DISPONIBILE IN PDF - QUI IN FONDO (CLICCARE SULL’ICONA PER APRIRLO E, VOLENDO, STAMPARLO) -, UN BREVE SAGGIO (80 PAGINE) CHE PORTA ALLA LUCE NON SOLO UN FREUD PIU’ KANTIANO DI QUANTO NON SI PENSI E UN KANT ANCORA DEL TUTTO IMPENSATO MA, AL CONTEMPO, EVIDENZIA ANCHE QUANTO E COME SIA URGENTE RIPRENDERE IL LORO CAMMINO E IL LORO LAVORO.
Ciò che segue è una "nota introduttiva" e una nota del 2004, ripresa in "Appendice". Buona lettura! Federico La Sala
NOTA INTRODUTTIVA
ESSERE GIUSTI CON KANT - E CON FREUD.
Dopo le lezioni dei maestri del sospetto, e dei maestri del decostruzionismo, forse, è venuto il tempo di reinterrogarsi - come voleva Foucault - su “Che cos’ è l’Illuminismo? Che cos’è la Rivoluzione?” (1984), e riprendere - per capire meglio la portata della rivoluzione copernicana di Freud - la lezione di Kant, a partire dall’interpretazione de “i sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica” (1766). In questo lavoro ‘pre-critico’, egli ha posto le premesse non solo per ‘pesare’ i sogni dei visionari e dei metafisici ma anche dato gli strumenti per non confonderli con i ‘sogni’ di chi ha cercato e ha lavorato a trovare - come Mosè (e come anche Marx) - la via per uscire “dallo stato di minorità”, dallo Stato del Faraone.
Sulle spalle dei suoi giganti, Newton e Rousseau, Kant ha aperto una via del tutto nuova, subito sommersa da montagne di sabbia proveniente dal deserto dei vecchi faraoni d’Egitto. Con una mossa, che ha alle spalle tutta la tradizione del “conosci te stesso” e dell’esame di coscienza (decisiva per Kant la lettura della “Professione di fede del vicario savoiardo” dell’ Emilio di Rousseau) e della tradizione astronomica (Storia naturale universale e teoria dei cieli, 1755) con la sua preziosa indicazione del metodo della parallasse, ha individuato (dentro di sé e fuori di sé) uno spazio di dialogo articolato con un’istanza superiore (la bilancia del commercio come dell’intelletto, che diventerà poi il tribunale della Ragione, il tribunale della Coscienza e la Legge morale) che lo porta sulla strada della “Critica” della ragione pura, della ragion pratica e del giudizio, di una conoscenza matura di “se stesso come un altro” e, finalmente, fuori dalla preistoria e dai suoi “totem e tabù”.
Dopo Copernico, contrariamente a quanto pensava Freud, non c’è Darwin e lo stesso Freud, ma - prima di tutti e due - Kant! E il frutto di tutto il suo eccezionale lavoro è un’acquisizione perenne per tutta l’umanità. L’unica strada possibile per uscire “dallo stato di minorità” (1784) e lavorare “per la pace perpetua” (1795) è quella del dialogo - con “se stesso come un altro”, alla luce della Legge morale. Tutte le altre portano da nessuna parte e, alla fine, solo allo sterminio totale!
Una lezione da Londra. Ieri come oggi, «il problema del nostro mondo è che è molto più facile creare un estremista che un uomo del dialogo, un ideologo che uno spirito critico. Ciò detto, solo gli uomini di dialogo sono uomini di pace e, siccome non si può vivere eternamente nel conflitto, sono loro che hanno le chiavi del futuro. Jonathan Sacks, grande rabbino di Londra, scriveva che, a memoria del passato, doveva ricordarsi delle atrocità commesse dai suoi nemici ma che, per costruire il futuro, il dialogo si imponeva come un imperativo morale: “Per l’amore dei miei figli e dei figli dei miei figli che non sono ancora nati, non potrei costruire il loro futuro sugli odi del passato, né insegnare loro che ameranno di più Dio amando meno le persone.” » (cfr.: Antoine Nouis, “Il dialogo, una relazione esigente”, “Réforme” - n. 3374, 24 giugno 2010). Questo il problema - dell’epoca già di Kant, come e ancor di più della nostra: l’imperativo categorico della legge morale del dialogo, non dell’ubbidienza cieca alla legge astuta del Super-io di turno - dentro di noi e fuori di noi!
Federico La Sala
Perché si vuole uccidere Kant?
Una breve nota sull’ultimo lavoro di Maurizio Ferraris, "Goodbye Kant!"
di Federico La Sala *
Ferraris si mangia la coda, e non se ne accorge: mangia "qualcosa, anche senza sapere con esattezza che cosa"! Almeno da quanto si comprende dal riassunto, fatto dallo stesso Autore ("Buonanotte, Immanuel", Il Sole-24 ore, Domenica, 31.10.2004), delle tesi di fondo del "Goodbye Kant! Cosa resta oggi della Critica della ragion pura" di Maurizio Ferraris (di prossima uscita nei Tascabili Bompiani), credo che - a questo punto - sia più da dire "Buonanotte, Maurizio", che "Buonanotte, Immanuel"!
A mio parere, l’eredità di Kant non mi sembra che stia nelle risposte sbagliate che ha dato ("asserendo che le leggi che la Mente dà al Mondo sono quelle della fisica, che offre la vera via di accesso a nozioni sicure quanto le operazioni matematiche, e dense, cioè piene di contenuto, come quelle che traiamo dall’esperienza"), ma nella domanda cruciale che si è e ha fatto. E la domanda fondamentale resta ancora e sempre quella: come è possibile la scienza?, come sono possibili giudizi sintetici a priori?, o, ancora e più radicalmente, come sono possibili quegli esseri che noi siamo -"fatto indubitabile" - due in uno?, come è possibile il soggetto?, come è possibile l’essere umano?
La fallacia di Kant, rimasta in piedi nell’ontologia, è rimasta in piedi solo nella testa di Ferraris - e, a quanto pare, egli è felice di ri-aggirarsi tra gli spettri e i fantasmi ... della risorta chiesa swedenborghiana del nuovo millennio!
Nella realtà, in Europa come nel mondo, ciò che oggi si aggira sempre più forte è il programma di Kant (come di Marx e dello stesso Lenin), il coraggio di sapere e l’uscita dallo stato di minorità - quello di un "altro" mondo (La pace perpetua), possibile!
O forse, mi sbaglio, Ferraris aspira a proporsi - visto che "al posto di individui maturi s’avanzan strani bambocci: adulti mostruosi e mai cresciuti che prendono la vita come un grande gioco, una parodia dei trastulli dei più piccoli"(Francesco Cataluccio) - come il teorico e il teologo dell’Immaturità di massa e ... del berluscattolicesimo aggressivo e galoppante? Boh?! E Bah?! "Con nostalgia e rispetto, ma anche senza nasconderne le debolezze, le macchinosità, i cetrioli e le Trabant", Goodbye Maurizio! Goodbye!
Kant e quell’irrinunciabile fatica del pensare
di TERESA SIMEONE
Un bel libro di Carlo Sini e Telmo Pievani, pubblicato qualche mese fa, E avvertirono il cielo, riprende un’espressione di Gianbattista Vico con cui si fa riferimento al nascere della cultura. Cultura, ovviamente, è il segno che lascia l’intelligenza umana ogni volta che, davanti a un problema, si sforza per trovarvi una soluzione. Il che non è contrario alla natura, ma obbedisce alle prerogative della natura stessa, quella umana. -Non si tratta cioè di espungere la cultura dalla natura o viceversa, ma di individuare un ponte, come ha scritto Cavalli-Sforza, tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale. La questione, dunque, non è stabilire un primato tra ciò che è naturale e ciò che è culturale perché non possiamo fare a meno di comportarci come esseri dotati di ragione e dunque di una forza che cerchi di regolamentare le pulsioni istintuali, tenendo a bada la dimensione strettamente biologica, quanto piuttosto cercare le connessioni tra le due sfere.
Kant ha colto molto bene la bidimensionalità dell’essere umano nella necessaria tensione tra sensibilità e ragione che si svolge in campo pratico: noi siamo sempre in lotta tra due forze che vorrebbero prevalere l’una sull’altra e che dobbiamo equilibrare. In questo sta la nostra essenza di esseri liberi e morali. Se fossimo soltanto istinto non avremmo alcun merito o demerito nel comportarci in un certo modo perché non ci sarebbe libertà: un animale è determinato ad agire dalla sua natura e, come tale, non può essere giudicato secondo categorie morali. Non c’è un leone cattivo da un lato e una cerbiatta buona dall’altro, né un agnello tenero e un lupo crudele: i loro comportamenti sono insindacabili perché fuori dagli schemi concettuali e morali introdotti dall’essere umano. Allo stesso modo, se fossimo mossi soltanto dalla ragione, una ragione assolutizzata e sublimata, non saremmo meritevoli per le azioni corrette, dal momento che in noi agirebbe sempre tale pienezza di giudizio che non ci farebbe commettere errori. Saremmo nella “santità”. Non fallibili né condannabili e dunque non responsabili. Eticamente non connotati.
Nonostante sia guidato, ma non determinato dalla ragione, l’essere umano non segue, perciò, un piano razionale predefinito: essa procede per tentativi e, proprio per questo, suo compito è sviluppare le disposizioni naturali, pur nella consapevolezza che l’uomo, il cui tempo è insufficiente, non riuscirà mai a completarle in vita. Se la natura gli ha dato la ragione, scrive Kant, è perché ha voluto che fosse più destinato alla stima razionale di sé che al benessere, più a rendersi degno della felicità che a conseguire la felicità stessa.
In tal senso la morale non è la dottrina che ci insegna come dobbiamo farci felici, ma come dobbiamo diventare degni della felicità. L’uomo si agita nel mondo, lotta nella storia, mosso da ambizione, vanità, orgoglio non per conseguire felicità, ma per esprimere i propri talenti e rivendicare diritti. La terra, anche secondo Kant, non è, dunque, un’arcadia pacificata, ideale, metastorica ma uno spazio di contrasti e affermazioni di sé, come vuole e spinge la naturale, problematica e critica razionalità dell’uomo. E la moralità, infatti, altro non è che una costrizione che sentiamo operante dentro di noi. È una legge: universale, assoluta, incondizionata.
Eppure, anche se per Kant è incondizionata, agisce sempre all’interno di un essere umano finito e dunque influenzato dalla sua condizione. Ecco perché la ragione è sempre in lotta con la parte sensibile dell’uomo che le oppone una resistenza e fa sì che tale legge morale assuma la forma del “dovere”. Nello sforzo con cui l’uomo riesce a de-condizionarsi rispetto alla propria natura istintuale è la misura della sua moralità.
Sappiamo bene che quella di Kant è un’etica prescrittiva, non descrittiva: non riguarda l’uomo qual è, ma l’uomo quale dovrebbe essere, non come si comporta ma come dovrebbe comportarsi. Eppure questa necessità non nega la libertà, anzi la potenzia: nella tensione tra ragione e sensibilità c’è la consapevolezza che si debbano vincere le proprie inclinazioni naturali ma che vi si possa anche cedere così come possano essere violate le disposizioni che impone la ragione. Che, non dimentichiamolo, implica sempre l’assunzione di un rischio.
D’altronde Kant non sottovaluta i limiti della condizione umana, opponendosi al fanatismo morale di chi crede che sia possibile la perfezione etica. La santità, come realizzazione compiuta della virtù, non è di questo mondo. La virtù è “intenzione morale in lotta” e non adesione naturale spontanea.
Come hanno giustamente sottolineato a proposito della filosofia kantiana Abbagnano e Chiodi, la moralità non è la razionalità necessaria di un essere pensante infinito, ma la razionalità possibile di un essere che può decidere di assumere o non assumere la ragione come guida della condotta. A più riprese il filosofo salernitano ha ricordato che "se l’Illuminismo aveva portato dinanzi al tribunale della ragione l’intero mondo dell’uomo, Kant si propone di portare dinanzi al tribunale della ragione la ragione stessa, per chiarirne in modo esauriente strutture e possibilità"[1]. In questo senso, nella Critica della Ragione pura “la critica è “della” (der) ragione sia nel senso che la ragione è ciò che viene resa argomento di critica, sia nel senso che essa è ciò che mette in atto la critica”[2].
Ugualmente conclude Pietro Chiodi quando sottolinea che l’intento di Kant è proprio quello di "reperire nel limite della validità la validità del limite"[3]. Niente a che vedere con la ragione infinita di un Cartesio, giusto per intenderci, ma anche andando oltre gli stessi intenti dei philosophes.
Questo amor hominis intellectualis che impronta l’opera kantiana, l’impossibilità di “togliersi di dosso la qualità di uomo”, è il riconoscimento della grandezza/piccolezza dell’essere umano il cui pensiero è finito, certamente, ma, pascalianamente, consapevole di esserlo. La sua dignità è un dato incontrovertibile: affonda nella coerenza interiore, presupposto essenziale di ogni comportamento virtuoso, di ogni azione, cioè, la cui forza non sia nella conformità alla legge esterna, alle convenzioni, ai precetti religiosi, ma unicamente alla norma il cui fondamento è nella ragione. Si può, pertanto, essere d’accordo o dissentire riguardo al suo ferreo, quasi glaciale, rigorismo ma le pagine che ha scritto nella Fondazione della metafisica dei costumi, nella Critica della ragion pratica e negli altri scritti morali sul senso alto della dignità difficilmente hanno un riscontro altrettanto chiaro in altre opere filosofiche.
Innumerevoli sono gli esempi di agire morale che porta in esse. Anche da un punto di vista pragmatico, le formule dell’imperativo categorico, proprio perché formali e non condizionate da alcun contenuto, possono costituire una guida valida in ogni tempo e sganciata da situazioni storiche precise. Così quando scrive “Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale“[4], non ci dice cosa dobbiamo fare nello specifico ma, proprio per questo, ci dà un riferimento valido per qualsiasi nostra azione.
Antonio Cassese dedica al filosofo di Kӧnigsberg passi importanti: nel suo I diritti umani oggi scrive che tra i tanti pensatori, leader religiosi e politologi, chi ha colto meglio il concetto di dignità umana è stato proprio Immanuel Kant che nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785) osserva come “Nel regno dei fini, tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito con qualcosa d’altro a titolo equivalente; al contrario, ciò che è superiore a quel prezzo e che non ammette equivalenze, è ciò che ha una dignità.[...] L’umanità è essa stessa una dignità: l’uomo non può essere trattato dall’uomo (da un altro uomo o da se stesso) come un semplice mezzo, ma deve essere trattato sempre anche come un fine”.
L’uomo come homo phaenomenon, elemento del mondo sensibile, è mediocre, modesto, un essere naturale come tutti gli altri, ma come homo noumenon, membro del mondo intellegibile, non può essere considerato come un mezzo per i fini altrui o anche per i propri fini.
A tale proposito, Cassese riporta un episodio che fa capire quanto il discorso di Kant non rimanga su un piano puramente astratto, ma possa essere applicato alla vita reale ben più diffusamente di quanto si possa credere.
Nel 1991, in Francia, nella cittadina di Morsang-sur-Orge, il titolare di una discoteca decise di inserire tra le sue attrazioni il “lancio del nano”, con cui permetteva ai clienti di “giocare” e di vincere a chi l’avesse lanciato più lontano. Il sindaco vietò l’attrazione ma i proprietari si rivolsero al tribunale amministrativo di Versailles che diede ragione alla società. Il primo cittadino impugnò la sentenza davanti al Consiglio di Stato che a sua volta l’annullò in nome di quella che può essere definita la nozione di “dignità umana”. Rifacendosi alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, oltre che alla giurisprudenza francese, il supremo organo di giustizia osservò che utilizzare “come proiettile una persona affetta da un handicap fisico, e presentata come tale [...], lede la dignità della persona umana”. È vero, si riconobbe, che il nano aveva scelto liberamente di sottoporsi al lancio e che invocava il principio del “diritto al lavoro” e la “libertà dell’impresa e del commercio” ma si ritenne, altresì, che il rispetto della persona umana dovesse prevalere sia sulla volontà del nano sia sui diritti di libertà da lui accampati.
Kant avrebbe risposto che il nano non poteva accettare di ridurre se stesso a mezzo di divertimento di altri perché doveva considerarsi un fine in sé. [5] Nessuno, cioè, può rinunciare volontariamente alla propria dignità e fare della propria umanità merce di profitto.
Non è tanto lontano dai mille casi della vita l’etica rigorosa di Kant: lo vediamo anche in questi giorni quando il concetto di libertà è da alcuni assolutizzato e contrapposto a quello della sicurezza che lo limiterebbe e quando ci si chiede cosa significhi moralità in un sistema democratico, se scegliere di proteggere chi si sente vulnerabile o rivendicare fino in fondo le proprie libertà individuali.
Kant non è comodo, anzi è scomodissimo nell’impedire che ci costruiamo alibi per i nostri comportamenti o le nostre ipocrisie, quando riteniamo di tacitare la coscienza elargendo un obolo a chi mendica o sostituendo il rispetto, doveroso per ogni essere umano, anche il più riprovevole, con la pietà autoassolutoria.
Scomodissimo quando sostiene che non è la religione a fondare la morale, ma la morale, tutt’al più, la religione e che barattare una buona azione con l’ingresso in Paradiso non ha nulla di etico o quando bolla come immorale un’azione fatta nella fredda applicazione di una legge positiva e non come adesione al principio etico che dovrebbe informarla, quando stigmatizza la necessità di sanzioni là dove l’azione dovrebbe essere libera da imposizioni esterne, quando ci richiama a un’autonomia morale che un obbligo, quale quello di un controllo eteronomo, renderebbe condizionata.
È scomodo quando biasima il nostro bisogno di tutori, pur maggiorenni di età; quando ci ammonisce dall’affidare ad altri la salvezza della nostra anima o la cura della nostra mente; quando smaschera la speranza in qualcuno che ci guidi come attitudine a seguire piuttosto che ad assumerci l’onere della scelta. “Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me - scrive nel saggio Che cos’è l’illuminismo? - un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero per me. Purché io sia in grado di pagare, non ho bisogno dì pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione”.
Ci schermiamo tutti gridando che vogliamo essere “il capitano della nostra nave” salvo poi, alla prima occasione, quando guidare significa assumersi responsabilità, applaudire all’homme fatal, affidarci al capo-padre-signore, quello che ci protegge dagli sbagli e decide per noi dove dobbiamo andare.
Non è il caso di scomodare filosofi che hanno individuato nella scelta la fonte dell’angoscia e vissuto la libertà come condanna per capire quanto ansiogena sia la condizione dell’uomo che ha fatto del “Sapere aude!” la massima della propria condotta. Eppure è in quell’atto di coraggio, che apre a nuove possibilità, che diventa Sprung, cioè salto verso il futuro[6], la fonte della nostra dignità. È lì, nell’autonomia intellettuale e morale con cui la volontà si conforma alla razionalità, affrancandosi dall’eteronomia di un condizionamento.
La morale kantiana non è esente da critiche: molti sostengono che alla sua etica del dovere, per cui un’azione è buona in sé, indipendentemente dalle conseguenze, si dovrebbe preferire un’etica utilitaristica come quella di Bentham, ad esempio, ben più adatta a una realtà in cui si deve pur agire in vista di un principio di convenienza comune, sulla base, cioè, di un calcolo dei vantaggi e degli svantaggi e della ricerca della “massima felicità per il maggior numero di persone”. In tale dibattito più attuale potrebbe essere il ricorso a Weber e alla sua distinzione tra “etica della convinzione” e “etica della responsabilità”. Col riferimento alla prima, come sappiamo, Weber valuta l’agire in base alle intenzioni che ne sono a monte, ai convincimenti interiori, senza badare ai mezzi e alle conseguenze legati alla loro realizzazione; per quanto riguarda la seconda, invece, l’agire si giudica in base alle conseguenze esteriori che produce e ai mezzi utilizzati. Per il carattere “realistico”, quest’ultimo risulta una specie di equivalente etico dell’agire razionale rispetto allo scopo e quindi, in qualche modo, più consono all’agire politico anche se, quando scrive “Pertanto l’etica della convinzione e quella della responsabilità non sono assolutamente antitetiche, ma si completano a vicenda, e solo formano il vero uomo, quello che può avere la ‘vocazione alla politica’”, egli finisca per ammettere non una separazione ma una possibile integrazione tra le due forme.
Nell’essere umano agiscono tante forze: Hume, uno dei riferimenti culturali di Kant, parla di simpatia, il sentimento morale “comune a tutta l’umanità”, che si basa sulla percezione dell’utilità o dannosità di un’azione per i suoi simili per cui si può scegliere un’azione buona anche se non vantaggiosa per noi. Kant, in realtà, non sottovaluta che ci siano altri agenti alla base dei comportamenti umani ma nega che possano costituire una legge morale la quale, per essere tale, deve avere il carattere dell’universalità. Questa condizione è assolta dalla ragione che è presente in tutti gli uomini e che prescrive in maniera rigorosa di rinunciare a ogni piacere o vantaggio individuale. “La dignità del dovere non ha a che fare col godimento della vita; il dovere ha la sua legge speciale, ed anche il suo speciale tribunale”[7].
Per Kant ciò che è giusto è un bene perché è giusto, non giusto perché è un bene. Esclude, pertanto, una serie di giustificazioni che vorremmo addurre per i nostri comportamenti individuali: “Egli giudica dunque di potere fare qualche cosa, perché è conscio di doverlo fare, e conosce in sé la libertà che, altrimenti, senza la legge morale, gli sarebbe rimasta incognita”[8].
D’altronde, “Soddisfare il comando categorico della moralità è sempre in potere di ognuno”[9]. È per questo che il Devi! si accompagna al Puoi: “Devi, quindi puoi!” È nel comando che scopro la possibilità di non obbedirgli e quindi la mia libertà.
Solo l’uomo, d’altronde, si rappresenta il dovere di agire per il dovere; solo l’uomo è soggetto a pressioni psicologiche che possono assoggettare la sua volontà e solo l’uomo può pensarsi come tenuto a vincerle. Solo l’uomo, cioè, è capace di pensare come un dovere assoluto il dovere di essere libero.[10]
E allora ciò che farà, come agirà non sarà condizionato da un luogo, da una situazione, da un’occasione ma dall’imperativo che sentirà in sé e al quale, non per interessi, sentimenti o vantaggi particolari, risponderà. Quante volte, dopo un’azione scorretta, abbiamo cercato di autoassolverci, trovare degli alibi al senso di colpa, vincere quel fastidio, pungente, sotterraneo, insuperabile. È lì, in quel disagio, che è rappresentato quello che siamo, la nostra moralità e la nostra libertà: se avvertiamo quella sensazione d’inadeguatezza è perché sentiamo che nel fondo della nostra coscienza avremmo potuto comportarci diversamente, scopriamo che eravamo, che siamo liberi.
La persona che cercasse di rispondere a quel comando, che volesse obbedire alla legge morale vivrebbe le mille difficoltà di un’esistenza sempre in bilico tra scacco e sacrificio, difficilmente felice. Ma, d’altronde, non è la felicità il fine della vita umana, di chi non può fare a meno di essere com’è, di chi tra la comodità della superficialità e la fatica dell’approfondimento, sceglie di essere, lo aveva già annunciato un illustre efesino, tra gli svegli. Di chi sceglie di resistere, in nome di una tensione ideale, di una pulsione di verità sempre più difficile da sostanziare in un’epoca di cedimento come quella che stiamo vivendo.
Eppure c’è ancora chi resiste e cerca di non dimenticare che dopo di lui c’è una generazione che si troverà in eredità un mondo in cui dovrà poter continuare a vivere e a credere. In questo senso l’esempio di vita proprio di uno studioso di Kant, Pietro Chiodi, combattente e difensore della libertà, risalta limpido: egli stesso racconta, nella sua opera-diario Banditi, di come scelse di diventare partigiano dopo aver attraversato una strada piena di sangue, aver visto un carro con quattro cadaveri vicino al Mussotto e aver ascoltato un cantoniere che diceva: “È meglio morire che sopportare questo”. Di come non avrebbe potuto continuare ad accettare qualcosa che non l’avrebbe reso più degno di vivere. Perché c’è qualcosa in ognuno di noi che ci aiuta a non smarrire la strada e, anche se a fatica, a vigilare sulla nostra come sull’umanità di tutti gli esseri pensanti.
NOTE
[1] Abbagnano-Fornero, La ricerca del pensiero, Paravia, 2B, pag. 164.
[2] Abbagnano-Fornero, La ricerca del pensiero, Paravia, 2B, pag. 173.
[3] Kant, Scritti morali, a cura di P. Chiodi, UTET, Torino, 1970, pag. 13.
[4] Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, 2012, pag. 65.
[5] Antonio Cassese, I diritti umani oggi, Laterza, 2005, pp. 54-58.
[6] L’espressione è di Fenoglio: Il partigiano Johnny, Einaudi, 2014, pag. 22.
[7] Kant, Critica della ragion pratica, pp. 193-195.
[8] Kant, Critica della ragion pratica, pag. 65.
[9] Kant, Critica della ragion pratica, pag. 81.
[10] I. Kant, Fondazione di una metafisica dei costumi, a cura di Vittorio Mathieu, Rusconi, pag. 23.
* Fonte: MicroMega, 23 ottobre 2020.
Il male oscuro dell’Europa
di BARBARA SPINELLI *
TUTTI ci stiamo trasformando, senza quasi accorgercene, in tecnici della crisi che traversiamo: strani bipedi in mutazione, sensibili a ogni curva economica tranne che alle curve dell’animo e del crimine. L’occhio è fisso sullo spread, scruta maniacalmente titoli di Stato e Bund, guata parametri trasgrediti e discipline finanziarie da restaurare al più presto. Fino a quando, un nefasto mattino, qualcosa di enorme ci fa sobbalzare sotto le coperte del letto e ci apre gli occhi: un male oscuro, che è secrezione della crisi non meno delle cifre di bilancio ma che incide sulla carne viva, spargendo sangue umano. La carneficina alla scuola ebraica di Tolosa è questo sparo nel deserto, che ci sveglia d’un colpo e ci immette in una nuova realtà, più vasta e più notturna.
Come in una gigantesca metamorfosi, siamo tramutati in animali umani costretti a vedere quello che da mesi, da anni, coltiviamo nel nostro seno senza curarcene. Il naufragio del sogno europeo, emblema di riconciliazione dopo secoli di guerre, e di vittoria sulle violenze di cui Europa è stata capace, partorisce mostri. Non stupisce che il mostro colpisca ancora una volta l’ebreo, capro espiatorio per eccellenza, modello di tutti i capri e di tutti i diversi che assillano le menti quando son catturate da allucinazioni di terrene apocalissi.
In tedesco usano la parola Amok (in indonesiano significa "uccisione-linciaggio in un impulso d’ira incontrollata"), e tale è stato l’attacco di lunedì alla scuola di Tolosa. Uno squilibrato, ma abbastanza freddo da uccidere serialmente, ammazza in 15 minuti il maestro Jonathan Sandler, due suoi figli di 4 e 5 anni (Gabriel e Arieh), una bambina di 7, Myriam. Chi cade preda dell’amok è imprevedibile e socialmente reietto, ma se ha potuto concepire il crimine (e spesso parlarne sul web) vuol dire che per lungo tempo non si è badato al pericolo, che l’ambiente da cui viene era privo di difese immunitarie. I massacri nelle scuole sono considerati episodi tipici del comportamento amok. Nella cultura malese l’assalto amok evoca lo stato di guerra, ma l’omicida seriale interiorizza la guerra. La spedizione militare è condotta da individui che vivono nel nascosto, ed escono allo scoperto in una sorta di raptus.
Non dimentichiamo che il nazismo quando prese il sopravvento aveva caratteristiche affini, e assecondava la furia amok: "Marcia senza approdo, barcollamento senza ebbrezza, fede senza Dio", così lo scrittore socialdemocratico Konrad Heiden descriveva, nel 1936, la caduta di milioni di tedeschi nel nazismo e nell’"era dell’irresponsabilità". È nelle furie di quei tempi che hanno radice i contemporanei massacri palingenetici, e anche lo spavento stupefatto che scatenano. Non era stato detto, a proposito delle fobie annientatrici: "Mai più?". Invece tornano, perché un tabù infranto lo è per secoli ancora. Il piccolo racconto di Zweig (Amok è il titolo) racconta proprio questo: l’esplosione in mezzo a bonacce apparenti di una "follia rabbiosa, una specie di idrofobia umana... un accesso di monomania omicida, insensata, non paragonabile a nessun’altra intossicazione alcolica". Un torbido passato ha fatto del medico protagonista un mutante: nella solitudine si sente "come un ragno nella sua tela, immobile da mesi". Amok è scritto nei primi anni Venti: un’epoca non meno vacillante della nostra. Già prima del ’14-18, Thomas Mann vedeva l’Europa sommersa da "nervosità estrema".
"L’amok è così - spiega Zweig nel racconto - all’improvviso balza in piedi, afferra il pugnale e corre in strada... Chi gli si para davanti, essere umano o animale, viene trafitto dal suo kris (pugnale, in malese, ndr), e l’orgia di sangue non fa che eccitarlo maggiormente... Mentre corre, ha la schiuma alle labbra e urla come un forsennato... ma continua a correre e correre, senza guardare né a destra né a sinistra, corre e basta. L’ossesso corre senza sentire... finché non lo ammazzano a fucilate come un cane rabbioso, oppure crolla da solo, sbavando". Ci furono opere profetiche, negli anni ’20-’30: i film Metropolis e Dottor Mabuse di Fritz Lang, o il racconto di Zweig. Dove sono oggi opere che abbiano quell’orrida e precisa visione del presente? Se fosse un caso isolato non ne parleremmo come di un fatto di cultura, colmo di presagi. Ma non è un evento isolato, solo criminale. Quest’odio del diverso (dell’ebreo o del musulmano o del Rom: tre figure di capro espiatorio) pervade da tempo l’Europa, mescolando storia criminale e storia politica. E ogni volta è una fucilata subitanea, che interrompe finte normalità. Fu così anche quando nella composta Norvegia scoppiò la demenza assassina del trentaduenne Behring Breivik, il 22 luglio 2011. L’attentato che compì a Oslo fece 8 morti. Il secondo, nell’isola Utoya, uccise 69 ragazzi.
Fenomeni simili, non immediatamente mortiferi, esistono anche in politica e mimeticamente vengono imitati. Nell’America degli odii razziali, in prima linea: l’odio suscitato da Obama meteco tendiamo a sottovalutarlo, a scordarcene. Ma l’Europa è terreno non meno fertile per queste idrofobie umane, peggiori d’ogni intossicazione alcolica. Colpisce la loro banalizzazione, più ancora del delitto quando erompe. In Italia abbiamo la Lega, e banalizzati sono i suoi mai sconfessati incitamenti ai linciaggi. Nel dicembre 2007, il consigliere leghista Giorgio Bettio invita a "usare con gli immigrati lo stesso metodo delle SS: punirne dieci per ogni torto fatto a un nostro cittadino". Lo anticipa nel novembre 2003 il senatore leghista Piergiorgio Stiffoni, che menzionando un gruppo di clandestini sfrattati prorompe: "Peccato. Il forno crematorio di Santa Bona è chiuso". Il gioco di Renzo Bossi (vince chi spara su più barche d’immigrati) è stato tolto dal web ma senza autocritiche.
Com’è potuto succedere che gli italiani divenissero indifferenti a esternazioni di questa natura? Com’è possibile che l’Europa stessa guardi a quel che accade in Ungheria alzando appena le sopracciglia? Eppure il premier Viktor Orbán, trionfalmente eletto nell’aprile 2010, non potrebbe esser più chiaro di così. Il suo sogno è di creare un’isola prospera separata dal turbinio del mondo: una specie di autarchia nordcoreana. A questo scopo ha pervertito la costituzione, le leggi elettorali, l’alternanza democratica, scagliandosi al contempo contro l’etnicamente diverso. A questo scopo persegue una politica irredentista verso la diaspora ungherese in Europa. Il sacrificio di due terzi del territorio nazionale, imposto al Paese vinto dal trattato di Trianon del 1920, è definito "la più grande tragedia dell’Ungheria moderna". Ben più tragica dello sterminio di 400.000 ebrei e zigani nel 1944. Il vero scandalo dei tempi presenti è la punizione inflitta alla democrazia greca, e la non-punizione dell’Ungheria di Orbán. I parametri economici violati e gli spread troppo alti pesano infinitamente più dell’odio razzista, della banalizzazione del male che s’estende in Europa, della democrazia distrutta.
In due articoli sul Corriere della Sera, il 7 e 12 marzo, lo storico Ernesto Galli della Loggia ha difeso lo Stato-nazione oggi derubato di sovranità: lo descrive come "unico contenitore della democrazia", poiché senza di lui non c’è autogoverno dei popoli. È una verità molto discutibile, quantomeno. Lo Stato nazione è contenitore di ben altro, nella storia. Ha prodotto le moderne democrazie ma anche mali indicibili: nazionalismi, fobie verso le impurità etnico-religiose, guerre. Ha sprigionato odii razziali, che negli imperi europei (l’austro-ungarico, l’ottomano) non avevano spazio essendo questi ultimi fondati sulla mescolanza di etnie e lingue. La Shoah è figlia del trionfo dello Stato-nazione sugli imperi. Vale la pena ricordarlo, nell’ora in cui un fatto criminoso isolato, ma emblematico, forse ci risveglia un po’.
* la Repubblica, 21 marzo 2012
Non sapevamo chi siamo, e adesso?
La scomparsa del «capo» e l’«italianità» perduta. In un libro ebook sette studiosi si confrontano sul tema urgente dell’identità nazionale e sui cambiamenti profondi del nostro Paese, la crisi e la forza dell’Italia
Orfani di un «patriarca» che ha dato mille facce al Sistema Paese
La sfida. Uscire dall’eternità magica e entrare nella storia, collettivamente
-***Viaggio in Italia. Alla ricerca dell’identità perduta, Aa.Vv. , A cura di Giulia Cogoli e Vittorio Meloni pagine 144
di Enrico Pozzi, psicologo (l’Unità, 20.02.2012)
Esistono due problemi diversi collegati all’identità. Il primo è il paradosso costitutivo dell’identità quando essa si applica ad attori dinamici, e soprattutto a soggetti viventi. Il secondo è: cosa sta avvenendo alla identità italiana in questo momento e quale rapporto intercorre tra le difficoltà identitarie percepite dai soggetti collettivi e individuali nel nostro paese e la crisi della leadership carismatica che stiamo vivendo? (...)
Dalla fine degli anni Ottanta, per una serie di motivi, la società italiana è entrata in una crisi anomica accentuata, in una perdita crescente di elementi vitali della sua coesione sociale che hanno prodotto un’angoscia talvolta evidente in alcuni segnali statistici, talvolta più incerta e sfuggente. Il nostro sistema sociale è entrato in un panico anomico, prima strisciante poi esplosivo, che si è tradotto in una domanda altrettanto panica di coesione magica del Sistema Paese.
Qui il richiamo è a Max Weber: l’anelito al ripristino della coesione si è espresso in una domanda diffusa di leadership carismatica. Le pagine straordinarie di Weber sul carisma e sul potere carismatico stanno in parti diverse del postumo Economia e società. Occorre leggerle tutte per capire la ricchezza multidimensionale del tipo ideale che propone. Un aspetto le accomuna: la indifferenza di Weber per la dimensione psicologica. Salvo che in un punto: caratteristica del capo carismatico è il possedere qualità straordinarie, ma come mai la gente pensa che un determinato individuo abbia effettivamente delle qualità straordinarie?
Questa frasetta pone il problema cruciale del consenso al carisma. La principale risposta è da ricercare, secondo me, nel panico anomico, e nella sofferenza psichica che l’anomia grave genera nell’io e nella identità dei membri di un gruppo sociale (nazione, organizzazione, famiglia ecc.).
Ma cosa c’entra il carisma con la coesione sociale? In che senso può agire come una «cura» per l’anomia? Osserviamo il frontespizio della prima edizione del Leviatano di Hobbes. Si tratta di una straordinaria visualizzazione della funzione coesiva della leadership carismatica o del corpo del sovrano.
Riportando questa immagine al momento in cui è stato scritto il testo una guerra civie, il massimo dell’anomia e dell’homo homini lupus -, abbiamo il Re a mezzobusto nella pienezza dei suoi regalia (spada, globo ecc.) collocato sullo sfondo di un paesaggio che condensa il suo regno fisico. Ma il corpo de Re è fatto dalle teste dei suoi sudditi. Corpo metonimico, al tempo stesso individuale e collettivo, che contiene nel suo Body Natural il suo Body Politic, secondo il modello classico di Ernst Kantorowicz.
Nel corpo fisico/ politico del Re, necessariamente tutt’uno come ogni corpo vivente, si ricompone magicamente il corpo lacerato del sociale. Nella persona mixta del sovrano si ripristina la coesione sociale perduta o minacciata, si placa l’angoscia anomica e trova risposta la domanda sociale di coesione del Noi, che è anche domanda di coesione dell’io e della identità individuale. In Hobbes sta la risposta alla domandina di Weber, cioè il modello di base del consenso al potere carismatico.
L’analisi freudiana del rapporto capo-folla traduce tutto questo in una dinamica direttamente psicologica. Nella sua ipotesi, il capo diventa il modello interiorizzato comune a ciascuno dei membri del gruppo: nella folla, ognuno si mette dentro, come parte della propria identità, il pezzetto di immagine di capo che è conforme ai suoi bisogni, aspettative o terrori. Lo stesso individuo il Capo è uno, nessuno e centomila, e raccoglie in sé quei seguaci che, ciascuno a proprio modo, si rispecchiano in lui. Il Capo come collante coesivo psichico del Noi, denominatore comune condiviso dagli individui del gruppo che lo riconosce come capo.
Il Berlusconi trionfante l’imprenditore, il presidente operaio, lo sportivo, il cabarettista, il ricco, Priapo, il presunto vincitore del Certamen capitolinum, il guaritore ecc. tra il ’94 e il ’96 si è presentato come le mille facce del Sistema Paese in cui ognuno poteva riconoscersi, identificarsi e sentirsi compreso, ma nel senso fisico: compreso nel corpo del sovrano, nel corpo metaforico di Berlusconi. Quel Berlusconi ha rappresentato la risposta transitoriamente adeguata, da un lato a un panico sociale duraturo, alla domanda angosciata di una coesione sociale antianomica; dall’altro, a una domanda di semplificazione cognitiva di una realtà percepita come eccessivamente complessa.
Il capo carismatico come un riduttore di complessità: invece del caos locale e globale, il riordinamento del mondo nella semplicità cognitivamente accessibile di un individuo. Una persona come mediatore e traduttore delle troppe cose che accadono intorno a me, la complessità riassunta e sussunta in lui, in una dimensione personale che io pover’uomo sento di poter ancora capire. Ma da anni ormai il Body Natural del leader carismatico sta chiedendo il conto al suo Body Politic. Le virtù straordinarie del carisma non trovano più nelle cose e nella sua persona quella continua prova di verità e verifica alla quale il capo carismatico è tenuto.
La funzione coesiva si è progressivamente indebolita, la terapia antinomica di tipo magico che il capo carismatico incarnava perde efficacia, il panico anomico collettivo e individuale riprende lentamente, poi sempre più in fretta, il sopravvento.
Non senza contraccolpi, il consenso si sfalda, e l’angoscia sociale cerca nuove risposte: talvolta, poveramente, nuovi capi; talaltra, in modo più maturo ma pur sempre incerto, nuove procedure e modalità di esercizio della sovranità.
Gabriel García Márquez ha scritto, con L’autunno del patriarca, una delle più potenti rappresentazioni narrative delle logiche, delle grandezze e delle molte miserie del potere carismatico in salsa sudamericana. Poi un giorno il dittatore muore, e c’è la chiusa bellissima del libro: ... perché noi sapevamo chi eravamo mentre lui restò senza saperlo per sempre col dolce sibilo della sua ernia di morto vecchio, troncato di netto dalla stangata della morte, (...) estraneo ai clamori delle folle frenetiche che scendevano nelle strade cantando gli inni di gaudio della notizia gaudiosa della sua morte ed estraneo per sempre alle musiche di liberazione e ai razzi di gioia e alle campane di giubilo che annunciarono al mondo la buona novella che il tempo incalcolabile dell’eternità era finalmente terminato.
La società italiana, in tutte le sue articolazioni, trova adesso davanti a sé l’opportunità di uscire dalla eternità magica del sole carismatico e di entrare di nuovo nella storia, nella collaborazione, nel compromesso, nel difficile negoziato tra le diversità: in altri termini, nella realtà e nel progetto di una identità collettiva tornata a essere dinamica, forse. La stessa opportunità si offre parallelamente alle identità individuali, sottratte allo «io sono come sono» della paura di vivere. Nessuno può dirsi certo che questa doppia opportunità venga colta, e che non si preferisca invece tornare nei porti tranquilli e mortiferi della regressione, del pensiero paranoico e delle aspettative magiche.
Non ci restano che le tribù
di Marco Aime (La Stampa, 13 febbraio 2012)
Uno spettro si aggira per l’Europa e soprattutto per l’Italia: quello del tribalismo. Negli ultimi tre decenni si è assistito al progressivo emergere di gruppi e movimenti politici che alle grandi narrazioni dei secoli precedenti, su cui si fondavano le ideologie classiche, tanto liberale quanto socialista, hanno sostituito una nuova proposta: quella etnica. Nuova e in realtà vecchia: ma una proposta politica che si affaccia sul mercato deve presentarsi con una buona dose di consolidamento storico e con un’altrettanto buona dose di potenzialità innovative. Ecco che, se da un lato si strizza l’occhio alla storia, dall’altro si lanciano idee nuove, o in grado di apparire tali.
Puntando su valori come identità, radici, autoctonia e proponendo l’immagine di popoli nuovi, fasulli per la storia ma antichi e reali nelle retoriche adottate, tali movimenti, come la Lega in Italia, hanno arricchito il panorama politico con categorie inedite, che spesso sfuggono all’analisi tradizionale.
Per questo può risultare utile impiegare gli strumenti dell’antropologia culturale per tentare di leggere il fenomeno leghista, che evoca, a volte volutamente, inconsciamente in altre occasioni, richiami a forme di fondamentalismo culturale e identitario. Quella che Francesco Remotti ha chiamato «ossessione identitaria» sta alla base delle politiche localistiche che non di rado si traducono in forme di esclusione, di xenofobia, e talvolta sfociano in un vero e proprio razzismo, sfruttando il fertile terreno del debole senso di appartenenza nazionale di gran parte degli italiani e le paure nei confronti degli stranieri, per lo più indotte da campagne mediatiche strumentali.
Se si ripercorre il cammino di costruzione dell’immaginario leghista, delle retoriche che lo accompagnano, ci si trova a fare i conti con un continuo oscillare tra concezioni vecchie presentate come novità e, viceversa, elementi nuovi presentati come tradizionali. L’attacco alla nazione, creatura e vanto dell’Occidente «civilizzato», forse non è un ritorno al passato, ma una cifra della nostra modernità. Una situazione di progressiva etnicizzazione delle società, che per certi versi produce un ritorno a forme di tribalismo.
Nonostante abbia subito alcune critiche, il termine tribalismo si è rivelato adatto anche a definire forme moderne di relazione, in cui vengono privilegiati i parenti o i membri dello stesso gruppo. Tale definizione può essere inoltre impiegata per riferirsi all’idea di forte identità culturale o etnica, e di contrapposizione dei «simili» ai «diversi». Se lo si intende in senso sufficientemente ampio, si può sostenere che forme di tribalismo esistano e stiano emergendo in modo vistoso in tutta l’Europa.
Le vittorie di partiti xenofobi, dal movimento di Geert Wilders in Olanda, al Perussuomolaisset (i «veri finlandesi») in Finlandia, ai gruppi politici affini in Ungheria, Austria, Danimarca o Svizzera, che hanno fatto dell’etnicità la loro chiave retorica principale, dimostrano come il concetto di Statonazione democratico e pluralista non sia più la cifra caratteristica dell’Europa contemporanea.
L’emergere di localismi sempre più estremi e di istanze di tipo etnico, che spesso sfociano, come si diceva, nel razzismo, coincide con il declino del sociale. Le aggregazioni orizzontali classiche, su base sociale, ideologica, di classe, vengono sostituite da tagli verticali, che classificano sulla base del legame tra terra e sangue, sul principio dell’autoctonia o della cultura. Il venir meno delle grandi narrazioni e la frammentazione dell’economia hanno reso apparentemente obsolete le rivendicazioni tradizionali.
Le identità frammentarie, liberate dagli ideali universalisti, sono divenute nicchie di difesa. L’identità individuale, icona della nostra postmodernità, necessita a sua volta dell’installazione di un apparato logistico, di una serie di punti di riferimento teorici e pratici, che ne supportino la costruzione e il mantenimento in vita. Nascono così nuovi attori, incaricati di sostenere individui resi fragili dalla scomparsa delle strutture collettive di aggregazione.
Individuo, cultura e ritorno all’origine sono le parole d’ordine nella postmodernità globalizzata. Poiché la sorte degli abitanti del pianeta non può più essere migliorata con la ridistribuzione dei proventi della crescita, occorre trovare nuove ideologie che facciano leva sulle risorse identitarie, culturali, psichiche dell’individuo, il modo di sostituire la defunta narrazione della società dell’abbondanza. Sono queste le caratteristiche della «new age» tribalizzata e primitivizzata che ci viene offerta.
Ma le tribù di cui stiamo parlando sono raccolte di individui che hanno ben poco a che vedere con quelle descritte dall’antropologia tradizionale. La cultura di questi gruppi non si fonda, infatti, su una vera tradizione condivisa, ma è il prodotto di scelte individuali di identificazione, radunate in insiemi collettivi temporanei e costruiti allo scopo di soddisfare interessi specifici.
Nelle retoriche politiche dei movimenti, che fanno dell’identità il loro fulcro, possiamo facilmente notare come quell’identità sia spesso contornata di termini tra il romantico e il nostalgico, ad esempio popolo, tradizione, e il possessivo «nostro» la faccia da padrone in ogni frase. Basti pensare a certe richieste della Lega Nord sul diritto ad avere maestri, magistrati, funzionari autoctoni. Queste retoriche sono il segno dell’ostentazione di un diritto di primato, che induce a pensare che le caratteristiche di un presunto popolo derivino dalla sua geografia e non dalla storia. È una tendenza propria dei gruppi ristretti, i quali privilegiano la prossimità simbolica e spaziale piuttosto che la memoria storica. E il legame fra terra e gentes viene sbandierato senza nemmeno il bisogno di una narrazione epica che lo sostenga.
La tendenza a «naturalizzare» è sempre più forte e sempre più spesso si mette in atto quella finzione che trasforma la nascita in nazione o in comunità. Da elemento socialmente e storicamente costruito, la cultura finisce per essere invece concepita come un dato «biologico». Si dice cultura, ma si pensa razza, e una concezione razziale della cultura può portare anche a una sorta di razzismo senza razza.
Il nostro è un paese che ha sempre avuto difficoltà a fare i conti con il proprio passato, con l’esperienza coloniale, con il fascismo e di conseguenza anche con il razzismo. Ci siamo crogiolati per decenni nell’immagine, appunto, della «brava gente», non razzista come lo erano invece inglesi, francesi, tedeschi. Il razzismo sembra non appartenerci, sebbene nel 1938 un italianissimo governo approvasse delle ignobili leggi razziali. Dimenticato. Ha forse ragione Marcel Detienne a dire che: «L’Italia è una comunità nazionale che prova, di fronte al suo recente passato, un sentimento di estraneità».
"È venuta meno l’idea di una legge assoluta"
intervista ad Alain Touraine
a cura di Franco Marcoaldi (la Repubblica, 7 novembre 2011
Nella ricerca dell’autorità perduta ci stiamo facendo guidare dall’autorevolezza dei nostri compagni di viaggio. Che sarà anche difficile da definire, ma è immediatamente percepibile, quando ad esempio ti trovi vis-à-vis con Alain Touraine, stella di prima grandezza della sociologia contemporanea, un imponente ottuagenario con due bellissimi occhi azzurri e un volto grifagno, vagamente beckettiano.
«Mi lasci dire: parlare di scomparsa dell’autorità, sic et simpliciter, è molto vago e confuso. È invece molto più chiaro e preciso dire che è scomparsa quell’autorità, esercitata nelle scuole o nei tribunali, nelle imprese o nella vita politica, sulla base di una legge assoluta. Di natura religiosa. Quella legge, che si conforma alla parola di Dio o alla legge naturale intesa come prolungamento della religione, non funziona più. Dunque sono le basi trascendenti dell’autorità a non fare più presa. E questo per la semplicissima ragione che viviamo in un mondo che non è più governato da principi assoluti, ma mobili, in trasformazione: come avviene nella scienza, nella tecnologia, nella comunicazione».
Però ogni autorità, per essere tale, ha bisogno di un suo fondamento.
«Ci arrivo subito. Vivendo in un mondo retto dai principi della secolarizzazione, della razionalizazione, della laicizzazione, i fondamenti non positivi dell’autorità e del potere sono in via di sparizione. E ciò che resta sul fronte del diritto naturale è piuttosto vago. Potremmo dire che con l ’ingresso nella modernità il novanta per cento dell’esperienza umana è legato alle invenzioni umane, mentre solo il restante dieci per cento discende dalla natura. Ed è esattamente per questo che il ritorno ad un’autorità tradizionale non ha alcun senso. Con ciò non sottovaluto affatto l’influenza religiosa. Semplicemente osservo che siamo calati irreversibilmente in un mondo secolarizzato, fondato sulla scienza e la tecnica. E, almeno in una certa misura, sulla pluralità delle culture. Dunque, sull’impossibilità di regole morali, e prima ancora religiose, valide per tutti. I cattolici la pensano in un modo, i protestanti in un altro, i musulmani in un altro ancora. Quindi, togliamo di mezzo il primo equivoco: la nostalgia per un surplus di autorità, o peggio di repressione».
Ma autorità non è sinonimo di autoritarismo.
«Certo, però è pur vero che nell’idea tradizionale c’è sempre un fondamento trascendente: di ordine politico, religioso. O di filosofia della storia, come nel caso del progresso predicato in epoca sovietica».
Restano però le lacune crescenti dell’autorità secolarizzata e democratica. Basterebbe osservare la politica.
«Forse non li applichiamo con la necessaria costanza, ma noi disponiamo di due principi fondamentali. Il primo è la scienza, la ragione: non si può dire che un litro d’acqua pesa cinquanta grammi. Non lo si può dire, perché non è vero. E il principio razionale e scientifico ha immediate ricadute sulla moralità e sulla politica: pensi alla questione della razza, di cui non ha neppure più senso parlare visto che non ha una base scientifica. Il secondo, e ancor più importante principio che abbiamo ereditato al medesimo tempo dal cristianesimo e dal secolo dei lumi, è quello dei diritti fondamentali dell’uomo. Questo è l’unico, vero fondamento dell’autorità moderna. Ciascuno ha il diritto di essere un individuo riconosciuto come tale, al pari di tutti gli altri. E nelle situazioni politiche, economiche, sociali ed educative date, beneficia al medesimo tempo di diritti assieme individuali e collettivi. L’autorità, pertanto, non discende più dall’alto, ma matura in basso, in ogni individuo».
Proviamo a vedere, in questo schema, come si concretizza l’esercizio dell’autorità da parte di un magistrato, un insegnante, un padre di famiglia.
«L’autorità di ciascuna di queste figure si legherà alla sua capacità di combinare leggi, codici e norme, con i diritti individuali. Nel mondo del lavoro, ad esempio, consisterà nel combinare leregole generali dell’organizzazione con le condizioni di accettabilità che queste regole hanno per chi, individualmente, le deve poi mettere in atto. Oppure, venendo alla scuola: un insegnante risulterà autorevole nella misura in cui riuscirà a ottenere con la persuasione il rispetto delle regole anche da parte di chi si dimostra refrattario».
Il caso della scuola è uno di quelli che più frequentemente vengono portati ad esempio da chi lamenta una crisi dell’autorità.
«È noto che la riuscita scolare ha molto a che fare con l’origine sociale. Ma alcune ricerche sociologiche hanno mostrato che è ancora più importante la qualità della relazione insegnanteallievo. Diciamo che l’origine sociale influisce per il trenta per cento, l’altro settanta rimanda a quella relazione. A mio avviso un buon insegnante è quello che riesce a rapportarsi sia alla classe, intesa come gruppo, quanto alla somma dei singoli casi individuali. Mentre un cattivo insegnante è quello che si preoccupa soltanto della propria disciplina: sono un professore di storia, di chimica o di fisica. Punto e basta. Già, ma quelle diverse discipline vanno insegnate in condizioni date. Insegnare una certa materia a un ragazzo immigrato che non padroneggia bene la lingua del paese di accoglienza, implica un riconoscimento del suo caso specifico, a meno che non lo si voglia ritrovare, vent’anni dopo, in un ospedale psichiatrico. Questo è un caso tipico in cui si affacciano sia la differenza tra le culture quanto il tema dei diritti universali. Il buon insegnante, l’insegnante autorevole, deve essere capace di compiere questo piccolo miracolo: le regole sono uguali e comuni, ma va rispettata la differenza, perché ciascuno ha la propria storia».
Un altro problema legato alla scomparsa della vecchia autorità è il rapporto con il passato: sempre più labile, sempre più flebile.
«Di formazione sono uno storico e dunque capisce da sé quanto io sia sensibile alla questione. Mi piange il cuore quando vedo persone che non sanno se sia venuto prima Napoleone o Giovanna d ’Arco. Si potrebbe dire che oggi alla storia si è sostituita la geografia. Si ignora sempre di più il passato, mentre grazie ad internet e a spostamenti sempre più frequenti, si ha una diversa dimestichezza con quanto accade su scala planetaria».
Il passato, però, non è soltanto storia pubblica: è anche storia privata.
«E qui le cose vanno meglio di quanto si pensi. Ad esempio se paragoniamo l’Europa agli Stati Uniti. C’è un test quanto mai semplice: la vitalità dei nostri cimiteri, il rapporto con i nostri morti. Magari ci sarà un sottofondo animista, ma è comunque indicativo di relazioni forti, di legami profondi. Bisognerebbe semmai ragionare su come mai il legame tra passato a futuro sia molto più intenso sul piano privato rispetto a quello pubblico».
La tendenza che lei vede è verso l’interiorizzazione dell’autorità?
«Tutto ciò che interiorizza l’autorità è positivo, tutto ciò che la esteriorizza è condannabile. Un individuo che non riconosca alcuna autorità è totalmente disorientato, incapace di distinguere il bene dal male. Ma come affermava proprio la Arendt, ciò che definisce l’essere umano è il diritto di avere diritti. E questo corrisponde, per l’appunto, all’assoluta interiorizzazione dell’autorità».
Le donne, gli uomini e la più grande bugia della storia
di Luciana Castellina (l’Unità, 28.06.2011)
C ’è una bugia storica che non può essere svelata declassificando documenti segreti, come è stato per le Carte del Pentagono o per le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. A dirla sono le nostre moderne democrazie. Consiste nel far credere che, adesso, nascono bambini neutri e non più, come una volta, bambine femmine e bambini maschi. Sulla base di questa menzogna hanno spacciato come universale l’intero edificio istituzionale dei nostri Paesi e la loro organizzazione sociale, che è invece rimasta tutta disegnata sull’essere umano maschio. Da quando la bugia è stata detta, le donne, per non rimanere prigioniere nel ghetto del privato familiare sottratto alle regole pubbliche, hanno dovuto vivere clandestinamente la propria identità, mascherandosi da essere neutro, cioè, nei fatti, da uomo.
Il femminismo recente ha per fortuna cominciato a sollevare dubbi su questa carnevalata. Purtroppo per disvelarla non basta desecretare carte, perché riconoscere l’esistenza di una differenza di genere cui viene nagato valore, significherebbe rimettere in discussione l’intera filosofia che ispira i nostri sistemi democratici, fondati sul principio di uguaglianza di fronte alla legge. Un’idea che ha avuto e ha molte buone ragioni, perché ha aiutato a eliminare i privilegi più vistosi e le esclusioni più inaccettabili, ma che non ha eliminato le disuguaglianze profonde: le ha nascoste come si fa con la polvere sotto i tappeti.
E così le istituzioni, i codici, la rappresentanza, l’organizzazione civile, l’assetto materiale della vita continuano ad assumere l’inesistente essere neutro come referente: un cittadino travestito da astratto, indistinto nel genere così come nella sua collocazione sociale reale.
Dire “ogni cittadino è uguale di fronte alla legge” è una conquista democratica ma anche un inganno. L’astrattezza della norma andrebbe colorata assumendo come metro il bisogno di ognuno, valorizzando la sua diversità e organizzando la vita collettiva in modo da dare uguaglianza concreta alle differenze. Significherebbe costruire identità relazionali in cui ciascuno, anziché mutilarsi per entrare nella corazza dell’astratto, o rifugiarsi, mortificato, nella sua diversità diventata debolezza, si costruisce un’identità che assume l’altra o l’altro come risorsa critica di se stessa e di se stesso. A partire da qui si potrebbe ridisegnare un mondo migliore.
Detto questo, sono tuttavia d’accordo con Bobbio quando ci metteva tutti in guardia dai rischi di indebolire le garanzie formali di questa nostra democrazia che per ora è la migliore in circolazione. Ma d’accordo con Bobbio anche quando esprimeva la sofferta consapevolezza dei suoi limiti. Mi basterebbe che almeno si sapesse della bugia storica e non si pensasse di ristabilire la verità concedendo qualche diritto a tutela delle minoranze (e peraltro le donne non sono una minoranza). Mi basterebbe insomma mettere una spina nel fianco della nostra democrazia imperfetta, e avere il coraggio di continuare a pensare il non ancora pensato. Non siamo alla fine della storia.
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E POLITICA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO ....
STATO DI MINORITA’ E FILOSOFIA COME RIMOZIONE DELLA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. Una ’lezione’ di un Enrico Berti, che non ha ancora il coraggio di dire ai nostri giovani che sono cittadini sovrani. Una sua riflessione - con una nota
(...) Da noi si insegna soprattutto storia della filosofia (...) Più realista, e meno illuminista, di Kant è stato Hegel, il quale ha criticato i pedagogisti suoi contemporanei che volevano insegnare a «pensare con la propria testa», a inventarsi ciascuno una propria filosofia, come se la filosofia non fosse mai esistita prima e quindi non esistesse già. Per filosofia Hegel intendeva la verità, iscritta nella mente di Dio (l’Idea) e realizzata nel processo della natura e nello spirito. Più modestamente la filosofia si può intendere come il pensiero dei grandi filosofi, che è bene conoscere e col quale è bene confrontarsi, cioè dialogare (...)
LE PAROLE DELLA POLITICA E LA FILOSOFIA ITALIANA. Dopo quasi venti anni di berlusconismo e dopo altrettanti anni di una quasi generale connivenza sonnambolica ....
FILOSOFIA IN STATO COMATOSO. IL PARADOSSO DELL’IDENTITA’: IO E GLI ALTRI. REMO BODEI CERCA DI SVEGLIARSI E SI RIATTACCA AL VECCHIO E LOGORO FILO POPPERIANO. Ecco le tesi del suo "manifesto per vivere in una società aperta"
Dopo il secolo dei totalitarismi, un nuovo mostro tirannico l’individualismo senza freni che distrugge la società
Libertà della volpe e libertà delle galline
di Tzvetan Todorov (La Stampa. 12.04.2011)
Perché un potere sia legittimo, non basta sapere com’è stato conquistato (ad esempio con libere elezioni o un colpo di Stato), occorre ancora vedere in che modo viene esercitato. Fra poco saranno tre secoli dacché Montesquieu ha formulato una regola per guidare il nostro giudizio: «Ogni potere senza limiti non può essere legittimo». Le esperienze totalitarie del XX secolo ci hanno resi particolarmente sensibili ai misfatti di un potere statale illimitato, in grado di controllore ogni atto di ogni cittadino.
In Europa questi regimi appartengono al passato ma, nei Paesi democratici, restiamo sensibili alle interferenze del governo negli affari giudiziari o nella vita dei media, perché queste hanno come effetto la soppressione di ogni limite posto al suo potere. I ripetuti attacchi del Presidente francese o del premier italiano ai magistrati e ai giornalisti sono una dimostrazione di questo pericolo. Tuttavia lo Stato non è l’unico a detenere poteri all’interno di una società. All’inizio di questo XXI secolo, in Occidente, lo Stato ha perso buona parte del suo prestigio, mentre è diventato una minaccia l’ampio potere che detengono alcuni individui, o gruppi di individui. Eppure questa minaccia passa inosservata, perché questo potere si orna di un bel nome, di cui tutti si fanno forti: libertà. La libertà individuale è un valore in crescita, i difensori del bene comune oggi sembrano arcaici.
Come si sia prodotto questo capovolgimento, lo si vede bene nei Paesi ex comunisti dell’Europa dell’Est. L’interesse collettivo oggi è sospetto: per nascondere le sue turpitudini, il regime precedente l’aveva invocato così spesso che più nessuno lo prende sul serio, lo si considera una maschera ipocrita. Se il solo motore del comportamento è in ogni caso la ricerca del profitto e la sete di potere, se la lotta senza pietà e la sopravvivenza del più adatto sono le dure leggi dell’esistenza, tanto vale smetterla di fingere e accettare apertamente la legge della giungla. Questa rassegnazione spiega perché gli ex burocrati comunisti abbiano saputo rivestire, con una facilità sconcertante, gli abiti nuovi dell’ultraliberismo.
A migliaia di chilometri di lì, negli Stati Uniti, in un contesto storico completamente diverso, si è sviluppato da poco il movimento del Tea Party, il cui programma inneggia alla libertà illimitata degli individui e rifiuta qualunque controllo del governo: esige di ridurre drasticamente le tasse e qualunque altra forma di redistribuzione delle ricchezze. Le sole spese comuni accettate riguardano l’esercito e la polizia, cioè ancora la sicurezza degli individui. Chiunque si opponga a questa visione del mondo viene trattato da criptocomunista! Il paradosso è che questa visione si rifà alla religione cristiana, mentre questa, in accordo con le altre grandi tradizioni spirituali, raccomanda di curarsi dei deboli e dei miserabili.
Si passa, in questi casi, da un estremo all’altro, dal tutto-Stato totalitario al tutto-individuo ultraliberale, da un regime liberticida a un altro, di spirito «sociocida», per così dire. Ora il principio democratico vuole che tutti i poteri siano limitati: non solo quelli degli Stati, ma anche quelli degli individui, anche quando rivestono i vecchi abiti della libertà. La libertà delle galline di attaccare la volpe è uno scherzo, perché non ne hanno la capacità: la libertà della volpe è pericolosa perché è la più forte. Attraverso le leggi e le norme che stabilisce, il popolo sovrano ha tutto il diritto di restringere le libertà. Questa limitazione non tocca allo stesso modo tutta la popolazione: idealmente, limita coloro che hanno già molto potere e protegge chi ne ha molto poco.
Il potere economico è il primo dei poteri nelle mani degli individui. Lo scopo di un’impresa è generare profitti, senza i quali è condannata a sparire. Ma al di fuori dei loro interessi particolari, gli abitanti di un Paese hanno anche interessi comuni, ai quali le imprese non contribuiscono spontaneamente. Tocca allo Stato liberare le risorse necessarie a prendersi cura dell’esercito e della polizia, dell’educazione e della salute, dell’apparato giudiziario e delle infrastrutture. O della protezione della natura: la famosa mano invisibile attribuita ad Adam Smith non serve a molto, in questi casi. Lo si è visto con la marea nera nel Golfo del Messico, nella primavera 2010: lasciate senza controllo, le compagnie petrolifere cercano i materiali da costruzione poco costosi e dunque poco affidabili. Di fronte allo smisurato potere economico di individui o di gruppi di individui, il potere politico si rivela spesso troppo debole.
La libertà di espressione a volte viene presentata come il fondamento della democrazia, e per questa ragione non deve conoscere freni. Ma si può dire che è indipendente dal potere di cui dispone? Non basta avere il diritto di esprimersi, occorre anche averne la possibilità; se non c’è, questa «libertà» non è che una parola vuota. Tutte le informazioni, tutte le opinioni non vengono accettate con la stessa facilità nei grandi media. Ora la libera espressione dei potenti può avere conseguenze funeste per i senza-voce: viviamo in uno stesso mondo. Se si ha la libertà di dire che tutti gli arabi sono degli islamisti non assimilabili, essi non hanno più quella di trovare lavoro e neppure di camminare per strada senza essere controllati.
La parola pubblica, un potere tra gli altri, a volte deve essere limitata. Dove trovare il criterio che permetta di distinguere le limitazioni buone da quelle cattive? Soprattutto nel rapporto di potere tra chi parla e colui di cui si parla. Non si ha lo stesso merito se si combattono i potenti del momento o si indica al risentimento popolare un capro espiatorio. Un organo di stampa è infinitamente più debole dello Stato, non c’è dunque ragione di limitare la sua libertà di espressione quando lo critica, purché la metta al servizio della libertà.
Quando il sito Mediapart rivela una collusione tra poteri economici e responsabili politici, il suo gesto non ha nulla di «fascista», qualunque cosa dicano quelli che sono presi di mira. Le «fughe di notizie» di WikiLeaks nulla hanno di totalitario: i regimi comunisti rendevano trasparente la vita dei deboli, non quella dello Stato. In compenso, un organo di stampa è più potente di un individuo e il «linciaggio mediatico» è un abuso di potere.
I difensori della liberà d’espressione illimitata ignorano la distinzione tra potenti e impotenti, il che permette loro di coprirsi da soli di alloro. Il redattore del quotidiano danese Jyllands-Posten , che nel 2005 aveva pubblicato le caricature di Maometto, cinque anni dopo torna sulla questione e modestamente si paragona agli eretici del Medioevo bruciati sul rogo, a Voltaire nemico della Chiesa onnipotente o ai dissidenti oppressi dalla polizia sovietica. Decisamente la figura della vittima esercita oggi un’attrazione irresistibile! Ciò facendo, il giornalista dimentica che quei coraggiosi praticanti della libertà di espressione si battevano contro i detentori del potere spirituale e temporale del loro tempo, non contro una minoranza discriminata.
Porre limiti alla libertà di espressione non significa sostenere la censura, ma fare appello alla responsabilità dei padroni dei media. La tirannia degli individui è certamente meno sanguinosa di quella degli Stati; eppure anch’essa è un ostacolo a una vita comune soddisfacente. Nulla ci obbliga a rinchiuderci nella scelta tra «tutto-Stato» e «tutto-individuo»: abbiamo bisogno di difenderli entrambi, e che ciascuno limiti gli abusi dell’altro.
«Temo il messianismo politico. Come Goya»
di Stefano Montefiori (Corriere della Sera, 12.04.2011)
Dalla Spagna del 1808 alla Libia del 2011, molto è cambiato ma non la voglia di edulcorare la violenza delle armi con nobili motivazioni. Ecco perché secondo il filosofo Tzvetan Todorov, nato a Sofia 72 anni fa e parigino di adozione, per capire le guerre, compresa quella condotta dalla Nato in questi giorni tra Tripoli e Bengasi, basta rifarsi a Goya. «Non fu solo un grande pittore, ma un intellettuale che riuscì a riflettere in modo profondo su quel che succedeva intorno a lui - dice Todorov, autore di "Goya à l’ombre des Lumières"-. Era molto influenzato dagli illuministi spagnoli di fine Settecento, e assistette all’invasione della Spagna da parte delle truppe napoleoniche che combattevano, almeno in teoria, in nome dei diritti dell’uomo e degli ideali dei Lumi. Lo spettacolo delle atrocità commesse sia dai francesi sia dai guerriglieri spagnoli lo fece ragionare sulla guerra. Fu così in anticipo sui suoi tempi che possiamo considerarlo un contemporaneo» .
Nella raccolta di incisioni «I disastri della guerra» Goya mostra pile di corpi, combattenti delle due parti gettati nelle fosse comuni, fucilazioni sommarie.
«I francesi incontrarono una resistenza durissima, fu in quei giorni del resto che venne coniata la parola guerrilla. Gli spagnoli combattevano per patriottismo e per fedeltà ai valori tradizionali della religione, i francesi in nome della ragione e di libertà, fratellanza e uguaglianza. Gli orrori però erano gli stessi. Goya scelse di schierarsi non contro una parte o l’altra, ma contro la guerra» .
Una posizione che oggi viene ripresa da Tzvetan Todorov a proposito degli interventi in Libia e anche in Costa d’Avorio, giustificati dalla necessità di difendere i diritti dell’uomo proteggendo le popolazioni civili.
«Credo che purtroppo la guerra abbia una sua logica interna, che le impedisce di restare così circoscritta e chirurgica come sostiene chi la propone. Prima del 19 marzo le truppe di Gheddafi stavano per eseguire un massacro a Bengasi, ci ha ripetuto il presidente Sarkozy per convincere l’Occidente a intervenire. Sono stati allora legittimi i primi bombardamenti, quelli che hanno fermato l’avanzata del regime. Ma poi l’intervento pseudo-umanitario si è trasformato in un’altra cosa» .
L’Occidente viene spesso criticato per la sua inazione, per la tentazione di stare a guardare mentre a pochi chilometri di distanza, in questo caso nella sponda sud del Mediterraneo, i carri armati soffocano il desiderio di libertà. Lei oggi critica il protagonismo di Sarkozy, ma prima dell’intervento il presidente francese e l’Europa venivano accusati di cinico disinteresse e di appeasement con i dittatori.
«È un riflesso intellettuale in voga in Francia, quello di accusare chi si dice contrario alla guerra ricordandogli gli accordi di Monaco del 1938, che permisero a Hitler di guadagnare posizioni nella conquista dell’Europa. Non è la stessa cosa, e io non dico che tutte le guerre sono ingiuste. Le guerre difensive, come quella degli Alleati nel 1939-1945, sono legittime. E le guerre per impedire un genocidio acclarato. Ma in questi casi l’Occidente non si nuove mai. Fu il Vietnam a fermare la carneficina operata dai Khmer rossi in Cambogia. E sono stati i ruandesi alleati con l’Uganda a porre fine al massacro in Ruanda» .
Eppure il fatto che i diritti dell’uomo siano tornati un vessillo dell’Occidente è forse positivo.
«No, lo trovo invece molto rischioso. Siamo davanti a una nuova fase di messianismo politico. La prima è appunto quella napoleonica, dipinta da Goya. La seconda ondata messianica è stata quella del comunismo, che prometteva di portare la liberazione alle masse con l’Armata rossa, a cominciare dai piccoli Paesi europei al confine con la Russia. E ora assistiamo al terzo risveglio del messianismo politico: la prima guerra del Golfo è stato un rodaggio, l’intervento in Kosovo, senza mandato dell’Onu, la prova generale, ed ecco poi Afghanistan, Iraq, oggi Libia. In fondo, cos’è la guerra in Afghanistan, se non la riproposizione duecento anni dopo dello scontro tra illuminati e tradizionalisti, napoleonici e conservatori e patrioti spagnoli che oggi chiameremmo talebani?» .
I dipinti di Goya come le foto su Internet di Abu Ghraib. Ma è possibile un no filosofico, assoluto, alla guerra?
«No, e non credo sarebbe un bene. L’ambizione di estirpare totalmente il Male sarebbe ancora più dannosa: è la funzione del peccato originale, ricordarci, come diceva Romain Gary, che esiste una "parte inumana dell’umanità". Dobbiamo però cercare di limitare al massimo le guerre non inevitabili. Come quella in Libia, per esempio» .
L’Auschwitz del pensiero
Anticipiamo in queste colonne due stralci delle riflessioni di Elie Wiesel e di Johann Baptist Metz raccolte nel volume ’Dove si arrende la notte. Un ebreo e un cristiano in dialogo dopo Auschwitz’, in uscita nei prossimi giorni per Rubbettino (pagine 148, euro 13,00). Si tratta di due colloqui speculari fatti nel 1993 dai teologi Ekkehard Schuster e Reinhold Boschert Kimmig al teologo cattolico e allo scrittore ebreo.
Nota nella sua introduzione la curatrice, Mariangela Caporale: «Nella riflessione di Wiesel e di Metz la parola del sapere si traduce nel primato della responsabilità per l’altro uomo, che, per entrambi, trasfigura il mondo secondo quelle promesse che il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio di Gesù Cristo ha consegnato alla speranza di ogni uomo».
A.
Elie Wiesel: «Il pericolo è normalizzare l’Olocausto»
«Nella storia solo due popoli sono stati destinati all’estinzione completa: noi e gli Etruschi»
DI ELIE WIESEL (Avvenire, 25.01.2011)
Non voglio scoraggiare nessuno, ma a volte credo che abbiamo perso la lotta per il ricordo. Questo non significa che dobbiamo smettere di lottare. Al contrario, dovremmo continuare a combattere. Il tempo però lavora contro di noi, come diceva Joachim Fest: il tempo è un alleato potente di coloro che parteggiano per la storicizzazione del nazismo. La gente non vuole più ricordare. Non può convivere con la verità e allora pensa di poter vivere contro di essa.
Ma anche se siamo solo in pochi e se diventiamo sempre di meno, dovremo continuare a ricordare. Fra cento anni gli studenti scopriranno che ci furono alcuni che rimasero fedeli alla memoria. Questo è un motivo sufficiente per continuare a ricordare. Spiegare la singolarità di Auschwitz non è semplice.
L’argomento che più frequentemente si ripete è ancora valido: il popolo ebreo era ed è l’unico popolo destinato all’estinzione completa. Questo significa che un ebreo nell’Estremo Oriente o un ebreo a New York o in Norvegia era condannato a morte.
Nessun altro popolo condivide questo destino tranne un popolo dell’antichità, gli Etruschi. Furono estinti e nessuno sa il perché. Un bel giorno i Romani decisero di ammazzare tutti gli Etruschi e questa decisione si trasformò in un fatto. Questa decisione fu tale che i Romani giunsero a distruggere completamente la cultura e la lingua etrusche.
Un ulteriore motivo della singolarità di Auschwitz è che nessun popolo fu mai tanto solo quanto quello ebreo. Durante la guerra anche altri uomini furono eliminati dai tedeschi, non solo gli ebrei. Per tutti esistevano comitati di soccorso che sostenevano questa gente. I comunisti furono sostenuti da Mosca, altri da Washington o Londra, gli ebrei non ebbero alcun aiuto. Non ebbero nessuno alloro fianco.
Perfino dopo la guerra gli ebrei non avevano una patria dove poter andare. Quando un francese fu liberato dal campo di concentramento, poté ritornare a casa sua; addirittura i tedeschi, che erano nei lager, poterono farlo. Gli ebrei non sapevano dove andare. Se fossero tornati dove vivevano prima, sarebbero stati perseguitati anche dopo la guerra, e perfino uccisi.
In Ungheria, per esempio, l’antisemitismo fu più forte dopo la guerra che non prima, poiché coloro che si erano impossessati delle proprietà degli ebrei scacciati non volevano restituire nulla a coloro che erano riusciti a tornare. Le vittime dovevano sopportare una pena doppia. Nonostante tutti questi argomenti ’razionali’, ci deve essere di più, qualcosa di sconosciuto che rende tanto singolare la singolarità. Ci sono storici che vorrebbero far rientrare l’Olocausto nel corso generale della storia, vorrebbero «normalizzare» questo evento.
Fare questo è completamente assurdo. Un evento di questa portata non si può rimuovere. Se accadesse questo, tale evento riemergerebbe con una potenza indomabile. Finché la Germania evita consapevolmente il suo passato, sarà sempre in pericolo.
Quando una persona singola rimuove un avvenimento di un certo peso del suo passato, si ritroverà un giorno o sul lettino dello psichiatra o in un manicomio. E lo stesso può succedere a una comunità.
B.
Johann Baptist Metz: «La Shoah è entrata tardi nella teologia»
«E se anche l’attuale crisi d’umanità fosse figlia della ferita inguaribile del lager?»
DI JOHANN BAPTIST METZ (Avvenire, 25.01.2010)
Come sempre accade, anch’io mi sono accorto tardi, troppo tardi, dell’assenza in teologia di una riflessione su Auschwitz. Quando molta gente, dopo la guerra, affermava di non aver saputo niente di quest’orrore, ritenevo che si trattasse di una menzogna o una rimozione. Quando mia madre mi disse che anche lei non aveva né sentito né saputo niente di questo crimine nazista, ho riflettuto ancora di più sulla cosa. In un certo senso questo oggi mi sembra chiaro: probabilmente allora non seppero davvero niente, soprattutto perché nessuno poteva immaginare una cosa così mostruosa, perché ogni orrore di cui avevano sentito parlare, l’avevano considerato un orrore proprio del tempo di guerra e solo lentamente, dopo la guerra, hanno preso coscienza di quello che era realmente successo. Perciò non mi meraviglio tanto quando, ancora oggi, qualche volta viene fuori qualcuno che nega questa atrocità. Piuttosto mi meraviglio che sono così pochi. In definitiva, la realtà di Auschwitz allarga lo spazio delle nostre vedute.
Naturalmente non si può fare di Auschwitz una specie di «religione negativa» o un «mito negativo» per i cristiani. Su Auschwitz nel nostro ambito cristiano si fa molta retorica della colpa e della responsabilità, retorica che, però, se capisco bene, non arriva fino alle radici della teologia cristiana.
Quello che successe durante la Shoah non esige solo una revisione delle condizioni storiche nelle quali si determinò la relazione tra cristiani ed ebrei, ma esige anche una revisione della teologia cristiana in quanto tale. Il mio amico Jürgen Moltmann a buon diritto ha messo in evidenza con nettezza questa questione.
L’antisemitismo non esiste solo come crudo razzismo: in questa forma non appare più in teologia.
Esiste però in forma molto più raffinata e sottile, ossia in veste psicologica o metafisica. Fu in questa veste che divenne fin dall’inizio il tentatore della teologia cristiana. Mi riferisco soprattutto a motivi e nozioni gnostiche. La domanda teologica dopo Auschwitz non è solamente: dove era Dio ad Auschwitz? Ma è anche: dove era ad Auschwitz l’uomo?
Come si potrebbe credere nell’uomo, o perfino nell’umanità, quando si dovette sperimentare ad Auschwitz di che cosa «l’uomo» è capace? Come continuare a vivere tra gli uomini? Che cosa sappiamo noi della minaccia all’umanità dell’uomo, noi che abbiamo vissuto voltando le spalle a questa catastrofe o che siamo nati dopo di essa?
Auschwitz ha ridotto profondamente il limite di pudore metafisico tra uomo e uomo. A questo sopravvivono solo coloro che hanno poca memoria o coloro che sono riusciti bene a dimenticare che hanno dimenticato qualcosa. Ma nemmeno questi restano illesi.
Non si può peccare quanto si vuole contro il nome dell’uomo. Non solo l’uomo singolo, anche l’idea dell’uomo e dell’umanità è profondamente vulnerabile. Solo pochi collegano ad Auschwitz l’attuale crisi d’umanità: l’insensibilità crescente di fronte a diritti e valori universali e grandi, il declino della solidarietà, la furba sollecitudine nel farsi piccoli pur di adattarsi a ogni situazione, il rifiuto crescente di offrire all’io dell’uomo una prospettiva morale, eccetera.
Non sono tutte scelte di sfiducia contro l’uomo? La catastrofe che è stata Auschwitz costituisce forse una ferita inguaribile?
Dio, rischio della società globalizzata
di Ulrich Beck (La Stampa, 19.112010)
Con tutto il suo umanesimo la religione porta in sé una tentazione totalitaria. Dall’universalismo della religione nasce una fraternità che trascende classe sociale e nazionalità, ma anche la demonizzazione degli altri pensieri religiosi, una tendenza che attraversa tutta la storia - e che risale a circa duemila anni fa, alle origini delle religioni monoteiste, Cristianesimo, Ebraismo, Islam. Dio può in uguale misura rendere civili e imbarbarire gli esseri umani. Se vogliamo comprendere la religione nel mondo moderno dobbiamo capire il paradosso della globalizzazione della religione.
La religione non è solo incidentalmente globale nella sua espansione, un sottoprodotto della globalizzazione di strutture più potenti come i mass media, il capitalismo e lo Stato moderno. Piuttosto la formazione e la diffusione globale della religione in generale, e delle religioni monoteiste in particolare, è una caratteristica essenziale che definisce quelle religioni fin dai loro inizi. In effetti, alcune religioni sono «attori globali» da più di duemila anni. Pertanto, al fine di comprendere il gioco del meta-potere che ridefinisce il potere nell’era globale, dobbiamo prendere in considerazione, oltre al capitale globale, ai movimenti della società civile, ai protagonisti statali e alle organizzazioni internazionali, il ruolo delle religioni come forze modernizzanti o antimodernizzanti nella società mondiale post-secolare.
Per la religione un postulato è assoluto: la Fede - a suo confronto tutte le altre differenze sociali e contrapposizioni non sono importanti. Il Nuovo Testamento dice: «Tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio». Questa uguaglianza, questo annullamento dei confini che separano le persone, i gruppi, le società, le culture è il fondamento sociale delle religioni (cristiane). Un’ulteriore conseguenza, tuttavia, è questa: una nuova fondamentale distinzione gerarchica è stabilita nel mondo con lo stesso valore assoluto delle distinzioni politiche e sociali che sono state annullate: la distinzione tra credenti e non credenti. Ai non credenti (sempre secondo la logica di questa dualità) vengono negate l’uguaglianza e la dignità di esseri umani. Le religioni possono costruire ponti tra le persone dove esistono gerarchie e frontiere; allo stesso tempo aprire nuove voragini determinate dalla fede là dove prima non ve n’erano.
Fu Paolo, un Ebreo ellenizzato che, più di ogni altra figura nel movimento nato attorno a Gesù, trasformò il cristianesimo da setta ebraica a forza religiosa globale con una visione universalistica. Fu lui ad abbattere i muri: «Non c’è né Ebreo né Greco, non c’è né schiavo né libero, non c’è né maschio né femmina». L’universalismo umanitario dei credenti si basa sulla identificazione con Dio - e su una demonizzazione degli avversari di Dio che, come erano soliti dire Paolo e Lutero, sono «servi di Satana».
Questa ambivalenza tra tolleranza e violenza può essere suddivisa in tre elementi: le religioni del mondo A) rovesciano le gerarchie prestabilite e di conseguenza i confini tra nazioni e gruppi etnici; sono in grado di farlo, nella misura in cui B) creano un universalismo religioso di fronte a cui tutte le barriere nazionali e sociali diventano meno importanti; simultaneamente, si manifesta il pericolo che C) alle barriere etniche, nazionali e di classe si sostituiscano quelle tra i credenti nella vera fede da un lato e i credenti nella fede sbagliata e i non credenti dall’altra. Questo è il timore che sta diffondendo: che il rovescio della medaglia del fallimento della secolarizzazione sia la minaccia di un nuovo secolo buio. La religione uccide.
Si sta dibattendo con inquietudine il «problema» dell’Islam nell’Europa laica: alcuni addirittura denunciano la «fine del multiculturalismo» - in un’Europa dalle troppe identità dissonanti. Ignorando così lo stratagemma della cooperazione: è possibile distinguere tra ortodossia e interazione. Questo procedimento si vede in atto in alcuni luoghi, diciamo a Londra e a Milano, ma soprattutto negli Stati Uniti e in particolare nelle grandi città di tutto il mondo (tantissimo in Giappone).
Questo buon senso interreligioso funziona nei progetti educativi come nel soccorso dei poveri, nella tutela delle minoranze o dei migranti (illegali) e, non ultimo, nella pubblica opposizione alle politiche statali di esclusione. I gruppi possono essere intolleranti per quanto riguarda la teologia altrui, ma al tempo stesso lavorare insieme in modo creativo per affrontare preoccupazioni pubbliche condivise. Questa separazione tra il dogma e la pratica è possibile, non solo a livello locale, ma anche sulla scena mondiale? Le religioni del mondo possono effettivamente interagire e collaborare per dare risposte pragmatiche alle sfide poste dai rischi della società mondiale - il pericolo di una guerra nucleare, i cambiamenti climatici, la migrazione, la povertà globale?
Oggi chiedersi in che misura la verità possa essere sostituita dalla pace è una domanda cruciale per la sopravvivenza dell’umanità. Ma la speranza per una religiosità inter-cristiana o cristianomusulmana senza la demonizzazione dell’altro non è la cosa più improbabile, ingenua, sciocca, assurda in cui si possa sperare?
(Traduzione di Carla Reschia)
*Ulrich Beck è professore di Sociologia presso l’Università di Monaco di Baviera e la London School of Economics