’unica voce a difesa che si alza dalla sinistra ed è il primo passo ufficiale della nuova sinistra a sinistra del Partito democratico.
Sabato gli ex diessini Mussi, Angius e Salvi hanno convocato la riunione (Eur, Palazzo dei Congressi, Roma, dalle 14 e 30) per lanciare la nascita del movimento politico "Sinistra democratica, per il socialismo europeo". Un nuovo partito, a sinistra del Partito Democratico, che dovrebbe poi confederarsi con gli altri soggetti a sinistra del Pd, Rifondazione, Verdi e Comunisti italiani. Unirsi, confederarsi "senza perdere le rispettive identità" è l’indicazione che esce dai singoli congressi.
Stamani al Senato Pdci e Verdi hanno lanciato il coordinamento di palazzo Madama condiviso dal capogruppo di Rifondazione Giovanni Russo Spena con cui ci sarà un’altra riunione martedì prossimo. Tra le priorità il programma e magari un portavoce unico. "C’è una richiesta forte di rispetto del programma dell’Unione di cui ormai sembra che si sia persa memoria in questo governo" dice Manuela Palermi, capogruppo del Pdci a palazzo Madama. "Dobbiamo tornare su quei punti come la questione sociale, la questione ecologista, ma anche quella relativa alla laicità dello Stato" insiste, perché, per dirla tutta, la sinistra radicale si sente un po’ accerchiata: "Qui non se ne può più. Fra le urla del Vaticano a un cantante e i teodem qui da noi con il mito familistico, un gruppo come il nostro ha qualche disagio".
Proprio oggi Mussi e Angius hanno scritto l’appello-invito per la manifestazione di sabato dove si indica, senza tentennamenti, il percorso del nuovo partito, in Italia e in Europa. "La scomparsa dei ds pone l’esigenza di ripensare tutta la sinistra italiana" spiegano. "Si tratta di una percorso che non può essere rinviato. Ci troviamo insieme per affermare la necessità storica che anche in Italia, oggi e domani, sia presente un’autonoma forza democratica e socialista, laica, riformista e ambientalista parte integrante del Pse. Di governo". Mussi e Angius dovranno scioliere, nelle prossime settimane, un altro nodo: dare vita o no alla Cosa Rossa confederandosi con il resto della sinistra radicale? I sondaggi dicono che gli elettori hanno voglia di unità. E di semplificazione. A destra. A sinistra. E a sinistra della sinistra.
* la Repubblica, 3 maggio 2007
Sacro terrore
di Micaela Bongi (il manifesto, 03.05.2007)
Lo «scriteriato», lo chiama Romano Prodi. I sindacati stanno valutando se chiedergli i danni per aver leso l’immagine del primo maggio. Mezzo mondo politico e anche di più gli dà come minimo dell’irresponsabile. Ma Andrea Rivera, fino all’altro ieri innocuo interprete del teatro canzone e intervistatore citofonico del programma di Serena Dandini, ha gettato la maschera sul palco di piazza San Giovanni. E si è rivelato molto più che uno «scriteriato irresponsabile»: Andrea Rivera è un terrorista. Non è un’iperbole. E’ una verità non suscettibile di interpretazioni capziose, messa nero su bianco dall’Osservatore romano, quotidiano della Santa sede. Impossessatosi della conduzione del concertone del primo maggio, dal palco il terrorista si è lanciato come un kamikaze direttamente nei salotti degli italiani che speravano in un pomeriggio di svago: «Il papa ha detto che non crede nell’evoluzionismo. Infatti la chiesa non si è mai evoluta». E ancora: «Non sopporto che il Vaticano abbia rifiutato i funerali di Welby. Invece non è stato così per Pinochet, Franco e per uno della banda della Magliana». Satira? Invettiva? Macché: «E’ terrorismo alimentare furori ciechi contro chi parla sempre in nome dell’amore. E’ vile e terroristico lanciare sassi addirittura contro il Papa».
E così dopo giorni di «allarme Bagnasco», la Santa sede torna a occupare le prime pagine dei giornali all’insegna del «codice rosso». Tutto è nello stesso calderone: le scritte «vergogna» contro il presidente della Cei, il bossolo ricevuto dallo stesso Bagnasco e per il quale si è mobilitato lo stato a tutti i livelli, le bordate di Rivera. Ma anche il voto dell’europarlamento contro l’omofobia e in generale le critiche nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche. Perché, ci spiega l’Osservatore, l’odio è «coscientemente alimentato da chi fa del laicismo la sua ragione d’essere, per convenienza politica». Lo dimostrano «le interpretazioni capziose di discorsi fatti dal presidente della Cei, forzati per aprire una ’guerra’ strisciante, una nuova stagione della tensione, dalla quale trae ispirazione chi cerca motivi per tornare ad impugnare le armi...».
No, non è satira. Non è una semplice invettiva. Il bossolo spedito a Bagnasco è stato un atto intimidatorio che va contro la dialettica democratica. Sacrosanta, è il caso di dire, la decisione della chiesa di rispondere tenendo alta la propria bandiera. Discutibile, se l’espressione è concessa, la tentazione di corredare il «non ci facciamo intimidire» con un’intimidazione di altro tipo. Quella neanche tanto strisciante nei confronti della politica che a pochi giorni dal Family day sta provando a chiudere in commissione giustizia del senato la discussione sui Dico. E proprio dalla politica dovrebbe arrivare la risposta più sobriamente ferma non al kamikaze Rivera, ma alle intemerate delle alte sfere vaticane. In nome dell’amore (anche omosessuale, evidentemente) che impregna le predicazioni del santo padre, non si finisca preda del terrore. Terrore sacro, s’intende.