NATIVITY (2006) |
GIOTTO, Adorazione dei Magi |
I filosofi e la «favola» del Natale
di Maurizio Schoepflin (editoriale di Avvenire/Agorà, 25.11.2006, p. 25)
Dopo aver letto le incredibili affermazioni di Maurizio Ferraris [l’intervento su Il Sole-24 ore/Domenica, 29.10.2006, e il volumetto Babbo Natale. Gesù Adulto. In cosa crede chi crede?, Milano, Bompiani 2006, fls], in merito alla maggiore plausibilità della credenza in Babbo Natale che in Gesù Cristo, mi sono venute in mente due riflessioni che mi hanno condotto a considerare superficiale, inconsistente e ridicolo quanto sostenuto dall’esimio professore.
Infatti, basti pensare che se Ferraris avesse ragione dovremmo rivedere tutta la storia della filosofia, e della cultura in genere, e apportare a essa radicali correzioni. In effetti, come potremmo continuare a proporre nelle nostre scuole e università lo studio di Sant’Agostino e San Tommaso, Dante e Manzoni, Beato Angelico e Bach, i quali, avendo manifestato reiteratamente e pubblicamente la loro fede in Gesù Cristo, si sarebbero perciò stesso guadagnati la patente di poveri citrulli? Suvvia, vi sembra possibile?!Vi sembra sostenibile che le «Confessioni» e la «Divina Commedia» siano il prodotto di menti non adeguatamente sviluppate e immature?
Per parte mia - lo dico con tutta umiltà -, continuerò a leggere più volentieri le opere di Pascal e di Kierkegaard che quelle del professor Ferraris. La seconda riflessione prende le mosse da un interessante dato storico: nel 1959 padre Cornelio Fabro, uno dei maggiori studiosi di filosofia italiani del Novecento, fondò, presso la Pontificia Università Urbaniana, il primo Istituto in Europa di Storia dell’Ateismo. Che differenza di stile e di sensibilità!
Mentre il professor Ferraris sbeffeggia altezzosamente i cristiani, un uomo come Fabro, prete, religioso e docente di chiara fama, lungi dal considerare i non credenti dei poveri sciocchi, sentì l’esigenza di approfondire con serietà la questione dell’ateismo. E accanto a Fabro potremmo elencare un gran numero di pensatori credenti che hanno affrontato con rispetto e grande impegno il problema del rifiuto di Dio, preferendo sempre l’argomentazione seria e rigorosa alla boutade inutilmente provocatoria. Uomini da cui Ferraris avrebbe molto da imparare.
Caro Benedetto XVI...*
IL NATALE DI BETLEMME NON E’ IL NATALE DI ‘ROMA’ ... NE’ DI ‘EGITTO’!!!
di Federico La Sala
Non è da oggi che “il Natale subisce purtroppo una sorta di inquinamento commerciale, che rischia di alterarne l’autentico spirito", e non solo a causa della “società dei consumi”!!!
Se è vero, come è vero, che "costruire il Presepe in casa può rivelarsi un modo semplice, ma efficace di presentare la fede per trasmetterla ai propri figli" e alle proprie figlie; e, ancora, se è vero, come è vero, che "il Presepe ci aiuta a contemplare il mistero dell’amore di Dio che si è rivelato nella povertà e nella semplicità della grotta di Betlemme”, e, che “San Francesco d’Assisi fu così preso dal mistero dell’Incarnazione che volle riproporlo a Greccio nel Presepe vivente, divenendo il tal modo iniziatore di una lunga tradizione popolare che ancor oggi conserva il suo valore per l’evangelizzazione", come mai la Chiesa (che pretende di essere universale - cattolica) continua e continua a negare a Giuseppe il riconoscimento di tutta la sua piena potestà (legale e spirituale) di sposo di Maria e padre di Gesù?!
Che ce ne facciamo di un ‘presepe’ con un ‘padre’ de-potenziato dal punto di vista della Legge e dell’Amore?! Non è questo forse l’inquinamento più grande e più pericoloso ... della via, della verità, e della vita?! Che mai potrebbero dire oggi Maria e Gesù di fronte a questa bi-millenaria ostinazione ... di volontà di tutoraggio, di dominio, e di menzogna?!
Perché il cuore della Chiesa cattolico-romana è diventato come e più di quello del Faraone d’Egitto, duro come la pietra? Ma perché ... si è fondata proprio su questa pietra, e non sulla pietra viva!!! Dopo una “inutile strage”, al papa Benedetto XV, Luigi Pirandello ricordava e denunciava proprio questo, nella novella “Un goj” (cfr. "Ecce Homo": un "goj"!!!) pubblicata sul “Corriere della Sera” nel 1918.... Non dimentichiamolo!!!
Federico La Sala
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Monito del Papa in piazza San Pietro: "Bisogna difendere l’autentico spirito della festività dall’aggressione commerciale". Ed esalta il presepe
Benedetto XVI sul Natale: "La società dei consumi lo inquina"
(la Repubblica, 11 dicembre 2005)
CITTA’ DEL VATICANO - Un nuovo atto d’accusa del Papa alla società dei consumi. Questa volta il tema è il Natale, e nel discorso per l’Angelus in piazza San Pietro Benedetto XVI ammonisce: "Nella società dei consumi il Natale subisce purtroppo una sorta di inquinamento commerciale, che rischia di alterarne l’autentico spirito".
Nei giorni in cui molti sono impegnati negli acquisti natalizi, ha proseguito il Papa, bisogna proteggere dalla distorsione della società dei consumi "l’autentico spirito" del Natale, "caratterizzato dal raccoglimento, dalla sobrietà, da una gioia non esteriore ma intima".
Poi un invito a ritovare il valore spirituale del Natale anche attraverso il presepe: "Costruire il Presepe in casa può rivelarsi un modo semplice, ma efficace di presentare la fede per trasmetterla ai propri figli".
"Il Presepe - ha quindi spiegato il Pontefice - ci aiuta a contemplare il mistero dell’amore di Dio che si è rivelato nella povertà e nella semplicità della grotta di Betlemme. San Francesco d’Assisi fu così preso dal mistero dell’Incarnazione che volle riproporlo a Greccio nel Presepe vivente, divenendo il tal modo iniziatore di una lunga tradizione popolare che ancor oggi conserva il suo valore per l’evangelizzazione".
* IL DIALOGO, Lunedì, 12 dicembre 2005.
INFANZIA E STORIA: DEMOCRAZIA, FIABA, E MESSAGGIO EU-ANGELICO
AL DI LA’ DEL MITO E DELLA LOGICA TRAGICA.... L’INDICAZIONE DI NELSON MANDELA E DON LORENZO MILANI.
di Federico La Sala
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Nessuno nasce senza ombelico (antico prov. arabo).
A proposito del Crocifisso .... "Coprire di sdegnati improperi il gesto di Adel Smith non aiuta a capire lo scandalo che forse è più tremendo [...] il vero scandalo era avvenuto già prima del suo ricorso al giudice. Forse la croce era già stata tolta dai cristiani stessi, con il pensiero, e di esso non era restata che un’apparenza: due assi di legno, e quando è di aiuto la fantasia magari anche un uomo, scolpito sulla superficie [...] Il gesto della Chiesa che abbandona un crocefisso commissionato [per il Giubileo del 2000, a Tor Vergata, fls] non è meno grave - forse è più grave: Gesù è crocefisso di nuovo - dell’azione di Adel Smith"(Barbara Spinelli, Il caso Ofena. Il doppio scandalo della Croce, La Stampa, 2 nov. 2003)).
Questo, in verità, è il problema. Ieri era la questione di un solo coraggioso - Nietzsche, oggi è diventata (e siamo solo agli inizi!) una questione di tutti gli uomini e di tutte le donne d’Italia e dell’ intera Europa. Nel momento stesso in cui gli specifici rapporti e i vecchi equilibri tra le culture dell’intero mondo legato al Mediterraneo sono tutti da ridefinire e si pone la questione delle radici dell’intera Europa, l’interrogativo sul Crocifisso non può non riaprirsi e riportare alla coscienza i problemi non risolti o mal risolti da duemila anni - non solo a livello interculturale, ma anche all’interno stesso di ogni cultura, compresa la distinzione tra laico e religioso.
E Roma, come Gerusalemme, ridiventa il luogo reale, simbolico, e storico specifico dove si gioca la ’partita’ più importante. Se è vero, come è vero, che l’Europa è nata dall’incontro di diverse culture con il messaggio cristiano e che - come ha scritto lo studioso Khaled Fouad Allam, europeo di origine musulmana - "l’Europa è debitrice verso il cristianesimo", il problema si trasforma e assume quest’altra forma:"Come accogliere l’altro, se si nega se stessi? Come saldare un patto fra le comunità se l’Europa rifiuta di riconoscersi? L’incontro è possibile solo se si è consapevoli delle proprie radici"(La Repubblica, 23-9-2003).
Questo il nodo da sciogliere, e non si scioglie reimponendo vecchie soluzioni. Qui si sta parlando di un’ Europa nuova, di un’ Europa aperta e democratica, e allora bisogna essere chiari e onesti: questa Europa non s’inscrive e non vuole reinscriversi nell’orizzonte imperialistico platonico-hegeliano e cattolico-romano, ma nella tradizione socratico-cristiana - SOLO DIO E’ SAPIENTE (Socrate), SOLO DIO E’ BUONO (Gesu’).
La differenza è abissale, come quella tra Dante e Bonifacio VIII - a proposito di radici, non dimentichiamoci del padre della nostra stessa lingua! Oggi - ha detto il Papa (e in questo ha tuttavia ragione) - non possiamo più vivere "come se Dio non ci fosse" ... ma di che e di chi si sta parlando - del Papa o di Dante? Se vogliamo portare alla luce del sole le radici, è proprio su questa differenza che dobbiamo reinterrogarci radicalmente e riporre da un punto di vista ANTROPOLOGICO la questione aperta e denunciata già da Nietzsche (e da Freud e, recentemente, ripresa anche da René Girard): l’UCCISIONE di DIO e, insieme a essa - non confondiamo il padre con il figlio! - l’uccisione dell’uomo, FIGLIO di Dio, il Crocifisso appunto!
Si tratta di porre in modo nuovo e decisivo l’interrogativo sul MONOTEISMO. E la questione non è affatto solo religiosa, ma è culturale e politica in senso forte - ne va della nostra stessa vita sulla Terra, tout court!
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"Quando furono promulgate le leggi razziali in Italia nell’autunno del 1938, il provveditorato agli studi inviò solerti funzionari in tutte le scuole del Regno per verificare che fossero rigorosamente applicate. [...] Si racconta che in una certa aula scolastica di un istituto elementare, uno di questi funzionari svolgesse con zelo il suo compito di epuratore della razza maledetta e con espressione grifagna ingiungesse: CHI HA IL PADRE EBREO LASCI IMMEDIATAMENTE L’AULA. Tre bimbi con l’aria smarrita si alzarono, raccolsero libri e quaderni, si infilarono il cappottino ed uscirono mesti dalla classe. Verificata l’esecuzione dell’ordine, il funzionario proseguì perentorio: CHI HA LA MADRE EBREA LASCI TOSTO L’AULA. Un solo bambino riccioluto con l’incarnato pallidissimo, gli occhi sgranati, incredulo raccolse le sue cose ed uscì. A questo punto fiero di sé il solerte sgherro con soddisfatta pomposità esclamò: CHI HA IL PADRE E LA MADRE EBREI LASCI IMMANTINENTE QUEST’AULA ARIANA.
Nell’innaturale silenzio che seguì a quest’ultimo ukase, tutti udirono un cigolio che proveniva dalla parete alle spalle della cattedra. Col fiato sospeso tutti i presenti tesero le orecchie e intesero distintamente il suono metallico di un chiodino che cadeva sul pavimento. A questo punto, guidati dallo sgomento impresso sui piccoli volti dei loro alunni, il funzionario della pubblica istruzione ed il maestro si volsero verso la cattedra appena in tempo per scorgere il crocifisso guadagnare con dolenti balzelloni l’uscio e sparire.
Noi ebrei l’abbiamo sempre saputo, l’uomo che in effigie è rappresentato agonizzare sulla croce, è un ebreo. Suo padre terreno e sua madre erano ebrei. Lo era naturalmente suo fratello Giacomo. Ebraica fu la sua formazione e la sua pratica. Ebrei furono i suoi discepoli e a lungo i suoi seguaci furono solo ebrei.
Ebrei furono i primi martiri cristiani. Dopo quasi due millenni di elusione, questi fatti sono riconosciuti e dichiarati a chiarissime lettere dalla Chiesa. Non all’epoca buia della persecuzione e dello sterminio nazista. Allora milioni di innocenti condotti al macello forse avrebbero sperato nella rimozione dei crocefissi da ogni luogo per denunciare l’orrore. Non accadde.[...] Ma l’attuale Pontefice ha assunto su di sé come capo della Chiesa Cattolica la responsabilità delle passate perversioni, ha solennemente riconosciuto le colpe e chiesto perdono"(Moni Ovadia, La cacciata del crocifisso, L’Unità, 1.11.2003, p. 28).
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Allora, 1938, non accadde! Oggi, 2003, non lasciamoci confondere le idee e cerchiamo di andare alle radici. Questa epoca, la nostra epoca, è l’epoca del nichilismo, quella già annunciata da Nietzsche: Dio è morto! E noi lo abbiamo ucciso... E NOI (al di là del laico e del religioso, della destra e della sinistra) CONTINUIAMO AD UCCIDERLO!
Un simbolo è un simbolo. La sentenza del giudice Montanaro che ordina la rimozione del crocifisso da un’aula della scuola elementare di Ofena dice la verità, NIENT’ALTRO CHE LA VERITA’, TUTTA LA VERITA’. Cosa rappresenta oggi per noi, italiani e italiane, il crocifisso? Niente, niente più: il cattolicesimo (e lo dicono pure tutti i sondaggi e le statistiche, al di là delle apparenze e degli opportunismi) ormai è solo una categoria sociologica che non esprime più L’ANIMA della "buona-notizia" e del "lieto-evento", ma dice solo dell’appartenenza ad una parziale visione politico-culturale di una determinata parte della società italiana. Non dice più né delle radici, né di nostro padre e di nostra madre, né di "Dio", né del futuro, né di altro: "C’era una volta. - Un re! - diranno subito i miei piccoli lettori. - No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno" (Collodi)!!!
Un segnale è un segnale. E la sentenza del tribunale dell’Aquila è solo un campanello d’allarme: STA A TUTTI NOI sentirlo e riflettere, sia da parte dei cittadini e delle cittadine della REPUBBLICA DEMOCRATICA ITALIANA sia da parte dei e delle fedeli della CHIESA CATTOLICO-ROMANA sia di TUTTE LE ALTRE CONFESSIONI RELIGIOSE, e cambiare rotta - prima che sia troppo tardi. Se non l’abbiamo capito, la campana suona per tutti e per tutte: IL PROBLEMA E’ ANTROPOLOGICO, prima di tutto - e poi, politico e teologico! Si tratta - e non metaforicamente - di non buttare l’acqua sporca con il BAMBINO, NOI STESSI.
Teniamone conto. Noi - ognuno e ognuna, in prima persona - NON ABBIAMO ANCORA RISPOSTO alla domanda: CHI SIAMO NOI, IN REALTA? (su questo, mi sia lecito, cfr. F. La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria, in forma di lettera aperta, Edizioni Ripostes, Roma-Salerno, 2001, pp. 9-40).
Cittadini sovrani e cittadine sovrane, re e regine, figli e figlie di "Dio", o ... dei semplici pezzi di legno?! Sta il fatto che "OGNI BAMBINO E’ UN PRINCIPE DELLA LUCE CHE POI CON L’EDUCAZIONE DIVENTA UNA SORTA DI CRETINO"(Marcello Bernardi) - non un ’cristiano’, un essere umano - semplicemente!
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Ripensare tutto e ri-trovare "ciò che è comune" a tutti gli esseri umani e a tutte le culture e le religioni del Pianeta è un passo sempre più obbligatorio.
Bisogna ripartire a contare e ragionare da "zero" - dall’essenziale, dalla relazione amorosa di uomini e donne in carne ed ossa, dalla nascita di ognuno e di ognuna di noi stessi e di noi stesse, e dalla relazione (al di là di un biologismo e naturalismo accecato e accecante ) dei nostri stessi padri e delle nostre stesse madri. Questo ci permette di comprendere quanto per secoli e millenni ci siamo negati (a tutti i livelli - dal religioso allo scientifico!) che ogni essere u-ma-no nasce dall’unione, dall’alleanza, dal rapporto sociale (storico e culturale) di due esseri umani, non dal caso o da un ’incidente’ biologico o tecnico , ... e apre la strada alla possibilità di riequilibrare - pacificamente - il campo delle relazioni!
Significa finalmente capire, cioè, che la famosa ’rivelazione’ parmenidea ed eraclitea che l’Essere è, e che il non-essere non è, riposa su una chiarificazione essenziale - a partire dal nostro proprio presente storico - di natura logica ed etica. In principio era l’Essere, il Logos ... come il giovanneo In principio era il Logos e il ’grande comandamento’ Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso sono sulla stessa strada e non dicono altro che la stessa cosa. E ciò che dicono, se pure può essere apparsa una rivelazione, è prima di tutto e sopratutto una scoperta, un’acquisizione culturale, e una verità antropologica, e non un’invenzione di preti e di sacerdoti - questi vengono dopo!
A partire da noi stessi e da noi stesse, e dal nostro presente ATTUALE, ciò che oggi noi possiamo e dobbiamo fare è rimettere insieme tutti i ’pezzi’ dell’intera drammatica storia della nostra (planetaria) cultura, guarire le ferite, e riprendere il cammino, con una nuova consapevolezza e con una nuova volontà:
1) Fuori del tutto non c’è Dio (Dio è morto e noi l’abbiamo ucciso: è un punto cruciale della riflessione di Nietzsche e il punto d’approdo dell’intera filosofia contemporanea);
2) Non c’è Dio se non Dio (è l’affermazione fondamentale della religione islamica);
3) Non c’è Dio, se non il Dio dei nostri padri (è l’affermazione fondamentale della religione ebraica);
4) Non c’è Dio, se non il Dio delle nostre madri (è l’affermazione fondamentale della religione cristiana e cattolica).
Se non ora, quando? Bisogna ripartire dalle radici, da qui - dalla nascita di noi stessi e noi stesse e dalla relazione che ci fonda. E’ l’ antropologia che insegna alla politica... e alla teologia. Come in cielo così in terra: FUORI DEL TUTTO NON C’E’ NESSUN DIO, SE NON L’AMORE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI.
Da qui ripartire, dall’essere, tutti e tutte, figli e figlie della Relazione d’Amore di uomini e donne, da questo fatto-culturale attuale, e da questa consapevolezza - senza riduzionismi biologistici e senza fondamentalismi, per fare verità e riconciliazione: non ci sono altre strade.
Oggi non abbiamo più altra via per proseguire, se non quella della verità e della vita.... Un grande concilio, tra tutti gli uomini e tutte le donne di buona volontà di tutta la Terra, come quello immaginato IN CIELO da Nicola Cusano, "per placare la follia dell’ira e di aiutare la verità a manifestarsi", in LA PACE DELLA FEDE (1453), penso che sia da mettere all’ordine del giorno.
Un O.N.U. rinnovato, un UNO della filosofia, della politica, e delle religioni. AL PIU’ PRESTO: ora, non domani. Per il Terzo millennio, per l’intero genere umano - un nuovo monoteismo, quello della libertà, dell’uguaglianza, e della differenza: un "lieto-evento" e una "buona-novella", finalmente..... AMORE è più forte di MORTE (Cantico dei cantici: 8.6 - trad. di G. Garbini). La paura più grande - quella della morte - può essere affrontata e un nuovo essere umano può nascere.
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La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati.
La nostra paura più profonda è di essere potenti oltre ogni limite.
È la nostra luce, non la nostra ombra, a spaventarci di più.
Ci domandiamo: “Chi sono io per essere brillante, pieno di talento, favoloso? In realtà che sei tu per NON esserlo?”
Siamo figli di Dio. Il nostro giocare in piccolo non serve il mondo.
Non c’è nulla di illuminato nello sminuire se stessi perché gli altri non si sentano insicuri intorno a noi.
Siamo tutti nati per risplendere, come fanno i bambini.
Siamo nati per rendere manifesta la gloria di Dio che è dentro di noi.
Non solo in alcuni di noi: è in ognuno di noi.E quando permettiamo alla nostra luce di risplendere, inconsapevolmente diamo agli altri la possibilità di fare lo stesso.
Quando ci liberiamo dalle nostre paure, la nostra presenza automaticamente libera gli altri.
(Testo di MARIANNE WILLIAMSON, ripreso dal discorso di insediamento del Presidente della Repubblica del Sudafrica, Nelson Mandela, del 1994).
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A dar retta ai teorici dell’obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell’assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore.
C ’è un solo modo per uscire da questo macabro gioco di parole.
Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù; ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto.
A questo patto l’umanità potrà dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al suo progresso tecnico (don Lorenzo Milani, L’obbedienza non è più una virtù. Lettera ai cappellani militari).
* IL DIALOGO, Lunedì, 01 dicembre 2003.
Sul tema, si cfr.:
MAURIZIO FERRARIS: BABBO NATALE. GESU’ADULTO
BASTA CON LA "MALA EDUCAZIONE"!!!
QUESTIONE ANTROPOLOGICA: "CHI SIAMO NOI, IN REALTA’?"(Nietzsche).
L’EU-ANGELO NON E’ UN "MESSAGGIO" DI "MAMMASANTISSIMA"!!!
"DUE SOLI".... Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", Così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!!
FLS
LA “DIVINA COMMEDIA” E IL CUORE DEL “PADRE NOSTRO”, “L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE”...
PLAUDENDO ALL’ECCEZIONALE LAVORO DELLA REDAZIONE DELLA FONDAZIONE “TERRA D’OTRANTO”, ANCHE ALLA LUCE DI QUESTO ULTIMO CONTRIBUTO, CREDO CHE OGGI (19 MARZO 2021), ALL’INTERNO DI UN ORIZZONTE STORICO SEGNATO DA UNA PANDEMIA PLANETARIA, SIA OPPORTUNO RIFLETTERE SUL FATTO CHE QUESTO ANNO (2021) è l’anno dedicato all’Anniversario della morte (1321) di Dante Alighieri e che a Lui è stata dedicato come giorno di memoria il 25 marzo, giorno di memoria liturgica anche dell’Annunciazione (vale a dire del concepimento del Bambino).
Accogliendo la sollecitazione di questa importante connessione, forse, è meglio ripensare a “come nascono i bambini” (antropologicamente, filosoficamente e teologicamente), alla figura dell’uomo Gesù, all’”Ecce Homo”(«Ecco l’uomo», gr. «idou ho anthropos») di Ponzio Pilato, e, ancora, alla lezione di Dante.
A mio parere, la sua lezione non è solo “poetico-letteraria”, ma è anche teologica e politica: la sua “Monarchia” con l’indicazione relativa ai “due soli” ha, infatti, il suo fondamento teologico e antropologico nell’amore (charitas) del “Cantico dei cantici” (cioè, di Salomone - non di Costantino: rileggere il c. XIV del “Paradiso”) e pone le condizioni per rileggere l’intera figura di san Giuseppe! Egli non è affatto un falegname che prepara la croce per inchiodarci su il bambino che gli è stato affidato, ma lo sposo di Maria, discendente della casa di Davide (“de domo David”: -https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/10/de-domo-david-39-autori-per-i-400-anni-della-confraternita-di-san-giuseppe-di-nardo/#comment-257181) che, come Salomone, ha saputo decidere e portare in salvo la madre vera e il bambino vero! O no?!
STORIA, STORIOGRAFIA, E ANTROPOLOGIA: SAN GIUSEPPE, TERESA D’AVILA, E IL CARMELO TERESIANO... *
Giuseppe, il santo dei mistici, e cosi vicino al «Geppetto» di Biffi
L’esperto di letteratura religiosa Giacomo Jori ne rievoca alcuni aspetti: fondamentale la sua figura per capire la riforma del Carmelo
di Filippo Rizzi (Avvenire, venerdì 19 marzo 2021)
Patrono della Chiesa universale, padre putativo di Gesù, certo. Ma anche una figura chiave grazie al suo proverbiale silenzio e al fatto di «rimanere in secondo piano», defilato, per capire il linguaggio dei mistici e in particolare per comprendere il senso, quasi il dna più intimo degli Ordini contemplativi. San Giuseppe ha rappresentato, in un certo senso, quasi l’«emblema narrativo» del Carmelo riformato impresso da Teresa d’Avila (1515-1582). È la lettura che offre, nella sua riflessione, lo studioso ed esperto di letteratura religiosa Giacomo Jori per ripensare, in chiave attuale e per certi versi “controcorrente ”, la figura di san Giuseppe in questo Anno speciale dedicato a lui e nella solennità che si celebra oggi e rievoca, in tutti noi, la festa dei papà.
«Tra i dati più singolari c’è quello che rimane per tutta la vita un personaggio silente come ci testimoniano gli evangelisti Luca e Matteo - annota Jori, docente di letteratura italiana all’Università di Lugano -. Ma è un uomo che vive di sogni: tra questi quello premonitore della fuga in Egitto. Giuseppe è quasi in ombra, non parla nei Vangeli e non interloquisce con Gesù a differenza per esempio di uomini come Nicodemo e Pilato».
Non dimentica nel suo ragionamento lo studioso, allievo di Carlo Ossola e vicedirettore della Rivista di storia e letteratura religiosa («Uno dei prossimi numeri del nostro periodico in via di pubblicazione sarà proprio dedicato san Giuseppe») di fare emergere anche altri aspetti singolari a cui viene spesso accostata questa figura paterna, in molti quadri, nel solco del Concilio di Trento. «È stato un falegname rappresentato spesso con i ferri del mestiere o con quasi sempre in braccio Gesù bambino. Inoltre è stato raffigurato come marito ideale di Maria e padre vicario del Figlio di Dio».
Ma dietro al Giuseppe “quasi” assente dalle scene evangeliche si annida, per certi versi, molto di più. «Se si riprendono in mano le Avventure di Telemaco di Fénelon e la declinazione successiva che ne darà Collodi con il personaggio di Pinocchio - è il ragionamento - è facile avvicinare lo sposo di Maria alla figura di Geppetto, anche lui “padre putativo”, che guarda caso fa di mestiere il falegname. Anche Geppetto come Giuseppe non solo si sente il “padre” di quella creatura ma si avverte come il custode privilegiato della crescita di un bambino destinato a diventare grande (non più una marionetta) e a scegliere la libertà.
In questa prospettiva può essere ancora utile leggere l’interpretazione teologica che offre su questo tema il cardinale Giacomo Biffi nel suo famoso saggio degli anni Settanta «Contro Maestro Ciliegia. Commento teologico alle avventure di Pinocchio».
Una figura dunque «poco citata nei testi della Rivelazione» che affiora seppur sottotraccia nella stessa Divina Commedia. «Se rileggiamo oggi a 700 anni dalla morte di Dante - è l’osservazione - il canto XXXIII del Paradiso proprio dove si snoda l’inno alla Vergine di san Bernardo. Nei versi iniziali delle terzine dal 19 al 39 nascondono un acrostico: in esso sono racchiuse la parole “Joseph Av” cioè Ave Joseph (“Ave Giuseppe”). È suggestivo pensare che il Divin Poeta attraverso quest’acrostico renda omaggio al falegname di Nazareth, senza nominarlo esplicitamente ma tenendolo in silenzio».
Un santo che diventa uno dei pilastri «quasi interiori» su cui poggia la riforma spirituale dei carmelitani scalzi impressa da santa Teresa d’Avila. «Non è un caso che Teresa nei suoi Diari lo scelga come suo protettore - è l’argomentazione -. E studiando il carteggio inedito della carmelitana torinese la beata Maria degli Angeli, al secolo Marianna Fontanella vissuta tra il 1661 al 1717, ho scoperto di quanto la figura di Giuseppe fosse centrale, quasi “strategica”, nella vita di un Carmelo di fine Seicento. Se oggi san Giuseppe è il co-patrono di Torino lo dobbiamo proprio all’azione apostolica e “mediatrice” di questa religiosa. Fu lei a convincere i Savoia, a chiedere alla Sede Apostolica di accostare al patrono della città, san Giovanni Battista, il padre putativo di Gesù».
Un personaggio dunque che parla all’uomo di oggi. «Penso di sì perché si tratta di un uomo umile che si fa custode dell’infanzia di Gesù. Riguardando certe istantanee del film Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini ciò che più colpisce di Giuseppe è che parla più con gli sguardi che con le parole. Il segreto della sua grandezza e del suo carisma risiede credo proprio in questo».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PINOCCHIO E NOI, ITALIANI ED ITALIANE: IL CROCIFISSO E UN PEZZO DI LEGNO. INDIETRO NON SI TORNA. Una nota su una discussione già fatta (2003)
DON MARIANO ARCIERO, ILDEGARDA DI BINGEN, E UNA "CAPPELLA SISTINA" IN ROVINA. Al cardinale Angelo Amato, all’arcivescovo di Salerno Luigi Moretti, l’invito a un sollecito interessamento.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!! DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue. Contro il disfattismo, un’indicazione e un’ipotesi di ri-lettura. AUGURI ITALIA!!!
Federico La Sala
IL PRESEPE E LA NOTTE DI NATALE. La lezione di Pirandello (1918) e di Eduardo De Filippo (1931):
A) PIRANDELLO (Un "Goj",1918) .
B)EDUARDO DE FILIPPO ("Natale in casa Cupiello", 1931) *
Natale in casa Cupiello è un’opera teatrale tragicomica scritta da Eduardo De Filippo nel 1931.
Genesi dell’opera
Portata in scena per la prima volta al Teatro Kursaal di Napoli (oggi Cinema Filangieri), il 25 dicembre 1931, Natale in casa Cupiello segna di fatto l’avvio vero e proprio della felice esperienza della Compagnia del "Teatro Umoristico I De Filippo", composta dai tre fratelli e da attori già famosi o giovani alle prime armi che lo diventeranno (Agostino Salvietti, Pietro Carloni, Tina Pica, Dolores Palumbo, Luigi De Martino, Alfredo Crispo, Gennaro Pisano). A giugno Eduardo aveva firmato un contratto con l’impresario teatrale che lo impegnava per soli nove giorni di recite per presentare il suo nuovo atto unico subito dopo la proiezione di un film. Il successo della commedia fu tale che la durata del contratto fu prolungata sino al 21 maggio 1932. -Originariamente si trattava di una commedia ad atto unico (quello che, nella versione definitiva, costituisce oggi il secondo atto), ampliato successivamente in due distinte fasi: la prima, nel 1932, vide aggiungersi l’attuale primo atto e la conclusiva, nel 1934[1] (secondo anche quanto dichiarato da Eduardo sul numero 240 della rivista Il Dramma uscito nel 1936) o nel 1937[2] o addirittura nel 1943 (secondo un’ipotesi avallata più tardi dallo stesso autore[3]), che configurò l’opera nella sua versione attuale, composta da tre atti. La complessa genesi della commedia portò Eduardo stesso ad affermare che essa era nata come un "parto trigemino con una gravidanza di quattro anni" [4].
Trama
La scena si svolge nell’arco di circa cinque giorni nella casa della famiglia Cupiello, della quale vengono rappresentate la camera da letto (atti I e III) e la sala da pranzo (atto II).
I atto
È la mattina dell’antivigilia di Natale. Luca Cupiello e sua moglie Concetta si svegliano, ma il loro risveglio è reso comicamente faticoso dalle bizze dell’uomo, che si lamenta per il freddo e per il pessimo caffè che lei gli ha preparato. Luca è un fervente amante delle tradizioni natalizie, e non vede l’ora di potersi dedicare maniacalmente alla composizione del Presepe, nonostante le critiche della moglie e del figlio Tommasino (Nennillo), che lo ritengono anacronistico (questa situazione costituirà una gag ricorrente per tutta la messa in scena). La sua impresa è inoltre resa difficoltosa dall’intervento di suo fratello Pasqualino, scapolo collerico in perenne guerra col pestifero Nennillo; Luca sembra inoltre avere alcune difficoltà nei movimenti e nel ricordare le cose, tragicomiche anticipazioni del dramma che seguirà. Irrompe in casa la figlia Ninuccia, agitata per l’ennesima lite con suo marito Nicolino. Ninuccia, che non ha mai amato il marito, vuole scappare con il suo amante Vittorio e confessa alla madre di voler lasciare Nicolino a cui ha scritto una lettera di addio. La donna, a causa delle forti resistenze della madre, ha un attacco nervoso e, nell’impeto, rompe alcune suppellettili e la struttura del presepe. Nel caos che segue Concetta ha un mancamento, e riesce a strappare a Ninuccia la promessa di fare la pace con Nicolino; tuttavia nel trambusto la ragazza perde la lettera, che sarà ritrovata da Luca il quale, ignaro di tutto, la consegna a Nicolino.
II atto
In casa Cupiello è tutto pronto per festeggiare la vigilia di Natale. Tommasino, ignaro della relazione della sorella, arriva a casa accompagnato da Vittorio che, oltre a essere l’amante di sua sorella, è anche suo amico. Il ragazzo insiste perché si trattenga qualche minuto a casa sua. Rimasti soli, Concetta chiede a Vittorio di andarsene immediatamente e permettere a Ninuccia di salvare il suo matrimonio con Nicolino: quest’ultimo infatti, dopo aver letto la lettera consegnatagli incolpevolmente dal suocero, è a conoscenza della loro relazione, e solo i copiosi sforzi di Concetta hanno evitato il peggio. In quel momento tuttavia rincasa Luca che, anch’esso ignaro della relazione extraconiugale della figlia, insiste perché Vittorio si fermi a cena. La serata prosegue con una tensione di sottofondo, stemperata dai pasticci di Luca, Nennillo e Pasqualino e da mille disavventure che costellano la preparazione della cena. Approfittando di un momento di solitudine, Ninuccia e Vittorio hanno un drammatico incontro che sfocia nell’esplosione della passione tra i due; Nicolino li sorprende nell’atto di scambiarsi un dolce bacio, e accusa Ninuccia e Concetta di averlo ingannato. I due uomini e Ninuccia abbandonano quindi la casa per potersi sfidare a duello. Mentre Concetta, rimasta sola in scena, si dispera, giungono Luca, Pasqualino e Tommasino vestiti da re magi con i loro regali per lei.
III atto
Venuto brutalmente a conoscenza della situazione familiare, Luca, per anni vissuto nell’illusione di aver creato una famiglia felice, ha un colpo apoplettico e si ritrova a letto in preda a difficoltà motorie e verbali per l’ictus sopravvenuto. L’intero vicinato è ormai costantemente presente al suo capezzale, dove Luca accusa deliri e allucinazioni che hanno come protagonista il genero Nicolino, che ha lasciato immediatamente la moglie e si è recato da alcuni suoi parenti a Roma. Pur nel delirio Luca spera ancora di vederlo riappacificato con sua figlia, la quale è distrutta dal dolore in quanto è perfettamente cosciente che su di lei ricadono le colpe della malattia del padre. Sopraggiunge il medico, che improvvisa una diagnosi incoraggiante alla moglie ed alla figlia di Luca, ma rivela invece al fratello la cruda verità: Luca non ha scampo e la sua morte è ormai questione di ore. Una improvvisa visita dell’amante Vittorio, che si sente moralmente responsabile dello stato di salute di Luca, ne provoca l’ennesimo equivoco allucinatorio e Luca, scambiandolo per Nicolino, arriva a benedire inconsapevolmente l’unione dei due amanti proprio all’arrivo del marito di lei, che viene subito trattenuto a viva forza e portato fuori dai presenti. Luca Cupiello, ormai definitivamente ripiegato nelle sue allucinazioni, si avvia così a morire ignaro ancora una volta della realtà.
Tommasino, alla domanda che suo padre gli rivolge in punto di morte, «Te piace ’o presepio?» ("Ti piace il presepe?"), alla quale egli in precedenza aveva sempre risposto di no con stizzita protervia, finalmente si "scioglie" e tra le lacrime gli sussurra un laconico sì, proprio mentre suo padre sembra entrare nella gioiosa allucinazione di un "enorme presepe nei cieli".
* Fonte: Wikipedia (ripresa parziale).
C) "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi" (Emilio Gentile).
Federico La Sala
Il 21 dicembre il solstizio e la ’stella’ che guido’ i Magi
E’ l’abbraccio tra Giove e Saturno, che saluta l’inverno
di Monica Nardone*
Tripletta di eventi astronomici per il 21 dicembre, con il solstizio d’inverno che è anche il giorno piu’ breve dell’anno e saluta un fenomeno che non si osservava da circa 400 anni: Giove e Saturno vicini come lo sono stati solo nel 1623, quando erano ancora in vita Galileo e Keplero. La congiunzione dei due pianeti e’ stata probamente la ’stella’ di Natale che, secondo il racconto dei Vangeli, avrebbe guidato i Magi.
Il solstizio è previsto alle ore 11,02 italiane e segna l’inizio dell’inverno. In questo giorno "il Sole nel suo movimento apparente lungo l’eclittica, ovvero la proiezione nel cielo dell’orbita della Terra, raggiunge la posizione piu’ a Sud rispetto all’equatore celeste, che e’ la proiezione nel cielo dell’equatore terrestre", spiega l’astrofisico Gianluca Masi, responsabile del Virtual Telescope.
"Questo fa si’ - prosegue - che nel giorno del solstizio invernale l’arco corrispondente al cammino del Sole al di sopra del nostro orizzonte boreale sia il piu’ modesto dell’anno e, di riflesso, ci regala la notte piu’ lunga".
Il solstizio è salutato dalla rara congiunzione tra Giove e Saturno, che sono cosi’ vicini da poter essere osservati insieme nel campo di un telescopio. Naturalmente e’ un avvicinamento apparente, visibile dalla Terra. Il fenomeno potrebbe essere la stella di Natale dei Vangeli: "nel 7 a.C - ha spiegato Masi - la congiunzione tra i due pianeti e’ avvenuta addirittura tre volte e fu Keplero a suggerire che i Magi si siano ispirati ad essa, anche perche’ la durata della triplice congiunzione richiede mesi e questo e’ compatibile con l’organizzazione di un lungo viaggio, mentre altri fenomeni, come una cometa, hanno una finestra di visibilita’ piu’ modesta".
Nei Vangeli, inoltre, non si parla di cometa ma di stella. A darle la ’veste’ di cometa, ha proseguito, e’ stato Giotto: "affrescando la scena dell’Adorazione dei Magi nella cappella degli Scrovegni, raffiguro’ una bellissima cometa, con grande verosimiglianza perche’ egli stesso aveva visto il passaggio della cometa di Halley e si ispiro’ evidentemente a quella visione".
La congiunzione fra Giove e Saturno è uno spettacolo da non perdere e per osservarlo al meglio Paolo Volpini, dell’Unione Astrofili Italiani (Uai) consiglia di "aspettare che il Sole tramonti e guardare in quella direzione.
Verso le 17,00 si potra’ cominciare a vedere i due pianeti vicinissimi. Il momento clou è previsto tra le 17,30 e le 18,30 del 21 dicembre. E’ importante cercare un luogo con l’orizzonte a Sud.Ovest libero. Il fenomeno e’ visibile a occhio nudo, ma con un piccolo telescopio e’ possibile vedere gli anelli di Saturno e le lune di Giove".
* Fonte: Ansa, 20.12.2020.
Tradizioni.
Nella ninnananna si condensa la prima teologia
La ninnananna è il convincimento alla fiducia in una presenza affidabile, che assicura al risveglio il ritrovamento di tutti gli affetti: coagula la prima filosofia e la prima teologia della storia
di Giovanni Cesare Pagazzi (Avvenire, martedì 28 luglio 2020)
Si può guardare all’universale usanza della ninnananna con gli occhi altezzosi di chi ha cose ben più serie da studiare, o solo con la simpatia suscitata dalle cose infantili. In realtà essa contribuisce a comporre la prima visione del mondo, offerta a chi da poco è venuto alla luce. È quanto emerge anche dalle ricerche dell’antropologa Gianfranca Ranisio, dell’etnomusicologo Sandro Biagiola e del musicista e teologo Pierangelo Sequeri.
Da tempo immemorabile è avvertita l’esigenza di accompagnare il bambino nel sonno, garantendogli vicinanza corporea e affettiva, inventando un genere letterario e musicale specifico: la ninnananna, appunto. Ritmicità, musicalità, vocalità e corporeità sono i punti fermi di questi componimenti che esaltano il rapporto tra il bambino e l’adulto nel momento più critico del giorno: il sopraggiungere della notte.
In genere si tratta di nenie cantilenanti dal movimento moderato e dal ritmo pari che ben si accompagna al movimento binario del cullare. Il sistema musicale non è temperato, si avvale cioè della sonorità originaria, ben più complessa e ricca rispetto alla classificazione artificiale dei suoni data dal sistema temperato. -L’aspetto fortemente ripetitivo di testo, musica e gesto accende nel bambino il senso di affidabilità e di attendibilità. Infatti qualsiasi evento ripetuto inclina ad attenderlo nuovamente, abituando al suo arrivo, tanto da coglierlo come “attendibile”: lo si può aspettare, poiché arriverà; è affidabile.
Per l’adulto è scontato che domani sorga il sole, camminando passo dopo passo il terreno continui a sostenere il corpo e la persona amata si faccia trovare all’appuntamento fissato. Per il bambino non è così; la fiducia deve essergli accesa da esperienze che affettivamente gli dimostrino l’esistenza di realtà attendibili: come la mamma che arriva tutte le volte che piange, i giocattoli rimasti al loro posto e sempre pronti a far compagnia, il pavimento che esibisce metro dopo metro la sua fedele solidità mentre il piccolo, gattonando, lo tasta. -Senza l’accensione del senso di affidabilità fin dagli inizi della vita, non ci si aspetterebbe niente da nessuno, per l’ottima ragione che niente e nessuno risulterebbe attendibile (e, naturalmente, questo vale anche per Dio). È indicativo che tutto nella ninnananna abbia la forma della ripetizione e che a questo genere di composizione si ricorra all’inizio della notte, per favorire il sonno del piccolo. Il bambino spesso non vuole addormentarsi, rifiuta di andare a letto non per capriccio infantile, ma per paura di essere abbandonato dalla mamma, dal papà, dai giocattoli, dalla casa che l’oscurità della notte si porta via.
La paura del bimbo è spesso evocata dalle ninnananne riferendo di pericoli, minacce, animali mostruosi; in Europa il lupo è il predatore più spaventoso.
Al richiamo del rischio notturno fa comunque da contrappunto l’assicurazione della presenza vigile della mamma che in alcuni casi chiede aiuto a un angelo, un santo, alla Madonna, o Gesù stesso, invocato con riferimenti alla sua infanzia. La garanzia della cura e il coinvolgimento di Dio evidenziano quanto il momento dell’abbandono al sonno da parte del piccolo sia effettivamente drammatico e quanto gli adulti intuiscano e rispettino il dolore del bimbo come ne fossero esperti.
Non per nulla, infatti, il linguaggio musicale, gestuale e testuale delle ninnenanne è molto simile alle oscillazioni ritmiche e cantilenate dei lamenti funebri. Sicché la ninnananna è anche il rimedio agli oscuri presentimenti degli adulti che intuiscono quanto il dormire somigli alla morte.
La ninnananna è il convincimento alla fiducia a motivo di una presenza affidabile che assicura, insieme al risveglio, la permanenza e il ritrovamento di tutti gli affetti. Avanzando la pretesa di dire una parola decisiva sul sonno e sulla notte, la ninnananna coagula la prima filosofia e la prima teologia della storia, capaci di integrare il buio e la morte. Una filosofia e una teologia gestuale, vocale, musicale.
Il bimbo si abbandona al sonno quando è sicuro che non sarà abbandonato; solo a patto che gli risulti affidabile la promessa del ritorno del mattino e, con esso, della mamma, del papà, dei giocattoli e della casa. Esigendo la vicinanza dei genitori al lettino (come il morente desidera avere al capezzale tutti i suoi affetti), il bimbo si lascia andare, sicuro che essi staranno con lui, anche se non visti, per tutta la durata della notte. Il suo sonno risulta dalla veglia di qualcun altro che gli annuncia e prepara il domani.
Come capita spesso, gli artisti hanno intuito la profondità e il senso di gesti feriali come la ninnananna. Bach nell’Oratorio di Natale mette in bocca a Maria una ninnananna per il Figlio di Dio appena venuto al mondo: Schlafe mein Libster (“Dormi mio amatissimo”); e nella Passione secondo san Matteo, dopo la morte di Cristo, fa cantare a solista e coro: Mein Jesu, gute Nacht (“Buona notte, mio Gesù”); per terminare con la straziante ninnananna del finale: «Piangendo, ci prostriamo davanti alla tua tomba, per dirti: “Riposa dolcemente”».
Se per spiriti sensibili la ninnananna contribuisce a cogliere perfino il mistero dell’Incarnazione e della Pasqua, forse ha da dire qualcosa a tutti.
Manganelli: basta con il Natale!
di Marco Belpoliti (Doppiozero, 24.12.2015)
Basta con il Natale!, l’esclamazione prorompe dalle pagine de Il presepio (Adelphi 1992) che Giorgio Manganelli sta redigendo alla fine degli anni Settanta nella sua casa romana seduto alla macchina per scrivere. In verità nel dattiloscritto che esce dal rullo della macchina non dice proprio così. Manganelli è più sottile, meno greve, ma non per questo meno diretto o pesante: “La mia memoria dei Natali infantili è estremamente penosa”; e ancora: “I preparativi per il Natale hanno qualcosa di cupo, di tetro, per l’appunto come preparativi per tener testa ad una invasione, o ad una minaccia non precisa che si addensa sulle nostre indifendibili frontiere”. Cosa ha il Natale per sembrargli così pernicioso? Al Natale “non si dà fuga; in nessun modo”. Nessuno può evadere dal Natale.
Per questo Manganelli decide di immergersi nel Natale, lo fa affrontando una delle sue “istituzioni”: il presepe. Il testo che sta scrivendo ha come oggetto proprio questa “scena”, come la chiama Manganelli. Questo è il presepe. Se c’è una felicità natalizia - e chi la nega? - c’è però anche una certa “infelicità natalizia”, scrive chi ha redatto il risvolto di questo libro stampato postumo nel 1992, vent’anni dopo essere uscito dalla macchina del Manga. Come tutti coloro che riescono a vedere l’altra faccia delle cose, il luogo in ombra, oscuro, nascosto, egli coglie l’elemento pericoloso che il Natale reca con sé, quello stesso che lo rende davvero rischioso, difficile, grave.
Il Natale è la festa dei bambini, per i bambini. Anche gli adulti quel giorno diventano bambini. Ma se fa parte della galassia infantile, è anche vero che questo accade perché è uno dei “riti necessari alla produzione dei morituri”. Di più: con il Natale, e non solo con questo, si fa “moneta dell’infanzia per dilazionare il disastro del mondo”. Ritiene che sia un modo per procrastinare il disastro usando l’infanzia. Non c’è rimedio tuttavia a tutto questo, dal momento che se bastasse porre fine al Natale per scongiurare questo stato di cose, staremmo tutti meglio. Ma al Natale non si sfugge, ripete, ragione per cui non lo si può neppure abolire.
Cosa trova di così terribile Manganelli nel Natale? Il fatto che è uno spettacolo: messa in scena di una nascita; chiama tutti ad assistere a questo evento. Ma è proprio un evento? Ne dubita. Il presepe è la negazione della nascita. Nel presepe non nasce nessuno. Le statuine vengono poste lì per rappresentare. Non nasce nessun Bambino. Nel Natale convergono, e in parte si confondono, il Bambino, ovvero Gesù, il-già-nato, e il Vecchio, ovvero Babbo Natale, la vecchiezza come forma del Mondo. Forse si confondono anche le due coppie puer-senex e senex-puer; si tratta in definitiva dell’incontro tra due mitologie e due teologie.
Quello che disturba lo scrittore è che il Natale sia essenzialmente una rappresentazione. Tutto complotta per produrre le innocue lacrime del sentimentalismo che hanno il solo scopo di tenere a bada suicidio e omicidio, tutta la volgarità “contro cui preme la demenza”. Che sono poi i sintomi della condizione umana, profondamente umana. Scrive nelle prime pagine: “Quelle fragili fole natalizie erano terribilmente pertinenti la denuncia della mia, della nostra indecorosità; ero circondato da magie sarcastiche. Investiva le famiglie di una nobiltà sacerdotale che non poteva svelare l’odiosa, repulsiva tristizia dei conflitti coniugali e filiali. Erano, e sono, giorni, notti fitti di fantasie funerarie, anche delittuose; il tutto mescolato a pianti di verace compunzione, a teneri abbandoni, a propositi inani di riscatto, dopo naturalmente, quel delitto che per altro era impossibile”. E ancora: “mai come a Natale la demenza si lascia respirare ai dementi”.
Nel presepe, istituzione natalizia in cui Manganelli stesso si iscrive con un gesto proditorio, e anche felice, nonostante tutto, si manifesta l’infelicità stessa del Natale, “una infelicità esclusiva, viscida, serpentesca, e insieme calamitosa”. Nella sua visione apocalittica che gli fa vedere nel Natale una cigolante macchinazione cosmica, si produce uno spettacolo. Una rappresentazione che occulta ogni altra cosa e ci fa guardare le figurine di cartapesta del presepe. Eccole: la Madre, il Padre, i Pastori, la Vecchietta, il Ruscello, l’Asino e il Bue. E poi: gli Angeli, e persino i pipistrelli. Senza la Madre la rappresentazione stessa non sarebbe neppure pensabile, non prenderebbe avvio la macchina teatrale che include il Bambino. Lui, che ne sembrerebbe il protagonista, non lo è.
Il presepe “non ha fondali; dietro non c’è niente”. Che si tratti di una mangiatoia o di una spelonca, di una grotta o di una caverna, in ogni caso è un luogo di passaggio, un corridoio. Il presepe è collegato con l’Inferno, ne rappresenta, a detta di Manganelli, una delle porte d’ingresso. Da dove viene il presepe, dal Cielo o dal mondo ctonio? Com’è possibile che esca proprio dal basso? Perché è degli inferi la simulazione, si risponde. Dal buio della caverna sono usciti il Padre, la Madre, il Bambino. Altrimenti non si spiegherebbe la sua capacità di essere fonte purissima d’angoscia. Il Natale la suscita, questa angoscia.
Nelle pagine di questo dattiloscritto rinvenuto da Ebe Flamini tra le carte di Manganelli dopo la sua morte, sono due i personaggi che più colpiscono: l’asino e il bue. A sua detta si tratta degli unici esseri viventi dell’intera rappresentazione sacra: non somigliano per nulla alle statue taciturne, ai simulacri senza età. Loro non escono dalla caverna, non appartengono al mondo infero. La loro è una singolare alleanza. “Un errore li ha generati”, scrive. Sono due animali umili, percossi, e uno, il bue, poi, è castrato. Questo è poi un vero enigma. La mitezza del bue ha qualcosa di torvo. La sua natura è di essere appunto un castrato: era un toro poderoso, scrive Manganelli, e generante. La sua mitezza è il rovesciamento della forza. L’asino è la potenza del sesso, la sua forma furente, persino pericolosa. I due animali sono i veri padroni di casa - stalla, mangiatoia, caverna, antro, rifugio -, loro due, il castrato e il priapeo, sono quelli posti più vicini al Bambino. “Sono viventi che amano la noia”, scrive.
Seduto alla sua macchina per scrivere, questo teologo negativo batte furiosamente sui tasti producendo un delirio a-teologico, una sua macchina teologica (sia pure di teologia negativa) da opporre a quella delle figurine di cartapesta che giacciono nel presepe. La sua è una felicità del vanverare, del parlare a vuoto, che tuttavia coglie un elemento fondamentale: la natura infera di questa scena che colleghiamo all’avvento del Regno, alla Nascita del Salvatore, alla venuta di Gesù nel Mondo. Il Bambino c’è già, è lì. Non è nato, c’è.
Il libro si conclude con una scena. E non si sa dove Manganelli l’abbia trovata, in quale presepe l’abbia vista. Forse l’ha sognata? Forse. Eccola. La Vecchia, figura archetipica, cava dalla sua sacca una trottola e la lascia cadere nel buco: nel nulla, nell’antro infernale che si apre dentro il presepe. Dal buco è uscito il Natale stesso con la sua forma infera. “Per quel bel bambino”, dice la Vecchia. Poi getta la trottola policroma, oggetto magico, che “subito discende con un sibilo melodioso, infernale”. È fatta. Nessuno può più fuggire. Il Disastro è accaduto. Si dia inizio alla festa. Il Natale può cominciare. L’angoscia è al culmine, la catastrofe dispiegata. Sediamoci a tavola tranquilli e pranziamo. Viva il Natale!
L’udienza. Il Papa: il presepe è Vangelo domestico
Francesco all’udienza generale: porta il Vangelo nelle case, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e di ritrovo, negli ospedali e nelle case di cura, nelle carceri, nelle piazze
di Redazione Internet (Avvenire, mercoledì 18 dicembre 2019)
«Fare il presepe è celebrare la vicinanza di Dio. Dio sempre è stato vicino al suo popolo, ma quando si è incarnato, è nato, è stato troppo vicino, molto vicino, vicinissimo: è riscoprire che Dio è reale, concreto, vivo e palpitante». Lo ha detto il Papa, che nella catechesi dell’udienza di oggi, sulla scorta della sua recente lettera apostolica e a una settimana dal Natale, ha ribadito che «il presepe infatti è come un Vangelo vivo»: «Porta il Vangelo nei posti dove si vive: nelle case, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e di ritrovo, negli ospedali e nelle case di cura, nelle carceri e nelle piazze. E lì dove viviamo ci ricorda una cosa essenziale: che Dio non è rimasto invisibile in cielo, ma è venuto sulla Terra, si è fatto uomo, un bambino».
«Dio non è un signore lontano o un giudice distaccato, ma è amore umile, disceso fino a noi», ha fatto notare il Papa: «Il Bambino nel presepe ci trasmette la sua tenerezza. Alcune statuine raffigurano il Bambinello con le braccia aperte, per dirci che Dio è venuto ad abbracciare la nostra umanità. Allora è bello stare davanti al presepe e lì confidare al Signore la vita, parlargli delle persone e delle situazioni che abbiamo a cuore, fare con lui il bilancio dell’anno che sta finendo, condividere le attese e le preoccupazioni».
Preparasi al Natale facendo il presepe
«In questi giorni, mentre si corre a fare i preparativi per la festa, possiamo chiederci: "Come mi sto preparando alla nascita del Festeggiato?"», ha esordito il Papa. «Un modo semplice ma efficace di prepararsi è fare il presepe. Anch’io quest’anno ho seguito questa via: sono andato a Greccio, dove san Francesco fece il primo presepe, con la gente del posto. E ho scritto una lettera per ricordare il significato di questa tradizione. Cosa significa il presepe nel tempo di Natale».
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Facendo il presepe «possiamo anche invitare la Sacra Famiglia a casa nostra, dove ci sono gioie e preoccupazioni, dove ogni giorno ci svegliamo, prendiamo cibo e siamo vicini alle persone più care» ha detto il Papa. «Accanto a Gesù vediamo la Madonna e san Giuseppe», l’immagine evocata da Francesco: «Possiamo immaginare i pensieri e i sentimenti che avevano mentre il Bambino nasceva nella povertà: gioia, ma anche sgomento».
«La parola presepe letteralmente significa mangiatoia, mentre la città del presepe, Betlemme, significa casa del pane», ha ricordato il Papa: «Mangiatoia e casa del pane: il presepe che facciamo a casa, dove condividiamo cibo e affetti, ci ricorda che Gesù è il nutrimento essenziale, il pane della vita. È Lui che alimenta il nostro amore, è Lui che dona alle nostre famiglie la forza di andare avanti e di perdonarci».
Il presepe del "lasciamo riposare mamma"
«Il presepe è attuale, è l’attualità di ogni famiglia» ha aggiunto Francesco "a bracci". «Ieri mi hanno regalato un’immaginetta di un presepe speciale, piccolina - ha raccontato - e si chiamava"lasciamo riposare mamma". E c’era la Madonna addormentata e Giuseppe col bambinello lì, facendolo addormentare. Quanti di voi dovete dividere la notte tra marito e moglie per il bambino o la bambina che piange, piange, piange! Lasciate riposare mamma: la tenerezza di una famiglia, del matrimonio».
Francesco ha sottolineato infine che «il presepe ci ricorda che Gesù viene nella nostra vita concreta». «E questo è importante - ha aggiunto -: fare un piccolo presepe a casa,sempre, perché è il ricordo che Dio è venuto da noi, nato da noi, ci accompagna nella vita, è uomo come noi, si è fatto uomo come noi. Nella vita di tutti i giorni non siamo più soli. Egli abita con noi. Non cambia magicamente le cose ma, se lo accogliamo, ogni cosa può cambiare».
«Vi auguro allora - ha concluso il Papa - che fare il presepe sia l’occasione per invitare Gesù nella vita. Quando noi facciamo il presepe a casa è come aprire la porta e dire "Entra Gesù". È fare concreta questa vicinanza, questo invito a Gesù perché venga nella nostra vita. Perché se lui abita la nostra vita, essa rinasce. E se la vita rinasce è davvero Natale. Buon Natale a tutti».
«Grazie per gli auguri» ricevuti nei giorni scorsi
Al termine dell’udienza Francesco ha ringraziato «quanti in questi giorni, da tante parti del mondo, mi hanno inviato messaggi augurali per il 50/o di sacerdozio e per il compleanno. Grazie soprattutto per il dono della preghiera».
La vera storia del presepio
di Marco Belpoliti (Doppiozero, 24.12.2018)
Mentre sindaci, dirigenti scolastici, deputati e senatori della ex Lega Nord, ora Lega di Salvini, e altri personaggi consimili, tutti membri di diritto dell’eterno Carnevale italiano, si agitano per riaffermare la presenza del Presepio nelle scuole e nei luoghi pubblici, dal momento che in virtù del “politicamente corretto” vi è stato estromesso, esce un bel libro dove la storia del presepio è raccontata per filo e per segno. Che cos’è esattamente il presepio? Come nasce? Perché ci sono quei personaggi? Che senso ha farlo oggi? Sono tante le domande che s’affollano in questo libro del classicista Maurizio Bettini, Il presepio (Einaudi, pp. 189, € 19).
Il suo non è solo un libro di studio, ma anche un libro di memoria. Meglio: un’autobiografia in forma di studio e di racconto. Tutto comincia con una dichiarazione ad apertura di volume: “Non saprei dire da quanti anni ho smesso di fare il presepio. Venti, trenta, anzi molto di più”. Perché interrogarsi oggi su questo “oggetto” tanto da scrivere un libro dotto e complesso? La risposta non viene subito. Prima bisognerà intraprendere un cammino, per quanto una definizione l’autore la dà subito: il presepio è “una finzione fragile, per questo incantevole”. Seguiamo Bettini. E tenere bene a mente che la parola che l’autore usa, sin dall’esergo infantile, è “presepio” e non “presepe”.
La fonte principale sono naturalmente i Vangeli. Si comincia con Matteo (Matteo 2: 1 sgg). La storia è quella della nascita di Gesù a Betlemme al tempo d’Erode. Ci sono i Magi che vengono dall’Oriente, che passano a chiedere a Erode, il quale si fa promettere segretamente che, trovato il bambino, torneranno da lui a riferirgli. I Magi, il cui numero non è definito, seguono la stella, trovano il luogo in cui è deposto il bambinello ma, avvertiti in sogno, fanno ritorno al loro paese per altra strada senza parlare con Erode. Una storia che abbiamo letto molte volte. Bettini ci fa notare che nel passo non ci sono mangiatoie, pecore o pastori. Da dove spuntano fuori?
Il Vangelo di Luca (Luca 2: 6 sgg) è il vero testo che ha favorito la nascita del presepio, anche se non subito. Lì c’è la mangiatoia, poi i pastori, l’angelo, Maria, Giuseppe, ma non ancora i Magi. Non c’è neppure la grotta, presente in molte iconografie successive, in quadri e affreschi. A contribuire alla costituzione del presepio è un altro testo, il Protovangelo di Giacomo, non entrato tra i canonici. Vangelo apocrifo, ma molto influente presso le prime comunità cristiane, è stato composto nel II secolo; è il Vangelo dell’infanzia di Gesù, da cui provengono molte storie sul bambino divino. La vicenda del presepio trova lì una serie di dettagli significativi. Il testo ha un andamento narrativo; fa parlare i personaggi, compresa un’ostetrica, che aiuta Maria a partorire. Lì si trovano il bue e l’asino, fondamentali per ogni presepio che si rispetti, e anche i Magi. Di questa versione all’autore del libro interessa la presenza della grotta. Gesù nasce lì, non in una casa come in Matteo.
Questa la partenza. Per diventare un vero presepio deve attraversare un altro terreno occupato dai teologi e dai commentatori delle sacre Scritture. Il primo che ci interessa è Origene, anche se ci sono altri prima, compresi eretici come Celso. Origene dà forma canonica al tutto: Betlemme, la grotta, le fasce, la mangiatoia. Il punto su cui si concentra Bettini da antichista, è il parallelo tra Gesù e le figure mitiche che l’hanno preceduto: le storie delle nascite dei bambini divini. In particolare Adone, che sembrerebbe fungere da modello per la nascita dello stesso Salvatore. Inutile dire ci sono innumerevoli paralleli e anche molti dettagli simili tra tutte queste storie, compresa la grotta in Arcadia sul monte Cillene in cui è posto Adone. E poi c’è la storia della nascita di Dioniso stesso.
I commentatori cristiani hanno sovrapposto le tradizioni pagane a quelle del nuovo Dio e fatto slittare i significati dalla tradizione passata al nuovo evento mitico narrato dai Vangeli, e commentato dagli esegeti. L’autore si concentra sul termine “mangiatoia” per via di questa sovrapposizione di storie: líknon è l’oggetto greco che corrisponde al nostro “mangiatoia”; i Romani lo chiamano vannus, ed è il cesto utilizzato per vagliare il grano. Il viaggio che Bettini ci fa fare tra le parole e le cose è affascinante; ci mostra la parentela tra i miti greci, e poi romani, e il mito cristiano, tra le nascite divine e quella di Gesù a Betlemme.
Luca indica la mangiatoia come un “segno” dato ai pastori per riconoscere il Salvatore, cosa non indifferente, perché lo scambio dei bambini è un topos sempre presente nelle storie mitiche, come racconta la proto-saga di Harry Potter, Animali fantastici, ora nelle sale cinematografiche. Conclusione di questo primo tragitto: il mondo antico è ricco di racconti in cui c’è un bambino nato in una grotta in circostanze eccezionali, deposto non in una culla, bensì in un contenitore differente. Si pensi alla vicenda di Mosè per restare alla tradizione ebraico-cristiana.
Gli animali rivestono qui un ruolo non secondario: Animali soccorrevoli s’intitola il secondo capitolo del libro. A partire da Gilgamesh sino ad arrivare a Romolo e Remo, e quindi Gesù, sono gli animali a soccorrere il fanciullo divino, il predestinato a grandi cose; una tradizione che nel mondo antico ha conosciuto una grande fortuna. L’eroe bambino è rifiutato dalla cultura e salvato dalla natura, scrive Bettini. Come entrano nella storia della nascita di Gesù l’asino e il bue? Attraverso Virgilio. Mi si perdonerà se qui sarò breve, perché Bettini, che è lettore ed esegeta acutissimo dei testi, non fa mai salti in avanti: procede calmo e sicuro, e vaglia pazientemente tutte le fonti che incontra.
Siamo nella quarta egloga delle Bucoliche con un vaticinio a lungo commentato, che ha portato Virgilio a entrare nel poema dantesco quale guida e mentore. Diamo per scontato anche il passo profetico redatto dal poeta latino; e qui non posso che rimandare alle pagine del libro, così come per la storia di Costantino. In breve: Virgilio sembra anticipare la venuta del Bambino divino, di Gesù, o almeno così può essere interpretato il passo cui si fa riferimento nel libro. Tutta l’antichità cristiana l’ha detto e ridetto, compreso il vaticinio cumano, quello della Sibilla, presente in pitture e intarsi marmorei.
Arriviamo così a Prudenzio (348-402). In una raccolta intitolata Odi quotidiane parla del Natale di Gesù e degli animali (“i bruti animali”). Arrivano i quadrupedi alla mangiatoia. Bettini ci mostra almeno un paio di sarcofagi cristiani con natività dove sono raffigurati i Magi. Per riassumere e per non perderci in questo che è solo un condensato sommario delle pagine di Presepio, diciamo che le due tradizioni narrative della nascita del Salvatore (Luca e Matteo) confluiscono in un unico racconto visivo. Il passaggio è importante: è un racconto visivo. Il presepio, non bisogna mai dimenticarlo, è prima di tutto un fatto visivo. Possiamo aggiungere: una piccola scultura fatta di tante piccole sculture. Per usare un termine contemporaneo, che non so quanto adeguato, e che Bettini certo non usa, il presepio è un evento performativo. Non siamo al “dire è fare” di J. L. Austin, ma neppure troppo lontani.
Sono le immagini delle opere d’arte (affreschi, bassorilievi, pitture su tavola) che rendono visibile il presepio: dalle parole all’opera. Siamo in quella che Bettini chiama la “memoria culturale”; il suo libro s’iscrive all’interno di quest’area. Tuttavia senza le parole non ci sarebbero queste immagini. Non le immagini in generale, ma proprio queste. Da qui comincia il presepio propriamente detto: con bambino nella mangiatoia, il bue e l’asino, i pastori, i Magi, con Maria e a volte anche Giuseppe, ma non sempre. I due animali costituiscono un punto importante, come si vedrà poi con San Francesco. Le fonti sono affreschi: nelle catacombe romane e a Verona nell’Ipogeo di Santa Maria in Stelle.
Bettini, da quello che si apprende leggendo il libro, ci ha messo anni per mettere insieme le cose che racconta e spiega. Non tanto, e non solo, le informazioni; i pezzi c’erano già, per quanto separati. Quello che più conta in questo volume riccamente illustrato sono le motivazioni di fondo, cioè le domande più o meno esplicite che Bettini fa al suo presepio anche se non lo allestisce più da anni; l’ha fatto nel passato e questo, come si vedrà, è quello che conta.
C’è un altro passaggio importante che chi ha fatto il Liceo classico darà per scontato, ma che chi proviene dallo Scientifico o dagli Istituti Tecnici e dall’Artistico non è detto colga al volo. Si tratta del passaggio dall’allegoria al racconto. Oggi anche i ragazzini delle medie inferiori sanno cos’è l’allegoria. Senza allegoria non si capisce la letteratura medioevale, ma soprattutto le Sacre Scritture. La grande tradizione allegorica sta alle nostre spalle, eppure, in qualche misura, anche davanti a noi.
La mangiatoia non è mai esistita, dice Bettini, eppure è diventata importante grazie al suo contenuto allegorico; di più: grazie alle allegorie dei commentatori. Tutto un fatto di parole: “dire è fare”; da “mangiatoia” si arriva a “greppia”, poi a “recinto”; “presepio” significa esattamente “recinto”, ciò che si “chiude davanti”, come una “siepe”, e questo è lo spazio dove stanno gli animali. E l’allegoria? Origene è lui che porta dentro la storia del presepio gli animali. Cita Isaia 1, 2: “il bue riconosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo padrone”. Un passaggio che Origene lega strettamente a Gesù il Salvatore. Il gioco è fatto: uso allegorico e esegesi del passo. I due animali entrano in scena.
La parola “presepio” c’è già nella traduzione di Isaia. Sant’Ambrogio ne è il mediatore. Ciascuno porta il suo pezzetto e tutti insieme creano il presepio. Tralascio alcune cose molto interessanti, che riguardano la presenza o l’assenza di Maria, dei pastori e dei Magi. Gregorio di Nissa spiega la presenza di tutti o quasi i personaggi in questa scenografia natalizia della natività.
Bettini dice una cosa molto importante, che riguarda un’espressione oggi in uso, seppure inflazionata, e quindi in progressivo deprezzamento: storytelling. Dice che dai testi si arriva al racconto. Forse era già implicito, o almeno lo è per chi ha considerato i Vangeli dei racconti. Non è sempre stato così. Aggiunge anche un’altra osservazione che aiuta ad afferrare come funzionano le fake news: i testi falsi o falsificati nella storia della cultura sono quelli che esercitano la maggior influenza sulla memoria e sulle tradizioni. Questo è il succo della storia del presepio: una tradizione inventata in un lasso di tempo lungo, seguendo linee di sviluppo per nulla scontate: caso o necessità? Entrambi, direi.
C’è ancora un altro partecipante al rito del presepio, partecipante al plurale: i Re Magi. Arrivano il 5 gennaio, o almeno così dovrebbe essere, in ogni presepio che si rispetti. Qualcuno comincia a metterli prima, e poi li avvicina, progressivamente alla capanna, o grotta, il giorno fissato: Epifania. Qui ci sarebbe un altro punto interessante da sviluppare: la Befana. Non sto però qui a farlo. Basta ricordare che si tratta di tradizioni che si sovrappongono o divergono, come per la storia di Babbo Natale. La cultura è sempre ibridazione.
C’è una tradizione che sostiene che l’arrivo dei Magi sia legato alla identità taumaturgica di Gesù; i miracoli sono il risultato di una investitura, o riconoscimento, che avviene grazie a loro. Come nelle teorie del complotto - il paragone non appaia irriguardoso - si cerca di far collimare cose diverse, di fonderle insieme; qui è la nascita e le profezie bibliche; è il caso di Isaia citato. In Matteo il ruolo dei Magi è decisivo e non è solo legato a una questione astrologica come qualche volta è stato detto.
C’è un’opera esemplare di tutto questo: i Re Magi che compaiono nel mosaico ravennate di Sant’Apollinare Nuovo, realizzati nel VI secolo. Una meraviglia: mantelli, doni, postura, volti, berretto frigio: tutto questo vale da solo il viaggio nella città romagnola, antica capitale. Ora, come mai i Magi sono diventati tre, mentre in Matteo erano plurali, di numero non definito? E poi perché sono dei re? Rimando alle pagine di Bettini, anche se non esauriscono una storia che da sola meriterebbe un libro a sé. Chissà che l’autore di questo libro non la scriva prima o poi.
C’è un testo di un cristiano alessandrino vissuto tra il V e il VI secolo che risalirebbe a un monaco della corte merovingia, una storia avventurosa essa stessa: Excerpta Latina barbari; qui vengono finalmente dati i tre nomi ai Magi: Bithisarea, Melchior, Gathaspa. E il Re Mago nero? E perché in alcuni dipinti figurano un vecchio, un giovanotto e un nero? Risposta di Bettini: la macchina narrativa produce dettagli e notazioni che arricchiscono man mano il racconto. Chi ha letto Propp lo sa. Meraviglia del narrare! Quello che fa specie all’autore di questo volume è che all’origine di tutto ci sia la “lambiccata opera dei teologi”, dal che si capisce che Bettini, pur avendo studiato dai gesuiti, come racconta, non ami le lambiccature. E qui sta probabilmente il cuore del suo libro.
Prima di spiegarlo bisogna andare a Greppio, al presepio vivente di Francesco. Il santo crea il presepio come dal racconto di Tommaso da Celano. La faccio breve, per quanto esista sulla storia un’ampia letteratura da cui, pur conoscendola, Bettini prescinde. Il centro di questo imprescindibile episodio, da cui verrebbe il nostro presepio attuale, c’è una assenza. Mancano il Bambino, Giuseppe, Maria, i pastori e agli angeli. A Francesco interessano il bue e l’asino in carne e ossa da mettere vicino alla mangiatoia. Questo è il focus del praesepium: il fieno contenuto. Possibile? Sì, il santo mette al centro dell’attenzione un oggetto. Non vuole raccontare l’intera vicenda della Nascita, scrive l’autore, come si è creata nella tradizione cristiana sin lì. Si prefigge di mostrare, di far vedere con gli occhi del corpo i disagi che Gesù ha dovuto affrontare sin dalla sua nascita: mangiatoia, fieno, asino e bue a riscaldarlo. Il resto non gli importa.
Qui è il centro della ricostruzione di Bettini: il praesepium è il fulcro della storia. La “cosa”, non la scena, viene da dire. Gli interessa la traccia linguistica - líkna - che ha inseguito in tutto questo lungo percorso come un detective.
A questo punto, siamo al capitolo terzo del libro, intitolato Un’antropologia del presepio, Bettini capisce di non aver “capito” il presepio. Il suo flusso di memoria culturale sì, ma non “la cosa”. Che cos’è “la cosa”? Il presepio, scrive, è un artefatto, posto al centro di un rituale, culturalmente significativo. Tuttavia ha perso il suo significato originale, quello su cui lavoravano i teologi e gli esegeti. Necessita qualcosa che Bettini non ha più - dice di averlo avuto, ma che non l’ha più da decenni.
Qui il libro cambia tono e ritmo. L’autore narra di aver visitato tanti presepi alla ricerca dell’essenza del presepio stesso - questa espressione è mia. A Pisa, a Firenze, a Parigi, alle Cinque Terre, a Bressanone. Racconta di presepi magnifici, anche se le sue descrizioni sono sempre un po’ malinconiche.
Rientra a casa e conclude: il vero presepio è quello che si fa per conto proprio, nella propria abitazione.
Queste considerazioni gli danno l’occasione di dire cosa è il presepio. Siamo nel campo dei significati, non delle origini e neppure delle spiegazioni. Il presepio è il ciclo del tempo; ha una natura fiabesca; implica degli spettatori che non sono dei creatori. Bettini è innamorato dei personaggi del presepio, quelli introdotti successivamente. Sono pagine molto belle, sognanti. Lo studioso ha lasciato qui il passo allo scrittore, al sognatore del presepio.
Il presepio contiene più temporalità: il tempo narrativo, il tempo mitico e il nostro tempo. In realtà questi tempi si fondono insieme e solo lo studioso, l’esegeta della “cosa” presepio riesce a vederli e distinguerli. Tutto sta nella temporalità che si vive. Quella sacra è stata fondamentale per secoli. E oggi? Per arrivare alla conclusione, che in realtà è lì, a pochi passi da lui, Bettini deve rivestire i panni dello studioso e raccontarci un’altra storia, quella dei Sigillaria, le feste del dio Saturno a Roma. Non starò a raccontare anche questo passaggio. Rimando al libro e vi assicuro che ne vale la pena.
C’è ancora un altro passaggio, quello che riguarda i Lari, i protettori della casa. Sono storie di statuine, di piccole sculture di terracotta, presenze del passato. C’entrano con Gesù, spiega l’autore. Sono presenze dell’assente, gande tema religioso, sia pagano che cristiano.
Corro alla fine, là dove c’è la risposta ai tanti perché di questo viaggio nella storia e nell’antropologia del presepio. De te fabula narratur. Perché mi occupo del presepio?, si chiede l’autore. Perché ho un patto di fedeltà nei confronti di me stesso. Non quello con la religione in cui sono stato allevato, il Cristianesimo - Bettini ha scritto vari libri per manifestare la “superiorità” del politeismo sul monoteismo. La fedeltà a se stessi è quella all’infanzia, alla propria infanzia.
Il presepio, non è solo l’infanzia della Divinità, che ha dominato la nostra storia occidentale per due millenni, ma proprio l’infanzia di Maurizio Bettini, e il presepio è il ritorno al proprio Io bambino. Riguarda quel tempo, che non è passato, ma continua ancora, ogni volta che si fa il presepio. Un tempo mitico, si dovrebbe dire, perché anche questa temporalità fuori dal tempo, per quanto diversamente dal passato, oggi la pratichiamo ancora, in tutto ciò che è sospensione del tempo feriale dominante, nel tempo della festa, nelle mitologie del contemporaneo e ancora, per nostra fortuna, come ci fa capire Bettini, nel presepio. Non sarà molto, tuttavia non è neppure poco.
Come mai Gesù fu deposto proprio in una mangiatoia?
Storia sacra, strenne. La grotta, la stella, il bue e l’asino... Nel suo nuovo, affettuoso saggio su Il presepio (Einaudi) Maurizio Bettini dipana, da antropologo, una iconografia tradizionale
di Giuseppe Pucci (il manifesto, 23.12.2018)
Alla fatidica domanda di papà Cupiello «te piace o’ presepio?» Maurizio Bettini avrebbe risposto con un netto sì. L’ultimo libro del noto filologo, scrittore e giornalista non lascia dubbi: Il presepio. Antropologia e storia della cultura (Einaudi «Frontiere», pp. 192, 19,00) è un saggio rigoroso ma anche un atto d’amore nei confronti di una tradizione fortemente radicata nel nostro costume. Anche un laico, anche chi - come confessa l’autore - da decenni ha interrotto l’antico rito familiare, non può non provare nostalgia per quella «finzione fragile» e «incantevole». Scriverne, dice, «è stato un po’ come tornare a farlo. Quasi un atto riparatore, dunque, e insieme il tentativo di «manifestare fedeltà» al se stesso di prima: al «bambino che ancora abita in me», avrebbe detto l’autore del Piccolo Principe.
Il filologo sfodera gli acuminati ferri del mestiere. Dei testi evangelici è messa a fuoco la non perfetta coincidenza sulle circostanze della Natività. Della stella parla Matteo, ma non Luca, della mangiatoia Luca ma non Matteo. Della grotta, e soprattutto del bue e dell’asinello, nessuno dei due. Ecco allora che Bettini dipana per noi la complessa questione della formazione dell’iconografia tradizionale. La grotta, ci spiega, la troviamo citata dal Protovangelo di Giacomo (II secolo d.C.) e anche dall’apologeta Giustino; e a Betlemme già dal II-III secolo si era creata una topografia della natività a uso dei pellegrini, ai quali veniva mostrata la ‘vera’ grotta, completa di ‘vera’ mangiatoia.
Ma perché una grotta? Solo perché le mangiatoie stanno nelle stalle e le stalle sono spesso delle grotte? No, il filologo, che è anche un antropologo, ci ricorda che la grotta è un luogo che in varie culture è associato alla nascita e/o al culto di una divinità: tra gli altri, Mitra, Adone, Dioniso, Ermes, lo stesso Zeus. Degli ultimi tre, poi, si dice che furono deposti in un líknon, sorta di canestro che serviva a vagliare il grano.
L’analogia con la mangiatoia di Gesù è evidente. Del resto, ceste o altri singolari contenitori figurano spesso nei racconti leggendari relativi all’infanzia di personaggi eccezionali, come Mosé, Romolo e Remo, Cipselo, e perfino papa Gregorio Magno. C’è di più: Zeus, dopo la nascita in una grotta del monte Ida, fu accudito da una capra e un’ape. Quindi anche la presenza di due animali accanto alla mangiatoia del Salvatore è anticipata dal mito classico. Il racconto della nascita di Gesù ha in verità molto in comune con tante altre storie di bambini meravigliosi, deposti in strani recipienti e protetti da animali caritatevoli.
Ma perché a Gesù toccarono un bue e un asino? Come mai a un certo punto comparvero accanto a lui queste figure che né Luca né Matteo nominano mai? Potrebbe trattarsi di un banale desiderio di realismo, o della persistenza di un antico modello culturale. Ma queste spiegazioni non bastano al nostro autore, che da filologo e antropologo si fa anche un po’ teologo. O meglio, ci fa considerare la questione dal punto di vista di un teologo dei primi secoli del cristianesimo, Origene, che leggeva le Scritture in chiave allegorica. Non aveva detto Isaia «il bue riconosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo padrone»? Per il principio della ‘risonanza’ scritturale era logico mettere in relazione la mangiatoia di Betlemme con quella di Isaia. E dato che Isaia affermava che a riconoscere la mangiatoia del padrone era l’asino, non il bue, per Origene il senso era chiaro: il bue, animale puro che simboleggia il popolo di Israele, non aveva riconosciuto il Messia; l’asino, animale impuro che simboleggia i Gentili, sì. Il bue e l’asino, insomma, non fanno concretamente parte della vicenda, stanno lì per farci vedere nella mangiatoia il segno dal quale tutti dobbiamo riconoscere il nostro Signore.
Celebrazione dell’Epifania. Il messaggio di Francesco
«I Magi ci insegnano a cercare il senso delle cose»
Un messaggio a tutta la Chiesa, ma in particolare ai suoi ministri, sacerdoti e vescovi: la vostra è una missione, dice il Papa.
di Carlo Marroni (Il Sole-24 Ore, 07.01.2016)
È la festività dell’Epifania, celebrazione solenne nella basilica vaticana: «Annunciare il Vangelo di Cristo non è una scelta tra le tante che possiamo fare, e non è neppure una professione». Le parole di Francesco sono sul solco di un messaggio che è centrale sin dall’inizio del pontificato, quando mise in guardia il clero da assumere ruoli di “funzionari” di un’organizzazione. E su questo spirito che si innesta l’azione della Chiesa: «Essere missionaria non significa fare proselitismo, per la Chiesa, essere missionaria equivale ad esprimere la sua stessa natura: essere illuminata da Dio e riflettere la sua luce. Non c’è un’altra strada. La missione è la sua vocazione. Quante persone attendono da noi questo impegno missionario, perché hanno bisogno di Cristo, hanno bisogno di conoscere il volto del Padre». No al proselitismo, quindi: un altro tassello della pastorale bergogliana, che rimarca lo spirito profondo dello spirito missionario.
Nell’omelia dell’Epifania il papa ricorda che «l’esperienza dei Magi ci esorta a non accontentarci della mediocrità, a non “vivacchiare”, ma a cercare il senso delle cose, a scrutare con passione il grande mistero della vita. E ci insegna a non scandalizzarci della piccolezza e della povertà, ma a riconoscere la maestà nell’umiltà, e saperci inginocchiare di fronte ad essa». La povertà della Chiesa, sempre al centro, che nella simbologia natalizia trova la sua rappresentazione più plastica, come in qualche modo ha voluto rimarcare nella visita a sorpresa due giorni fa a Greccio, il borgo del reatino dove secondo la tradizione San Francesco istituì il presepe: «È qui, nella semplicità di Betlemme, che trova sintesi la vita della Chiesa». E sempre su questo tema il Papa, parlando a braccio, ha offerto una nuova interpretazione della figura dei pastori, che secondo quanto tramandato sarebbero stati i primi ad arrivare alla mangiatoia: «Nella notte di Natale Gesù si è manifestato ai pastori, uomini umili e disprezzati, alcuni dicono dei briganti. Furono loro i primi a portare un po’ di calore in quella fredda grotta di Betlemme».
Nell’omelia di ieri, semplice nelle parole ma complessa nel suo messaggio, il Pontefice ha voluto ricordare come «la Chiesa non può illudersi di brillare di luce propria. Non può». E ha citato «una bella espressione di sant’Ambrogio, utilizzando la luna come metafora della Chiesa: «Veramente come la luna è la Chiesa: rifulge non della propria luce, ma di quella di Cristo. Cristo - ha spiegato - è la vera luce che rischiara; e nella misura in cui la Chiesa rimane ancorata a Lui, nella misura in cui si lascia illuminare da Lui, riesce a illuminare la vita delle persone e dei popoli. Per questo i santi Padri riconoscevano nella Chiesa il mysterium lunae».
Nel corso dell’Angelus, inoltre, Francesco ha chiesto alla folla di piazza San Pietro - presente un gruppo folkloristico con tre cammelli - un applauso per esprimere, ha detto, «la nostra vicinanza spirituale ai fratelli e alle sorelle dell’Oriente cristiano, cattolici e ortodossi, molti dei quali celebrano domani il Natale del Signore. Ad essi giunga il nostro augurio di pace e di bene».
La conclusione delle festività natalizie segna il ritorno agli impegni anche di carattere istituzionale: il primo è previsto per lunedì prossimo, 11 gennaio, con l’incontro annuale con il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, dove è prevedibile che pronunci un discorso molto forte sui temi della pace, specie in questo inizio del 2016 segnato da nuove gravi tensioni, dalla crisi Iran-Arabia Saudita all’annuncio della Corea del Nord di un esperimento nucleare.
Inoltre il 17 gennaio, come annunciato da tempo, Francesco si recherà in visita alla Sinagoga di Roma. È il terzo Pontefice dopo Giovanni Paolo II e Benedetto XVI a varcare la soglia del Tempio maggiore della capitale. Alle sedici della domenica, su invito del Rabbino Capo, Riccardo di Segni e della Comunità, il Papa stringerà la mano ai cittadini di Roma di fede ebraica. Ad accoglierlo, oltre ai rappresentanti del mondo ebraico italiano religioso e civile, tra cui il presidente dell’Ucei, Renzo Gattegna, e ad un esponente del governo d’Israele, ci sarà soprattutto la gente, i giovani della comunità e anche gli ex deportati.
«Sarà una visita all’insegna del dialogo e della cordialità - ha dichiarato Ruth Dureghello, presidente della Comunità di Roma - È una bella occasione per continuare il percorso di dialogo che prosegue fra alti e bassi ma con la volontà consolidata di andare avanti».
E ieri si è appreso che la storica ebrea Anna Foa sostituisce la giornalista Ritanna Armeni nell’incarico di co-coordinatrice, con Lucetta Scaraffia, dell’inserto dell’Osservatore Romano «Donne Chiesa Mondo», iniziativa editoriale dal 2012 del quotidiano della Santa Sede diretto da Giovanni Maria Vian.
di Alain Goussot (Comune-info, 17 dicembre 2015)
Nelle ultime settimane si parla molto delle vicende che riguardano la presenza o meno del Presepe nelle scuole per Natale con fronti contrapposti, tradizionalisti e laici ; fronti anche falsi poiché la questione è mal posta in partenza. Si parte da impliciti erronei: da una parte è come se le tradizioni che sono varie e anche vissute fossero per definizione opposte all’apertura e al riconoscimento delle differenze, dall’altra parte è come se il pluralismo culturale fosse per definizione contrario alle tradizioni.
Pensiamo che queste due posizioni siano false culturalmente e anche pedagogicamente. Sono posizioni che tendono ad escludere, a sottrarre: per i tradizionalisti le culture diverse, per i laici pluralisti le tradizioni considerate come problematiche.
In realtà sul piano pedagogico ma anche su quello dei vissuti, stiamo parlando dei bambini e delle loro famiglie, le cose sono molto più complesse e anche viste, per fortuna, con maggiore buon senso. Anzi bisognerebbe ritornare a una pedagogia del buon senso, come la chiamava Célestin Freinet, il fondatore dell’approccio cooperativo in educazione. La questione non è di non fare il presepe insieme in classe oppure di non fare l’albero di Natale (ci si potrebbe chiedere perché l’albero sì e il presepe no?); la questione non è di escludere il presepe dalle aule perché potrebbe offendere la sensibilità di chi non è cattolico, personalmente non lo sono ma dubito fortemente che questo offenda i bambini presenti che provengono da diversi orizzonti culturali e familiari, quindi anche religiosi. In realtà se lo si vive come una costruzione comune, un gioco, un momento di festa e di convivialità, di curiosità, nessuno si sente offeso.
Ma per essere veramente inclusivo sul piano pedagogico bisogna anche festeggiare il Ramadan con i bambini musulmani e la festa ebraica con quegli ebrei presenti, oppure anche buddista e induista se necessario, trasformare tutti quei momenti come momenti d’incontro, di conoscenza e anche di convivialità poiché le emozioni positive che creano comunione e prossimità nel rispetto delle specificità di ognuno possono diventare delle mediazioni costruttive per crescere insieme e imparare a stare insieme nel rispetto della varietà culturale che forma la società.
Il laicismo che vorrebbe sottrarre finisce per fare della scuola un mondo ascetico, senza anima, senza vita, e soprattutto non rispecchiando la realtà socio-culturale, la sua logica è, purtroppo, quella di una nuova religione o cultura che esclude le altre.
Come affermava il grande pedagogista italiano Raffaele Laporta occorre rispecchiare pedagogicamente la pluralità dei mondi presenti nella società, la laicità è additiva e non sottrattiva, pluralista e non monoculturale, aperta a tutti e non chiusa a tutti in nome di una norma laica decisa da non si sa chi. Importante è il vissuto comune dei bambini, le loro percezioni e quella delle loro famiglie.
Quindi apriamo e non chiudiamo: facciamo il presepe a Natale, mettiamo insieme l’albero, mangiamo i pasticcini e leggiamo un racconto del Corano durante il Ramadan, festeggiamo la festa ebraica, oppure le feste cinesi e quelle civili, come quella del 25 Aprile: la logica dell’arricchimento e dell’accoglienza di tutti e di tutte è il terreno sul quale si costruisce le condizioni dell’educazione all’alterità, alla varietà e al meticciato. Mettiamoci in cammino sulla strada di una pedagogia transculturale che fa emergere al di là delle differenze il nostro fondo comune.
* Alain Goussot è docente di pedagogia speciale presso l’Università di Bologna. Pedagogista, educatore, filosofo e storico, collaboratore di diverse riviste, attento alle problematiche dell’educazione e del suo rapporto con la dimensione etico-politica, privilegia un approccio interdisciplinare (pedagogia, sociologia, antropologia, psicologia e storia). Il suo ultimo libro è L’Educazione Nuova per una scuola inclusiva (Edizioni del Rosone)
Natale mistico
La notte di luce che rivela noi a noi stessi
Il senso della festa non è nel mito, ma in un evento reale che ha diretta incidenza sull’animo umano
di Marco Vannini (la Repubblica, 24.12.2013)
La nascita di Gesù fu posta dalla Chiesa latina al solstizio di inverno perché in quella data i romani festeggiavano il sol invictus, ovvero il sole che, giunto al punto più basso del suo corso nel cielo, non scompare, ma sembra fermarsi in attesa, e riprende da allora in poi vigore. Come molte altre, questa festività cristiana prese così il posto di una pagana: Cristo, sole di giustizia, sostituì la precedente divinità astrale.
In questi giorni del solstizio tutti provano comunque una sensazione di pace, che invita al raccoglimento, alla meditazione, e non v’è dubbio che la stagione astronomica e meteorologica sia per questo determinante: il tempo sembra fermarsi, la natura sembra silenziosa, in ascolto, la vegetazione in attesa di rinascita.
Oltre alla natura però contribuisce potentemente a questa sensazione la cultura, ovvero il passato cristiano, la cui influenza continua a farsi sentire nella nostra società post-cristiana: anche molti secoli dopo che Buddha era morto, come ricorda Nietzsche, la sua ombra continuò ad essere presente.E non meraviglia che sia così: quel passato era infatti ricco, forte, tanto - ad esempio - da dare a un oscuro maestro elementare e a un povero parroco di villaggio l’ispirazione per quella Stille Nacht, la cui struggente melodia, colma di nostalgia, muove tutti gli animi alla pace, all’amore, indipendentemente da ogni religione.
Si capisce allora come la Chiesa cerchi di far leva su questo sentimento per cercare di ravvivare la fede che una volta si riteneva fondata su reali eventi storici, ovvero sulla “storia della salvezza” che da Adamo procede verso Cristo. Oggi, però, dal momento che quella storia appare per ciò che è, una mera costruzione mitico-teologica, la fede si è ridotta a una combinazione di sentimento più fantasia: una cosa da bambini, dunque. Non a caso ai nostri giorni il Natale è festa non solo per un Bambino, ma soprattutto per bambini.
La fede è infatti in questo caso una credenza, che si difende con una sorta di infantile testardaggine, ignorando la realtà, tanto storica quanto psicologica. Se invece la fede è volontà di verità, essa guarda in faccia la realtà, scoprendo che quella credenza è desiderio di consolazione e rassicurazione, frutto del desiderio di permanenza di un ego che si sente debole e incerto e che perciò cerca “salvezza” nel rimando ad altro fuori di sé, restando così sempre nell’attesa, nell’anelito. La fede allora non produce affatto credenze ma, al contrario, le toglie via tutte, smascherando come menzogna anche l’immaginazione teologica.
La fede - scrive san Giovanni della Croce - «non solo non produce nozione e scienza, ma anzi accieca e priva l’anima di qualunque altra notizia e conoscenza: la fede è notte oscura per l’anima e, quanto più la ottenebra, tanto maggiore è la luce che le comunica». Fede come notte, dunque, ma una notte che mentre libera da ogni presunto sapere di verità esteriori, fa risplendere una luce interiore, sapere non di altro ma di se stessa, sapere che è un essere: questa, possiamo dire, è la verastille nacht, heilige nacht, notte silenziosa, notte santa.
La notte in cui Dio nasce nell’umanità è la notte prodotta dalla fede, ovvero il silenzio, il vuoto che l’intelligenza ha fatto nell’anima. Il Natale, riferimento a una nascita del divino nel tempo, ha dunque il senso di ri-cordare, nel suo senso etimologico di riportare all’interiorità, risvegliare nell’anima nostra ciò che le è proprio ed essenziale: il divino che è nel suo fondo più intimo. Questo è il passaggioaus historie ins wesen, dalla storia all’essenza, come dicevano i mistici tedeschi, ovvero da una verità esteriore, che non ha alcun effetto, a una verità interiore, che salva davvero.
La salvezza non è infatti dal peccato di un altro, Adamo, da cui un altro, Cristo,ti deve liberare, ma da quel peccato davvero “originale” che è l’amore di sé. In te è Adamo, in te è Cristo, ovvero tanto l’amore di te stesso quanto l’amore del Bene, e la salvezza ti appare nella sua realtà, non futura ma presente, non sperata ma reale, quando il bene degli altri ti è caro quanto il tuo, assolutamente, in nulla di meno. Niente può turbare allora la pace dell’anima: non a caso i mistici ripetono la cosiddetta supposizione impossibile: se anche Dio mi destinasse all’inferno, sarei comunque “salvo”.
Il senso vero del Natale non va dunque cercato all’esterno ma in se stessi, non in una costruzione teologica, ma nel vuoto, nel distacco. Questo è anche il senso profondo della storia che precede e rende possibile la nascita del Figlio, come del resto ogni nascita umana, ovvero la storia della Madre: Maria fu capace di generare il divino per la sua umiltà, per la sua verginità, che non significa una condizione fisica, ma il vuoto fatto in se stessa. Il Logos nasce infatti nell’anima di ciascuno di noi quando essa è come Maria: distaccata, ovvero libera, spoglia di ogni preteso valore e preteso sapere. Il mistico poeta Angelus Silesius perciò recita: «Davvero ancor oggi è generato il Logos eterno! Dove? Qui, se in te hai dimenticato te stesso».
Il mistero del Natale si svela infatti quando si comprende il significato non blasfemo, ma al contrario profondamente spirituale -anzi,essosolocristiano, senza il quale la religione restasuperstizione, la fede credenza infantile - del principio che innerva la mistica: tutto quello che la Sacra Scrittura dice di Cristo, si verifica totalmente anche in ogni uomo buono e divino.
Purtroppo tale principio fu condannato come eretico da uno di quei papi avignonesi che Dante definisce “lupi rapaci”, separando così divino da umano, sacro da profano, avocando alla chiesa il monopolio del sacro e con questo ribadendo la divisione ragione-fede, scienza-religione che perdura ancora oggi e che costringe i “credenti” in quella condizione di minorità da cui l’illuminismo, secondo le celebri parole kantiane, ha inteso togliere l’uomo occidentale.
Accanto a un Natale storico, nel quale una sola volta, in un solo luogo e in una sola persona, il divino è nato sulla terra, c’è dunque un Natale eterno, per cui, secondo le parole di Origene, il divino si genera nell’anima non una volta soltanto, ma in ogni istante, in ogni luogo e in ogni uomo, in ogni pensiero che egli rivolge a Dio con purezza, in ogni gesto di amore che compie.
Anche se non legata al solstizio d’inverno, la nascita di Gesù è comunque un evento reale, non un mito. In quanto ha a che fare con realtà profonde ed universali dell’anima umana, il mito riguarda ciò che non è mai avvenuto ma in eterno avviene, come diceva un filosofo pagano, mentre per il Natale noi dobbiamo dire: ciò che è avvenuto una volta e in eterno avviene.
Attenzione però: avviene solo se avviene. Perciò lo stesso poeta mistico che abbiamo prima citato lancia al suo lettore un avvertimento davvero terribile: «Nascesse mille volte Cristo in Betlemme, se in te non nasce, sei perduto in eterno».
Niente Re Magi in presepe
Cattedrale Agrigento: ’Respinti alla frontiera’
Palermo, 5 gen. - (Adnkronos) - Un cartello posto dal direttore della Caritas diocesana Valerio Landri, avverte: ’’Quest’anno Gesu’ Bambino restera’ senza regali: i Magi non arriveranno perche’ sono stati respinti alla frontiera insieme agli altri immigrati". L’obiettivo della provocatoria iniziativa è far riflettere sul tema dell’immigrazione ed è stata concordata con l’arcivescovo di Agrigento, monsignor Francesco Montenegro.
Palermo, 5 gen. - (Adnkronos) - Niente Re Magi nel presepe allestito nella Cattedrale di Agrigento. Un cartello posto dal direttore della Caritas diocesana Valerio Landri, avverte: ’’Quest’anno Gesu’ Bambino restera’ senza regali: i Magi non arriveranno perche’ sono stati respinti alla frontiera insieme agli altri immigrati".
L’obiettivo della provocatoria iniziativa e’ far riflettere sul tema dell’immigrazione ed e’ stata concordata con l’arcivescovo di Agrigento, monsignor Francesco Montenegro. ’’Una legge in tema di immigrazione e’ necessaria - spiega Landri - ma bisogna anche comprendere che si tratta di gente disperata. Forse se Gesu’ Bambino volesse venire da noi oggi, sarebbe respinto alla frontiera, come accade a tanti nostri poveri fratelli’’.
20 dicembre 2009
CHRISTMAS IN GAZA
cento città per la pace.
a cura di do Nandino *
ANCHE NELLA TUA CITTA’ DOMENICA 20 dicembre convoca persone e gruppi, promuovi incontri pubblici e anima celebrazioni domenicali dell’Eucaristia per FAR MEMORIA del I° anniversario del massacro di Gaza e per unirsi alla festa del NATALE presieduta in quel giorno dal Patriarca di Gerusalemme Fouad Twal con la gente della Striscia.
Comunica subito il IL NOME DELLA TUA CITTA’ a nandyno@libero.it per essere inserito nell’elenco delle cento città.
* Per leggere il testo, clicca sul link seguente:
http://www.ildialogo.org/mediooriente/Notizie_1260374584.htm
VIAGGIO ARTISTICO ALLE ORIGINI DI UNA TRADIZIONE
Dal più attraente, quello della Reggia di Caserta, a quelli napoletani, fino a Urbino e Varese: l’invenzione di Francesco a Greccio ha avuto epigoni a non finire, compresi grandi artisti
Presepe. Un teatro umano e divino
di Philippe Daverio (Avvenire, 13.12.2009)
Le nostre tradizioni più forti sono quelle che hanno le radici più solide e talvolta pure complesse. Quando si pensa al presepe della Natività viene quasi automatico tornare alla tradizione dei grandi presepi napoletani del XVIII secolo che hanno visto un moltiplicarsi infinito di personaggi e di folklore attorno alla grotta.
Forse il più teatrale di tutti è quello della reggia di Caserta, al quale contribuirono tutti i monarchi borbonici da Carlo III in avanti. È tuttora una delle attrazioni più curiose del luogo e rappresenta tutta la vita contadina napoletana tra Sette e Ottocento, con una esaltazione particolare per le innovazioni alimentari avvenute sotto il regno di Ferdinando IV quando i dettami della fisiocrazia illuminata stavano trasformando le campagne. Vi appaiono le prime bufale allevate regolarmente e la loro naturale conseguenza di mozzarelle e provole, tutti i legumi vecchi e nuovi e un primo contadino redento che affonda una forchetta in un piatto di spaghetti con la pommarola appena scoperta. Probabilmente la gente povera non usava affatto la forchetta. Si tratta quindi d’un auspicio didattico realizzato dalle abili mani degli artisti e delle dame di corte che s’impegnavano con sommo divertimento ad organizzare il complesso teatro plastico.
Il che riporta il presepe stesso alla invenzione teatrale vera e propria di san Francesco, quando prese la gente comune di Greccio vicino a Rieti e la coinvolse in una recita che celebrava la notte di Betlemme. Correva l’anno 1223 e papa Onorio III aveva autorizzato l’evento. È sempre bene ricordare che Francesco era per metà francese meridionale occitano (donde il suo nome!) e come tale educato nella cultura fine della prima poesia cortese. Dava egli rilievo ad una tradizione già ben ancorata che trova i suoi primi esempi in alcune sculture oggi conservate nel Museo Bizantino e Cristiano di Atene, fra le quali si scorge un buon pastore di derivazione apollinea, con pecorella a tracolla, e una rappresentazione d’una greppia con bue e asinello, ma senza i personaggi della Madonna e di Giuseppe.
I testi sacri dei Vangeli appena resi canonici a Nicea ( Luca 2, 7) avevano prodotto le prime rappresentazioni visive. Ed è curioso in quanto Luca era il greco per eccellenza fra gli evangelisti, non aveva conosciuto Gesù di persona perché troppo giovane; e si dice pure che fosse, oltre che medico, pittore. È però nel mescolare questa tradizione d’oriente, greco-alessandrina come sono greche le parole fondamentali della cristianità, con Roma che nacque il presepe vero e proprio, ivi compresa la parola che deriva dal latino prae saepes, cioè il luogo dinnanzi al recinto dove si tenevano le greggi.
Nella tradizione pagana romana si celebrava una festa di famiglia, sin dalla più profonda antichità, quando i bimbi lucidavano le statuette dei lares familiares, gli antenati protettori, per porle in una nicchia domestica dove venivano addobbate con decori di natura, fra i quali potevano apparire anche altri personaggi confezionati appositamente e illuminati da piccoli lumi ad olio. In quell’occasione ci si scambiavano piccoli doni. La festa di chiamava sigillaria e avveniva circa il 20 dicembre.
La genialità della prima cristianità, finalmente ammessa dall’impero, fu esattamente quella di sovrapporre alle tradizioni passate la nuova tradizione nascente. In questo senso saranno poi esemplari i dipinti del Rinascimento quattrocentesco, quando andranno a raffigurare la Sacra Famiglia sotto le rovine degli archi romani antichi. Nel frattempo le recite di Francesco avevano preso la piega fantasiosa del Medioevo finale e la Controriforma si trovò nell’obbligo di ridare alla celebrazione una forma più contenuta.
Francesco Brandani prende la palla al balzo e realizza immediatamente il teatro scultoreo d’un presepe ad Urbino, semplice e povero, in stucco, dove i personaggi sono quasi in grandezza naturale. Andrà a generare una versione per così dire «di canone» che avrà gran successo, se lo stesso cardinale Federico Borromeo - il sostenitore più convinto d’una arte nuova, il promotore del Sacro Monte di Varese e della sua statuaria - insisterà presso il pittore urbinate Federico Barocci, influenzato ovviamente dal presepe della sua città, per farsi fare una copia ambrosiana del presepe oggi conservato al Prado. Se lo mise in collezione, il cardinale, accanto alla visita dei Magi di Tiziano. La tradizione continuava ad arricchirsi.
Primi vagiti
Alla nascita sappiamo già la lingua
I neonati «strillano» con l’intonazione della lingua parlata dai genitori
di Luigi Ripamonti (Corriere della Sera/Salute, 08.11.2009)
Forse è vero che non si finisce mai di imparare, ma certamente si inizia molto prima di quanto si creda. A confermarlo ci pensano due studi su apprendimento e intelligenza fetali. Il primo arriva dall’università di Würzburg, e, forte dell’analisi di 60 neonati francesi e tedeschi, postula che i futuri bambini abbiano un ottimo «orecchio» ben prima di vedere la luce. Talmente buono da assimilare l’intonazione della voce dei propri genitori sin dal terzo trimestre di gestazione e da imparare a imitarla coi propri vagiti. In altre parole i neonati tedeschi, una volta nati, strillerebbero con un’intonazione decrescente «teutonica», mentre quelli francesi si farebbero sentire «in levare», riproducendo in qualche modo l’inflessione della lingua d’oltralpe. Solo una curiosità? Niente affatto, perché il rilievo confermerebbe altri studi che indicano quanto i bambini siano sensibili agli stimoli provenienti dal mondo esterno, linguaggio compreso.
Il secondo studio sulle «facoltà intellettuali precoci» del feto è invece firmato da Irena Nulman dell’Hospital for Sick Children di Toronto, e può consolare le mamme maggiormente vessate dalle nausee gravidiche. Secondo la ricerca, infatti, il disturbo in questione potrebbe essere il segnale che il bebè è destinato ad avere un alto quoziente di intelligenza.
Per arrivare a questa conclusione la dottoressa Nulman e i suoi colleghi hanno eseguito vari test su tre gruppi di bambini tra i 3 e i 7 anni e fra questi, quelli le cui mamme avevano sofferto di nausea durante la gestazione hanno dimostrato in vari ambiti cognitivi (linguistico, matematico etc) performance migliori. Non si sa da che cosa dipenda questa correlazione, ma è certo che i bambini più ’vivaci’ si fanno sentire molto presto. E magari quelli meno «sopportabili» sono quelli che daranno le maggiori soddisfazioni
Monsignor Attilio Bianchi nella Messa di mezzanotte ha detto ai presenti
che se non sono preparati ad accogliere gli immigrati, "Gesù non nasce"
Bergamo, niente Bambinello nel presepe
Il parroco spiega ai fedeli: "Non siete pronti" *
BERGAMO - In una chiesa di Bergamo il parroco si è rifiutato di mettere la statuetta di Gesù Bambino nel presepe (come accade, per tradizione, il 24 dicembre), perché la gente "non è pronta". E ora fa discutere la scelta di monsignor Attilio Bianchi, parroco della chiesa di Santa Lucia, il Tempio votivo di Bergamo, annunciata nel corso dell’omelia, alla Messa di Mezzanotte.
Il sacerdote, che durante le omelie domenicali invita i fedeli a curarsi dei poveri e degli emarginati, ha deciso di comportarsi di conseguenza. E durante l’omelia ha proclamato: "Questa notte non è Natale. Non siete pronti. Se non sapete accogliere lo straniero, il diverso, non potete accogliere il Bambin Gesù. Perciò Gesù non nasce".
E quindi non ha fatto porre nel presepe della chiesa la statuetta (già pronta) del Bambinello. A chi ha chiesto spiegazioni ha poi detto che il presepe era basato sul racconto di Ezio del Favero ’Al chiaro delle stelle’, in cui Gesù Bambino esce dalla culla per andare da un bimbo povero che non osava stargli vicino: "Il messaggio che abbiamo voluto dare è proprio questo: Gesù non ha paura di avvicinarsi agli emarginati, agli ultimi. E’ ora che chi si dice cattolico metta in pratica gli insegnamenti di Cristo".
* la Repubblica, 27 dicembre 2008
Il quarto dei magi che ritardando giunse in anticipo
di IGOR MAN (La Stampa, 27.12.2009)
E’ nato il bambino ch’è già nato. Un bambino povero, senza giocattoli, una mangiatoia per culla. È nato nel buio della povertà ma subito ha sparso luce perché gli uomini sapessero dove andare e chi adorare. Tanto tempo è passato da quel momentum ma «sembra ieri» e da allora anno dopo anno si rinnova il mistero chiamato Gesù.
Un miracolo non più idilliaco, difficile da rinnovare; un miracolo antico e tuttavia presente. «La novità vera è Gesù, contemporaneo ad ogni epoca», ipse dixit Giovanni Paolo II al Vecchio Cronista allorché questi fu ricevuto nell’appartamento pontificio il 9 di dicembre del 2001. Era prevista una udienza di routine ma papa Wojtyla, inopinatamente, mi dedicò mezza mattinata. Nel lontano 1949 avevo incontrato Padre Pio, lungamente. E Giovanni Paolo II, insaziabile, mi interrogava sul cappuccino che di lì a poco avrebbe fatto santo. In quella inobliabile occasione parlammo dell’islàm nella prospettiva del «dialogo» che secondo il Papa avrebbe potuto trovare una sorta di «paziente scorciatoia» nella preghiera interreligiosa, dal Papa stesso affidata all’«Onu di Trastevere», cioè alla Comunità (laica) di Sant’Egidio. Ogni anno, cristiani, ebrei e islamici si radunano in una capitale del mondo per riflettere e ragionare sulle religioni monoteiste. Chiude la «tre giorni» la preghiera interreligiosa: si prega fisicamente insieme; ognuno a suo modo, spiritualmente. Il Papa parlava sommesso ma la sua voce si fece alta e forte quando ricordò l’Epifania: «Il racconto dei Magi può, in un certo senso, indicarci una rotta spirituale - disse -: i Magi furono in qualche modo i primi missionari. L’incontro col Cristo non li bloccò a Betlemme ma li spinse nuovamente per le strade del mondo». Giovanni Paolo II, l’ho già scritto, fa pensare al «quarto» dei Magi. Mia madre, russa ortodossa, mi raccontava la incredibile storia, appunto, del «quarto».
Si chiamava Artaban ed era un persiano zoroastriano. Comparsa la stella cometa, si mette in viaggio per raggiungere gli altri tre. A poche ore dall’appuntamento, Artaban si imbatte in un ebreo terribilmente ferito. Soccorre il moribondo, questi guarisce e lo ringrazia rivelandogli che il Messia sarebbe nato a Betlemme. Mancato l’appuntamento con Gaspar, Melkior e Balthasar, il «quarto» vende una delle pietre preziose destinate al Bambinello e allestisce una nuova carovana. Arriva a Betlemme ma in piena strage degli innocenti. Con un rubino salva dalla morte un bimbo corrompendo i centurioni che stavano per sgozzarlo. Passano gli anni e il vecchio Artaban conserva gelosamente l’ultimo suo tesoro: una rarissima perla. Con essa, un giorno doloroso, il «quarto» spera di salvare il Messia dalla crocefissione. Ma sul Golgota un ragazzo lo implora di riscattarlo dalla schiavitù romana e il vecchio re sapiente sacrifica l’ultimo suo bene: la perla. In quel preciso momento «egli si avvede d’essere stato ammesso, per primo, alla presenza del re tanto atteso e cercato, quello vero: Gesù». Qui è stato facile a chi scrive identificare, se così può dirsi, il quarto dei Magi in Giovanni Paolo II.
C’è infatti una morale in questa storia, una morale luminosa come la grotta in cui nasce Gesù di Nazareth. Eccola: Artaban è giunto in ritardo a Betlemme ma è arrivato in anticipo sulla Pasqua di Resurrezione. Tutto muta ma nulla è cambiato e allora diremo, credenti e laici, che Gesù non è solamente dalla parte del Mistero di Dio di fronte all’uomo, ma altresì dalla parte dell’uomo di fronte al Mistero di Dio.
George Orwell si confronta con le opere di Wells, Morris e Swift
Dal Natale di Charles Dickens alle ideologie utopistiche
La vera gioia non si può immaginare né programmare
Può un socialista essere felice?
La vanità di qualsiasi modello fondato sulla ricerca della perfezione
di George Orwell (Corriere della Sera, 16.12.2008)
Il Natale ci fa pensare quasi automaticamente a Charles Dickens, e per due buone ragioni. La prima è che Dickens è uno dei pochi scrittori inglesi ad aver scritto sul Natale, che è la festa più amata dagli inglesi, ma ha ispirato poche opere letterarie. Ci sono i canti, i Christmas Carols, quasi tutti di origini medievali; c’è una manciata di poesie di Robert Bridges, T.S. Eliot e qualche altro, c’è Dickens; e poco di più. La seconda ragione è che tra gli scrittori moderni Dickens è uno dei pochi, quasi l’unico, a offrire un’immagine convincente della felicità.
Dickens ha parlato del Natale due volte, in un capitolo del Circolo Pickwick e nel Canto di Natale. Quest’ultimo racconto venne letto a Lenin morente che, secondo la moglie, ne trovò del tutto intollerabile «il sentimentalismo borghese». In un certo senso aveva ragione, ma se fosse stato in condizioni di salute migliori si sarebbe forse accorto che quel racconto ha dei risvolti sociologici interessanti. Anzitutto, per quanto Dickens calchi la mano e il «sentimentalismo» di Tiny Tim possa sembrare sgradevole, la famiglia Cratchit pare proprio divertirsi. Ha l’aria felice, a differenza, per esempio, dei cittadini di Notizie da nessun luogo di William Morris. Inoltre, la loro felicità deriva soprattutto dal contrasto, e il fatto che Dickens se ne renda conto è uno dei segreti della sua forza. Sono contenti perché una volta tanto hanno cibo in abbondanza. Il lupo è alla porta, ma sta scodinzolando. Il vapore del pudding natalizio aleggia su uno scenario fatto di banchi di pegni e di duro lavoro e accanto alla tavola imbandita il fantasma di Scrooge è sempre presente. Bob Cratchit vuole perfino brindare alla salute di Scrooge, cosa che la signora Cratchit, giustamente, rifiuta di fare. I Cratchit riescono a godersi il Natale proprio perché viene solo una volta all’anno. La loro felicità è convincente proprio per questo. La loro felicità è convincente perché è descritta come provvisoria.
Tutti i tentativi di descrivere una condizione di felicità permanente, d’altro canto, si sono risolti in un fallimento. Le Utopie (a proposito, la parola Utopia non significa «bel luogo», ma «luogo inesistente ») sono comparse spesso nella letteratura degli ultimi tre o quattrocento anni, ma quelle «positive» sono immancabilmente poco attraenti, e di solito anche prive di vitalità.
Le Utopie moderne di gran lunga più note sono quelle di H.G. Wells. La visione del futuro prefigurata da Wells è enunciata appieno in due libri scritti all’inizio degli anni Venti, The Dream e Men Like Gods. Vi si trova un’immagine del mondo che a Wells sarebbe piaciuto, o che pensava gli sarebbe piaciuto. È un mondo in cui le note dominanti sono l’edonismo illuminato e la curiosità scientifica. Tutti i mali e le miserie di cui soffriamo sono scomparsi. L’ignoranza, la guerra, la povertà, la sporcizia, la malattia, la frustrazione, la fame, la paura, la fatica opprimente, la superstizione non ci sono più. Così descritto, non potremmo negare che sia il genere di mondo a cui tutti aspiriamo. Tutti noi vogliamo abolire quel che Wells vuole abolire. Ma c’è qualcuno che voglia veramente vivere in un’Utopia wellsiana? È semmai il contrario: non dover vivere in un mondo come quello è ormai diventata una questione politica ben presente. Un libro come Il mondo nuovo è espressione della paura che l’uomo moderno nutre nei confronti della società edonistica razionalizzata che ha il potere di creare. Uno scrittore cattolico ha affermato recentemente che le Utopie sono oggi tecnicamente possibili, e che ora il vero problema è come evitarle. Non possiamo limitarci a ritenere ridicola quest’osservazione e a ignorarla, perché una delle molle del movimento fascista è proprio il desiderio di evitare un mondo troppo razionale e comodo.
Tutte le Utopie «positive» sembrano simili nell’ipotizzare la perfezione ed essere incapaci di dare un’idea della felicità. Notizie da nessun luogo è una specie di versione edulcorata dell’Utopia wellsiana. Tutti sono gentili e ragionevoli, la tappezzeria viene tutta da Liberty, il miglior negozio, ma si avverte una vaga malinconia. Colpisce, però, che neanche Jonathan Swift, uno degli scrittori più ricchi d’immaginazione, riesca meglio degli altri a costruire un’Utopia «positiva».
La prima parte dei Viaggi di Gulliver è probabilmente la critica più feroce alla società umana che sia mai stata scritta. Ogni parola di quel libro è ancora attuale; a tratti vi si trovano prefigurazioni dettagliate degli orrori politici del nostro tempo. Swift fallisce, però, quando cerca di presentarci una razza di individui che suscitano la sua ammirazione. Nell’ultima parte, in antitesi agli sgradevoli Yahoo, vengono mostrati i nobili Houyhnhnms, cavalli intelligenti e privi delle debolezze umane. Questi cavalli, nonostante il loro spirito elevato e l’infallibile buon senso, sono creature piuttosto noiose. Come gli abitanti di tante altre Utopie, si preoccupano soprattutto di evitare i problemi.
Conducono vite monotone, controllate, «ragionevoli», libere non solo dai litigi, dal disordine o da incertezze di ogni genere, ma anche dalla «passione», compreso l’amore fisico. Scelgono i compagni seguendo principi eugenetici, evitano gli eccessi dei sentimenti, e sembrano quasi contenti di morire quando giunge la loro ora. All’inizio del libro Swift mostra dove la follia e la ribalderia portano l’uomo: ma se si eliminano la follia e la ribalderia, ciò che rimane sembra essere un’esistenza tiepida, che non ha molto senso vivere. I tentativi di descrivere l’approdo a una felicità ultraterrena non hanno avuto maggiore successo. Come Utopia il Paradiso è un fiasco, mentre l’Inferno occupa una posizione ragguardevole in letteratura, ed è stato spesso descritto in modo dettagliato e convincente.
Sappiamo bene che il Paradiso cristiano, come è di solito rappresentato, non attrarrebbe nessuno. (...) Molti pastori evangelici, molti preti gesuiti (anche nel terribile sermone in Ritratto dell’artista da giovane di James Joyce) hanno spaventato a morte i fedeli con le loro rappresentazioni dell’Inferno. Ma quando si passa al Paradiso, si torna invariabilmente a valersi di parole come «estasi» e «beatitudine», senza fare molto per cercare di spiegare in che cosa consistano. Forse il passo più vitale su questo argomento è quello, famoso, di Tertulliano, in cui si dice che una delle maggiori gioie del Paradiso è guardare le torture dei dannati. Le versioni pagane del Paradiso sono forse un po’ migliori. Si ha la sensazione che nei campi elisi ci sia sempre il tramonto. L’Olimpo, dove vivevano gli dei, con il nettare e l’ambrosia, le ninfe ed Ebe, «puttane immortali» come le ha chiamate D.H. Lawrence, potrà essere un po’ più interessante del Paradiso cristiano, ma non fa venir voglia di passarci molto tempo. Il Paradiso musulmano, con le sue 77 urì (vergini) per ogni uomo, tutte presumibilmente desiderose di attenzioni allo stesso momento, è un vero e proprio incubo. Nemmeno gli spiritualisti, che ci assicurano di continuo che «tutto è luminoso e bello», riescono a descrivere una qualche attività dell’altro mondo che una persona avveduta possa trovare, se non attraente, almeno sopportabile.
Nello stesso modo si risolvono i tentativi di descrivere la perfetta felicità che non siano né utopistici né ultraterreni, ma semplicemente sensuali. Danno sempre l’impressione di essere vuoti o volgari, o entrambe le cose. All’inizio di La pulzella d’Orléans, Voltaire descrive la vita di Carlo IX con la sua amante Agnes Sorel. Erano «sempre felici », dice. E in cosa consisteva la loro felicità? Un susseguirsi incessante di feste, libagioni, partite di caccia e amplessi. Chi, dopo qualche settimana, non si stancherebbe di un’esistenza simile? Rabelais parla delle anime fortunate che si divertono nell’aldilà, come consolazione per essersela passata male in questo mondo. Cantano una canzone che si potrebbe grossolanamente tradurre così: «Saltare, danzare, far scherzi, bere vino bianco e rosso, e non far niente tutto il giorno se non contare monete d’oro». Che noia, in fin dei conti! L’idea vana del divertimento senza fine è ben raffigurata nel quadro di Brueghel Il paese di cuccagna, dove tre grassoni giacciono addormentati uno accanto all’altro, tra uova sode e cosce di pollo pronte a farsi mangiare.
Sembra che gli esseri umani non sappiano descrivere, né forse immaginare, la felicità se non in termini di contrasto con una opposta condizione. Per questo da un’epoca all’altra il concetto di Paradiso o quello di Utopia cambiano. Nella società preindustriale il Paradiso era descritto come un luogo di infinito riposo, e lastricato d’oro, perché l’essere umano medio conosceva solo la fatica del lavoro e la povertà. Le urì del Paradiso musulmano riflettevano una società poligama dove la maggior parte delle donne scomparivano negli harem dei ricchi. Ma queste immagini di «eterna beatitudine» sono sempre poco attraenti perché quando la beatitudine diventa eterna (eternità intesa come tempo infinito), il termine di paragone scompare. Alcuni motivi convenzionali radicati nella nostra letteratura sono nati da condizioni fisiche che ora hanno cessato di esistere. Ne è un esempio il culto della primavera. Nel Medioevo la primavera non significava rondini e fiori di campo. Significava verdura, latte e carne fresca dopo parecchi mesi di maiale salato consumato in capanne fumose e prive di finestre. I canti della primavera erano allegri, «Se la carne poco costa, e le femmine son care, e i bulletti vanno apposta tutt’intorno a gironzare, non ci resta che mangiare, stare allegri e ringraziare il buon Dio che ci largì l’allegria di questo dì» (Shakespeare, Enrico IV), perché c’erano buone ragioni per rallegrarsi. L’inverno era finito, questo era il fatto principale. Lo stesso Natale, una festa pre-cristiana, è probabilmente nato perché, di tanto in tanto, mangiate e bevute fuori del comune aiutavano a interrompere l’insopportabile inverno nordico.
L’incapacità del genere umano di immaginare la felicità in forme diverse dalla liberazione dalla fatica o dal dolore pone ai socialisti un grave problema. Dickens sa descrivere una famiglia stretta dalla povertà che si butta su un’anatra arrosto, e farla apparire felice; allo stesso tempo, gli abitanti di universi perfetti non mostrano nessuna allegria spontanea e sono di solito assai poco attraenti. Ma ovviamente noi non vogliamo il mondo descritto da Dickens, né, probabilmente, nessuno dei mondi che avrebbe potuto immaginare. L’obiettivo dei socialisti non è una società dove alla fine tutto si risolve perché vecchi signori gentili regalano tacchini. Il nostro obiettivo non è forse una società in cui la «carità» non sia necessaria? Vogliamo un mondo in cui Scrooge, con i suoi dividendi, e Tiny Tim, con la sua gamba storpia, siano entrambi impensabili. Significa che aspiriamo a un’Utopia senza dolore? A rischio di dire una cosa che i redattori del Tribune potrebbero non approvare, affermo che il vero scopo del socialismo non è la felicità. La felicità finora è stata una conseguenza occasionale e, per quel che ne sappiamo, potrebbe rimanere tale. Il vero scopo del socialismo è la fratellanza umana. Spesso lo si pensa, ma di solito non lo si dice, o non lo si dice a voce abbastanza alta. Gli uomini passano la vita in strazianti lotte politiche, si uccidono in guerre civili, o vengono torturati nelle prigioni della Gestapo, non per costruire un qualche Paradiso con riscaldamento centralizzato, aria condizionata e illuminazione al neon, ma perché vogliono un mondo in cui gli esseri umani si amino, anziché derubarsi e uccidersi a vicenda. Questo è per loro un primo passo. Quale direzione poi prenderanno non è dato sapere, e il tentativo di prevederlo accuratamente non fa che confondere le cose.
Il pensiero socialista deve immaginare un futuro, ma solo in senso lato. Spesso bisogna tendere a obiettivi che si vedono solo in modo indistinto. In questo momento, ad esempio, il mondo è in guerra e vuole la pace. Il mondo, però, non ha esperienza di pace, non ne ha mai avuta, a meno che non sia esistito il Buon Selvaggio. Il mondo vuole qualcosa della cui esistenza è solo vagamente consapevole, che non riesce a definire con precisione. Questo Natale migliaia di uomini verseranno il loro sangue sulla neve russa, o annegheranno in acque gelate, o si faranno a pezzi nelle isole paludose del Pacifico; bambini senza casa andranno in cerca di cibo tra le rovine delle città tedesche. Far sì che questo non accada più è giusto. Ma dire con precisione come sarà un mondo in pace è tutt’altra cosa.
Quasi tutti i creatori di Utopie facevano pensare a un uomo con il mal di denti, per il quale la felicità consiste quindi nel non avere mal di denti. Volevano costruire una società perfetta prolungando all’infinito una condizione apprezzabile solo perché temporanea. Sarebbe meglio dire che ci sono delle linee lungo le quali l’umanità deve muoversi, che il disegno strategico è tracciato, ma che fare previsioni dettagliate non è affar nostro. Chiunque cerchi di immaginare la perfezione ne mette in luce solo la vacuità. È successo anche a un grande scrittore come Swift, che sa mettere perfettamente alla berlina un vescovo o un uomo politico: quando cerca però di creare un superuomo, ci dà l’impressione, opposta alle sue intenzioni, che i maleodoranti Yahoo avessero più possibilità di evolversi degli illuminati Houyhnhnms. (Traduzione di Maria Sepa)
VIDEO - Rissa tra monaci a Gerusalemme
Fonte Reuters
Una violenta rissa tra monaci armeni e greci ortodossi è scoppiata nella Basilica del Santo Sepolcro, uno dei siti più sacri del cristianesimo. Si tratta dell’ultimo di una serie di scontri tra monaci delle sei diverse confessioni che si contendono il controllo del sito dove secondo la tradizione si trova la tomba di Gesù. - PER VEDERE IL FILMATO, CLICCARE SUL ROSSO.
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Correttezza. Sarà il Festival d’inverno
Oxford abolisce il Natale cristiano
di G. S. (Corriere della Sera, 03.11.2008
LONDRA - Il consiglio comunale di Oxford ha deciso di cancellare la parola Christmas, Natale, dalle celebrazioni: lo scopo è di rendere l’evento «più inclusivo». Quindi quest’anno nella cittadina inglese che è famosa per l’università e i suoi 39 college indipendenti dove nei secoli hanno studiato 25 primi ministri del Regno, due re, l’ex presidente Clinton, 47 Nobel e 12 santi, sui festoni delle manifestazioni pubbliche non si leggerà Merry Christmas ma auguri per il Winter Light Festival, la festa della Luce d’Inverno.
La trovata della burocrazia comunale ha messo d’accordo nella critica i leader delle comunità religiose locali: «Semplicemente ridicolo» è il giudizio generale.
Sabir Hussain Mirza, presidente del Muslim Council di Oxford, ha detto all’Observer: «Questa è la festa alla quale tutti guardiamo una volta l’anno. Cristiani, musulmani e fedeli di altre religioni, aspettiamo tutti il Natale. Personalmente sono deluso, offeso e anche arrabbiato: il Natale è speciale, non va ignorato e fa parte della cultura britannica». Per il rabbino Eli Bracknell «è importante conservare la tradizione natalizia, diluirla fa solo male all’identità di questo Paese».
L’idea di oscurare il Natale è venuta da Oxford Inspires, un’associazione benefica culturale. Un portavoce ha detto: «Nell’Oxfordshire abbiamo il Winter Light che dura due mesi e comprenderà i servizi natalizi». Il vice capo del consiglio comunale ha cercato di minimizzare: «Ci sarà un albero di Natale in città, anche se lo chiameremo diversamente».
La polemichetta natalizia ormai in Gran Bretagna è diventata tradizionale. Due anni fa il ministero dell’Interno ebbe l’idea di spedire i biglietti d’auguri con la scritta Season’s Greetings: auguri di stagione. Sulle cartoline campeggiava l’albero di Natale che ogni anno viene collocato al centro di Trafalgar Square a Londra, ma la parola Christmas era stata omessa, per non turbare nessuno. Eppure, lo stesso ministro (che all’epoca era lo scozzese John Reid), in un’intervista aveva appena detto: «Sono nauseato e stufo di questa correttezza politica che vorrebbe proibire alla gente di portare il crocifisso al lavoro».
LA BATTAGLIA DELLE AMMINISTRAZIONI LOCALI
"Aboliamo le parole latine"
In Gb i municipi hanno indicato alternative: ’ad hoc’ diventa genuino *
LONDRA Bona fide, alias, alibi - tanto per citare alcuni termini latini - verranno presto aboliti dalla lingua inglese, almeno in alcune aree della Gran Bretagna. Alcune amministrazioni locali sono infatti convinte che il latino non goda più della comprensione che aveva un tempo e quindi tanto vale abolirlo dal linguaggio di tutti i giorni.
Il comune di Bournemouth, sulla costa sud del Regno Unito che conta 170mila abitanti, ha infatti adottato un «politica di linguaggio semplice» che include una lista di 19 parole latine da evitare e offre alternative. Così «ad hoc» diventa «improvvisato», «bona fide» «genuino». Dello stesso avviso la cittadina meridionale di Salisbury che ha invitato il personale del municipio ad evitare termini come «ad hoc» e «etcetera», così come alcune parole francesi.
La decisione non è piaciuta ai difensori del classicismo. Peter Jones, accademico e fondatore dell’ente benefico Amici dei Classici ha spiegato: «L’inglese è un animale ibrido che ha adottato da altre lingue un numero di parole e frasi che ora vengono usate comunemente. Negare la natura ibrida della lingua inglese è quasi come fare pulizia etnica dell’inglese». Latino e greco venivano un tempo considerate pietre miliari nell’istruzione, ma non vengono più insegnate nel Regno Unito, salvo rare eccezioni.
* La Stampa, 4/11/2008 (9:13)
l’intervento
Il patriarca latino di Gerusalemme, Michel Sabbah, rilancia il dialogo: «Oggi è la città di due popoli: tutti e due devono poter viverci con gli stessi doveri e gli stessi diritti»
Terra Santa, la pace è possibile
«Palestinesi e israeliani sono chiamati a questa responsabilità davanti a Dio: devono sforzarsi di trovare uno statuto speciale che rispetti le speranze dei due popoli e delle tre religioni»
DI MICHEL SABBAH (Avvenire, 13.02.2008) *
Ci domandiamo oggi se la pace è possibile in Terra Santa. In concreto ci sono segni di speranza, ma soprattutto sembrano prevalere paure, esitazioni, oppressioni e instabilità. E le sofferenze continuano. Costruire la pace in Terra Santa, come ovunque, è impresa sempre più difficile.
Numerosi sono i conflitti nel mondo in cui la violenza, il disprezzo della persona umana e dell’immagine di Dio nell’uomo sono praticati non solo da individui, ma da gruppi e a volte da governi responsabili. La pace in Medio Oriente sarà certamente frutto di accordi tra capi di governo e responsabili politici; ma prima di tutto coinvolgerà nel profondo i rapporti tra le comunità e tra i singoli. Ogni palestinese e ogni israeliano dovranno vedere nell’altro non più un nemico da odiare e da combattere, ma un fratello e un amico con cui costruire finalmente le nuove società palestinese e israeliana. La pace in Medio Oriente comincia a Gerusalemme.
Qui si manifesta il più profondo mistero di Dio per la storia dell’umanità: ha scelto questa città per raggiungere, attraverso il popolo eletto, tutti i popoli della terra. Gerusalemme: città in cui la fede in Dio unisce popoli e nazioni e città in cui i credenti, in nome di Dio, lungo i secoli e fino a oggi, si sono posti in conflitto. Città della riconciliazione, sorgente di pace per i pellegrini che la raggiungono, ma deserto di divisione per i suoi abitanti. La città dove tutti dicono «io qui sono nato» e che non è rimasta, nello scorrere dei secoli, esclusiva di una sola religione. Ebraismo, cristianesimo e islam oggi vi coesistono: sono tutti radicati in lei. La città di Dio è come Dio: per tutti. Nessuno può avere Dio in esclusiva, nessuno può avere la città di Dio in esclusiva e privarne l’altro. Gerusalemme è la dimora di Dio, aperta a tutti; è la dimora dello Spirito, sorgente di santità e di dignità per ogni persona.
Gerusalemme era ed è ancora il centro dell’ebraismo: era ed è il centro del cristianesimo. Dal sesto secolo fu per l’islam la «santa» città, il «santuario di Dio». Oggi, come nel passato, ci sono credenti, ebrei, musulmani e cristiani, amati da Dio di un amore speciale, che in questa terra, al di là delle divisioni e dei conflitti quotidiani, sono uniti nell’intimità della preghiera. Per loro intercessione Dio non permette che maggiori mali cadano su Gerusalemme. Altri credenti, e sono sfortunatamente la maggioranza, danno rilievo all’espressione esterna della loro fede, accentuando le differenze religiose che sono conseguentemente sfruttate da ambizioni e interessi umani.
Ogni giorno viviamo nei nostri cuori e nei nostri corpi la tragedia della divisione, dell’odio e della morte. La città della riconciliazione, la città di Dio, appare tragicamente lontana da Dio. Gerusalemme ha bisogno di pace e di riconciliazione, come d’altronde tutta le regione. Oggi Gerusalemme è la città di due popoli: tutti e due devono poter viverci con gli stessi doveri e gli stessi diritti. La Gerusalemme palestinese deve essere realmente palestinese, e l’israeliana israeliana. È una grande responsabilità amministrare la città di Dio rispettandone il Suo disegno, cioè con lo stesso amore e la stessa giustizia per tutti i suoi figli. Perciò palestinesi e israeliani, oggi chiamati a questa responsabilità davanti a Dio, devono sforzarsi di trovarle uno statuto speciale che rispetti le speranze dei due popoli e delle tre religioni presenti.
Gerusalemme è la chiave della pace nella regione e ogni soluzione imposta con la forza, che non rispetti i diritti e i doveri di tutti, può portare solo a una tregua, ma non a una pace definitiva. Una soluzione ingiusta o imposta rimarrà una minaccia permanente alla pace.
Soltanto la via della giustizia può condurre alla pace. Con la violenza si può vincere una guerra o una battaglia. Uno Stato può essere creato con la forza, ma la pace no. La realtà che stiamo vivendo in Terra Santa lo prova: con la forza Israele ha vinto battaglie e guerre ed ha creato uno Stato. Ma la ricerca della pace con i palestinesi non è ancora finita. Il dialogo tra le parti coinvolte è l’unica via, purché gli accordi non rimangano mere firme sulla carta.
Vedremo la vera vittoria solo quando avremo giustizia per tutti. Io, vescovo in questa Terra Santa e martoriata, chiedo una pace che garantisca tutti i diritti a tutte le parti in conflitto.
Desidero una pace che sia in grado di garantire la sicurezza ai palestinesi, agli israeliani e a tutti i popoli della regione; una pace che rispetti la dignità, la libertà, la sovranità e i diritti di ogni persona e di ogni popolo.
Bisogna riconoscere che la religione, in questa parte del mondo, ha una grande responsabilità nella ricerca della giustizia e della pace: è anzitutto la fede nell’unico Dio creatore e nell’amore per tutte le sue creature. Evidentemente questo amore deve conciliarsi con il diritto di difendersi e di difendere la dignità di ogni persona, nonché con il rifiuto di ogni forma di oppressione e di ingiustizia. In Oriente la religione compenetra e anima tutte le attività private e pubbliche. Tutto viene posto sotto il nome di Dio.
Tutto incomincia e finisce nel suo nome: la guerra, come la pace.
Perciò i leader religiosi possono avere un’influenza decisiva sui fedeli, in un senso come nell’altro: possono incitare alla guerra e alla violenza o esortare alla pace. Purtroppo, in nome di Dio, gli uomini hanno causato nel corso della storia molte guerre e conflitti. Oggi, in nome di una fede meglio compresa e meglio vissuta, i leader religiosi hanno la responsabilità di cambiare il comportamento dei fedeli, di aprire una nuova via che conduca il mondo verso la pace, per testimoniare l’appello di Dio all’umanità: Dio è creatore di tutti e vuole il bene di tutti.
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L’ANTICIPAZIONE
Nato a Nazaret nel 1933, Michel Sabbah (nella foto) è il primo palestinese a essere nominato, nel 1987, patriarca latino di Gerusalemme. Ordinato sacerdote nel 1955 e conseguita la laurea in Filologia della lingua araba a Beirut, ha ottenuto il dottorato in Filosofia alla Sorbona di Parigi ed è stato preside dell’Università di Betlemme.
Presidente della Conferenza episcopale dei vescovi latini della regione araba, dal 1999 al 2007 è stato anche presidente di Pax Christi International. Deciso fautore del dialogo fra le religioni, è una figura di spicco nelle relazioni interreligiose con gli ebrei e i musulmani della Terra Serra. Un impegno ribadito nel volume «Voce che grida dal deserto», del quale anticipiamo qui uno stralcio, curato da Nandino Capovilla e presentato dal cardinale Carlo Maria Martini (Paoline, pagine 138, euro 11,00).
Epifania: La luce eccentrica *
La dovizia di salutari provocazioni che mi vengono dalle letture che la liturgia dell’Epifania offre alla meditazione corre il rischio di restare come strozzata dentro le ganasce della tradizione festaiola, dell’attaccamento alle abitudini e della presunzione ideologica.
Alcuni Magi giunsero... domandavano...videro
Il messaggio, liberato dall’involucro ornamentale del romanticismo bucolico nel quale la tradizione lo ha ingessato, apre il suo scrigno a quanti vengono da lontano, si mettono in cammino, cercano, si informano. Per costoro c’è sempre una stella che splende, una meta che si avvicina, un incontro che si celebra, un volto che interpella. I doni offerti si tramutano in doni ricevuti perché il dono non arricchisce solo chi lo riceve ma rende ricco anche chi lo offre. Il tutto parte dall’ “interessamento” (I care!) cui segue la ricerca.
Per un’altra strada fecero ritorno al loro paese
“Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese”. L’incontro con l’Altro ti cambia, non ti lascia così come ti trova; la strada di ritorno è diversa perché tu sei diverso. Il tuo referente non è più il potere (Erode) ma il Sogno. Ma, soprattutto, l’incontro con l’Altro ti rilascia, non ti sequestra. Questi magnifici pellegrini di cui ci parla la scrittura se ne sono tornati al loro paese, non hanno arricchito l’anagrafe cattolica, direbbe Ernesto Balducci. Il messaggio è chiaro, soprattutto per quanti del cristianesimo ne fanno un’arma da conquista e della religione un motivo di dominio. Non ci è lecito presumere di portare l’universo alle nostre misure ma dobbiamo essere noi a subordinare noi stessi alle misure dell’universo. L’Altro! Solo una stella può condurci ad esso, solo la coscienza della nostra “povertà” può aprirci alla ricchezza della sua diversità. Un regime che non fornisce agli esseri umani ragioni profonde per interessarsi gli uni degli altri non può mantenere per molto tempo la propria legittimità. Una società che si chiude in se stessa, criminalizzando l’”Altro”, emarginando il “diverso”, in se ipsa marcescit, deteriorandosi in un mondo di solitudini in comunicanti, in un cielo buio senza stelle.
E’ quanto avviene sull’altro versante della narrazione.
Il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme...
Su questo versante, a cascata, inizia una litania di espressioni che configurano nell’insieme un quadro fosco di violenze e di connivenze, di gelosie e di paure che è bene evidenziare.
“Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia” (Mt. 2,4)
E’ forse questo il primo sequestro della teologia da parte del potere? Inizia forse già da qui l’uso ideologico della divinità a consacrazione di consolidati regimi? La scienza a servizio del potere ha generato la bomba atomica; la verità a servizio del potere genera gli assolutismi.
“Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire con esattezza da loro il tempo in cui era apparsa la stella” (Mt.2,7)
Non stride forse la lucentezza della stella con la plumbea oscurità di segrete trame?
Anche Erode, come i Magi, cerca e domanda, ma per ben altri motivi! Sui sentieri dei profeti oggi passeggiano i ragionieri dell’intrigo.
“Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo” (Mt.2,8)
Non è nuovo, ma antico come le montagne, il connubio tra l’ambizione e l’adorazione, il matrimonio tra la riverenza e la falsità.
I tuo figli vengono da lontano
Siamo di fronte ad un arrovesciamento di consunte dinamiche: i lontani si fanno vicini (“Verranno da Oriente...” Lc. 13,29) e i vicini si fanno lontani. Gli estranei diventano “domestici” e i “familiari” diventano estranei (“Inimici hominis domestici eius” Mt. 10,36)
Antrosano, li 13 Novembre 2007
Aldo Antonelli
* Vi propongo alcune riflessioni, anch’esse pubblicate su Adista, sulla festa di domani. Un abbraccio a tutte e tutti. Aldo
LA NASCITA DI GESU’ .... I BAMBINI ABBANDONATI, E LA "RUOTA SALVA-BIMBI" (dopo il caso del piccolo lasciato nella culla termica del Policlinico Casilino di Roma). Una breve e preziosa intervista a cura di Gabriela Jacomella (Corriere della Sera, 26.02.2007, p. 21) ad Adriano Prosperi (fls).
LO STORICO
E nel Quattrocento si usava il presepe
MILANO - «C’ erano accessi con la "ruota", certo: quella stretta, che consentiva il passaggio di un neonato. Ma c’ erano anche forme più accoglienti, come il "presepe"...». Adriano Prosperi, professore di Storia dell’ Età della Riforma e della Controriforma alla Normale di Pisa, all’ infanzia abbandonata - e nel peggiore dei modi - ha dedicato Dare l’ anima, storia di un infanticidio nella Bologna del 1709.
Ma l’ idea di presepe è molto lontana dalla figura di una madre che arriva ad uccidere il «figlio della vergogna»...
«Infatti il "presepe" era stato introdotto nella Firenze del ’ 400, nell’ Ospedale degli Innocenti: l’ idea è che tocchi alla città nel suo insieme occuparsi dei suoi poveri. E l’ Ospedale, creato nientemeno che dal Brunelleschi, non ha la "ruota" ma una cappella aperta, il "presepe", dove il bimbo viene deposto tra le immagini di Gesù, nato povero e allevato nella carità».
Tutto alla luce del sole, dunque.
«Al punto tale che molti di questi bambini sono riconosciuti dal padre: a Firenze allora c’ era un figlio naturale di nome Leonardo da Vinci, le schiave circasse partorivano i figli dei padroni e li allevavano in casa... A metà ’ 500, però, con la legislazione tridentina il matrimonio diventa un’ istituzione obbligata, e l’ ingresso dell’ Ospedale viene chiuso da una grata; da luogo di accoglienza per i meno ricchi diviene rifugio per una sottospecie di infanzia, che nasce sotto il segno di una vergogna ereditata dalla madre».
E così si afferma la «ruota». Fino a quando durerà?
«Nel ’ 700, una ventata liberalizzatrice rende superata l’ organizzazione di "contenitori" per determinate fasce sociali: bimbi abbandonati, mendicanti... Gli ospedali per trovatelli però resteranno in funzione, alcuni fino al ’ 900».
Cosa resta, oggi, dell’ antica «ruota»?
«Mi sembra che si sia perso il senso dell’ accoglienza, quello del "presepe" fiorentino, e resti il marchio d’ infamia. Speriamo che un nuovo Brunelleschi intervenga a cambiare le cose».
Gabriela Jacomella
INTERVISTA
I Re venuti da lontano oltre duemila anni fa diedero inizio alla civiltà delle immagini: parla lo scrittore Michel Tournier
La rivoluzione dei Magi
Da Parigi Daniele Zappalà (Avvenire, 06.01.2007)
«Mi ritengo un prodotto della religione cristiana. Sono sostanzialmente cristiano ed è da ciò che è nato questo libro». Ovvero Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, la rivisitazione romanzesca dei Re Magi che Michel Tournier pubblicò in Francia nel 1980 e che da allora, sul filo di tante riedizioni in tutto il mondo (in Italia, per Garzanti), ha fatto molta strada.
Proprio come i re orientali, fulminati dalla luce e dal sacro, riplasmati dal romanziere con inimitabile eleganza di stile e qualche gustosa piega picaresca a partire da poche righe presenti nel Vangelo di San Matteo. «È il mio romanzo cristiano e direi quasi che è il mio libro più importante», chiarisce con suprema schiettezza Tournier fra le mura accoglienti della sua dimora-rifugio, un presbiterio parrocchiale immerso nel verdeggiante parco naturale della Chevreuse, a una cinquantina di chilometri da Parigi. In bella mostra, non lontano dal tavolo di lavoro, c’è una nitida riproduzione dell’Adorazione dei Magi del Perugino.
L’arte occidentale ha subìto da sempre il fascino della scena dei Magi. Perché, a suo avviso?
«Per me, i Re Magi significano tre cose, o meglio tre rivoluzioni che caratterizzano il Nuovo Testamento rispetto all’Antico. Il Nuovo Testamento ha portato la rivoluzione cristiana e i Re Magi simbolizzano tre aspetti di questa rivoluzione. Innanzitutto, essi giungono da molto lontano, sono stranieri e c’è un nero fra loro. È il simbolo dell’apertura cristiana a tutta l’umanità. Il cristianesimo riguarda tutta l’umanità e in ciò è unico. Il giudaismo, ad esempio, si riferisce solo ai discendenti del popolo ebraico. Il ruolo del cristiano è di essere missionario. Quest’apertura al mondo mi pare l’aspetto più importante dei Re Magi. Non a caso, ho scelto come copertina per l’edizione francese l’Adorazione di Albrecht Dürer, in cui compare un re di colore».
Qual è il secondo aspetto?
«Il secondo aspetto mi pare la riabilitazione del denaro e della ricchezza. Quasi tutte le religioni disprez zano la ricchezza. Occorre, anzi, essere poveri. Anche nel cristianesimo la povertà è evidentemente presente: la stalla, la mangiatoia, il bue e l’asino. Ma la povertà della Sacra Famiglia vede arrivare i Re Magi, coperti di denaro, coi loro cavalli e coi doni più preziosi dell’epoca: oro, incenso e mirra. È per me la riabilitazione della ricchezza che affianca la povertà più assoluta. Trovo che ci sia qui anche un insegnamento riguardante il Papa. Egli è circondato da un patrimonio artistico straordinario e al contempo è totalmente povero, nel senso che non possiede nulla a titolo personale. Tutto fa parte del patrimonio religioso. L’accostamento di povertà e ricchezza è essenziale e l’episodio dei Re Magi lo simbolizza alla perfezione».
E l’ultima rivoluzione?
«È la riabilitazione dell’immagine. Ebrei e musulmani condannano sostanzialmente l’immagine, con un conseguente impoverimento dell’arte figurativa in queste religioni. Ciò mi pare una spaventosa mutilazione del genio umano, che per me si esprime in gran parte attraverso la pittura e la scultura. Il cristianesimo ha soppresso l’antico divieto e la scena d’arte religiosa forse più lungamente sviluppata è proprio l’adorazione dei Magi, così naturalmente pittorica e pittoresca, nel senso etimologico del termine. Quella del Perugino è la mia preferita e veglia su di me. Una magia per gli occhi».
I regnanti d’Oriente convergono verso l’incontro con un Bambino. Cosa vuol dire per lei?
«È il cuore del mio romanzo. Per me, ciascuno dei Re Magi aveva una ragione diversa per partire. San Matteo è laconico in proposito, eppure è da qui che tutto è partito. L’evangelista non dice neppure che i Magi erano tre, ma il loro numero è stato ricavato da quello dei doni. Del resto, nonostante il titolo del mio romanzo, ho personalmente preferito ispirarmi a quella tradizione leggendaria che tramanda l’esistenza anche di un quarto re».
Cosa vuol dire per uno scrittore come lei l’accostamento al testo evangelico?
«Sono per la felicità, sono un ottimista. Il che può sembrare atipico, dato il carattere tenebroso di molti scrittori. Basti pensare al mio maestro letterario, Emile Zola. Un personaggio decisamente cupo. Anche nel Vangelo ci sono tante pagine cupe, accanto a quelle chiare. E, fra queste ultime, oltre all’Adorazione dei Magi, la scena più splendida mi sembra l’Annunciazione. Ecco, preferisco guardare al lato festivo del Vangelo e non a caso i miei romanzi si concludono tutti in apoteosi. Per usare una parola un po’ ridicola, sono uno scrittore positivo perché amo essere felice e rendere felice chi mi sta attorno».
Tra storia e leggenda, il loro culto rivive nella tradizione
Epifania, a Betlemme seguendo la stella: i Re Magi
Nel mondo cristiano il 6 gennaio è una delle principali feste religiose dell’anno: è la venuta dei sovrani a Gesù e il primo manifestarsi di Cristo all’umanità *
Roma, 4 gen. (Ign) - Sono le ultime statuine a impreziosire il presepe. Sono il simbolo dell’incontro tra Occidente e Oriente. Sono venuti da lontano seguendo una stella per “adorare il Re dei Giudei”. Sono i Re Magi. Tra storia e leggenda hanno attraversato secoli per rivivere nel nostro immaginario come i tre saggi che il 6 gennaio portano in dono a Gesù l’oro, l’incenso e la mirra. L’Epifania, è, infatti, nel mondo cristiano una delle principali feste religiose dell’anno. Dal greco ‘Epifaneia’, ovvero ‘manifestazione’, rappresenta secondo la tradizione cristiano-cattolica, la venuta dei Re Magi a Gesù e, quindi, il primo manifestarsi di Cristo all’umanità. Più profana che sacra, ma legata alla storia dei Magi, l’Epifania è anche la festa della Befana. (Fotogallery)
La storia dei Magi comincia intorno agli anni 120-140, ma nuovi elementi sono poi comparsi nel corso del tempo in considerazione anche che le Sacre Scritture non documentano molto sulla identità e il viaggio compiuto dai tre personaggi. Solo il Vangelo di Matteo, infatti, parla del’episodio (2.1-2.2) “Nato Gesù in Betleem di Giuda, al tempo di Re Erode, ecco dei Magi arrivarono dall’Oriente a Gerusalemme, e chiesero: ‘Dov’è il Re dei Giudei nato da poco? Perché noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo’”.
Sui Magi invece dai Vangeli Apocrifi si possono trarre più notizie. Soprattutto da ’’Il libro della Caverna dei Tesori’’, di origine siriaca e l’’’Historia Trigum Regum’’ di Giovanni da Hildesheim, è stato possibile raccogliere elementi importanti per tracciare la loro storia e il loro viaggio. Ma anche mettendo assieme tutte le fonti in nostro possesso (anche Marco Polo ne parla nel "Milione") rimane comunque incerta la loro provenienza (dalla Persia?). Quello che si sa è che erano in tre, sovrani o sacerdoti, a cui corrispondevano i nomi latini di Balthasar (Baldassarre), Caspar (Gasparre) e Melchior (Melchiorre). E rispettivamente furono i portatori a Gesù di oro, incenso e mirra, doni emblematici (maestà divina, regale potestà ed umana mortalità) che usualmente Persiani e Caldei usavano regalare ad un re. Altri simboli sono i colori associati ai tre saggi: il bianco, ovvero l’aurora; il rosso che rappresenta il mezzogiorno; e il nero la notte.
Ma nel labirinto della simbologia legata ai Magi è proprio il caso di dire che brilla una stella. Il viaggio dei Re Magi, è, infatti, legato alla stella cometa che guidò il loro cammino da Oriente verso Betlemme. Messa più volte in dubbio la sua esistenza è stata ipotizzata la sua identificazione con la cometa di Halley. Ma l’ultima ipotesi avanzata è di poche settimane fa. Si tratta di una riedizione del ’600 che conferma, infatti, calcoli già effettuati 4 secoli fa da Keplero: un particolare allineamento di pianeti nel sistema solare, con Giove e Saturno principali protagonisti, potrebbe essere stato l’evento astrale rilevato dagli astronomi/astrologi del primo secolo. A spiegarlo l’astronomo Juergen Hamel in un’intervista pubblicata il mese scorso sul settimanale Die Zeit.
Avvolta nel mistero anche la sepoltura dei Re Magi. Morirono in Oriente ma il vescovo milanese Eustorgio, ottenne la possibilità di traslare le spoglie dei tre saggi a Milano. Secondo la tradizione le salme sono state trasportate all’interno di un grosso sarcofago ancora oggi presente nella Cappella dei Magi nella Basilica milanese di Sant’Eustorgio dove, infatti, qui è particolarmente vivo il culto dei Re Magi. Le reliquie, però, passarono nel 1164 nella cattedrale di Colonia. Il reliquiario fu poi danneggiato nel corso della seconda guerra mondiale e restaurato nel 1973, anno in cui l’arcivescovo di Colonia decise di restituire un frammento dei Magi alla chiesa di Sant’Eustorgio di Milano.
* adnkronos. 04.01.2007.
Il più bell’augurio di Natale che abbia ricevuto..., anche se in ritardo.
Chi vuole può leggere l’intero messaggio in allegato.
Ve lo propongo come meditazione di augurio per il nuovo anno.
Aldo Antonelli [don]
Sono ormai quattro anni che passo il Natale in terra brasiliana. Da quando il presidente Lula ha "scelto" di passarlo con il popolo della strada di San Paolo. In questi giorni il mio cuore e il mio pensiero corrono verso tutte le persone con le quali condivido un cammino di vita, di impegno sociale e civile, di sogni e di lotte per essere uomini e donne, persone di buona volontà e cristiani. E vi ricordo uno ad uno, come se sfogliassi un album di foto. Da questa parte del mondo è possibile scorgere l’esistenza e la possibilità di un "altro" Natale, più normale e più vero, più quotidiano e più autentico, legato alla verità della vita della gente e alla forza sovversiva della nascita di Gesù in mezzo a noi come uno di noi.
Noi siamo cresciuti dentro la logica delle "forza", della "apparenza" e della "efficienza". Siamo strutturati come persone che ritengono indispensabile avere per essere, imporsi per relazionarsi, dominare per servire, illudendosi che il potere, il denaro e la guerra possano risolvere i problemi del mondo, dimenticando che soltanto la condivisione solidale e fraterna può moltiplicare le possibilità di una vita dignitosa per tutti. La nostra avidità e la nostra ricerca continua di maggior benessere, il più delle volte fine a se stesso, provocano inevitabilmente fame e miseria, marginalizzazione ed esclusione, in moltissime parti del mondo... alla maggioranza dei popoli del pianeta. In questa settimana si sono moltiplicati ai miei occhi esempi di sofferenza, solitudine ecc... fra tutti vorrei partire da un fatto molto semplice, ma indicativo, che ci potrebbe illuminare e provocare come occidentali, laici o cristiani, ormai abituati, rassegnati e condannati a vivere il Natale come scontato e ripetitivo, svuotato di tutta la sua carica sovversiva e rivoluzionaria.
Pochi giorni fa, visitando con padre Julio una comunità dove un incendio aveva distrutto le poche cose che dieci famiglie possedevano, ho assistito ad un fatto che mi sconvolto. Subito la comunità si è riunita, insieme hanno deciso di fare una raccolta per aiutare nell’ immediato coloro che avevano sofferto la perdita della casa e delle poche cose che contenevano. Tutte persone semplici e umili, con poche possibilità economiche. Di fronte a questo fatto un uomo apparentemente invecchiato, dimostrava più della sua reale età, padre di quattro figli, ha offerto una buona quantità di viveri e cose per questi amici che avevano perso tutto. Davanti a questo gesto così generoso, padre Julio gli ha detto: le cose che offri sono molte, sei sicuro che poi non serviranno alla tua famiglia. L’uomo, Raimundo, con uno sguardo sereno e stropicciando le sue mani incallite ed indurite dal un lavoro onesto e faticoso, rispose: padre Julio, dal giorno in cui la nostra famiglia imparò a condividere, non ci è più mancato niente! Ascoltando queste parole ho sentito dentro tutta la mia pochezza, la mia stupidità, i miei seri e profondi limiti. Nella logica della condivisione, il pane è per tutti e il pane condiviso non si esaurisce... si moltiplica!
E’ dall’interno di questa logica di condivisione reale e generosa, che si possono moltiplicare le soluzioni di problemi che ci appaiano insolubili. Un Dio che ci possa insegnare a condividere con gli altri ciò che siamo e ciò che abbiamo. E’ soltanto condividendo ed essendo complementari che possiamo realizzare il progetto di Gesù, festa di abbondanza e di gioia tra fratelli e sorelle che si amano. Il denaro, la terra, i beni, o servono per essere fraternità o finiscono per separare e ammazzare le persone. Quando parliamo di Dio, siamo abituati a identificarlo come l’Onnipotente, Il Creatore, il Signore del cielo e della terra... in verità egli è infinitamente di più. Egli è l’incontro, è l’altro, è l’umiliato, l’offeso,
il sofferente, l’impoverito... egli è un Dio "umile e modesto". Il contrario del potere e dell’onnipotenza di oggi. Un Dio che si fa bambino, che diventa bambino perché possiamo capire che, anche per lui, esiste una sola cosa importante: essere amato. Con cura.
Il Natale ci rivela che Dio non è interessato ai meccanismi di potere, di prestigio ma a quelli della tenerezza e dell’amore. Nel diventare uomo, sceglie di essere un bambino indifeso, non un re potente. Ci dice con chiarezza che lui non è interessato ai meccanismi e alle perversioni del potere, dei calcoli politici o ecclesiali.
Egli si pone nelle nostre mani! Egli si dona a ognuno di noi, entra nel libero gioco dell’agire e delle decisioni di ognuno di noi. Egli si affida a noi, così come qualsiasi bambino si affida alle cure della madre e delle persone che lo circondano. Si dona a noi, assumendosi in proprio il rischio che questa sua fiducia possa essere tradita.
Ho sentito forte questo quando ieri nell’incontro che il presidente Lula ha fatto con il popolo della strada in un capannone sede di una cooperativa di raccoglitori di carta, plastica e lattine. Ho vissuto il suo farsi "mangiare" dalla gente, il non negarsi a nessuno, il suo "farsi toccare e abbracciare" da tutti, e il "suo toccare e abbracciare tutti". Ho preso coscienza di un grande momento di contentezza, posso qui verbalizzare che questo momento è stato per lui e per ogni presente, un momento di gioia. Questa gioia, è vero, non sarà eterna, ma rimarrà eternamente vera la consapevolezza di avere vissuto questo momento. E i raccoglitori in quel momento hanno creato il loro mondo con il loro presidente. Al di là delle cose importanti che sono state dette e decise. Donazione in uso a tre cooperative di raccoglitori di due palazzi del governo per costruirvi 77 appartamenti a San Paolo, con l’ impegno di allargarlo per altri palazzi governativi nelle altre principali città brasiliane. Nonostante la burocrazia governativa abbia cercato di contrastare queste sue decisioni. Nella misura in cui il Natale riacquista il suo significato originale, ricominceremo a trasformare le innumerevoli situazioni e strutture in cui uomini e donne vengono schiacciate, esclusi e disprezzati. Agiremo così perchè coscienti che in ogni persona umana maltrattata, il bambino che giace nella mangiatoia, viene maltrattato.
Prendendo sul serio tutto ciò che rivela il Natale, inizieremo a lavorare per costruire situazioni e strutture che siano in sintonia con la sua venuta. Saremo così costruttori e collaboratori di situazioni dove regna l’amore, la giustizia e la solidarietà tra ogni essere presente sulla terra. Dio è diventato di nuovo nostro compagno di viaggio. Nuovamente ha immesso in noi inquietudini e sogni per entrare nella storia con uno spirito e una pratica nuovi.
Questo è il mio augurio,
Antonio
Antonio Vermigli
antoniaccio@gmail.com
Tutto bello e commovente, tranne quella parentesi propagandista con il presidente Lula che, in questi giorni, sta imbavagliando gli oppositori e si sta avviando a diventare , come l’amico Chavez, un nuovo dittatore.
Non mescoliamo il diavolo e l’acqua santa, POR FAVOR !!
Testimone imbarazzante per gli antichi, lo sposo di Maria diviene popolare solo nell’Ottocento, come operaio da contrapporre al socialismo. Ma oggi la sua figura viene rivalutata
Giuseppe, il padre che ci manca
Mai immagine di potere, bensì mediatore che risolve situazioni complicate. Un modello contro la crisi della figura maschile
di Lucetta Scaraffia (Avvenire, 28.12.2006)
Oggi, quando la figura del padre è indebolita e messa in discussione dalla procreazione artificiale, più volte si è sottolineato che il santo ricordato nel giorno della «festa del papà», Giuseppe, non è un padre naturale. L’indagine su questa figura evangelica e sulla sua storia nelle società cristiane è di grande interesse, come prova un’importante ricerca appena pubblicata in Francia (Paul Payan, Joseph. Une image de la paternité dans l’occident médiéval, Aubier), che parte dagli inizi della devozione allo sposo di Maria. Inizi non facili, se si osserva che come nome di battesimo quello di Giuseppe era pochissimo diffuso fra i cristiani sino alla fine del Quattrocento, quando appunto cominciò a decollare, grazie soprattutto alla propaganda dei francescani. Giuseppe è un personaggio difficile, se non imbarazzante: il dogma della perpetua verginità di Maria lo pone infatti, fin dai primi secoli del cristianesimo, nello spinoso ruolo dello sposo forzatamente casto, capo di una famiglia dove la moglie e il figlio sono entrambi molto superiori a lui.
Per rendere credibile questa situazione l’apocrifo Protovangelo di Giacomo lo raffigura anziano, per adombrarne l’inattività sessuale, e vedovo, per spiegare in questo modo la menzione dei «fratelli» di Gesù nei Vangeli. E l’età avanzata gli è rimasta addosso, nonostante i tentativi - il più importante fu quello di Jean Gerson - di diminuirne l’età, facendo così della castità di Giuseppe una scelta non obbligata che lo avvicina spiritualmente alla Vergine. Anzi, una delle ragioni della diffidenza dei cristiani verso lo sposo di Maria sta proprio in questa sua somiglianza con un personaggio tipico delle novelle satiriche, lo sposo anziano tradito dalla giovane moglie e costretto ad allevare un figlio non suo. Versione dileggiante del ruolo di Giuseppe riproposta anche da molte opere d’arte sacra: queste lo ritraggono come un contadino goffo, che suscita il riso per la sua inabilità di artigiano, riverber andosi sull’incapacità di mantenere dignitosamente la moglie e il figlio. E sino alla fine del medioevo egli non viene mai rappresentato da solo, e sempre un po’ separato dai personaggi più importanti, Gesù e Maria.
Soltanto dal Quattrocento, in nuove rappresentazioni della natività di Gesù, sia Maria che Giuseppe sono inginocchiati davanti al figlio, ad adorarlo nella stessa posizione. È difficile rivolgere le proprie preghiere a un uomo così umile che non sembra capace di soccorrere i fedeli come altre figure più eroiche di martiri o difensori della fede. Il culto dello sposo di Maria, padre putativo di Gesù, si sviluppa quindi solo in età moderna, quando il santo comincia a essere un modello, non solo un protettore, e non diviene davvero una devozione popolare fino all’Ottocento, quando è valorizzato anche come lavoratore in contrapposizione al socialismo dilagante. Nel 1870 Pio IX lo dichiara protettore della Chiesa universale, e nel corso del Novecento gli verranno dedicate ben due feste, il 19 marzo come patrono e modello dei padri, e il 1° maggio come artigiano, in palese contrappunto con la festa d’origine socialista. Nel cristianesimo antico Giuseppe era percepito come l’ultimo patriarca, anello di unione fra antica e nuova economia: proprio per questo è stato rappresentato spesso lontano dalla scena principale, pensoso, testimone dell’incarnazione di Cristo, ma poi anche in veste di ultimo ebreo, che come copricapo talvolta portava proprio il berretto a tre punte imposto in molte città medievali agli ebrei. Il culto di san Giuseppe, incentrato sulla sua umiltà e sul servizio a Gesù, nasce in ambiente monastico, spesso con sfumature mistiche, come in san Bernardo, che valorizza la sua intimità fisica con il figlio.
Ma sono i francescani, nell’ambito della loro complessiva valorizzazione dell’umanità di Gesù, a proporre Giuseppe come esempio da seguire. Per loro diventa positiva la povertà della sacra famiglia e del suo umile custode, e per i loro superiori non usano il termine «abate», che significa padre, ma quello di «custode», attribuito appunto a colui che doveva custodire il piccolo Gesù e sua madre. Nel promuovere la figura di Giuseppe, più successo dei francescani ebbero però i Servi di Maria, primi a festeggiarlo il 19 marzo, poco prima della festa dell’Annunciazione: il santo costituiva infatti il modello naturale del loro ordine, che ne legittimava l’identità impedendo una fusione con altri ordini mendicanti.
Ma il vero riscopritore dell’importanza teorica del padre putativo di Gesù fu Gerson, che influenzò l’ambiente universitario parigino del primo Quattrocento proponendolo come modello politico di pace e di unione. In un momento di forte crisi del papato, durante lo scisma d’Occidente, il teologo scrive che la Chiesa ha bisogno di nuovi punti di riferimento e di nuovi modelli di mediazione perché Pietro non sembra più sufficiente, e in un sermone pronunciato al concilio di Costanza propone Giuseppe come nuovo modello di guida politica, capofamiglia ma anche umile servitore di Gesù.
La proposta di Gerson non ebbe seguito immediato, ma fu ripresa nel Cinquecento dai francescani, che fecero di san Giuseppe un esempio di padre spirituale, e quindi del clero, mediatore fra Dio e gli uomini. Ma, al tempo stesso, anche modello per i padri naturali in un’epoca che, dopo la svalutazione della paternità naturale di fronte a quella spirituale, aveva il problema di ricostruire in ambito cattolico il modello paterno di fronte alla Riforma che, abolendo il clero, aveva accentuato il ruolo del padre di famiglia. In questa lunga e affascinante storia Giuseppe dunque non compare mai come figura di potere, ma piuttosto si afferma come mediatore, un pacificatore che risolve situazioni complicate. E di un padre così c’è molto bisogno anche oggi.
La «josephologie» parla francese
La «josephologie» muove grandi passi in Francia. Un nuovo vigore di studi ha indotto a fondare nel novembre 2005 presso il santuario di San Giuseppe ad Allex un «Centre Français de Recherche et de Documentation Joséphaines» (http://www.josephologie.info); lo dirige l’archeologo Christian-Michel Doublier-Villette, il quale ha appena firmato «La saga de Saint Joseph», in cui passa in rassegna le fonti (anche apocrife) relative al falegname di Nazareth e delinea il contesto culturale che ne ha influenzato l’interpretazione nei secoli. Il Centro progetta inoltre di coordinare i centri di «giuseppologia» sparsi nel mondo e la creazione sul Web di una banca dati multidisciplinare.
il caso
Il falegname piace pure a Boff e Coelho
(R.Be)
Beh, che il più prestigioso esponente della «teologia della liberazione» si occupasse del vecchio e pio san Giuseppe forse non ce l’aspettavamo... E invece Leonardo Boff, il celebre ex frate brasiliano che è stato una delle bandiere della teologia progressista, dedica il suo nuovo libro proprio a «Giuseppe di Nazaret. Uomo giusto, carpentiere» (Cittadella Editrice, pp. 240, euro 16,50), per di più con la prefazione di un «mostro sacro» - forse suo malgrado... - della New Age contemporanea: ovvero lo scrittore Paulo Coelho, il quale rivela di avere per il padre putativo di Cristo «una particolare devozione» e di immaginare volentieri che il tavolo dell’Ultima Cena sia stato costruito proprio dal falegname galileo. Da parte sua, Boff interpreta arditamente Giuseppe come una «personificazione del Padre celeste» e quale completamento - insieme a Gesù e Maria - di una «trinità terrena», attraverso la quale «la Famiglia divina si autocomunica alla famiglia umana».
LINGUA ITALIANA: LA PAROLA PIU’ BELLA E’ AMORE PER GLI ABITANTI DEL BELPAESE
Roma, 20 dic.- (Adnkronos) - Non c’e’ dubbio: e’ ’amore’ la parola piu’ bella per gli italiani. E’ quanto emerge da una ricerca di Gfk Eurisko riportata nell’ ’Annuario 2006’ della Dante Alighieri, il piu’ completo vademecum della lingua e cultura italiana, curato da Paolo Peluffo e Luca Serianni.
A indicarla il 22% degli intervistati, soprattutto operai (32%). A grande distanza al secondo posto c’e’ naturalmente ’mamma’, citata dall’8%. Al terzo ’pace’ seguita ad un punto di distanza da ’liberta’’. Tra le altre parole piu’ gettonate anche ’famiglia’, ’amicizia’, ’figli’ e ’felicita’. Nella top ten a pari merito: ’ciao’, ’sole’, ’rispetto’, ’vita’, ’democrazia’ e ’Italia’.
* ADNKRONOS, 20.12.2006
La grotta, i Magi, l’anno zero... La critica storica attacca spesso gli elementi del presepio come leggendari; ma lo studio delle fonti dà nuovi supporti al testo evangelico
Natale: cosa c’è sotto la stella
La data del 25 dicembre fu fissata soltanto nel IV secolo e in Occidente per un insieme di ragioni di carattere astronomico, profetico, scritturistico e simbolico, nonché probabilmente per la coincidenza di una festa profana molto popolare nel tardo Impero romano, quella del «Sole invitto». L’Epifania invece venne importata dall’Oriente per ricordare il battesimo di Cristo
I Vangeli citano solo una mangiatoia, non il luogo in cui era posta, però il ricordo della grotta della Natività è antico: ne parla già Origene nel III secolo
di Danilo Mazzoleni (Avvenire, 27.12.2006)
Il Natale riporta all’attenzione di tutti alcuni elementi, che sono strettamente legati a questa grande festa della cristianità, prima di tutto la data stessa dell’evento, poi la grotta, che tradizionalmente ospitò il Salvatore appena nato, o ancora la stella, che guidò i Magi ad adorare il Figlio di Dio. Ma si tratta solo di pie tradizioni, oppure lo studio attento delle fonti letterarie e delle testimonianze archeologiche ha consentito di acquisire elementi concreti in merito a questi aspetti apparentemente di contorno, ma in realtà importanti, connessi con tale ricorrenza?
LA DATA DELL’EVENTO
Nel più antico calendario della Chiesa di Roma che ci sia pervenuto, il Cronografo Romano del 354, si legge per la prima volta la celebrazione del Natale al 25 dicembre. Solo nel pieno IV secolo, quindi, un testo ufficiale riporta la data rimasta ancora oggi nella tradizione. Non è documentata, comunque, per questa festività una tradizione di origine apostolica; tanto è vero che ben presto gli scrittori cristiani si posero il problema di determinare il giorno in cui era venuto alla luce il Salvatore. Clemente Alessandrino, vissuto all’incirca fra il 150 e il 215, già riporta tre opinioni diverse, diffuse ai suoi tempi: alcuni proponevano il 20 maggio, altri il 10 gennaio, ma i più il 6 gennaio. Altri pensavano che, individuando nell’equinozio di primavera (fissato prima il 25, poi il 21 marzo) l’inizio della creazione dell’universo, simbolicamente la medesima data avrebbe segnato la nascita del Figlio di Dio. In ogni modo, in Occidente si affermò sempre più la data tradizionale del 25 dicembre, avallata anche da sant’Agostino. D’altro canto, nel 274 l’imperatore Aureliano aveva fissato proprio al 25 dicembre la festa del «sole invitto», che dopo il solstizio invernale a poco a poco riprendeva il sopravvento sulle tenebre. Non erano estranei a questa celebrazione influssi del culto orientale di Mitra, che ebbe grande seguito nella Roma tardo-imperiale. Perciò, sostituire ad una solennità profana una cristiana, legata all’incarnazione del Cristo, «Sole di giustizia», fu certamente un’operazione carica di significati simbolici, oltre che polemici nei confronti del paganesimo, ormai al declino, tanto è vero che, intorno alla metà del V secolo, il papa san Leone Magno in un suo sermone ammonì i cristiani a non confondere la nascita di Cristo con la celebrazione del sole naturale, ricorrenti nello stesso giorno. Quindi, in base all’esame delle diverse fonti disponibili, si può giungere alla conclusione che la data tradizionale del Natale fu fissata per un insieme di ragioni e di considerazioni di carattere astronomico, profetico, scritturistico e simbolico, nonché probabilmente per la coincidenza di una festa civile profana molto popolare, che era stata istituita in epoca tardo-imperiale. Se questa è la situazione nel mondo occidentale, è più difficile precisare quando ciò avvenne in quello orientale; in ogni modo, risulta che l’imperatore Giustiniano intorno alla metà del VI secolo proclamò il 25 dicembre anche solennità civile. Appurato che il Natale fu una festa celebrata prima in Occidente e poi passata in Oriente, per l’Epifania avvenne esattamente il contrario. Il termine «epifania», che in età classica indicava qualsiasi manifestazione della presenza di una divinità, passò a designare dapprima (probabilmente agli inizi del IV secolo) l’incarnazione del Figlio di Dio, poi le rivelazioni più significative della sua divinità, commemorate in un unico giorno, il 6 gennaio. Anche se in seguito, specialmente nel mondo occidentale, prese il sopravvento la celebrazione dell’atto di omaggio compiuto dai Magi, rimasto ancora oggi legato alla festa, in Oriente, invece, prevalse sugli altri il ricordo del battesimo nel Giordano. Tornando alla Natività, a proposito dell’anno in cui si verificò il prodigioso evento, si può affermare che il mondo moderno si porta ancora dietro un errore di computo di un dotto monaco originario della Dobrugia, v issuto nella prima metà del VI secolo, Dionigi il Piccolo, ritenuto uno dei fondatori della cultura medievale. Egli, su incarico imperiale, intendeva sostituire l’era cristiana a quella dioclezianea, fino ad allora diffusa specie nelle province orientali, e prese come punto di partenza proprio la nascita di Gesù, ma essa fu da lui calcolata, in base alla convergenza di fatti storici e di riferimenti contenuti nei Vangeli, posponendo in realtà la data reale della nascita almeno di 4, se non - più verisimilmente - di 6 o 7 anni. La sua proposta fu comunque accettata e si diffuse dovunque, ma, a ben vedere, oggi noi saremmo, in realtà, alla fine del 2012 (o addirittura nel 2013) e non del 2006, anche se ormai una correzione sarebbe improponibile, perché rivoluzionerebbe tutta la storia.
LA STELLA
Fin dall’antichità lo studio degli astri esercitò un particolare fascino, tanto è vero che per i Babilonesi le stelle costituivano un segno di scrittura celeste, che poteva essere interpretato. Così gli astronomi di allora, che erano insieme astrologi ed esperti nell’arte divinatoria, pensavano di poter individuare nei corpi celesti luminosi segni premonitori di guerre, siccità, carestie, ma anche eventi positivi, come la nascita di sovrani e l’avvento di epoche di floridezza e fulgore. Tale scienza si diffuse anche in epoca romana e soprattutto le comete erano osservate con particolare attenzione, attribuendo loro la funzione di messaggere di eventi importanti. Certamente la stella più conosciuta di questo tipo è quella di cui parla il Vangelo di Matteo (2,2), ma, a rigore, il testo evangelico non specifica la sua vera natura. In uno scritto apocrifo, poi, il Protovangelo di Giacomo, si legge che quando nel tredicesimo giorno dalla nascita del Bambino si presentarono i Magi, un’enorme stella - come mai se ne erano viste - splendeva sulla grotta dalla sera al mattino. Tuttavia, già un Padre della Chiesa della prima metà del III secolo, Origene, pensò che si trattasse di u na cometa e altre fonti condivisero tale teoria, tanto è vero che anche oggi è opinione comune che proprio una cometa apparisse ai Magi, che erano profondi conoscitori dell’astronomia e delle leggi dell’universo. Alcuni studiosi hanno pensato che la cometa vista allora fosse quella di Halley, che, però, secondo i calcoli effettuati, passò vicina alla terra solo nel 12 a.C., prima della nascita di Gesù. Per altri il fenomeno luminoso celeste, al quale si allude nei testi fu in realtà la rara congiunzione di Saturno, Giove e Marte, verificatasi nell’anno 7 (o nel 6) a.C. Accettando quest’ultima teoria, si avrebbe conferma dell’errore di computo, già ricordato, del monaco Dionigi il Piccolo. D’altronde, ulteriori considerazioni porterebbero ad escludere che l’astro, di cui parla l’evangelista Matteo, potesse avere relazione con un fenomeno celeste. Nel passo in questione, infatti, si dice che la stella apparve ai Magi ad Oriente e li precedette, «finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il Bambino» (Mt 2,9). Secondo l’interpretazione di molti esegeti, la luce di cui si parla sarebbe simbolicamente quella del Redentore e, quindi, si farebbe metaforicamente riferimento all’avvento messianico, escludendo qualsiasi fenomeno reale dell’ordine naturale del cosmo. Questo concetto fu sviluppato e ribadito in molti scritti dei Padri: secondo alcuni si sarebbe trattato di una stella effimera, apparsa e subito scomparsa; più precisamente, per altri, di una meteora, creata da Dio nell’atmosfera celeste e poi dissolta. Come si vede, le ipotesi sono molteplici, ma non sembra, comunque, privo di significato il fatto che a questo astro sia stato riservato fin dall’epoca paleocristiana nell’iconografia del presepe e in altre raffigurazioni del ciclo della Natività un ruolo ben preciso, facendone anzi uno degli elementi chiave della composizione. Fra i tanti esempi noti, si può almeno ricordare, oltre ad un celebre affresco del 220-230 della catacomba romana di Priscilla , raffigurante un profeta (forse Balaam) che indica una stella, la lastra incisa della defunta Severa, conservata al Museo Pio Cristiano, con la scena dell’offerta dei doni da parte dei Magi, riferibile alla prima metà del IV secolo. Sopra il Bambino compare un irregolare astro a sei punte di grandi dimensioni, mentre alle spalle di Maria con il piccolo Gesù, seduta su un sedile dall’alto schienale, una figura profetica addita la stella.
LA GROTTA
Scriveva nel III secolo Origene: «Se qualcuno vuole assicurarsi... che Gesù è nato a Betlemme, sappia che, a conferma di quanto narra il Vangelo, si mostra a Betlemme la grotta, nella quale Egli nacque. Tutti lo sanno nel paese e i pagani stessi ripetono a chi vuol saperlo che in quella caverna è nato un certo Gesù, che i cristiani adorano ed ammirano». Questo brano prova che la tradizione della grotta della Natività è molto antica (la fonte evangelica parla solo di una mangiatoia, non dell’ambiente in cui essa era ubicata) e proprio al di sopra di una grotta, sulla collina orientale di Betlemme, Costantino, esortato anche dalla madre Elena, costruì una basilica, che voleva ricordare degnamente l’evento. Per fare ciò, i suoi architetti trasformarono quel luogo in cripta, collegata tramite due scale direttamente al coro della chiesa e il soffitto naturale, che non avrebbe retto al peso delle strutture sovrastanti, fu coperto da una volta in muratura. Sul finire del IV secolo la grotta apparve alla pellegrina Egeria ornata di paramenti di seta ricamati, arredi liturgici, lumi, torce e candelabri preziosi, mentre il pavimento era a mosaico. Molte trasformazioni interessarono la grande basilica costantiniana a cinque navate nei secoli successivi, ma quell’ambiente, largo meno di 4 metri e lungo 12, tanto frequentato da folle di pellegrini, si mantenne sostanzialmente immutato, a parte l’aggiunta di un altare rivestito di marmi e di altri arredi liturgici. Precisamente sotto l’altare principale di que sto luogo venerato oggi appare, inserita nel pavimento, una stella d’argento dorato con un’iscrizione, posta nel XVIII secolo, mentre superiormente si notano tuttora frammenti dell’antica decorazione musiva. La continuità di una tradizione antichissima costituisce quindi una prova per sostenere che proprio quella grotta, un tempo ubicata nell’area del caravanserraglio di Betlemme, costituisse il ricovero di fortuna in cui nacque il Salvatore. A circa un miglio da lì, nella località di Bet-Sahur, le fonti attestano che già nel IV secolo esistevano un edificio di culto ed un convento, con annesso un vasto impianto agricolo, sorti su altre grotte, indicate come quelle in cui i pastori sostavano di notte all’epoca di Erode e quel sito è conosciuto proprio come il «Campo dei Pastori».
I MAGI
Si sa che nel Vangelo di Matteo si parla di Magi venuti dall’Oriente, senza specificare il loro numero e ben poco di preciso e storicamente attendibile aggiungono gli scritti apocrifi di epoca successiva. I Magi erano certamente astrologi, verosimilmente appartenenti ad una casta sacerdotale, diffusa in quell’epoca in Persia, in Mesopotamia e nella Media, che seguiva gli insegnamenti di Zoroastro, fondatore della religione nota come mazdeismo. Numerosi autori cristiani, da Clemente Alessandrino a Cirillo di Alessandria, da Giovanni Crisostomo a Prudenzio, ritengono che essi fossero proprio persiani, mentre altri pensano che fossero arabi, caldei o babilonesi. Molti studiosi, comunque, sono del parere che non fossero propriamente re e che l’espressione di Tertulliano, che li definisce «quasi re», non sia da interpretare in senso letterale, ma ritenendoli personaggi dotati di grande autorità e prestigio. Anche il repertorio iconografico paleocristiano non li presenta mai come sovrani, almeno fino al pieno Medioevo, quando cominciano ad essere effigiati con la corona sul capo, mentre in precedenza apparivano semplicemente in abiti orientali, con il berretto frigio e una sorta di pa ntaloni. Tornando al numero ternario, è logico supporre che esso fin dall’antichità fosse desunto da quello dei doni che essi portavano (oro, incenso e mirra), anche se proprio l’iconografia dei primi secoli cristiani attesta che doveva esserci qualche incertezza in proposito, visto che in alcune raffigurazioni (qualche pittura delle catacombe, una scultura, alcuni vetri dorati e un reliquiario argenteo) essi appaiono in numero variabile di due, quattro, o addirittura - in un caso - sei. Si è obiettato che ciò potrebbe essere posto in relazione con un’esigenza di simmetria delle composizioni, ma, volendo considerare in parte valida questa teoria per la riduzione a due, riuscirebbe difficile spiegarlo per l’aumento a quattro o più personaggi. In ogni caso, è pur vero che si tratta di esempi abbastanza sporadici e che già la più antica testimonianza pittorica conservata, nella cosiddetta Cappella greca del cimitero di Priscilla a Roma, della metà circa del III secolo, mostra i Magi nel consueto numero di tre. Riguardo, poi, ai nomi tradizionali di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, essi si fissarono e si diffusero solo a partire dal XII secolo, anche se il più antico documento noto con tale menzione è un manoscritto parigino, che risale ad un’epoca compresa fra la fine del VII e il IX secolo. In ambito archeologico, solo una ventina di anni or sono su un’iscrizione di VII-VIII secolo dipinta su un muro di monastero del vasto complesso delle Kellia, in Egitto, si sono letti i nomi Gaspar, Belchior e Bathesalsa. Si tratta di una scoperta importante, perché è la prima attestazione nota nei monumenti dell’esistenza di tale tradizione.
Il segnale celeste? L’allineamento di Giove e Saturno. Eccezionale fenomeno astrale che fu studiato dai tre saggi
"Non fu una cometa a guidare i Re Magi" La nuova teoria di un astronomo tedesco
dal nostro corrispondente ANDREA TARQUINI *
BERLINO - La Stella di Betlemme è esistita davvero. Ma a modo suo: è stata un raro fenomeno astronomico, cioè l’incontro di Giove e Saturno. Oggi si sa che accadde una volta nell’anno 7 avanti Cristo. Quindi, storicamente, in un’epoca che coincide grosso modo con la nascita del Redentore narrata dalle Sacre scritture cristiane. Lo spiega l’astronomo Juergen Hamel nell’intervista che esce oggi sul settimanale Die Zeit. A pochi giorni da Natale, arriva così una spiegazione scientifica d’uno dei dettagli più suggestivi del Vangelo. Il Re del Cielo che scende dalle stelle, come nelle strofe dei canti natalizi, fu annunciato da un fenomeno astrale.
La stella di Betlemme, spiega Hamel dal punto di vista scientifico ci tramanda un evento speciale dell’astronomia: una costellazione insolita, l’inabituale incontro tra Giove e Saturno. La ragione rispetta la fede ma non per questo abdica, spiega lo scienziato. Sono state avanzate molte teorie: alcuni pensano che fosse una cometa, altri una "supernova", una stella che esplode illuminando la Galassia. "Per me è la congiunzione tra Giove e Saturno quella più vicina alla narrazione biblica". Una narrazione che può aver fatto anche riferimento alle conoscenze, allora già relativamente avanzate, dell’astronomia, e al culto dell’astrologia diffuso tra molte civiltà, dall’Europa centrale all’Egitto.
Mentre s’avvicina la più importante festa della cristianità, è forse facile cadere preda di suggestioni. Ma Herr professor, docente all’università di Coblenza-Landau, è preciso: in base alle nostre conoscenze l’arco di tempo in cui risulta che avvenne la congiunzione tra Giove e Saturno coincide grosso modo con l’epoca della nascita di Cristo. Sono gli anni dell’Impero romano, del censimento in Palestina, di Erode. "L’ipotesi corrisponde anche a significati simbolici. Giove, nell’astrologia, è il pianeta reale, Saturno viene posto in relazione con il popolo ebraico. La congiunzione tra i due pianeti avviene nel segno zodiacale dei Pesci, che evoca il Medio Oriente".
Questa costellazione insolita può essere letta dall’astrologia secondo un significato profetico e religioso: il re degli ebrei è venuto al mondo, proprio nell’inverno in cui il freddo contrasta la forza del Sole, e millenni or sono incoraggiava le civiltà a ideare riti per propiziare il ritorno dell’Astro del calore.
Troppo semplice e suggestivo? No, insiste l’astronomo: chiediamoci perché secondo le Sacre Scritture tre saggi vennero dall’Oriente per onorare il nuovo re dei giudei? "Erano certo astrologi della Mesopotamia. Avevano osservato la congiunzione tra Giove e Saturno e volevano trarne conseguenze". E così il viaggio scientifico-magico divenne forse spunto per la storia di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre.
Non è un’interpretazione sacrilega, insiste Hamel: nei testi antichi i re magi vengono chiamati "Maghi". La loro definizione come re risale alla teologia medioevale: era forse imbarazzante per i teologi di allora riconoscere che 3 astrologi potrebbero essere stati i primi a sapere della nascita del Redentore. Ma in origine i padri della Chiesa non erano contro l’astrologia; e l’astrologia cristiana ha solo riletto il significato dei segnali dal cielo: "le stelle regnano sugli uomini, ma Dio regna sulle stelle". Per chi crede, anche oggi, come duemila anni fa.
(la Repubblica, 20 dicembre 2006)
"Perchè cerchi nel corpo di Cristo l’ordine di natura, dal momento che lo stesso Signore Gesù è stato partorito da una Vergine fuori dell’ordine naturale ? "
Ambrogio, I misteri, 53
OTTO SECOLI DI UNA TRADIZIONE. Risuscitò il ricordo di Gesù tra chi l’aveva dimenticato. Così Tommaso da Celano descrisse la natività inscenata a Greccio da Francesco d’Assisi nel 1220. Una forza evocativa che ha dato vita a uno dei più sentiti riti natalizi del mondo cattolico
Presepio
di Chiara Frugoni (Avvenire, 10.12.2006)
Greccio è famosa soprattutto per la rappresentazione del Natale istituita da Francesco nel 1223. Per questo chiese aiuto a un amico, Giovanni, a cui spiegò che avrebbe voluto che il sacerdote celebrasse la messa all’aperto, nella notte stellata, per richiamare «il ricordo di quel Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo... come fu adagiato in una greppia, quando lo misero sul fieno tra il bue e l’asino». Chiese all’amico di fargli trovare la greppia e il fieno; chiese il bue e l’asino, ricordati soltanto dai Vangeli apocrifi (cioè quelli che la Chiesa non ritenne ispirati da Dio). Sorprendentemente però «dimenticò» i protagonisti principali: la Madonna e il Bambino. Non chiese alcun bambino, reale o in immagine, mentre già ai suoi tempi si usava, a Natale, mettere sull’altare una tavola dipinta che rappresentasse la Natività; spesso sacerdoti o ragazzi, debitamente addobbati, si trasformavano in attori, permettendo al pubblico di seguire gli eventi di quella notte straordinaria.
Fu soltanto l’eccellente capacità oratoria di Francesco, che suscitò in un astante una visione, a colmare il vuoto della mangiatoia. A quell’uomo pio «sembrò che il Bambinello giacesse privo di vita nella mangiatoia, e che Francesco gli si avvicinasse e lo destasse da quella specie di sonno profondo». Tommaso da Celano commenta: «per i meriti del santo, il fanciullo Gesù veniva risuscitato nei cuori di molti che l’avevano dimenticato, e il ricordo di lui rimaneva impresso profondamente nella loro memoria».
Con quell’insolita rappresentazione e con la sua predica Francesco lanciò un messaggio preciso (nel 1220 il santo per molti mesi si era trattenuto in Terra Santa, dove si combatteva la quinta crociata): era inutile passare il mare in armi e uccidere in nome della fede. L’importante, per un vero cristiano, era avere Betlemme nel cuore, come appunto in maniera illuminante aveva scritto Tommaso da Celano: per effetto della predica di Francesco «Greccio è di venuta come una nuova Betlemme».
Visti in questa prospettiva acquistano allora un preciso significato quelli che, in un primo momento, potevano sembrare elementi di contorno: il bue, l’asino e il fieno. Infatti in tanti commenti dei Padri della Chiesa (ad esempio Agostino e Gregorio Magno) il bue rappresenta gli ebrei, l’asino i pagani e il fieno l’ostia consacrata. Lo riassume mirabilmente Valafrido Strabone: «Cristo fu adagiato nella mangiatoia perché il corpo di Cristo è posto sull’altare». Il bue e l’asino significano gli ebrei e i pagani che verranno a comunicarsi all’altare.
Il Dio che prospetta Francesco non è il Dio soltanto dei cristiani, ma un Dio creatore di tutto, nei cui piani sono compresi perciò anche gli «infedeli», un Dio che non giudica e non condanna, ma accoglie e redime. A Greccio il Bambino nasce di nuovo attraverso la parola trascinante del santo e l’emozione dei presenti; Betlemme è a Greccio e ovunque nella sorprendente soluzione escogitata da Francesco in risposta al bisogno di liberare con un pellegrinaggio armato i luoghi dell’esperienza terrena di Cristo, propagandato allora dalla Chiesa. La pace fu il punto centrale del progetto di Francesco, instancabilmente ricercata per tutta la vita, pace che coincide con l’essenza stessa del Natale: «Pace in terra agli uomini di buona volontà», annunciano gli angeli nella notte santa (Lc 2,14).
I CATTOLICI NON SONO CRISTIANI
È una domanda: quanti cattolici italiani conoscono il cristianesimo?
di Mario Pancera *
I cattolici italiani sono cristiani? La domanda si può porre in maniera più morbida anche così: quanti italiani che si dicono cattolici sanno che cos’è il cristianesimo? Molti cattolici si ritengono cattolici perché sanno di essere stati battezzati e poi non sanno nient’altro, non conoscono nemmeno il più esile filo di storia della loro religione: rientrano nel numero, sono elementi di statistica.
Da qui scende un’altra domanda: chi non conosce una religione come può professarla? E con più precisione: si può avere fede nel dio del cristianesimo, se non si conosce il cristianesimo? Non sono un teologo, né un filosofo, né uno studioso di storia delle religioni, ma leggo e ascolto e, da quel che capisco attraverso l’una e l’altra attività, sono abbastanza sicuro di questo: gran parte degli uomini pubblici italiani che si definiscono cattolici (politici, scrittori, giornalisti o intellettuali nel senso più ampio del termine) non conoscono il cristianesimo, seguono alcuni riti, ma non hanno la fede.
Va da sé che non hanno una fede altri milioni di italiani che sono nelle loro stesse condizioni di ignoranza religiosa, pur non essendo personalità di rilievo, intellettuali, politici e via dicendo. In definitiva, ci sono in Italia milioni di cattolici - uomini e donne - che in realtà non sono cattolici, non sono niente.
Riconosco che mentre si dibatte sui Pacs, si discute sul discorso di Ratisbona e sulla necessità commerciale di eliminare il presepio per Natale, mentre si discute sulla esigenza di dotare di manganelli gli ex vigili urbani oggi poliziotti locali per combattere (sic) la violenza nelle strade e allontanare i «venditori abusivi» extracomunitari dai negozi autorizzati (gli «abusivi» vendono a un euro quello che gli autorizzati vendono a cento), mentre si litiga sullo «scalone» e sul bollo dell’auto, riconosco - dicevo - che in questi frangenti parlare di religione significa imboccare una strada inconsueta. Sembra d’essere fuori tempo. Tutti a Kakania parlano d’altro. Sarebbe meglio far finta di niente, e seguire l’onda del neoqualunquismo.
Ma mi sembra che sia troppo poco parlare di Pacs, unioni omosex, eutanasia, pedofilia, preti sposati o no, pace, dialogo, sapendo che l’opinione pubblica non conosce se non, forse, solo per sentito dire, le basi da cui nascono questi problemi. Sono problemi individuali e sociali così importanti che fa impressione vederli ridotti a scenette televisive, a invettive, a perorazioni che hanno per protagonisti veri ignoranti.
Da come parlano, scrivono e si muovono, lettori e ascoltatori comprendono subito che le maschere alla ribalta non sanno niente di Gesù. Sono attori prezzolati di fronte a noi, recitano una parte a pagamento. Di sicuro, qualcuno di loro ha studiato qualche frase, qualche episodio, qualche parabola (ma già qui, sulle parabole, il terreno si fa pericoloso), e li racconta con abili frasi e sorrisi accattivanti come se si trattasse di aneddoti.
Questi personaggi pubblici che si definiscono cattolici sono il peggiore esempio della religione, rappresentano la negazione della fede. Sono l’esempio meno opportuno in questo difficile momento. Il loro modello è nefasto perché si diffonde nei giorni e negli anni disgregando lentamente la comunità. Bisogna parlarne per non essere complici. Quanti sono dunque i «cattolici» italiani che conoscono Gesù? E se gli italiani non conoscono la religione cristiana come possono riconoscere e vivere la morale che ne segue? Si avvicina il Natale, il ricordo della nascita di Gesù, il figlio di Dio: ma chi ha fede in questo Figlio di Dio se non sa nemmeno chi è?
Mario Pancera
* Il Dialogo, Lunedì, 11 dicembre 2006
pianeta islam
Ma il presepio è davvero un’offesa ai musulmani?
di Samir Khalil Samir (Avvenire, 12.12.2006)
Da qualche anno in Italia si sta diffondendo la prassi di non fare i presepi nelle scuole e nei luoghi pubblici, di non insegnare canti natalizi ai bambini, di non cantarli e di ridurre al massimo i simboli religiosi «per non offendere la sensibilità dei musulmani». Lo stesso fenomeno si ritrova un po’ ovunque in Europa... sempre con la stessa motivazione. All’aeroporto di Roissy (Parigi), da qualche anno, il «Joyeux Noël» è stato cambiato con il laico e prosaico «Buone feste di fine anno». Nel Regno Unito il 74% delle aziende private e numerose istituzioni pubbliche hanno deciso di cancellare i simboli tradizionali del Natale.
Per noi che viviamo nel mondo arabo la reazione è per lo meno sorprendente. I musulmani hanno sempre avuto grande rispetto per il Natale, e spesso anche una certa devozione per questa festa. Il più bel poema arabo che conosco sul significato della nascita di Cristo è stato scritto dal «principe dei poeti» (amîr al-shu’arâ’) Ahmad Shawqi (1868-1932).
«Con la nascita di Issa (Gesù) sono nate la tenerezza,/ le nobili virtù umane, la luce dei cuori e il pudore./ Alla nascita del Bambino, il mondo si è illuminato come all’alba,/ e il suo splendore ha conquistato il mondo e tutto l’universo. (...) Il suo brillio riempie la terra e i mondi di luce,/ e la terra, illuminata, è simile ad un mare raggiante./ Nessuna minaccia né prepotenza né vendetta,/ né spada né conquiste né effusione di sangue!/ Come un angelo ha vissuto in mezzo agli uomini,/ poi, stanco, ha scelto il cielo per dimora». Il Corano recita (Sura III 45-46): «E quando gli angeli dissero a Maria: O Maria, Dio t’annunzia la buona novella d’una Parola che viene da Lui, e il cui nome sarà il Messia, Gesù figlio di Maria, eminente in questo mondo e nell’altro e uno dei più vicini a Dio. Ed egli parlerà agli uomini dalla culla come un adulto, e sarà dei Buoni». E un hadith («detto») autentico del profeta dell’islam recita: «Ogni neonato è toccato da Satana appena nato, eccetto Maria e suo figlio»; hadith sempre citato a commento di Corano III 36.
In molti Paesi islamici i musulmani partecipano con i cristiani alle festività natalizie. In Libano, negli ultimi anni, le famiglie sciite comprano sempre più alberi natalizi e ci appendono le decorazioni tradizionali del Natale; e quando si chiede loro «come mai?», rispondono: «È una bella festa che piace ai bambini!». Nelle scuole cattoliche il presepio è sempre visitato dai musulmani, non solo per motivi estetici ma per raccogliersi e contemplare il mistero.
Per il Natale 2004 all’Università San Giuseppe, gli studenti dell’Istituto delle Assicurazioni (41% musulmani) hanno offerto centinaia di pranzi per i «Ristoranti del cuore», e 262 volontari dell’Associazione islamo-cristiana «Offri gioia» hanno distribuito 1800 pullover ai prigionieri del Libano. E sulla piazza dei Martiri, al centro della città di Beirut, il governo pianta per un mese un immenso albero con tante decorazioni. Potrei citare centinaia di esempi da vari Paesi musulmani.
Ugualmente, per le feste islamiche, le città sono piene di simboli musulmani. Tra i più bei ricordi che ho, potrei citare le serate di Ramadan al Cairo, con gli amici musulmani, passando parte della notte a Sayyidna al-Hussein (tipico quartiere musulmano) a festeggiare insieme... e ciò da sacerdote gesuita! E quale istituzione cristiana non offre un iftar (cena di rottura del digiuno) ai musulmani durante il Ramadan?
Condividere insieme le feste, ecco che cosa salda la comunità umana. Più affermiamo insieme la nostra identità cristiana o musulmana, più viviamo la solidarietà nel rispetto delle differenze.
Mi domando: è davvero «per non offendere la sensibilità religiosa dei musulmani» che si cancellano i simboli religiosi cristiani? O non piuttosto perché si è persa l’identità cristiana e, in parte, anche l’identità europea? E mi domando ancora: non si tratta forse anche di un pretesto per secolarizzare ancora di più la società europea, come se non lo fosse già troppo? E questa secolarizzazione piace davvero ai musulmani? Non è proprio questo che li urta quando guardano all’Occidente, o quando ci vivono in emigrazione? E Dio ne sa di più...
CELEBRARE LA NASCITA DEL MESSIA, SIGNIFICA OPPORSI EFFICACEMENTE A ATUTTI GLI ERRORI DEL MONDO; PERCIO RINUNCIARE A TALE CELEBRAZIONE, SIGNIFICA FAR POSTO AGLI ERRORI NASCONDENDO INVECE, IL VERO
Non c’è dubbio che c’è una volontà perversa e secolarizzante. Alcuni hanno fretta dell’epilogo. Come i nazisti e i comunisti e tante ideologie che in effetti, voglion finire:
ufficialmente cercano realizzare i loro obbiettivi, il loro paradiso; ma in pratica vogliono realizzare il termine, vale a dire la loro stessa fine : perché prendere le distanze da Dio, lascia l’uomo in balia di se stesso, solo contro il male e l’inferno che non muore ; onde è noto come questa solitudine del pensiero e della vita, finisca per darsi in mano alle forse opposte del nemico dell’uomo, il Diavolo.
E come si spiega che non si ha paura di un simile epilogo ? Forse alcuni sono solo in errore. Ma parte della nostra civiltà da tempo si studia di affezionarsi al bestiale e al brutto: inventa i film horror, intensifica ad arte la violenza per renderla più appetibile, la condisce perciò di libidine e politicanza con tanto d’agenti segreti e il potere sempre corrotto; bersaglia cronicamente la famiglia, propagandando il divorzio e l’aborto e i matrimoni gay...; non c’è limite alla propaganda attuale del disvalore al cinema come in televisione, nei manuali scolastici come nei giornali; tutto ciò o quasi che è buono e sano, viene ad arte soverchiato da un mare di fracasso e spesso menzogne; la carriera la fanno in arte come nei mezzi della Comunicazione, specialmente quelli che hanno il gusto sadico dell’autodistruzione... e il popolino in aggiunta, deve pagare anche il canone Rai e deve starsene zitto; che i politici han da litigare sui vertici Rai, sulla nomina di quello o quell’altro Direttore; ma il problema di fare autentico servizio pubblico raccontando il vero dei fatti, e non quello che solletica le orecchie, viene evaso ad arte, non interessa a nessuno, né alla maggioranza, tantomeno all’opposizione; a tutti al contrario preme la poltrona in questione... .
Se questo è il contesto si capisce come possa essere che non prema la tutela della propria identità e delle proprie radici. Ormai si procede a vele spiegate verso l’epilogo.
Dio sarebbe l’unica ancora di salvezza, l’unica forza capace di neutralizzare il connubio col male, l’epilogo brutto e finale. Ma Dio è respinto da molti, troppi; perciò non è del tutto garantito il suo intervento risanificatore.
Tuttavia da credenti non abbiamo scelta : dobbiamo conservare Fede e chiarezza di idee e opporci in favore della ragione e della trasparenza (stando dalla parte di Dio e la sua Legge).
Un modo efficace per opporsi nel contesto del Natale, è proprio celebrare al meglio la nascita del Messia .
Migliori,
Orlando Metozzi
PER L’ITALIA, "DUE SOLI"(DANTE). Al di là del cattolicesimo-romano: per una sana laicita’ .... e un sano cristianesimo!!! (fls).
Maggioranza menzognera, «ipocrita» l’ordine del giorno che chiede al governo di predisporre entro gennaio un disegno di legge sulle coppie di fatto. È duro come non mai l’attacco del Vaticano all’Unione dopo l’annuncio che il governo è pronto a scrivere una legge sulle unioni civili. «Natale del 2006: sradicare la famiglia è la priorità della politica italiana», sentenzia l’Osservatore romano.
Il quotidiano della Sante Sede definisce quella sulle coppie di fatto «una battaglia senza senso». Condanna senza appello: «Con l’annuncio dell’impegno del Governo a produrre un disegno di legge sulle unioni civili si è ribadito nuovamente il carattere ipocrita di queste iniziative che mirano esclusivamente ad accreditare una forma alternativa di famiglia. Si continua a dire che a gennaio si parlerà di diritti individuali e che la famiglia rimarrà una sola, quella tradizionale, che nessuno vuole mettere in pericolo. Si tratta di menzogne». Menzogne perché «non ha senso parlare di diritti individuali di persone alle quali è riconosciuto uno stato di "coppia" e ancora di più di diritti che hanno uno spiccato carattere pubblico, come quelli relativi ai temi previdenziali ed assistenziali». Muoiano soli e senza diritto tutti i conviventi, etero e omosessuali. Tutto pur di evitare «una legislazione parallela a quella del diritto di famiglia, il quale diventerebbe, come lo stesso matrimonio, un istituto relativo».
Altrettanto dura, e diretta ancora contro la sinistra, la condanna della protesta contro il passaggio del Papa davanti alla sede del Manifesto (volantini, distribuiti venerdì, con l’ormai celebre titolo sul «pastore tedesco»). Il gesto viene definito dall’Osservatore romano «spregevole» e dimostrerebbe «quale è la matrice ideologica che è dietro a certi progetti. Questo è il concetto di rispetto, di libertà, di progresso civile che questa gente ha di fronte a manifestazioni esclusivamente religiose».
Intanto, a dimostrazione della sua concezione del pluralismo religioso, papa Benedetto XVI rilancia la crociata sui simboli religiosi nei luoghi pubblici (statali): «Nei tempi moderni il concetto di laicità ha assunto quello di esclusione della religione e dei suoi simboli dalla vita pubblica mediante il loro confinamento nell’ambito del privato e della coscienza individuale», osserva il papa, contrario all’esclusione dei simboli religiosi «dai luoghi pubblici destinati allo svolgimento delle funzioni proprie della comunità politica». Torni dunque il crocifisso in «uffici, scuole, tribunali, ospedali, carceri». Un richiamo che il presidente del consiglio Romano Prodi trova profondamente giusto: «Il simbolo religioso è un fatto di riflessioni, di memoria collettiva, poi è assolutamente rispettoso della libertà di tutti».
* l’Unità, Pubblicato il: 09.12.06, Modificato il: 09.12.06 alle ore 18.46
Strane iniziative dell’Istituto italiano di cultura
A New York lo Stivale tradito
Promosso un incontro sull’«invenzione di Dio» nel quale i «negazionisti» fanno la parte del leone
di Fabio Carminati *
Forse è banale, ma rende l’idea: undici giocatori in una metà del campo e, nell’altra, una schiera di centinaia di avversari che avanza come un rullo compressore. «Ti piace vincere facile?», recita poi il tormentone pubblicitario. Ecco, questa è l’impressione che si può trarre scorrendo il programma di questi giorni degli incontri su «Il pensiero e l’invenzione», organizzati all’Istituto italiano di cultura di New York. «Fabbricare l’intelligenza» e «Esercizi di filosofia quotidiana» sono i titoli delle prime due conferenze che si sono aperte a dicembre. Due temi stimolanti ma per certi versi "neutri".
È infatti il terzo titolo, quello di mercoledì 6, ad attrarre più degli altri l’attenzione. E a suggerire una riflessione. «L’invenzione di Dio» (quantomeno la maiuscola è rimasta) recita la locandina con testo a fronte in inglese che presenta l’iniziativa dell’Istituto diretto da Claudio Angelini.
A discutere dello stimolante tema al 686 di Park Avenue sono stati chiamati Maurizio Ferraris, Antonio Monda e Piergiorgio Odifreddi, mentre il moderatore è Sebastiano Maffettone. Ferraris è l’autore del recente «Babbo Natale, Gesù Adulto. In cosa crede chi crede?». Il secondo, Antonio Monda, che non ha mai nascosto il proprio essere cattolico, è invece nelle librerie con lo stimolante interrogativo «Tu credi?»; mentre il terzo, Piergiorgio Odifreddi, presenterà brani scelti e tradotti della sua ultima fatica «Perché non possiamo essere cristiani, e meno che mai cattolici».
Un match, insomma, tra arte filosofia e scienza matematica che a dir poco non rispetta la regola fondamentale di qualsiasi incontro. Che sia sport o dialettica: la parità in partenza. Monda è sicuramente molto più noto nel mondo anglosassone dei suoi due "avversari": docente di regia alla New York University ha avuto modo di farsi apprezzare per il suo lavoro al di là dell’Oceano. Gli altri, in compenso, hanno fatto del relativismo spinto l’inchiostro in cui intingere la penna e finire spesso con il dissacrare.
Una domanda però è legittima e va girata forse a chi ha compilato gli inviti: che dibattito è se i "negazionisti" (nel senso etimologico del termine e senza le colorazioni che nel secolo scorso il termine ha assunto) sono programmaticamente in maggioranza? Un dubbio, per carità, di forma. Ma anche di sostanza. Perché se è questa l’immagine che si voleva esportare del dibattito culturale nostrano, in particolare in una realtà cosmopolita come quella di New York, il risultato è stato raggiunto. Spiace constatarlo, ma è niente più che la cartina al tornasole di un atteggiamento "fru fru", non certo la forza del pensiero di un Paese reale.
* Avvenire, 04.12.2006
Il dio nascosto e il papa televisibile
Oscillando fra sociologia e filosofia «Babbo Natale, Gesù adulto» di Maurizio Ferraris si chiede «in cosa crede chi crede» oggi. Ma se il cristianesimo è «incredibile» oggi come ieri, perché lo sono le persone della Trinità, è lecito supporre che «credere» nel senso di avere opinioni e «credere» come atto di fede siano la stessa cosa?
di Roberta De Monticelli (il manifesto, 03.12.2006)
Che strano libro, quest’ultimo di Maurizio Ferraris, Babbo Natale, Gesù adulto. In cosa crede chi crede (Bompiani, pp. 151, euro 11). Non si capisce bene se sia serio o faceto, appassionato o scanzonato, teoretico o spensierato. È probabilmente tutto questo, e fa anche ridere - se si riesce a superare il disagio di ridere alle spalle di coloro che della vita hanno fatto dono senza condizioni, a imitazione dell’uomo il cui nome compare in questo titolo un po’ trash e un po’ natalizio. Ma forse anche loro ne riderebbero come ai film di Woody Allen, e cadrebbero dalle nuvole se gli dicessero che è di loro che si parla. Di passione ce n’è, in questo libro, una passione etica, addirittura. C’è lo sconcerto, condivisibile da molti, espresso in questi anni di fronte a quel «ritorno della religione» che è invece, propriamente, la strumentalizzazione politica della religione, la straordinaria pretesa che le leggi dello Stato debbano sancire «verità» accessibili soltanto alla ragione «illuminata dalla fede» (cito il pontefice). La tentazione, insomma, della «religione civile» - o meglio del ritorno alla potestas indirecta dell’istituzione religiosa sulle decisioni politiche. Una tentazione che sembra aver affascinato alcuni uomini di Chiesa, ma anche parecchi uomini di mondo, i cosiddetti «atei devoti». E questo è un primo dubbio: con chi se la prende Ferraris, esattamente? Perché perfino ai suoi più alti livelli la Chiesa è ben lungi dall’unanimità su questo punto.
Qual è la tesi di questo libro? Non è facilissimo identificarla, a causa della continua oscillazione fra una questione sociologica (di fatto, in cosa credono quelli che si dichiarano cattolici oggi in Italia?) e una questione filosofica (di principio, in cosa è possibile credere?). C’è poi anche una questione storica: in cosa si può credere oggi, dato il nostro sapere scientifico e tecnologico, e date le strategie della ragione post-moderna, con il suo scetticismo e il suo relativismo? Allora, andiamo per ordine. Il sapere scientifico e tecnologico non cambia poi molto il quadro. Un Dio che si incarna e muore in croce è altrettanto poco credibile alla ragione antica che a quella moderna: e Ferraris non ha difficoltà ad ammetterlo. E quanto alla ragione post-moderna, condividiamo l’ironia dell’autore nei confronti di quei filosofi che oppongono l’esattezza al cuore e la verità (cosa precisa, dunque violenta, come la scienza) alla carità e alla solidarietà. Veniamo alla tesi sociologica: in cosa crede chi crede oggi? Non nel Dio nascosto, di cui quasi nessuno sa più niente, ma nel Papa televisibile. Joseph de Maistre, secondo il quale il cattolico è tale non perché crede in Dio, ma perché ubbidisce al papa, s’è preso la sua rivincita. Qui però la sociologia finisce, e comincia la filosofia. Non poteva andare diversamente - se capiamo bene - perché non esiste un ambito dello spirito, di cui la fede possa vivere, diverso da quello del potere temporale. L’impostura è nell’incredibile che si dà per credibile, e questa è nel gene del cristianesimo.
Perché è questa, finalmente, la tesi filosofica. Il cristianesimo è incredibile, perché lo sono le tre persone della Trinità. Il Padre, perché se Dio non è una cosa è logicamente impossibile credervi. Il Figlio, perché la resurrezione è empiricamente implausibile. Lo Spirito Santo, perché nessuno ha mai capito cosa sia. Questa tesi presuppone evidentemente che «credere» nel senso di avere opinioni e magari opinioni giustificate, e «credere» nel senso dell’atto di fede, siano la stessa cosa. Ma è lecito presupporre senz’altro questa identità? Dato che Ferraris predilige i «vecchi credenti» ai nuovi, vediamocela con san Tommaso (d’Aquino). A differenza che in un sapere, in cui io credo in base all’evidenza dei motivi, l’intelletto del «credente» «è determinato non dalla ragione, ma dalla volontà». Vale a dire che l’assenso non è assolutamente «dovuto» (come lo è invece di fronte al dato, al vedere), ma è un atto libero, per eccellenza gratuito (in effetti, un dono della grazia, come si dice). Leviamoci subito di mezzo l’obiezione dell’altro Tommaso, quello che non ci crede se non ci mette il naso: come dice il suo grande omonimo, l’Aquinate, egli «altro vide, altro credette. Vide un uomo e confessò Dio». Questo per dire che nessuna prova empirica o fattuale potrebbe mai sostenere l’assenso a un «contenuto» spirituale, non più ieri che oggi («Beati quelli che pur non avendo visto crederanno»).
E che cosa è un contenuto spirituale? Ecco, siccome questo della resurrezione sembra stare molto a cuore a Ferraris, come mai non gli è venuto in mente di verificare se un solo autore cristiano, Paolo compreso, abbia inteso la resurrezione di Gesù come il ritorno a un’esistenza biologica e spazio-temporale? «Infatti così fraintesa la resurrezione non potrebbe affatto essere la salvezza dell’esistenza umana che sta sotto l’incomprensibile (e soltanto sperata) disposizione di Dio» (Karl Rahner). La resurrezione di Gesù è tanto poco (da intendersi come) un fatto biologico nel tempo, quanto poco nel tempo è la creazione secondo Agostino, dal momento che il tempo è il modo d’essere di questo mondo. Ma se dico a Ferraris che, di conseguenza, credere nella resurrezione non rende affatto superflue le cure mediche o l’igiene, faccio la figura del professore che non capisce le battute di spirito, e così confermo la sua tesi che lo Spirito nessuno ha mai capito cosa sia.
Veniamo allora alla tesi logica. Non c’è entità senza identità, ma Dio non ha una condizione di identità afferrabile. E quindi credere in Dio non si può, perché una credenza senza oggetto non è una credenza. Ora, è ben vero che, sempre secondo Tommaso, Dio non è in alcuna delle categorie, vale a dire che la sua natura non è afferrabile in concetti umani. Ma siamo sicuri che l’obiezione logica regga? «Ciò che trascende le categorie disponibili» è una descrizione e dunque una condizione di identità (o di esistenza), e assumere che sia una descrizione vuota è un’altra petizione di principio. Questo concetto di trascendenza assoluta che il neoplatonismo greco lasciò in eredità alle teologie cosiddette del Libro è in effetti la loro molla anti-idolatrica, quella che dovrebbe sottrarre il divino alla presa delle mani umane, cioè di ogni forma di superstizione. A proposito: secondo il Vangelo di Giovanni è proprio il Risorto a dire «noli me tangere» alla povera Maddalena.
Ma infine: se l’atto di fede è libero e non dovuto, che cosa lo distingue dal puro arbitrio? Che cosa lo distingue da «una specie di formicolio», una vaga emozione? Io non credo si possa parlarne con competenza se non sulla base dell’esperienza in questione, che non è tuttavia un’esperienza di fatto, ma di valore. Tanto è vero che una distinzione molto più radicale che quella fra «credenti» e non «credenti» passa fra indifferenza e non indifferenza a questo valore. Sentirlo non è né una vaga emozione né pensare l’impensabile, ma vedere il mondo nella luce di questo valore: si può consentirvi, cioè riconoscerlo come fondamento della propria vita nel mondo (quindi anche del proprio pensiero), oppure non consentirvi, magari per onestissima diffidenza verso se stessi e il proprio sentire. Ferraris fa una domanda che attende risposte, e in questa misura è filosofo, e non dilettante. Ma forse ci insegna anche che lasciare all’indifferenza l’ultima parola sul divino è come parlare della bellezza senza aver mai avuto un’esperienza estetica.
ANTEPRIMA FILM NATIVITY IN VATICANO
La pellicola sara’ nelle sale di tutto il mondo dall’1/12
(ANSA) - CITTA’ DEL VATICANO, 26 NOV - Anteprima mondiale oggi nell’aula Paolo VI in Vaticano del film ’Nativity’ della regista americana Catherine Hardwicke. Il film condensa il racconto evangelico della nascita di Gesu’ e del viaggio che Maria e Giuseppe intrapresero verso Betlemme e, successivamente, alla volta dell’Egitto, per sfuggire a Erode. L’uscita del film nelle sale di tutto il mondo e’ prevista per il primo dicembre.
» 2006-11-26 19:17
Religione senza guerra
di Siegmund Ginzberg *
Poche parole semplici per una situazione complicata. «Cristiani e musulmani appartengono alla famiglia umana di quanti credono nell’unico Dio». Cristiani e musulmani uniti dal concorde riferimento al patriarca Abramo, sia pure secondo «le rispettive tradizioni». Avrebbe potuto tranquillamente dire cristiani, musulmani, ebrei. Ed in effetti l’ha pure detto, e abbastanza chiaramente. Stesso Dio, anche se chiamato con nomi diversi, che poi sono lo stesso nome, anche se non lo si nomina. Stesso ceppo. Soprattutto stessa famiglia, il genere umano.
Benedetto XVI in Turchia ha fatto ricorso alle parole più semplici, ad una sua personale versione del "rasoio di Occam", per sciogliere un nodo che si era andato aggrovigliando a dismisura. Stavolta, di parole, non ne ha sbagliata una.
Il Papa che qualcuno, dalle nostre parti, dopo il discorso di Ratisbona, aveva esaltato come uno che finalmente ha il coraggio di dirgliene quattro agli islamici, spiegargli perché la fede dell’Occidente è più umana e razionale della loro, si è trasformato a sorpresa nel più ecumenico dei papi, nel più rispettoso delle sensibilità altrui. Per chi in cuor suo auspicava un Papa che seguisse grosso modo la linea, se non il linguaggio di Oriana Fallaci, forse è una tremenda delusione. Per gli altri, se non una sorpresa, quello che ci saremmo aspettati in frangenti difficili come questi da un grande leader.
Ha parlato di «stima», «rispetto reciproco» tra cristiani e islamici, di «dialogo» da «portare avanti come un sincero scambio di amici». Insomma in termini di parità, non di superiorità di una religione, quella di cui è a capo, rispetto alle altre. Si è guardato bene dall’ingenerare qualsiasi equivoco di rimprovero. Quando ha detto che «bisogna usare la religione in modo diverso», nel senso che dovrebbero essere strumento di pace e di dialogo, non di guerra e conflitto, era chiaro che intendeva dire tutte le religioni, anche la sua, non solo quelle del dirimpettaio.
«I cristiani e i musulmani - ha insistito - seguendo le loro rispettive religioni, richiamano l’attenzione sulla verità del carattere sacro e della dignità della persona». Ha sciolto, con una semplicità e chiarezza che più di così non si può, i dubbi che erano insorti circa la sua volontà di continuare o meno nel solco del Concilio Vaticano II e del dialogo tra tutte le fedi, a cominciare da quelle monoteiste. «La Chiesa cattolica vuole andare avanti sulla scia del Concilio Vaticano II per una nuova pagina nella storia della nostra fede», ha detto al suo interlocutore, il gran muftì Ali Bardakoglu. Non trascurando di fargli notare che il principio del dialogo vale sia per i «fratelli musulmani» che per quelli che i suoi predecessori avevano definito i «fratelli maggiori ebrei»: «Lei sa che la "Nostra Aetate" è molto importante sia per la religione ebraica che musulmana», gli ha voluto esplicitamente ricordare. Commentando la scorsa estate le polemiche seguite alla sua lezione di teologia a Ratisbona, ci eravamo permessi di osservare che, se voleva davvero tagliare la testa ai dubbi e alle controversie, il modo più chiaro e semplice sarebbe stato ribadire che intendeva restare nel solco del Concilio voluto da Giovanni XXIII. L’ha fatto, estendendo ulteriormente la continuità: «Il Concilio Vaticano II ha messo il dialogo come strumento di incontro fra culture e religioni. Paolo VI ha dedicato un’intera enciclica al dialogo», ha ricordato, per concludere che pur «certamente nella piena aderenza alla propria fede» da parte di ciascuno, «ci apriamo all’altro per servire insieme Dio e servire l’umanità».
La novità clamorosa è che, nel momento più difficile, nel pieno di un viaggio non gradito a molti dei suoi ospiti, con sulle spalle la croce di un putiferio che pareva inarrestabile, questo Papa si è rivelato in grado di parlare a tutti, dialogare anche in chi non voleva dialogare o non credeva fosse possibile dialogare con lui. Il modo in cui ha posto la questione dell’unità delle religioni monoteiste rovescia totalmente la questione di chi tra i profeti delle tre religioni sia migliore o peggiore dell’altro. Il modo in cui ha posto il tema, molto delicato, della libertà di religione, potrebbe soddisfare sia gli estremisti laici che si ispirano ad Atatürk, sia il populismo dei politici islamici ora al governo in Turchia: «la libertà di religione costituisce per tutti i credenti la condizione necessaria per il loro leale contributo all’edificazione della società, in atteggiamento di autentico servizio, specialmente nei confronti dei più vulnerabili e poveri». Il modo in cui dice che rispetto e stima sono «la base per la collaborazione al servizio della pace tra nazioni e popoli, il desiderio più caro di tutti i credenti e di tutte le persona di buona volontà» fa piazza pulita, con estrema semplicità degli equivoci e dei sospetti cui aveva dato stura il discorso da teologo di Ratisbona. Papa Ratzinger che smentisce il cardinale Ratzinger sulla desiderabilità dell’ammissione della Turchia in Europa è più di quanto potevano volere o sperare di udire i suoi interlocutori politici ad Ankara. «Servire l’umanità», la fratellanza in un’unica «famiglia umana», «dignità della persona» potrebbero accontentare persino un miscredente e al tempo stesso umanista fanatico come Karl Marx. Gli avevano chiesto si scusarsi. Ha fatto molto meglio: ha spiazzato anche chi gli voleva male.
Forse, tra chi auspicava un capo della cristianità più capace di "tenere la rotta", mobilitare la propria parte alla guerra di civiltà in corso, c’è chi può avere ragioni per dolersi di tanto ecumenismo. Non può invece che rallegrarsene chi è convinto che queste "guerre" si vincono solo se si è in grado di parlare con tutti, anche quelli che non hanno alcuna voglia di ascoltare. Il metodo potrebbe portarlo anche dove non sono riusciti andare, e a farsi ascoltare, i suoi predecessori: magari fino in Cina e nella Russia ortodossa, più tosti della Turchia.
* www.unita.it, Pubblicato il: 29.11.06 Modificato il: 29.11.06 alle ore 6.33
DALLA TURCHIA L’ACCORATO APPELLO DI BENEDETTO XVI DURANTE LA SANTA MESSA CELEBRATA AD EFESO, "CITTÀ BENEDETTA DALLA PRESENZA DI MARIA SANTISSIMA" *
Pace tra i popoli. Pace per la Terra Santa. Pace per l’intera umanità!
"Da qui, da Efeso, città benedetta dalla presenza di Maria Santissima - che sappiamo essere amata e venerata anche dai musulmani - eleviamo al Signore una speciale preghiera per la pace tra i popoli". È l’accorata invocazione elevata da Benedetto XVI durante la solenne Concelebrazione Eucaristica presieduta, nella mattina di mercoledì 29 novembre, presso il Santuario di "Meryem Ana Evì" ad Efeso. "Da questo lembo della Penisola anatolica, ponte naturale tra continenti - ha detto il Papa - invochiamo pace e riconciliazione anzitutto per coloro che abitano nella Terra che chiamiamo "santa", e che tale è ritenuta sia dai cristiani, che dagli ebrei e dai musulmani: è la terra di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, destinata ad ospitare un popolo che diventasse benedizione per tutte le genti". "Pace per l’intera umanità! - ha proseguito - Di questa pace universale abbiamo tutti bisogno; di questa pace la Chiesa è chiamata ad essere non solo annunciatrice profetica ma, più ancora, "segno e strumento"". "Proprio in questa prospettiva di universale pacificazione - ha sottolineato - più profondo ed intenso si fa l’anelito verso la piena comunione e concordia fra tutti i cristiani. All’odierna Celebrazione sono presenti fedeli cattolici di diversi Riti, e questo è motivo di gioia e di lode a Dio. Tali Riti, infatti, sono espressione di quella mirabile varietà di cui è adornata la Sposa di Cristo, purché sappiano convergere nell’unità e nella comune testimonianza".
(©L’Osservatore Romano - 30 Novembre 2006)
Bolzano, polemica su un video dell’artista Demetz: "Troppo new age". E Milano si fa avanti: "Lo proiettiamo noi"
"Via dal Duomo quel Gesù bambino biondo e tutto nudo, attira i pedofili"
Dalla Chiesa critiche anche alle atmosfere evocate dalle immagini: "Più che al Natale fanno pensare al Signore degli anelli"
BOLZANO - Opera d’arte o video al limite della pedofilia? La polemica sta infiammando in questi giorni Bolzano: c’è un video - che sarà proiettato in duomo durante il mercatino di Natale - in cui si vede un Gesù bambino biondissimo, con gli occhi azzurri, completamente nudo, che gioca davanti alla telecamera e che alla fine allarga le braccia e lascia cadere la testa sul petto, come se fosse crocifisso.
Lo hanno proiettato in anteprima in curia giovedì scorso, e subito si sono levate le proteste. Rudi Benedikter, vicepresidente del consiglio comunale di Bolzano, è trasecolato: "Mi ha scioccato. Una inaccettabile commercializzazione della Chiesa, attraverso un bimbo la cui immagine è al limite della pedofilia. Anzi, ai pedofili piacerà parecchio". Parole pesanti, che vengono confermate dal teologo Paolo Renner, uno dei sacerdoti più seguiti in Alto Adige: "Una rappresentazione pseudocristiana, in stile new age, assai distante dalla tradizione e dal messaggio natalizio".
Nessuno, in curia, si sarebbe aspettato questo gran polverone. Avevano commissionato il video a un giovane artista altoatesino di fama, Aron Demetz, per cercare di strizzare l’occhio (quello cristiano, s’intende) al milione e passa di visitatori che ogni anno affollano piazza Walther, il salotto buono di Bolzano, nel periodo del mercatino di Natale. "Sono tutti felici con i loro pacchettini, però è sempre mancato l’annuncio religioso", spiega don Thomas Stürz.
Unico protagonista del cortometraggio è Egon, un bimbo biondissimo, con gli occhi azzurri, etereo, evanescente. E completamente svestito. E’ immerso in una nebulosa dissolvenza che ne fa intuire le forme, più che mostrarle. In realtà il video di Demetz non aveva neppure questa dissolvenza ed è stata inserita di tutta fretta: i responsabili della curia pensavano - così - di evitare le polemiche.
Bolzano covo di bacchettoni? Chi la pensa così è Alessandro Riva, critico d’arte e consulente di Vittorio Sgarbi al Comune di Milano: "Se a Bolzano sono così ottusi da scambiare l’ultimo video di Aron Demetz, artista di grandissima sensibilità, per un’opera "scioccante", "inquietante" "di cattivo gusto" e persino "al limite della pedofilia", noi a Milano siamo pronti ad accoglierlo, magari, se la Curia lo permette, proprio all’interno del Duomo. Sono sicuro che l’arcivescovo Tettamazi vedrà in un’opera così poetica, delicata e di intelligente reinterpetazione dei più puri valori cristiani un perfetto simbolo del Natale".
Alla fine, il video non lascerà l’Alto Adige e il Duomo del suo pomposo capoluogo: nonostante la pioggia di critiche, don Thomas Stürz conferma che verrà proiettato con l’apertura del mercatino, prevista per giovedì prossimo.
Ma chi è in realtà il bambinello new age? "E’ semplicemente mio figlio", sorride Demetz, l’artista finito suo malgrado nella bufera. Lui, che arriva dalla tranquilla Val Gardena, voleva solo contribuire a creare un po’ di spiritualità in mezzo agli sfavillii del mercatino di Natale. "Lo vogliono a Milano? No, questo video è stato concepito per Bolzano e lì deve rimanere". Tanto, c’è da giurarci, la fila dei turisti curiosi che si riverserà in duomo è già garantita.
A Padova dagli scaffali dei grandi magazzini sono scomparse le tradizionali statuette. "Il prodotto non andava più, non c’era business"
Rinascente, addio al presepe: "Non si vende" Ma c’è chi si ribella: "E’ la nostra tradizione"
Mariacarla Menaglia, organizzatrice della mostra dei Cento Presepi a Roma, contesta: "Gli italiani lo amano, e ne sentono la necessità"
di ROSARIA AMATO *
ROMA - "Il presepe? Non lo compra nessuno": è uno dei titoli di prima pagina del Gazzettino, giornale locale veneto. Si riferisce alla decisione, presa dalla Rinascente di Padova, di non mettere in vendita quest’anno le statuine del presepe. "Da qualche anno - spiega al quotidiano un responsabile dell’ufficio marketing della Rinascente - il prodotto non si vendeva più. Non c’era business. E se un oggetto non si vende, noi lo eliminiamo". Analoga scelta, si legge ancora nel Gazzettino, è stata compiuta da altri grandi magazzini padovani.
Una decisione accolta quasi con rassegnazione dal direttore del settimanale diocesano La difesa del Popolo, don Cesare Contarini, il quale vi vede "un segno della secolarizzazione": "I simboli religiosi si ritrovano sempre meno nella vita quotidiana".
Tuttavia per Mariacarla Menaglia, che da 31 anni organizza a Roma la mostra dei Cento Presepi, che conta, nel corso delle sei settimane di apertura, circa 40.000 visitatori, non è proprio il caso di parlare di "tramonto del presepe". "Questa della Rinascente sarà sicuramente una scelta che ha motivazioni di natura commerciale. Come si fa a dire che agli italiani non interessa più, non è vero", si ribella.
La mostra dei Cento Presepi, che è stata inaugurata il 23 novembre, espone presepi italiani e stranieri, di tradizione e anche piuttosto originali. "Quest’anno ne abbiamo uno fatto di Cd e Dvd - dice Menaglia - perché il gusto di fare il presepe non è limitato agli artisti o agli artigiani. Ci sono le scuole, le associazioni, gli enti. E non solo in Italia: siamo gemellati con Dublino, dove per la prima volta si terrà una mostra di presepi fatti dalle scuole. I tre più belli sono stati portati da noi, a Roma. E un’altra mostra ci sarà quest’anno a San Pietroburgo, di presepi italiani. Accanto alla mostra, noi ogni anno organizziamo laboratori per i bambini: tre mesi fa io avevo già prenotazioni fino al 20 dicembre, senza aver fatto alcuna pubblicità".
Non è vero, allora, come spiega al Gazzettino la presidente dell’Azione Cattolica Chiara Benciolini, che "il consumismo che pervade il Natale si riflette evidentemente anche sul presepe"? "Non credo che gli italiani siano davvero disposti a rinunciarvi - oppone Mariacarla Menaglia - forse al Nord è un po’ diverso, ma noi ogni anno abbiamo molti appassionati visitatori anche dal Nord. E in Italia ci sono ogni anno tantissime mostre di presepi artigianali. Ognuno fa il presepe come lo sente: di matite, di metallo, di pasta di pane. Sono espressioni della fantasia e del sentimento che ognuno ancora ha, del Natale".
(la Repubblica, 29 novembre 2006)
"Inchiesta su Gesù", scritto insieme al biblista Mauro Pesce, stroncato da "Civiltà cattolica". Il volume, tra i best seller dell’anno, è una ricostruzione della figura storica di Cristo
I gesuiti contro il libro di Augias: "Attacco frontale alla fede cristiana"
ROMA - Ai gesuiti non è piaciuto il libro su Gesù. La Civiltà Cattolica, autorevole rivista della Compagnia di Gesù, pubblica nel prossimo numero una dura recensione di Inchiesta su Gesù di Corrado Augias e Mauro Pesce, pubblicato nel settembre scorso da Mondadori, uno dei volumi più venduti della stagione.
A firmare l’articolo, che suona come una vera e propria stroncatura, è padre Giuseppe De Rosa che definisce il libro "un attacco frontale alla fede cristiana". "Soprattutto dispiace il fatto, storicamente ed esegeticamente ingiustificato - scrive il critico gesuita - che in tale volume sia contenuto obiettivamente, quali che siano state le intenzioni dei due autori, un attacco frontale alla fede cristiana".
Secondo Civiltà Cattolica, il libro di Augias e Pesce sostiene che il cristianesimo abbia falsato la figura di Gesù "cristianizzandolo" e facendone quello che egli non sarebbe stato. Sarebbe perciò falso tutto ciò che la fede cristiana professa riguardo a Gesù. A questa presentazione, padre De Rosa muove alcuni rilievi critici che contestano le principali affermazioni del volume.
Il più forte di questi rilievi riguarda il fatto che nel libro di Augias e Pesce "viene negato il cristianesimo nella sua totalità: sono negate, infatti, tutte le verità cristiane essenziali, quali la divinità di Gesù, la sua incarnazione, la sua concezione verginale, il carattere redentivo della sua morte, la sua risurrezione dalla morte". Padre De Rosa definisce poi "assolutamente inaccettabile proprio sul piano della storia" la frattura che il professor Pesce (uno dei massimi biblisti italiani, ndr) pone tra il "Gesù della storia" e il "Gesù della fede", perché "in realtà questa frattura non esiste".
Una critica che Augias, già oggetto di una dura presa di posizione del quotidiano dei vescovi l’Avvenire, non sente di condividere. "Privato del suo mantello teologico - spiega - Gesù diventa una figura più affascinante, perché più drammatica, più fragile, una figura da amare, che si capisce molto meglio senza fede". Quanto all’accusa di "attaccare frontalmente" la fede, la replica di Augias è altrettanto ferma: "Noi ci limitiamo ad analizzare Gesù dal punto di vista storico, al pari di Alessandro Magno o Giulio Cesare, altre grandi figure che hanno cambiato il corso degli eventi: se davanti a questo la fede barcolla, povera fede".
"Si tratta comunque - conclude l’autore riferendosi anche alle attenzioni dell’Avvenire - di reazioni che rivelano intolleranza, come lo sono state quelle sul libro di Dan Brown, che pure dal punto di vista delle verità storica è facile da smontare, e questo non va affatto bene".
(la Repubblica, 30 novembre 2006)
I parlamentari del centrodestra contro i grandi magazzini che quest’anno non avranno sugli scaffali la natività
Natale, l’invito della Cdl ai cattolici: "Boicottate chi non vende il presepe"
Nel mirino le catene Ikea, Rinascente, Standa, Oviesse. E il vescovo di Imola definisce "improvvido" il negozio svedese *
ROMA - Boicottaggio. Questa la parola d’ordine lanciata dalla Cdl contro i grandi magazzini che, quest’anno, non venderanno il presepe natalizio. Nel mirino di alcuni prestigiosi esponenti del centrodestra catene come Ikea, Rinascente, Standa, Oviesse colpevoli di aver abbandonato la tradizione in nome delle vendite.
L’invito è rivolto ai "cattolici" e alle "persone di buon senso" e il più agguerrito sostenitore della campagna-contro è Luca Volontè, capogruppo Udc alla Camera: "L’esclusione della vendita del presepe in Italia, da parte di Ikea, Rinascente, Standa, Oviesse e di altri gruppi multinazionali, è il risultato di una vergognosa colonizzazione messa in atto per sradicare l’identità cristiana e per togliere a un paese cattolico come il nostro un simbolo secolare che rappresenta il natale".
Secondo l’esponente centrista "siamo di fronte all’ennesima prova di un relativismo laicista che finisce per spianare la strada all’estremismo islamico". Quindi il monito: "I consumatori sappiano che, insieme ai prodotti a basso costo, da queste aziende si acquista anche l’eutanasia culturale del paese".
Stessi toni da crociata per Gaetano Quagliarello di Forza Italia e Alfredo Mantovano di Alleanza Nazionale, che accusano Ikea di "evidente pregiudizio anticattolico" e concludono: serve "un sano boicottaggio natalizio". E l’azzurra Isabella Bertolini si spinge a definire l’iniziativa di Ikea "laicismo esasperato che, in nome di un finto rispetto per altri credi religiosi, offende la cultura del nostro paese".
Le critiche trovano concorde il vescovo di Imola, Tommaso Ghirelli secondo il quale "chi vende è padrone di vendere quello che vuole, ma sarebbe più moderno vendere tutto invece di togliere". Eliminare il presepe, poi, e "proprio in italia", paese a "tradizione cattolica", il paese dove "San Francesco ha inventato il presepe", è un segnale negativo. L’alto prelato definisce "improvvida" la scelta dei magazzini di non vendere il presepe.
Al boicottaggio lanciato dal centrodestra replica invece Dorina Bianchi della Margherita: "Se quella intrapresa dalla Cdl è una battaglia sulla secolarizzazione", allora è meglio "dare un’occhiata ai programmi trasmessi anche dalle reti dell’azienda che fa capo al loro leader, dove è consuetudine assistere a spettacoli dal contenuto di dubbio gusto anche in fascia protetta".
* la Repubblica, 30 novembre 2006
Indizio di un consumismo sempre più vuoto
Eclissi del presepe. Forse rovinava la festa
di Umberto Folena (Avvenire, 01. 12.2006)
Caro Gesù Bambino, hai sentito la notizia? Non sei più trendy, non tiri, non stuzzichi il mercato. Rimani a prender polvere sullo scaffale, invenduto, accanto a capanne bisognose di ristrutturazione, san Giuseppe sempre più barbuti (con tutti quei trilama in offerta speciale), Maria con il manto azzurro sbiadito e i pastorelli tre per due. Lontano dagli occhi perché lontano dal cuore? Caro Gesù, sta succedendo - pare - a Padova, alla Rinascente, proprio nella piazza dove in cima a un’altissima stele veglia la Madonna... ma con tutte quelle vetrine rigurgitanti palle e palline, chi li alza più gli occhi al cielo?
Non vendi, il magazzino è piccino, quindi via il presepe. All’Ikea invece non ce lo mettono proprio, in vendita, ma per altri motivi: "Siamo svedesi". Ah. "Meglio l’albero, è un simbolo più trasversale". Oh. Caro Gesù, non sei abbastanza trasversale, e neanche svedese. Eppure, se è "Natale", qualcuno dev’essere pur nato. Che cosa si festeggia a Natale? Il Babbo omonimo? Santa Tredicesima? La Forestale (con tutti quei pini trasversali)? Sembra quasi che tutto congiuri per farcelo dimenticare. E il presepe, è davvero così pericoloso, imbarazzante, offensivo?
All’Università patavina il sociologo Stefano Allievi osserva (e sottoscriviamo): "Le comunità straniere sanno perfettamente che questo è un Paese cattolico. Anche più di noi. E per loro è naturale vedere rappresentata la fede attraverso simboli caratteristici. Anzi, probabilmente nelle scuole i bambini musulmani parteciperebbero volentieri a realizzare il presepe, o a recitare a fine anno la Natività, anche nella parte di Gesù. Di certo non si sentirebbero offesi".
Caro Gesù, ti stiamo togliendo pure la tua festa. E stiamo togliendo alla nostra fede, già fragile di per sé, il suo centro. Funzioni finché vendi e rendi; altrimenti sotto con palle e lustrini. Se gli italiani si mettono a pensare a te, alzando gli occhi al cielo, rischiano di non restare ipnotizzati dalle vetrine. Potrebbero spendere di meno . E sarebbe una vera catastrofe. Così ti tolgono dagli scaffali. Ciò significa - sperano? - toglierti dal cuore di chi posa il proprio cuore su quegli scaffali, di chi affida la ricerca della felicità alla macchina gioiosa e vorace del consumo.
Noi, caro Gesù, resistiamo. A Padova ci sono tanti bellissimi presepi. Il più visitato è alla Basilica del Santo. Pura tradizione, statuine centenarie, una giornata intera - notte e giorno, sole e stelle - condensata in pochi minuti. La vita, l’intera nostra vita stretta attorno a te, che vieni a redimerla, esaltarla, rivoluzionarla. Bel presepe. Non è abbastanza trasversale? Eppure lo montiamo e smontiamo da secoli con il cacciavite: ma vaglielo a spiegare, agli svedesi.
DAL "BAMBINO GESU’’ I CONSIGLI PER SCEGLIERE I GIOCHI *
ROMA - Per orientare i genitori all’acquisto dei giocattoli sicuri ed evitare così danni fisici ai bambini arrivano due decaloghi on line, redatti dall’ospedale pediatrico Bambino Gesù. I consigli si possono trovare sul sito www.ospedalebambinogesu.it: un decalogo prevede consigli per ’tutelare l’incolumità fisica del bambino’, l’altro per suggerire un acquisto consapevole ’di doni a misura di bambino’.
L’iniziativa del nosocomio romano viene proposta in previsione della "corsa all’acquisto dei regali per le festività natalizie". "Talvolta - si legge in un comunicato del Bambino Gesù - anche il più piacevole dei giochi, se scelto con scarsa consapevolezza, può diventare una minaccia per la salute dei piccoli". Occhio al marchio CE, acquistare solo giochi omologati, valutare i materiali utilizzati, questi alcuni dei consigli degli esperti.
GIOCO A MISURA BAMBINO: Tra le indicazioni fornite dagli psicologi del Bambino Gesù: considerare l’età di chi lo riceve; non lasciarsi condizionare da rigidi schemi maschietto-femminuccia o dal valore economico dell’oggetto, cui spesso non corrisponde il gradimento da parte del bambino; non farsi sopraffare dai suggerimenti della pubblicità; ma, soprattutto, condividere l’esperienza del gioco con i destinatari del giocattolo una volta scartati i pacchi dei doni.
- TUTELARE INCOLUMITA’ FISICA: Ogni gioco deve avere il marchio CE che ne garantisce la conformità alle regole europee; No ai giochi alimentati direttamente dalla corrente elettrica, scegliere le batterie; rispettare fasciaetà indicata su confezione; la plastica deve essere del tipo ABS, più costosa, ma non infiammabile; no a bordi e punte taglienti; verificare che gli ingranaggi siano ben protetti.
INSIDIE DEI GIOCHI: i medici del Bambino Gesù indicano tra le cause più frequenti di insidie per la salute dei bambini: l’inalazione di piccoli componenti che rischiano di mettere a repentaglio la vita, specie dei più piccoli. Non vanno poi trascurate, inoltre, le ferite prodotte da giocattoli ridotti in pezzi o le reazioni allergiche ai componenti. Molto pericolosi anche, nei giocattoli meccanici, gli ingranaggi: le lesioni cutanee ed articolari da imprigionamento negli ingranaggi sono molto dolorose e talvolta con esiti funzionali importanti.
LESIONI DA GIOCO 2005: Nello scorso periodo natalizio, infatti, dalla metà di novembre 2005 al 7 gennaio 2006, al Pronto Soccorso dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma sono giunti 8.357 bambini, di cui 308 (3,68%) per incidenti tra le mura domestiche, in larga parte causati durante il gioco. Di questi, quasi il 9% è stato ricoverato perché presentava un quadro clinico di maggiore gravità: inalazione di corpo estraneo, ustioni, ferite lacero-contuse agli arti ed alle articolazioni.
* ANSA, 02.12.2006
UNA PROVOCAZIONE?! NO! E’ MEGLIO PENSARLA COME UNA .... SCHIZOFRENIA DELLA SALUTE !!! (FLS)
TRIESTE - Un presepe che segue la tradizione con statuine, capanna, luci e la culla vuota in attesa del Natale, che non desterebbe affatto alcuno scandalo, se non fosse stato allestito nella vetrina di un sexy-shop: è quanto accade in una cittadina della provincia di Pordenone, Casarsa della Delizia, dove il proprietario de "Le Tentazioni", Diego Bortolin, ha pensato di occupare una delle vetrine, che normalmente ospitano abiti e gadget "per soli adulti", con la rappresentazione più classica della tradizione cristiana.
L’ idea del "presepe nella vetrina del sexy shop", per alcune settimane svuotata dei tradizionali prodotti - anticipata oggi sul quotidiano "Messaggero Veneto" - è proprio di Bortolin, noto per la catena di 43 negozi "Le Tentazioni" presenti anche all’ estero, come nella vicina Austria, dove ha aperto l’ ultimo negozio sexy.
L’ idea, però, non è piaciuta a tutti e la polemica sta travalicando i confini della cittadina friulana, che diede in natali a Pier Paolo Pasolini. In decine hanno avuto da ridire e qualcuno ha anche chiesto un intervento dei Vescovi di Udine e Pordenone. A Bortolin, che già in passato aveva allestito presepi in suoi negozi, l’ allestimento di una rappresentazione così sacra in un ambiente così "profano" non sembra fuori luogo. "Fondamentalmente - spiega - sono cattolico e intendo crescere i miei figli come cattolici". D’ altronde - aggiunge - bisognerebbe capire bene qual è il limite tra le cose giuste e quelle sbagliate. Bortolin ha deciso di fare il presepe nella vetrina del suo negozio di Casarsa perché lì vicino ci sono le scuole elementari e - ha spiegato - ha pensato così di distogliere il pensiero dei ragazzi da quello che può esservi esposto, "nonostante - ha concluso - io sia sempre molto attento a cosa espongo in vetrina".
* ANSA, 03.12.2006.
2006-12-03 11:47
Verona: al via ’Presepi nel mondo’
Rassegna, allestita all’Aren, ospitera’ 400 opere
(ANSA) - VERONA, 3 DIC - Si e’ aperta a Verona la 23/a Rassegna Internazionale del Presepio nell’Arte e nella Tradizione. Restera’ aperta fino al 21 gennaio. La mostra che ospita oltre 400 presepi provenienti da tutto il mondo, e’ allestita a piano terra dell’anfiteatro dell’Arena. Simbolo della rassegna e’ il Gesu’ Bambino, ben raffigurato peraltro nella Collezione Hiky Mayr. Una sezione speciale della rassegna di quest’anno sara’ dedicata al tema de ’I Re Magi’.
Bruxelles: mostra presepe Napoli. Per circa due mesi all’Istituto italiano di cultura
(ANSA) - NAPOLI, 5 DIC - Apre domani all’Istituto Italiano di cultura di Bruxelles, la mostra sull’arte e la tradizione presepiale napoletana. Obbiettivo: valorizzare l’artigianato partenopeo e diffondere un’immagine positiva della citta’. In vetrina per circa due mesi ci saranno i pezzi realizzati da Ulderico Pinfildi (da venti anni impegnato nella lavorazione artigiana, insieme con la moglie Imma Marasco), con scenografie e figure presepiali che rispettano i canoni del ’700.
* ANSA » 2006-12-05 17:33
DAGLI STATI UNITI UN PRESEPIO GAY
NEW YORK - Polemizzando con chi vorrebbe legalizzare negli Stati Uniti le nozze gay un gruppo di studenti conservatori dell’Università del Texas a Austin ha allestito un finto presepio in cui, al posto di Giuseppe e Maria, ci sono un Gary e un Joseph "e naturalmente non c’é un Gesu Bambinò, ha dichiarato Tony McDonald, il presidente dell’organizzazione Young Conservatives dell’ateneo dove ha studiato anche Jenna Bush, la figlia del presidente George W. Bush.
l presepio è stato ironicamente attribuito dai giovani conservatori all’American Civil Liberties Union, la maggiore organizzazione libertaria degli Stati Uniti "che appoggia la legalizzazine dei matrimoni omosessuali". I Re Magi sono Marx, Lenin e Stalin "perché i fondatori dell’Aclu erano sostenitori del comunismo di stile sovietico".
ANSA » 2006-12-06 01:06
Moana nel presepe, destra e teodem all’attacco *
Una donna in un presepe è «dissacrante», figuriamoci se poi rappresenta «la Vita» e ha le fattezze di Moana Pozzi. Una piccola statua di creta al primo piano del Comune di Bologna scatena l’ennesima crociata della destra, fiancheggiata però da tre esponenti teodem a livello nazionale. Che se la prendono direttamente con il sindaco Sergio Cofferati: «stupefacente» il suo avvallo al presepe incriminato. Mentre nella città di Prodi la Margherita esprime comunque un «disagio», creando una pericolosa frizione con i Ds proprio mentre infuria la polemica sulla nascita Partito democratico.
Dunque Paola Binetti, Emanuela Baio ed Egidio Banti mettono in fila la sparizione dei presepi dai centri commerciali e i canti di Natale cancellati in una scuola di Bolzano. Segnali «allarmanti», ma «la scelta pià sconcenrtante» è quella di Cofferati: che allestendo un presepio con la figura della Pozzi attua «un discutibilissimo connubio che stona in un contesto di profonda religiosità».
Insomma il tentativo di «modernizzare» il presepe sotto le due torri ha come unica ragione «solo quella di banalizzare il senso religioso». Parole che trovano eco in Forza Italia, con la Bertolini che bolla il presepe in questione come «volgare, una deliberata provocazione». Per tacere di An, Udc e Lega, che chiedono il ritiro della statuetta. L’ennesimo scontro tra laici e cattolici, ma che rischia di avere contraccolpi nel centrosinistra bolognese. Perché la figura della pornostar attira le critiche anche dei due ulivisti "doc" Beatrice Draghetti, presidente della Provincia e del coordinatore regionale Dl Marco Monari.
E dire che tutto nasce da un equivoco. Il Carlino lancia l’allarme: Caffarra non farà la tradizionale visita al presepe in Comune perché offeso dalla statuetta di Moana. Dunque è il rischio di una rottura che l’intervento dei Dl vuole evitare. In realtà l’arcivescovo conferma la sua presenza, anche perché il presepe che è chiamato a benedire è tutt’altro, ovvero quello allestito nel cortile del Comune: una novità introdotta dopo il suo insediamento dal sindaco Sergio Cofferati («trovo giusto esporre un simbolo laico come l’albero in piazza - spiega - e uno della nostra tradizione in cortile, mi pare che in questi tre anni i bolognesi abbiano apprezzato moltissimo»).
L’altro, quello incriminato, è un presepe dichiaratamente anomalo, la libera espressione di un artista, Wolfango, che da vent’anni si diverte ad aggiungere al suo «presepio» personaggi del passato come del presente (c’è anche Prodi in sella alla bici, e non da oggi). Tanto che l’artista bolla le critiche come «sessuofobe» e opera di «bigotti». «Ma almeno l’hanno visto?», ribatte Cofferati. «Credo sia normale ospitare nel palazzo del Comune il presepe nelle sue forme tradizionali - aggiunge - ma poi dare spazio agli artisti che hanno la libertà di intepretare gli avvenimenti come meglio ritengono».
* l’Unità, Pubblicato il: 16.12.06, Modificato il: 16.12.06 alle ore 8.41
A Montecitorio statuette inserite da due deputati della Rosa nel pugno. Sono quattro, con cartelli su Pacs e matrimonio fra omosessuali
Coppie gay nel presepe della Camera Bertinotti: "Una provocazione dannosa"
Le deputate di Fi: "Ennesimo attacco ai valori cattolici e alle nostre tradizioni" *
ROMA - Due coppie gay - quattro bambole simil-Barbie - nel presepe di Montecitorio. Che costringono Bertinotti ad una dura presa di distanza: "Una provocazione inutile e dannosa". Le hanno piazzate due deputati della Rosa nel Pugno, proprio accanto ai pastorelli e alla mangiatoia: na coppia di lesbiche con un cartello al collo su cui si legge "Anche in italia il matrimonio gay come nella Spagna di Zapatero". E poi c’è la coppia di omosessuali, anche loro con un cartello al collo, con su scritto "Pacs Now". Le statuine sono comparse oggi sollevando le prevedibili polemiche, ma questo era l’obiettivo degli animatori della provocazione, Bruno Mellano e Donatella Poretti. "Ci auguriamo - spiegano - che il Parlamento approvi al più presto una legge per il riconoscimento delle unioni civili. E’ ingiusto che milioni di cittadini non possano vedere riconosciuti i loro diritti, come ormai avviene in quasi tutti i Paesi dell’Unione europea".
Per prime, reagiscono le deputate di Forza Italia, seguìte da An, Lega e altri. "Un attacco inaccettabile alle istituzioni e al simbolo religioso" commentano Isabella Bertolini, Patrizia Paoletti, Gabriella Carlucci, Simonetta Licastro Scardino, fondatrici dell’associazione "Valori e libertà". "Crediamo che sia dovere del capogruppo della Rosa nel pugno stigmatizzare, con una presa di posizione ufficiale, il grave e sconcertante episodio". Un "atto gravissimo di cui chiediamo spiegazioni alla maggioranza e l’immediata convocazione di un ufficio di presidenza che prenda le distanze": così Antonio Mazzocchi, segretario di presidenza di Montecitorio e membro dell’esecutivo di An. Che chiede a Fausto Bertinotti provvedimenti che ristabiliscano "la dignità propria della Camera dei deputati".
Rincara la dose la leghista Carolina Lussana: "I signori della Rosa nel pugno sanno agire solo per provocazioni. Dopo la marijuana di Caruso, il presepe gay, un gesto irrispettoso della nostra tradizione e della nostra cultura cattolica". Sulla stessa linea Paolo Grimoldi, coordinatore federale del Movimento giovani padani: i parlamentari della Rosa nel pugno "scherzino con i fanti ma lascino in pace i santi. E suggerisce: "Perché non inventano un presepe tutto loro, con le statuine di Pannella, Bonino, Cicciolina, Toni Negri, Sergio d’Elia. Un museo dell’orrore. Le statuine degli omosessuali, visti i loro gusti - conclude, con uno scivolone di stile - le mettano da altre parti".
"Un vero e proprio sfregio al credo religioso seguìto dalla maggioranza degli italiani": così definisce l’iniziativa dei deputati della Rosa nel pugno Luca Volontè, capogruppo Udc alla Camera. "Non credo - osserva l’esponente centrista - che lo stesso Bertinotti, quando affermava di gradire il presepe, intendesse quello con Barbie e Ken. Bisogna intervenire duramente perché, a maggior ragione in sedi istituzionali, non si riverifichino episodi di questa gravità".
Critiche anche dalla maggioranza. Silvana Mura, dell’Italia dei valori, spiega che l’iniziativa "è fuori luogo per due motivi: perché il presepe è un simbolo importante della religione cattolica e come tale va rispettato, e perché iniziative simili rischiano di tradursi in clamorosi autogol. Un tema importante come quello sulle unioni civili deve essere discusso nelle sedi politiche appropriate, i bliz non fanno che fornire argomenti a chi si oppone a una regolamentazione legislativa delle unioni di fatto e rendono più difficile un confronto sereno".
Dopo le proteste e le polemiche, arriva la dura presa di posizione del presidente dell’Assemblea di Montecitorio. "Sono per il riconoscimento dei diritti di tutti - dice Fausto Bertinotti -, ma non c’è nessuna ragione per provocare una discussione dannosa sull’uno e sull’altro tema, entrambi nobili e che attraverso scorciatoie sgradevoli sono messi l’uno in conflitto con l’altro". "Francamente eviterei di gonfiare una polemica che tocca il presepe inutilmente".
Proprio oggi, ospite speciale a Montecitorio è stato il cardinale Camillo Ruini, presidente della Cei, che ha incontrato Bertinotti prima della rituale celebrazione della messa. Il cardinale ha sostato per qualche minuto davanti al presepe allestito alla Camera, proprio dove stamane è scattato il ’blitz’ della Rosa nel pugno.
Eminenza sa dell’incursione delle statuine gay nel presepe?, chiedono i giornalisti. "Sì, sì, so tutto io..." risponde l’alto prelato sorridendo. L’incontro con Bertinotti avviene poi nello studio di presidenza, e dopo il colloquio i due tornano davanti al presepe, ma non per fare polemica: "Lei di dov’è?" chiede Ruini e Bertinotti risponde: "Io sono di Milano e da noi si dice ’presepio’, ma un mio conoscente del sud dice che anche in qualche zona del meridione invece che presepe dicono presepio". "Anch’io", annuisce il cardinale. A chi, al termine dell’incontro chiede a Bertinotti se andrà alla Messa, la terza carica dello Stato, che per la fede in questi anni ha mostrato ’curiosità’, risponde: "Non vado, perchè un non credente rispetta anche così la fede degli altri".
* la Repubblica, 20 dicembre 2006.
Il deputato della Rosa nel Pugno scrive una lettera al presidente della Camera esprimendo dispiacere. "Ma la mia battaglia per le coppie di fatto continua"
Presepe gay a Montecitorio. Mellano si scusa con Bertinotti
ROMA - "Caro Presidente, Le scrivo oggi dopo aver ricevuto il suo richiamo formale con il quale deplorava vivamente l’episodio che ha riguardato me e la collega Poretti". Inizia così la lettera che Bruno Mellano, deputato della Rosa nel Pugno ha inviato al presidente della Camera Fausto Bertinotti, in cui porge le sue scuse per aver inserito all’interno del presepe di Montecitorio due coppie di bambolotti gay. Per richiamare l’attenzione sui Pacs e i matrimoni omosessuali.
"In seguito alla mia richiesta di scuse - scrive ancora - pronunciata ieri durante una riunione del comitato nazionale del mio partito, e rivolta a tutti coloro, credenti e non, che si sono sentiti offesi nella loro religiosità e nel loro credo, presento anche a Lei, Presidente di tutti i deputati, la mia richiesta di scuse per il gesto inscenato, ritenuto da alcuni blasfemo e sacrilego".
"Questo ovviamente - precisa il deputato della Rnp- non significa sconfessare la battaglia politica che quel giorno intendevamo portare all’attenzione delle istituzioni e dei cittadini: ovvero la necessità che il Parlamento legiferi al più presto estendendo diritti e doveri anche alle cosiddette ’coppie di fatto’. Quanto accaduto a seguito del mio gesto, mi creda, è stato per me fonte di sincero dispiacere".
* la Repubblica, 29 dicembre 2006.
La Sacra Unione di fatto
di Enzo Mazzi *
«Sacra Unione di Fatto», questa è la giusta definizione del modello cristianamente perfetto di ogni famiglia, incarnato da quella che tradizionalmente viene chiamata "Sacra Famiglia". Potrebbe sembrare una battuta spiritosa e dissacrante. È invece una reale contraddizione teologica irrisolta che il cristianesimo si porta dietro da quando è divenuto religione dell’Impero. Costantino si convertì al cristianesimo ma al tempo stesso il cristianesimo si convertì a Costantino. La nuova religione dovette cioè farsi carico della stabilità dell’Impero accettando di sacralizzarne alcuni capisaldi e fra questi proprio la famiglia. Fu un compromesso fatale.
Il cristianesimo non era nato per difendere la famiglia. Anzi all’inizio fu un movimento di superamento del concetto patriarcale di famiglia. La cultura e la teologia predominanti nella esperienza da cui sono nati i Vangeli è di un "radicalismo etico", quasi una rivoluzione, che si propone di oltrepassare la cultura e la teologia tradizionali: «Vi è stato detto..., io invece vi dico... » afferma Gesù in contraddittorio con sacerdoti, scribi, farisei. «Si trattò all’inizio di un movimento di contestazione culturale e di abbandono delle strutture della società» (G. Theissen, La religione dei primi cristiani, Claudiana, 2004). Basta pensare alla reazione di Gesù, in un episodio del Vangelo di Matteo: «Ecco là fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti. Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: "E chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?". Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: "Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre"».
Un orizzonte nuovo di valori universali si apre in realtà nel Vangelo col superamento del concetto patriarcale di famiglia: da tale oltrepassamento nasce la comunità cristiana, la nuova famiglia, "senza padre" o meglio con un solo padre «quello che è nei cieli». «Nessuno sia tra voi né padre né maestro... » dice infatti Gesù. Se è vero che «la realizzazione pratica dell’etos del diritto naturale non è possibile senza la vita della grazia», come ha sostenuto di recente il teologo della Casa pontificia, Wojciech Giertych al Congresso internazionale sul diritto naturale promosso dall’Università del papa, la Lateranense, se cioè bisogna rivolgersi alle scelte della grazia di Dio per sapere che cos’è la natura, allora bisogna concludere che Dio privilegia "l’unione di fatto" e non la famiglia. Insomma per dirla con parole semplici prima viene l’amore, l’unione, la solidarietà e poi viene il patto, la legge, il codice. Questa sembra l’essenza più profonda della natura umana. Lo dice plasticamente il Vangelo: «Il sabato (cioè la norma) è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato». Il compromesso con l’Impero portò alla attenuazione se non al fatale capovolgimento di un tale etos evangelico.
È questa una intrigante contraddizione per le gerarchie ecclesiastiche del "Non possumus" e della rigida Nota anti-Dico, per i preti, i cattolici e i laici del Family-day.
Una traccia vistosa e significativa di tale contraddizione si trova ancora oggi nel celibato dei preti, religiosi e religiose. Il dogma cattolico mentre considera biblicamente il matrimonio come «segno sacro dell’Alleanza nuova compiuta dal Figlio di Dio, Gesù Cristo, con la sua sposa, la Chiesa», d’altro lato ha bisogno di un segno opposto e cioè la verginità e il celibato per significare «l’assoluto primato dell’amore di Cristo» (cf. Compendio del Catechismo 340-342). Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 338 pone la domanda: «Per quali fini Dio ha istituito il Matrimonio?». La risposta è questa: «L’unione matrimoniale dell’uomo e della donna, fondata e strutturata con leggi proprie dal Creatore, per sua natura è ordinata alla comunione e al bene dei coniugi e alla generazione ed educazione dei figli». Il fine della "generazione/procreazione" fa parte strutturale della natura del matrimonio. Se esclude il fine della procreazione il patto matrimoniale è nullo. Al n. 344 e 345 lo stesso Catechismo dice: «Che cosa è il consenso matrimoniale? Il consenso matrimoniale è la volontà, espressa da un uomo e da una donna, di donarsi mutuamente e definitivamente, allo scopo di vivere un’alleanza di amore fedele e fecondo... In ogni caso, è essenziale che i coniugi non escludano l’accettazione dei fini e delle proprietà essenziali del Matrimonio». Addirittura al n. 347, il rifiuto della fecondità viene additato come peccato gravemente contrario al Sacramento del matrimonio: «Quali sono i peccati gravemente contrari al Sacramento del Matrimonio? Essi sono: l’adulterio; la poligamia, in quanto contraddice la pari dignità tra l’uomo e la donna, l’unicità e l’esclusività dell’amore coniugale; il rifiuto della fecondità, che priva la vita coniugale del dono dei figli; e il divorzio, che contravviene all’indissolubilità».
La contraddizione si avviluppa su se stessa e si incattivisce: Maria e Giuseppe escludendo dal loro matrimonio la fecondità naturale, per amore della verginità di Maria, secondo il Catechismo cattolico compiono un grave peccato.
Il Diritto Canonico conferma il dogma in modo apodottico in vari canoni. Specialmente il canone 1101 sancisce che è nullo il matrimonio di chi nel contrarlo «esclude con un positivo atto di volontà» la procreazione. È in base a queste enunciazioni dogmatiche e normative che il Tribunale della Sacra Rota emette quasi ogni giorno dichiarazioni di nullità del matrimonio, perché anche uno solo degli sposi può provare di aver escluso per sempre la procreazione al momento del consenso matrimoniale. I cattolici che si battono per la difesa e la valorizzazione della "famiglia naturale" e si preparano addirittura a scendere in piazza per scongiurare il riconoscimento delle unioni di fatto e l’approvazione dei Dico molto probabilmente non hanno mai riflettuto su queste contraddizioni, non le conoscono o le allontanano dalla loro coscienza e dall’orizzonte della loro fede. Esse invece sono invece parte integrante della stessa fede. Vediamo meglio perché. Il Vangelo di Matteo racconta che «Giuseppe, come gli aveva ordinato l’angelo del Signore, prese in sposa Maria che era incinta ed ella, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù». Il dogma cattolico aggiunge che Maria aveva consacrato in perpetuo la sua verginità al Signore e quindi nello sposare Giuseppe aveva escluso in maniera assoluta la procreazione, essendo Giuseppe pienamente consenziente con tale esclusione. "Maria sempre vergine", nell’intenzione e nei fatti. Così dice il dogma. Chi lo nega è eretico. Ma con questa esclusione positiva ed assoluta della prole, per lo stesso dogma cattolico e per il Diritto Canonico il matrimonio di Maria con Giuseppe è invalido. Maria e Giuseppe erano una coppia di fatto che oggi il Diritto Canonico non può riconoscere come vero matrimonio. Dio nel momento in cui decide di farsi uomo sceglie di crescere e di essere educato da una coppia, Maria e Giuseppe, che per il dogma e per il Diritto cattolico era unita di fatto in un matrimonio non valido e quindi non era vera famiglia: era appunto una Sacra Unione di fatto.
Dietro una spinta così forte proveniente del Vangelo, da anni ci siamo impegnati, come tanti altri, e con forti conflitti, a immedesimarsi nelle discariche umane prodotte nella "città delle famiglie normali". E lì abbiamo trovato bambini abbandonati per l’onore del sangue, ragazze madri demonizzate e lasciate nella solitudine più nera, handicappati rifiutati, carcerati privati della parentela, gay senza speranza, coppie prive di dignità perché fuori della norma, minori violentati dai genitori, mogli stuprate dietro il paravento del "debito coniugale". La "misericordia" del Vangelo ci ha imposto di non demonizzare anzi di accogliere la ricerca di forme di convivenza meno distruttive. Per purificare lo stesso matrimonio, non certo per distruggerlo. Quei bambini abbandonati, quelle ragazze madri, quegli handicappati, quei carcerati, quei gay, quelle vittime di violenze intrafamiliari, hanno avuto bisogno di "unioni di fatto", magari cosiddette "case famiglia", che se ne facessero carico. Poi anche le famiglie si sono aperte alle adozioni e agli affidamenti. Ma la breccia è stata aperta da "unioni di fatto".
Fine della famiglia tribale e delle sue discariche? Macché. Nuove emergenze incombono. La competizione globale, questa guerra di tutti contro tutti, riporta a galla il bisogno di mura. Il mondo del privilegio non accetta la condivisione e non ne conosce le strade se non nella forma antica della elemosina che oggi è confusa impropriamente con la solidarietà; conosce molto bene però l’arte dell’arroccamento. E di questo bisogno di blindatura approfittano i crociati della famiglia. Guardando bene al fondo, in nome di che si ricacciano in mare gli extra-comunitari? Sono estranei alla nostra famiglia e alla nostra famiglia di famiglie. La difesa a oltranza della famiglia canonica oggi è fonte di esclusione verso i dannati della terra. L’opposizione al riconoscimento delle nuove forme di solidarietà è nel profondo radice di violenza verso gli esclusi. La crociata contro le famiglie di fatto oggettivamente è egoista, oltre i bei gesti e le belle parole e oltre le stesse intenzioni, al di là delle apparenze. Non basta difendere la famiglia naturale. Bisogna ancora una volta guarirla.
È necessario riscoprire il primato dell’amore e della solidarietà oltre i confini di razza, etnia, famiglia, quell’amore responsabile e quella solidarietà piena che sono sacre in radice e rendono sacro ogni rapporto in cui si incarnano. Bisogna ritrovare le strade dell’apertura planetaria della famiglia, di una famiglia purificata e guarita, già annunciate dal Vangelo, nelle attuali esperienze delle giovani generazione e dei nuovi soggetti, con prudenza creativa, senza nascondersi limiti e pericoli, ma anche senza distruttive demonizzazioni.
* l’Unità, Pubblicato il: 12.04.07, Modificato il: 13.04.07 alle ore 14.11
Il mistero del bambino
Miti e storia dietro i simboli del natale. Fin dall’età pagana
Quando Virgilio ne cantò la nascita
Per molti fu una profezia dell’avvento di Cristo.
Ma nel mondo classico bimbi e culle ricorrono spesso
Nella quarta ecloga il poeta dell’Eneide annunciò l’avvento di un "puer" e di una nuova era
Sarebbe stato l’imperatore Costantino a "cristianizzare" quei versi
Molte leggende riguardano fanciulli che avrebbero cambiato gli eventi
di Maurizio Bettini (la Repubblca, 24.12.2008)
All’inizio della quarta ecloga Virgilio aveva avvertito le Muse: sto per cantare qualcosa di più grande, arbusti e tamerici non bastano più! La poesia bucolica, con le sue selve abitate da pastori innamorati, cede il passo a ben altro annunzio. Di che si trattava? Nientemeno che di una nuova era, profetizzata dalla Sibilla di Cuma. L’ordine dei tempi ricomincia da capo, aveva detto la veggente, e una nuova progenie sta per scendere dal cielo. Torna l’età dell’oro, mentre la Vergine, cioè la giustizia, scende nuovamente fra gli uomini. E se ancora restano tracce della colpa, quella provocata dagli orrori della guerra civile, con il "suo" avvento anch’esse saranno cancellate. Ma l’avvento di chi? Di un bambino.
La grande invenzione che dà vita alla quarta ecloga è per l’appunto questa: la fine dell’orrore e l’inizio di un tempo nuovo vengono fatti coincidere con la nascita di un puer. Un bambino vero, al quale si chiede di sorridere ai propri genitori - la madre lo ha portato in grembo per nove mesi, lo merita - affinché essi ricambino a loro volta quel sorriso; ma nello stesso tempo un bambino divino.
Il puer infatti è destinato a vivere con gli dei, mentre attorno alla sua culla le meraviglie si moltiplicano. Cade il velenoso serpente assieme ad ogni erba mortifera, le pecore non debbono più temere i leoni e le caprette offrono fiduciose le mammelle gonfie di latte. Nel frattempo, la culla in cui giace il puer si riempie spontaneamente di fiori profumati. La rinascita del mondo, nella quarta ecloga di Virgilio, si annunzia dunque in questo modo. Vi era di che colpire la fantasia di chiunque. Anche di un imperatore.
Quasi quattro secoli dopo, infatti, Costantino tenne un’omelia per il venerdì santo indirizzandola «all’assemblea dei devoti di Dio». In questo discorso l’imperatore - lo stesso che dichiarò cristiano l’impero - compì un atto che avrebbe mutato il destino della quarta ecloga: la cristianizzò. L’intenzione era chiara. Dimostrare che la nuova religione aveva dalla sua perfino il maggior poeta di Roma. Secondo Costantino, infatti, Virgilio aveva parlato in modo coperto, per timore di rappresaglie, ma la sua volontà di annunziare il Salvatore era chiara. Chi altro poteva essere la «Vergine» dell’ecloga se non Maria? E quale segno più esplicito del velenoso serpente che «cade» contestualmente alla nascita del bambino? Anche sulla culla del puer, in verità, Costantino compì un’operazione di sottile ermeneutica cristiana - anzi, di abile falsificazione. Nella versione greca del testo di Virgilio, offerta ai fedeli dall’imperatore, la «culla» in cui giace il bambino viene sostituita dalle «fasce» che lo avvolgono.
Perché? La spiegazione è teologica. Nel Vangelo di Luca, quando l’angelo annuncia ai pastori la nascita del Salvatore, lo fa con queste parole: «ed ecco il segno: troverete il bambino avvolto nelle fasce e deposto in una mangiatoia». Le fasce formano una parte imprescindibile dello scenario cristiano, costituiscono addirittura un «segno» della divinità. Sostituendole alla «culla» di Virgilio, Costantino identificava definitivamente il puer dell’ecloga con il bambino Gesù.
Gli studiosi continuano a chiedersi se questa orazione sia davvero opera dell’imperatore - o meglio, di qualche letterato di corte - oppure l’abile montatura di un falsario. Ma questo importa poco. Negli stessi anni, infatti, un analogo tentativo di cristianizzare l’ecloga era stato compiuto anche da Lattanzio; e qualora l’autore dell’orazione fosse non Costantino, ma un falsario, ciò non farebbe che confermare il desiderio, da parte della nuova religione, di avere dalla propria parte il maggior poeta romano. In ogni caso, al contenuto messianico dell’ecloga credettero fermamente, nel corso del tempo, personaggi come Pietro Abelardo o Dante Alighieri; e innumerevoli generazioni di cristiani hanno continuato a credervi. Ma allora, chi fu veramente il puer della quarta ecloga?
Torniamo all’inizio della vicenda. Siamo nel 43 avanti Cristo, nel pieno della sanguinosa guerra civile fra Ottaviano e Antonio. Inutile dire che, a questa data, Virgilio non poteva avere alcuna nozione del cristianesimo, per il semplice fatto che esso non era ancora nato. L’ecloga è dedicata a Pollione, console di quell’anno, per cui si potrebbe semplicemente pensare che il puer fosse figlio di costui. Ma davvero Virgilio avrebbe potuto celebrare il rampollo del console come se si fosse trattato di un fanciullo divino, il cui avvento doveva segnare un rinnovamento cosmico?
Sarebbe stato troppo. Non sono mancate perciò interpretazioni più mistiche, o esoteriche, dell’ecloga, secondo le quali il poeta si sarebbe ispirato a culti egiziani o a testi giudaici. Ma quale senso avrebbe avuto, per il pubblico di Virgilio, la ripresa di temi o motivi biblici di cui in quel tempo a Roma si conosceva ben poco? Non facciamoci ingannare dall’importanza che il giudaismo, specie attraverso la mediazione cristiana, ha assunto nel seguito della storia occidentale: la cultura dei Romani, nel primo secolo a. C., era ben diversa dalla nostra. In realtà, non sapremo mai chi fu il puer della quarta ecloga. Ma forse possiamo saperne di più sulla sua culla.
Nella tradizione antica, infatti, altri bambini giacquero in una culla dai caratteri divini. Dioniso prima di tutto, deposto dopo la nascita in un lìknon, un ventilabro: ossia una sorta di cesto, aperto su uno dei lati, che veniva utilizzato per separare il grano dalla pula. Gli antichi definivano «mistico» il lìknon di Dioniso, e liknìtes, «quello del ventilabro», era uno dei nomi con cui il dio veniva invocato nei misteri. Ma anche Zeus, nella grotta di Creta che lo ospitò neonato, fu deposto in una «culla dorata», mentre la capra Amaltea gli porgeva la mammella e l’ape Panacride gli dispensava il proprio miele; e ancora in una «sacra culla» giacque Hermes, il futuro uccisore di Argo.
Sono gli innumerevoli miti che ci raccontano la storia di bambini, destinati a cambiare il corso degli eventi, che proprio per questo ebbero anche una nascita straordinaria. Non solo Dioniso o Zeus, ma anche Ciro il grande o Romolo e Remo, eroi che, quando vennero al mondo, trovarono ad accoglierli una natura inaspettatamente benevola. Acque che placano il loro corso vorticoso, piante che nutrono, animali del bosco o della campagna - un lupa per i gemelli romani, una cagna per Ciro - che esibiscono mansuetudine, e in questo modo forniscono un «segno» indiscutibile del superiore destino che attende l’eroe. Proprio quel che avviene attorno al puer di Virgilio.
Di questa medesima schiera fa parte anche il piccolo Gesù del Vangelo di Luca. Anche lui deposto in una culla insolita, la mangiatoia, proprio come Dioniso nel ventilabro; anche lui circondato da una natura splendente e miracolosa. Guardata con gli occhi dell’antropologo del mondo antico, l’interpretazione della quarta ecloga fornita da Costantino finisce in realtà per rovesciarsi. Se l’imperatore credeva che il puer virgiliano fosse una metafora del Salvatore, a noi sembra piuttosto il contrario. La tradizione cristiana della nascita di Gesù - con il suo scenario di meraviglie, le sue greggi, la sua coppia di animali soccorrevoli - ricorda molto il modo in cui Virgilio, oltre un secolo prima che i vangeli fossero redatti, aveva descritto l’avvento del misterioso puer destinato a rinnovare il mondo.
Il fatto è che entrambe queste nascite sono episodi del ciclo millenario del bambino meraviglioso. All’interno di questo ciclo miti e racconti hanno continuato ad inseguirsi, ad alludersi, a cercarsi, in un gioco che non si è mai interrotto. Come dire che, quando oggi si sparge il muschio attorno alla mangiatoia, nel presepio, o si dispongono le caprette fuori dalla grotta, si ricompone uno scenario al quale ha verosimilmente contribuito anche Virgilio.