Dopo-Castro, mediazione della Chiesa?
di FILIPPO DI GIACOMO (La Stampa ,22/2/2008)
A Cuba il cardinale Bertone avrà motivo di sorridere. Come uomo di cultura, sarà contento del successo della mostra su Giotto e gli affreschi della Cappella degli Scrovegni di Padova inaugurata, in suo onore, nel Convento di San Francisco de Asis con una massiccia presenza di ministri. Come uomo di Chiesa, osserverà le chiese affollate: l’incremento dei battesimi tocca il 47% l’anno, il 79% dei battezzati cubani infermi riceve l’estrema unzione, cresime e prime comunioni crescono del 200% ogni anno. Come ha scritto Benedetto XVI nel messaggio che gli ha affidato, «la Chiesa deve seminare nel tessuto sociale cubano sentimenti di comprensione, misericordia e riconciliazione», contribuendo a «migliorare l’uomo e la società». Il popolo di Cuba, però, come disse già dieci anni fa Giovanni Paolo II nello storico viaggio sull’isola, deve poter «spalancare la sua mente, il suo cuore e la sua vita a Cristo».
Il cardinale dell’Avana Ortega y Alamino riferirà che il 60% di coloro che vanno a messa sono fedeli tornati alla Chiesa, o che hanno scelto d’essere battezzati nell’ultimo decennio, successivo alla visita di papa Wojtyla. La rinascita religiosa dell’isola è quasi tutta cattolica. E nonostante un decremento demografico dovuto alle forti correnti migratorie subite dalla società cubana, la crescita dei fedeli della Chiesa di Roma è molto alta. Nell’agosto 1994 in pochi presero sul serio il líder máximo che annunziò l’intenzione di invitare il Papa a Cuba. Nonostante le positive reazioni vaticane, l’invito fu presto dimenticato. Nel frattempo, voci autorevoli ipotizzavano per Cuba un dopo-regime affidato alla mediazione della Chiesa. Castro sapeva che la prima libertà a essere reclamata dal popolo sarebbe stata quella di coscienza e di religione. Già negli Anni 80 l’onda lunga della missione di Giovanni Paolo II aveva raggiunto le coste cubane, si tornava a riempire i luoghi di culto.
Anche il cattolicesimo cubano aveva assunto una nuova immagine, disegnata dall’allora vescovo dell’Avana Rodriguez e da due suoi combattivi confratelli, reduci dai «campi di rieducazione» castrista, il vescovo di San Salvador Pedro Meurice e l’allora giovane presule di Pinar del Rio Jaime Ortega. Anche se firmati da tutto l’episcopato cubano, ai tre vescovi viene attribuita la redazione di due documenti - gli atti del convegno della Chiesa cubana del 1986 e la lettera pastorale del 1993 - ancora considerati la chiave metodologica di ogni futura transizione politica post-castrista. È grazie a questi due manifesti che, negli ultimi decenni, i cattolici cubani hanno assunto un’identità sociale credibile e riconoscibile, incarnandosi in una realtà storico-politica in evoluzione.
La Chiesa di Cuba è riuscita a mantenersi povera, a non gestire alcuna forma di potere, a essere presente con una chiara vocazione di pace. Così, con una fitta rete di iniziative e dibattiti, i cattolici mantengono una forte attenzione sui problemi sociali e i temi sensibili come l’economia, la scarsa attitudine democratica delle istituzioni, la costante limitazione delle libertà individuali.
Nel novembre 2005, dopo una visita del cardinale Bertone, Fidel ha avuto un lungo incontro con i vertici dell’episcopato cubano. Quest’anno, agli inizi di aprile, per celebrare Bartolomeo de las Casas, nel XVI secolo uno dei fondatori della riflessione giuridica sui diritti dell’uomo, il dialogo diventerà nazionale e metterà a confronto gli accademici marxisti cubani con gli storici e gli intellettuali di parte opposta. I cattolici dell’Avana, sperando in un prossimo presidente Usa democratico e senza preclusioni ideologiche, ripetono che gli abitanti dell’isola caraibica amano risolvere i problemi del loro Paese con la solidarietà e il dialogo.
A tale metodo sembra affidarsi anche Raul Castro, uomo di fiducia dell’apparato militare, ostile a ogni soluzione violenta del problema politico del dopo Fidel. Inoltre, «il caso» ha voluto che il segretario di Stato vaticano prendesse l’aereo per Cuba, sperando di aprire «un tavolo di trattative» con il regime castrista, nelle stesse ore in cui Castro senior passava la mano. La diplomazia vaticana, a 90 miglia dalle coste della Florida, lavora in perfetta sintonia con l’amministrazione americana, che non vuole la guerra civile a Cuba.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
BARTOLOME’ DE LAS CASAS (Wikipedia).
Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE.
Fidel Castro, folla immensa per addio. Raul, "difenderemo socialismo, si’ se puede"
’’Giuriamo di difendere la patria e il socialismo. Fidel, hasta la victoria siempre’’. Raul Castro si rivolge ai cubani.
dell’inviata Serena Di Ronza *
’SANTIAGO DE CUBA ’Giuriamo di difendere la patria e il socialismo. Fidel, hasta la victoria siempre’’. Raul Castro si rivolge ai cubani. E la risposta delle migliaia di persone, riunite in Plaza de la Revolucion a Santiago de Cuba per l’ultimo omaggio pubblico al Comandante en Jefe, e’ chiara: ’’lo giuriamo’’. Stanco e con la voce roca, Raul parla al suo popolo e citando l’’’esempio’’ di Fidel dice: ’’Ci ha mostrato quello che potevamo fare, quello che possiamo fare. E ora quello che potremmo fare. Si’ se puede’’. La folla risponde: ’’si se puede’’. Una frase storica, rievocata da Barack Obama nella campagna elettorale del 2008 con ’Yes we can’.
Ripercorrendo le tappe della vita di Fidel, incluse le piu’ difficili, Raul ricorda la crisi dei missili e ’’l’impero americano’’. Ma Fidel ’’ci ha mostrato che abbiamo potuto creare una Cuba libera, trasformata in una potenza dal punto di vista della medicina e della biotecnologia’’. ’’Ci ha mostrato’’ che se si e’ potuto combattere per la ’’Namibia libera, per l’Angola e per l’apartheid’’, e che quindi Cuba ce la puo’ fare, ’’si’ se puede’’. ’’Si e’ potuto, si puo’ e si potra’ superare qualsiasi ostacolo per l’indipendenza, la sovranita’ della patria e il socialismo’’. Dalla folla si alza un fragoroso applauso. Raul coglie l’occasione dell’ultimo saluto pubblico al Comandante en Jefe per ringraziare ’’ancora una volta’’ il popolo cubano per ’’il rispetto e l’amore’’ mostrato a Fidel in questi giorni.
’’Milioni di persone hanno firmato i registri della rivoluzione’’, quei registri delle condoglianze che hanno consentito ai cubani, firmandoli, di dare il loro personale saluto a Fidel. ’’Sono rimasto impressionato dalla reazione dei giovani’’ aggiunge. E la Plaza de la Revolucion e’ piena proprio di giovani. La cerimonia di saluto e’ piu’ breve di quella simile che si e’ svolta a L’Avana. Ed e’ dedicata solo al popolo cubano. Le personalita’ presenti, fra i quali Nicolas Maduro presidente del Venezuela, non intervengono. A parlare dal palco sono le associazioni dei lavoratori, degli agricoltori, dei combattenti della rivoluzione cubana. Fidel era un ’’soldato delle idee’’ dice il presidente del sindacato dei lavoratori. ’’Ci ha mostrato che i principi non si discutono, si difendono a ogni costo’’ gli fa eco il presidente dell’associazione degli agricoltori. ’’Porteremo avanti la rivoluzione con lealta’, continueremo l’opera’’ aggiunge il presidente dell’associazione dei combattenti della rivoluzione cubana. ’’Gli studenti non lo tradiranno, non falliranno nella loro opera di portare avanti la rivoluzione’’ dice il presidente dell’associazione studentesca.
La piazza ascolta, canta ’Yo soy Fidel’. Fra la gente si percepisce un partecipazione sincera. ’’Dobbiamo moltiplicarlo, dobbiamo creare tanti Fidel’’ dice Rita Maria. Con l’intervento di Raul Castro si chiude l’ultimo saluto pubblico a Fidel Castro. La cerimonia di sepoltura avverra’ alle 7.00 ora locali, le 13.00 italiane, chiudendo i nove giorni di lutto nazionale, consegnando ’’Fidel all’eternita’’, come dicono i cubani.
Nel collegio dei gesuiti di Santiago dove Fidel imparò l’arte della lotta
Disciplina e studio: qui si formarono i fratelli Castro. E Raúl ora potrebbe riaprirlo
di Paolo Mastrolilli (La Stampa, 19.09.2015)
Fidel lo chiamavano «bola de churde», palla di sporcizia, perché distratto da troppe altre cose, non trovava sempre il tempo di lavarsi a dovere. Raúl invece «la pulgita», piccola pulce, non tanto per le dimensioni del corpo, quanto per come stava sempre appiccicato al fratello. Ma la cosa sorprendente è che ormai queste storie non le nasconde più nessuno a Santiago, la «ciudad rebelde siempre» dove tutto è cominciato e tutto potrebbe chiudersi. In un cerchio che ruota intorno al Colegio de Nuestra Señora de los Dolores, il collegio dei gesuiti dove sono cresciuti i fratelli Castro.
Attaccato come una pulce
Angel, il padre, era un proprietario terriero ricco ma rude, e per far entrare i figli nell’alta società di Santiago aveva scelto la scuola più prestigiosa, quella che preparava l’élite di Cuba. I gesuiti l’avevano fondata nel 1913 e i loro alunni, come i membri di un club riservato, si chiamavano «dolorinos». Fidel ci entrò nel 1938: lui, il fratello maggiore Ramon e il minore Raul, erano tra i 22 allievi privilegiati che vivevano nel collegio. Parlando con Frei Betto, lo stesso Líder Maximo non ha nascosto debito e ammirazione: «Era una scuola di gente più rigorosa, preparata, con vocazione religiosa molto più forte. In realtà, erano persone con maggior dedizione, capacità e disciplina, incomparabilmente superiori. A mio giudizio, era la scuola dove volevo entrare».
Fidel, secondo la ricostruzione di Patrick Symmes nel libro «The Boys From Dolores», non era il primo della classe. José Antonio Cubenas, figlio di un’altra famiglia notabile di Santiago e suo rivale in tutto, lo batteva sempre di qualche voto. Però era il secondo, e non perdeva mai l’occasione di leggere un libro in più. Esuberante sì, ma mai pigro. Anzi, i suoi nemici come Cubenas, che è andato in esilio a New York e ogni anno si incontra a Miami con i «dolorinos» sopravvissuti, rimproverano ai gesuiti di avergli insegnato troppo bene la disciplina militaresca che poi ha usato per vincere la rivoluzione.
Fidel era vorace: studiava, leggeva, organizzava, arbitrava e commentava le partite di baseball, portava sempre la bandiera del collegio nelle amate escursioni sulla vicina Sierra Maestra, dove poi non a caso avrebbe basato la sua guerriglia. Una volta scrisse al presidente Roosevelt, per complimentarsi della rielezione: «My good friend Roosevelt, I don’t know very English, but I know as much as to write to you». La Casa Bianca gli rispose, senza però inviargli il biglietto da 10 dollari che Fidel aveva chiesto, urtandolo assai. Del resto Fidel, suggestionato dal padre ex soldato, tifava per gli spagnoli nella guerra contro gli Usa, leggeva i discorsi di Mussolini, e quando Hitler invase la Polonia celebrò così: «Non rimane nemmeno un aereo polacco. È la nostra prima vittoria».
Fu proprio una litigata con Cubenas che mise fine a questa storia. Fidel aveva colpito involontariamente un ragazzo con la mazza da baseball, Jose Antonio lo aveva sfidato a pugni, e quando padre Sanchez li aveva separati, Castro le stava prendendo per la prima volta in vita sua. Così, per avere il diploma fu costretto a trasferirsi in un altro collegio gesuita, il Belén, a L’Avana.
Solidarietà gesuita
Il legame però non si è mai spezzato. Dopo l’assalto alla caserma Moncada, 850 metri di distanza dal Colegio de Dolores, dove il 26 luglio del 1953 Fidel fece il primo tentativo di rivoluzione, fu grazie all’intercessione del rettore della sua ex scuola che i militari di Batista si impegnarono a catturarlo vivo e processarlo: «Condannatemi pure - disse lui -, non importa. La storia mi assolverà». Nel novembre del 1958, quando era tornato sulla Sierra Maestra a fare la guerriglia, un insegnante del collegio, padre Guzman, andò a trovarlo, fra le proteste dei genitori degli alunni che non volevano un professore comunista. Una mattina di febbraio del 1961, però, la campanella del Colegio de Dolores suonò come mai prima. Quando gli studenti si riunirono nel cortile, il Padre Perfetto tenne un discorso di cinque parole: «Andate tutti a casa, ora!». Poco dopo arrivarono le guardie, perquisirono l’edificio e misero i lucchetti. Il 17 settembre dello stesso anno, con la scusa di una sparatoria avvenuta durante la processione della Virgen de la Caridad, tutti i gesuiti non cubani furono caricati sulla nave Covadonga ed espulsi. «Questo - ha scritto Symmes - faceva parte dell’essere gesuiti. La storia però ha insegnato che sarebbero tornati a Cuba, un giorno».
Oggi il magnifico edificio grigio del Colegio, tre piani con archi e volte in stile coloniale, ospita una scuola che prepara gli studenti all’esame per l’università. Invece di intitolarla ad un eroe della rivoluzione, l’hanno dedicata a Rafael Mendive, filantropo ottocentesco, amico del prete Felix Varela e insegnante del padre dell’indipendenza José Martí. Ad inaugurala nel 2006, dopo la ristrutturazione, è venuto Ramon Castro.
Maria, la signora che sta all’ingresso, mi conduce con orgoglio nella «sala storica», dove sono appese le foto di Fidel, Raul e Ramon in divisa, Fidel nella banda del Colegio, Fidel che alza sorridente il vessillo «Dolores». «Ora che viene il Papa - dice Maria - in piazza ci saranno migliaia di persone. Santiago è piena di cattolici, anche in questa scuola. La rivoluzione va bene, ma la fede è un’altra cosa. Non sono in contraddizione».
Riaprire le scuole
Francesco infatti viene anche per questo. Le scuole cattoliche hanno ripreso a funzionare a Cuba, ma sono tollerate, non riconosciute. Uno studente che prende il diploma viene accettato dalle università americane, ma non cubane. Il pontefice chiederà che questo cambi, e il ruolo dei cattolici nella formazione e l’istruzione sia accettato ufficialmente. Aveva visto giusto Symmes: i gesuiti tornano. Oggi, col Papa. E magari, se aveva ragione Graham Greene a credere nel miracolo dell’uomo dannato che mette Dio sulla bocca degli uomini, toccherà proprio ai «dolorinos» Fidel e Raul di riaprire le scuole dove avevano imparato cos’è un uomo.
Lettera dall’Avana
Cuba inaugura l’era Francesco
Il Papa argentino è cresciuto in un ambiente socio-culturale in cui è forte la domanda di una dignità negata: i legami dell’isola con l’America Latina, il ruolo attivo della Chiesa
di Franco Avicolli (Il Sole-24 ore, Domenica, 24.05.2015)
La partecipazione di Raúl Castro ai festeggiamenti per il 75° anniversario della vittoria dell’esercito russo sul nazifascismo, gli incontri con il papa Francesco e poi con Renzi nel breve tempo di una mattinata e il rapido ritorno a Cuba per ricevere Hollande, sono i segni della grande offensiva internazionale di Cuba avviata con la riapertura dei rapporti con gli Usa. Si tratta della volontà di ricollocare il Paese caraibico nel panorama internazionale forse con volontà di bilanciare con l’Europa i possibili squilibri che potrebbero nascere nel rapporto con il potente vicino del nord.
L’azione politica e diplomatica mostra un Raúl Castro solido e capace di gestire il passaggio delicato con la stessa autorità con cui lo faceva suo fratello Fidel. E ciò dopo un ciclo in cui era legittimo chiedersi se i cinquanta anni della Rivoluzione cubana fossero trascorsi all’ombra del líder máximo e con la conseguenza che tutto il resto dovesse muoversi in sottordine. Raúl ostenta autorevolezza e disinvoltura e chiarisce che la Cuba che è venuta fuori dal período special succeduto alla crisi dell’Urss e con Fidel Castro non più sulla scena è consapevole del cammino difficoltoso intrapreso.
La seconda questione è che Cuba è in grado di richiamare l’attenzione e di suscitare domande. Lo testimonia la rilevanza con cui i mass media trattano l’evento in corrispondenza ovvia dell’importanza che danno ad esso i Paesi interessati ribadendo ancora una volta che Cuba è un fenomeno quanto meno culturale per la sua capacità di andare oltre le righe e di imporsi all’attenzione, malgrado la sua importanza economica non sia tale..
La terza questione è la centralità che hanno in tutto il progetto la Chiesa di Roma e il papa Francesco, che in settembre visiterà Cuba. Il papa è argentino ed è cresciuto in un ambiente sociale e culturale in cui è forte la domanda storica di una dignità negata e non è casuale che Bergoglio abbia posto il tema della dignità dell’uomo al centro del suo magistero. Orbene, il papa sa bene quale ruolo ha avuto Cuba in America Latina nella lunga storia di quella regione per l’affermazione di identità e dignità negate. E il papa e Cuba sanno ambedue che uno dei grandi protagonisti della vicenda storica che ha aperto un nuovo cammino nei rapporti tra gli Usa e l’America Latina è l’argentino Ernesto Che Guevara.
Sono questioni che hanno valenza civile e culturale che ribadiscono che c’è una convergenza tra la Chiesa di Roma e Cuba e che questa si verifica sul tema della dignità dell’uomo che purtroppo non ha molti protagonisti sulla scena politica nazionale e internazionale e di cui la tragedia delle migrazioni è un esempio fin troppo evidente.
La questione non è estranea al rapporto fra Cuba e gli Usa che storicamente ha avuto atteggiamenti di arroganza verso il Paese caraibico dalla dottrina Monroe e dalla progettazione esecutiva illustrata con la Conferenza Panamericana di Washington del 1889-90. L’azione degli Stati Uniti è stata sempre di contrapposizione e di sovrapposizione ai legittimi processi di indipendenza che i Paesi dell’America Latina avviarono agli inizi dell’Ottocento e rimasti sostanzialmente frustrati per la loro invadenza condizionante e tutt’altro che pacifica. Nel caso di Cuba e del suo processo di indipendenza che si realizza tra il 1895 e il 1898 c’è addirittura l’aggravante dell’intervento diretto che espropria il Paese caraibico anche della gloria di una guerra vinta sul campo dall’esercito libertador dei cubani e il peso dell’emendamento Platt che legittima l’intervento degli Usa secondo valutazioni di suo interesse.
Ma se il problema dei rapporti Cuba-Usa ha una sua forte valenza culturale, bisogna anche considerare che a Cuba l’assunzione di una coscienza storica e di dignità non sono un’esclusiva dell’apparato dello Stato e del mondo culturale cubano cosiddetto ufficiale.
La rivoluzione cubana ha generalizzato il diritto all’istruzione, il diritto alla salute e al lavoro e ad altri diritti che hanno permesso una crescita straordinaria delle generazioni che dopo il 1959 hanno potuto giovarsene. Ed è accaduto che il problema storico dei rapporti con gli Usa che la rivoluzione castrista ha dovuto affrontare e subire, sia diventato anche un problema della società cubana oggi più istruita e più consapevole della problematica economica e sociale in cui si ritrova. E del suo mondo culturale che si caratterizza, come dappertutto, con azioni e protagonismi soggettivi a volte scomodi soprattutto per un sistema politico dove i fattori ideologici hanno un ruolo di rilievo.
Insomma si è verificato che degli intellettuali e degli artisti siano interessati all’essere cubano e al suo destino oltre lo spazio tracciato dallo Stato in senso temporale e ideale. Per cui sulla scena del Paese ci sono non solo la dignità generata dalla rivoluzione castrista, ma anche quella di altri momenti della storia di Cuba, come ha voluto dire Mario Coyula con il romanzo Catalina che recupera l’importanza culturale di una borghesia nata dalla guerra per l’indipendenza e cancellata forse più per pigrizia che per necessità. O come scrivono di altre questioni anche ideologiche, scrittori come Leonardo Padura che è una voce dissonante che però si riconosce in una valenza tutta interna al Paese e ben radicata.
Se negli anni Sessanta un regista come Tomás Gutiérrez Alea (Titón) faceva un film come Memorie del sottosviluppo tratto dal romanzo omonimo di Edmundo Desnoes che faceva un viaggio introspettivo di un borghese in una società nell’effervescenza rivoluzionaria, oggi l’eco di quell’atteggiamento dello stesso Desnoes è Memorie dello sviluppo che entra invece nell’inquietudine di un intellettuale non più affascinato dalla rivoluzione senza però esserne un nemico. E si tratta anche di vicende personali dello scrittore andato negli Stati Uniti dove ha vissuto tra il 1980 e il 2003 e del regista Miguel Coyula che ne ha tratto un film. L’uno e l’altro vivono oggi a Cuba.
Fra i valori della dignità culturale di Cuba non è possibile non dare il giusto rilievo a uno dei giganti della letteratura cubana e mondiale come José Lezama Lima di fede cattolica, come i poeti Cintio Vitier, Fina García Marruz ed Eliseo Diego. La Rivoluzione cubana ha permesso di indagare sullo spessore storico del Paese e le nuove generazioni hanno riscoperto l’importanza di un passato come è accaduto con il corposo recupero dell’Avana vecchia avvenuto per merito della determinazione di un altro cattolico, Eusebio Leal che ha creato un modello per altre possibili azioni similari.
Hanno quindi la loro importanza il rapporto storico tra i due Paesi e il ruolo che Cuba intende dare al proprio mondo culturale nella ricostruzione del rapporto con gli Usa. C’è un problema di carattere quantitativo perché lo scambio del prodotto culturale, poniamo per esempio il cinema, non può essere lasciato alla massima libertà del tipo «noi vi diamo quello che facciamo e voi quello che fate» perché a questo livello ogni possibile dialogo diverrebbe un monologo e un accenno in questo senso di una trentina di anni fa, non ebbe seguito appunto per questo.
Ma se il problema è quantitativo nel rapporto bilaterale, esso è qualitativo relativamente al ruolo che avrà il mondo culturale cubano proprio nella definizione della dignità dell’uomo. In questi anni numerosi intellettuali cubani hanno visitato gli Usa e non sono mancati intellettuali americani che sono stati a Cuba. Il più importante testo sulla Scuola Nazionale dell’Arte Revolution of Forms. Cuba’s Forgotten Art Schools è stato scritto dallo storico dell’architettura statunitense John Loomis. Ma si tratta comunque di episodi da ambo le parti. Ora si tratta di mostrare quale faccia intende far vedere Cuba al mondo e quale vogliono vedere gli Usa e se, appunto, nella costruzione di un rapporto in cui la cultura sarà chiamata a svolgere un ruolo qualitativamente importante, le pendenze storiche di ambedue i Paesi agiranno come condizionante o se la nuova fase aprirà le porte a un atteggiamento culturale davvero nuovo.
Credo che questo fattore sia decisivo non solo per le sorti di Cuba, ma forse dell’intero rapporto che gli Usa hanno con l’America Latina. E l’azione della Chiesa di Roma avrà un ruolo fondamentale.
Il segretario di Giovanni XXIII: «La scomunica al Líder Máximo? Non c’è mai stata»
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 28 marzo 2012)
Il 3 gennaio 1962, mercoledì, Giovanni XXIII annota: «Poche udienze: ma abbastanza diffuse...», e via elencando i nomi. Considerata l’acribia del Pontefice nello scrivere i suoi diari, una giornata tranquilla. Eppure sarebbe quello, il momento fatale. Il giorno della «storica» scomunica a Fidel Castro. Invece niente, inutile spulciare il settimo volume dell’edizione critica dell’Istituto per le scienze religiose di Bologna, nessun accenno: né quel giorno, né prima, né dopo. Perché? Per la più semplice delle ragioni: la famosa scomunica al Líder Máximo che rimbalza da anni nei media di tutto il mondo, più che mai citata in vista dell’arrivo di Benedetto XVI a Cuba, non c’è mai stata. Quando Ratzinger vedrà Fidel all’Avana - nel programma ufficiale non è previsto ma i due si incontreranno oggi - non ci sarà nessuna «pena medicinale» da togliere all’anziano ex allievo del prestigioso collegio di Belèn della Compagnia di Gesù. Perché quella della scomunica è una tenace leggenda metropolitana che monsignor Loris Capovilla, 96 anni, per dieci segretario particolare di Angelo Giuseppe Roncalli, liquida con un sospiro stupefatto: «Questa parola, "scomunica", non esiste nel vocabolario giovanneo. Perché continuino a tirarla fuori, non l’ho capito».
A essere precisi, «non c’era neanche nessun motivo», spiega monsignor Capovilla: primo, perché la scomunica ha senso soltanto per chi sta nella Chiesa e, secondo, perché c’era già stata la cosiddetta «scomunica ai comunisti» di Pio XII, ovvero il celebre decreto del Sant’Uffizio pubblicato il 1° luglio 1949 e di fatto cancellato col nuovo Codice di diritto canonico del 1983. Ma in realtà la faccenda è più sottile: «Quando all’inizio del ’59 Fidel Castro prese il potere, Roncalli era Papa da un paio di mesi. Arrivò anche la notizia di missionari e suore che erano andati via da Cuba. Ricordo che Giovanni XXIII ne parlò con il cardinale Domenico Tardini e dopo l’udienza mi disse: non ho mai visto il Segretario di Stato così irritato».
E come mai? Capovilla sorride: «Perché non si scappa. Non si scappa mai. E il Santo Padre era d’accordo con Tardini. Se ci mandano via, come poi è accaduto, allora dobbiamo andare. Ma la Santa Sede non prende mai l’iniziativa di rompere i rapporti diplomatici, non lo ha mai fatto». Con buona pace delle critiche, da qualunque parte provengano: «Anche quando uccisero Allende, in Cile, tutti i Paesi ritirarono gli ambasciatori e restò solo il nunzio vaticano. È sempre importante mantenere il nunzio, se restiamo lì possiamo operare, altrimenti non si può fare più nulla».
Così a Cuba, dopo il ritorno del nunzio a Roma Luigi Centoz, rimase come «incaricato d’affari» monsignor Cesare Zacchi che diverrà a sua volta nunzio e resterà nell’isola fino al 1975. Certo Roncalli era consapevole dei problemi. Il 17 settembre 1961 furono espulsi da Cuba 132 sacerdoti e il vescovo ausiliare dell’Avana, Eduardo Boza Masvidal. E quattro giorni più tardi il Papa ne parlò all’udienza generale («Detto tutto ma in forma moderata», scrive nel diario) denunciando «prove e sofferenze» nella nazione nonché l’«esodo, in parte imposto, in parte subito come minor male» di sacerdoti e religiose: «Confidiamo ancora che il buon volere, la calma delle decisioni, la ricerca sincera di salvaguardare i valori della civiltà cristiana abbiano il sopravvento su affrettate deliberazioni».
Non è il tono di chi si prepara a lanciare scomuniche. «Giovanni XXIII ha aperto una fessura nel muro di odi, divisioni e guerre», sospira monsignor Capovilla. «Anche durante la crisi dei missili a Cuba, nell’ottobre 1962, la sua mediazione spirituale e la sua preghiera furono decisive».
Eppure, in Vaticano, c’era chi sperava in una linea più dura, anche per ragioni tutte italiane. Per questo nacque la leggenda: «A parlare ai giornali di scomunica a Castro, richiamando il decreto del 1949, fu all’inizio del ’62 l’arcivescovo Dino Staffa, che più tardi fu creato cardinale da Paolo VI», spiega il teologo Gianni Gennari, il «Rosso Malpelo» che su Avvenire tiene la rubrica Lupus in pagina: «Si voleva usare la cosa a fini interni, in Italia era in vista il primo centrosinistra. A questo serviva lavoce della scomunica a Castro. E il Papa ne rimase molto dispiaciuto».
Il fratello del lìder maximo proposto come candidato unico alla successione di Fidel.
Attesa nelle prossime ore la conferma da parte dell’assemblea nazionale
Raul nominato nuovo presidente
Cuba sceglie il successore di Fidel *
L’AVANA - Raul Castro è stato nominato nuovo presidente di Cuba. Il fratello minore di Fidel è stato proposto ai membri dell’assemblea nazionale, riuniti oggi, come candidato unico alla successione dal Consiglio nazionale delle candidature, che ha ufficializzato le sue scelte per i vertici del Consiglio di Stato. Come vice presidente è stato indicato José Ramon Machado, un medico che guida la sfera ideologica del Partito comunista cubano. La conferma da parte dell’assemblea è attesa nelle prossime ore.
Per il suo successore alla presidenza dell’isola ha votato anche il lìder maximo. Prima di fare l’appello dei 614 delegati, l’assemblea parlamentare aveva infatti approvato all’unanimità la proposta di inviare due membri del Consiglio di Stato presso la residenza dove Fidel Castro trascorre la convalescenza perché anche lui potesse partecipare alla votazione.
Dopo 49 anni e 55 giorni, Castro lascia il potere per motivi di salute. I deputati, quasi tutti militanti o simpatizzanti del Partito comunista, votano oggi i candidati al Consiglio di Stato, il cui presidente è la massima autorità del Paese.
I candidati alle cinque vicepresidenze sono: Esteban Lazo, il vicepresidente Carlos Lage, i militari Abelardo Colomè Ibarra e Julio Casas e il Comandante della Rivoluzione, Juan Almeida.
Quasi tutti erano già convinti che il potere sarebbe passato nella mani del generale Raul Castro, reggente negli ultimi 19 mesi della malattia dell’ottuagenario Fidel. Raul, 76 anni (cinque in meno del fratello), è alla guida di Cuba dal 31 luglio del 2006, quando Fidel gli cedette "temporaneamente" i poteri, poco dopo l’intervento chirurgico all’intestino che da allora l’ha tenuto lontano dalla vita politica e pubblica.
Nel giorno in cui Cuba sceglie il successore di Fidel, gli Stati Uniti hanno augurato ai cubani di muoversi verso "un pacifico, democratico cambiamento". "Auguriamo al governo cubano di iniziare un processo di pacifico, democratico cambiamento con il rilascio di tutti i prigionieri politici, il rispetto dei diritti umani, e creare un limpido percorso verso libere ed eque elezioni", ha detto Condoleezza Rice in un comunicato diffuso a Washington.
* la Repubblica, 24 febbraio 2008.
Domani, i 614 membri dell’Assemblea del Poder Popular eleggeranno
il Consiglio di Stato (31 persone) che lo nomineranno Presidente
Cuba, Raul Castro sale al potere
ma non avrà tutte le cariche
La poltrona più importante, nella complicata geografia del potere cubano
è quella del segretario del partito. Era di Fidel, a chi toccherà adesso?
di OMERO CIAI *
ROMA - Per la prima volta dalle elezioni del dicembre scorso, domani mattina si riuniranno all’Avana i 614 membri dell’Assemblea del Poder Popular, il Parlamento cubano. Non si può sostenere che questi deputati rappresentino il paese in quanto sono stati votati in liste uniche bloccate, un tot in ogni provincia, senza che l’elettore avesse la possibilità di scegliere altre liste o altri candidati, ma certamente sono la crème de la crème dell’ampia burocrazia di regime. A loro spetta il compito di eleggere il presidente dell’Assemblea (quello uscente è Ricardo Alarcon), il vice e il segretario, ma soprattutto dovranno designare i 31 componenti del Consiglio di Stato che, a loro volta, eleggeranno il "Presidente del Consiglio di Stato" ovvero il Presidente di Cuba.
Nonostante alla vigilia del voto tutto sembri essere già deciso con la sostituzione di Fidel Castro con il fratello Raul Castro alla presidenza del Consiglio di Stato, quello di domani e dei giorni successivi è un passaggio istituzionale allo stesso tempo scontato e delicatissimo. E la ragione è molto semplice: fino a ieri tutte le cariche istituzionali di Cuba erano accumulate nella persona di Fidel che era nello stesso tempo: Presidente, segreterio generale del Partito comunista, capo del governo e comandante in capo (comandante en jefe) delle Forze Armate.
E’ altamente improbabile che Raul assuma contemporaneamente su di sé tutti questi incarichi e dalla loro distribuzione e dal nuovo equilibrio che ne uscirà, potremo incominciare almeno a sospettare - se non proprio a capire - il futuro molto prossimo del regime.
Seguendo i rumors degli ultimi giorni il Consiglio di Stato dovrebbe nominare come suo Presidente Raul e poi, su indicazione del Partito cui spetta la segnalazione del governo, designare Carlos Lage come nuovo Presidente del Consiglio dei ministri, ossia capo del governo. Fin qui tutto facile: ma poi bisognerà convocare un Congresso del Partito - l’ultimo risale ad undici anni fa - per eleggere il nuovo segretario (che nell’organigramma cubano è anche più importante del presidente del Paese) e scrivere una lista di ministri dalla quale capiremo quanto potere resta nell’ombra ancora nelle mani di Fidel e quanto invece è riuscito a sottrargliene Raul.
Un nome su tutti cui bisognerà stare attenti è quello di Felipe Perez Roque, il ministro degli Esteri. Roque è, di fronte a Raul e a Lage, l’uomo dell’ortodossia e della fede cieca nel dettato di Fidel (nessuna riforma, nessuno si muova) e non perché Lage e Raul siano "liberal", né tantomeno "democratici", ma semplicemente perché hanno capito che l’immobilismo strutturale del regime li porterebbe (senza il parafulmine di Fidel) solo al disastro definitivo. L’altra chiave sarà il nuovo ministro delle Forze Armate. Sarà un uomo tutto di Raul o l’ennesimo frutto di un compromesso con il fratello e il vecchio fronte dei fedelissimi della Sierra?
Infine la sorpresa. E cioè l’avvento alla massima carica della Presidenza del Consiglio di Stato di un uomo che non faccia di cognome Castro. Insomma, con Fidel che nonostante la rinuncia continua a muovere numerose pedine dietro le quinte con le sue "riflessioni" per Granma, la vera partita fra "immobilisti", "riformisti" e "dialogueros" (ossia "pontieri" con l’America e i cubani anticastristi in esilio) è appena cominciata.
* la Repubblica, 23 febbraio 2008.
Cuba a Bertone: aspettiamo Benedetto XVI
DA ROMA SALVATORE MAZZA (Avvenire, 23.02.2008)
La preghiera, intensa e costante, per «collaborare, dall’intimo del chiostro, alla costruzione di un’autentica società, molte volte ferita e privata di valori, senza identità, smarrita, con poca fede e lontana da Dio». È l’invito che il cardinale segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, ha rivolto ieri mattina alle religiose, durante la Messa celebrata nel monastero di Santa Teresa delle Carmelitane Scalze, a L’Avana, all’inizio del suo secondo giorno di visita nell’isola caraibica.
«Vi esorto vivamente - ha detto il porporato - a essere artefici, in questo modo a volte incompreso, di una nuova umanità ». Così, ha aggiunto, le religiose potranno «essere esempio, modello e ispirazione per tutti i cubani, aiutandoli in ogni momento a dare vigore al loro profondo spirito religioso, e al contempo sostenendoli nelle loro aspirazioni, gioie e sofferenze». Di qui l’invito a pregare «costantemente affinché il Signore illumini le coscienze di quanti hanno nelle mani la responsabilità di offrire una vita degna ai cittadini, di instaurare la pace e la giustizia, promuovendo la solidarietà a favore soprattutto dei più bisognosi».
In particolare il cardinale Bertone ha esortato a pregare «affinché si favorisca lo sviluppo dei valori umani, etici e religiosi, la cui assenza colpisce in particolare i giovani», senza dimenticare «mai le famiglie, affinché continuino a essere depositarie di un ricco patrimonio di virtù cristiane e trasmettano la fede e i grandi valori che scaturiscono dal Vangelo ».
La Messa nel convento delle carmelitane, come detto, ha aperto la seconda giornata a Cuba di Bertone, il quale la sera precedente aveva celebrato nella Cattedrale della capitale l’Eucaristia con tutti i vescovi dell’isola. In quella sede, nel porgergli il saluto a nome dell’episcopato, il cardinale Jaime Ortega y Alamino, arcivescovo dell’Avana, aveva espresso la speranza che «la visita di questi giorni possa essere un augurio per una visita del nostro amato Benedetto XVI ». E rispondendogli a braccio, in spagnolo, il segretario di Stato aveva detto, tra gli applausi degli oltre tremila fedeli presenti: «Credo che il Santo Padre abbia sentito molto bene l’invito del cardinale Ortega di venire a Cuba. Anch’io nel 2005 avevo portato al Papa l’invito del presidente della nazione cubana. Speriamo che in futuro il Santo Padre possa visitare Cuba».
La Messa in Cattedrale, durata oltre due ore, s’era poi conclusa con la consegna da parte di Bertone di un dono imprevisto al cardinale Ortega y Alamino: una casula appartenuta a Giovanni Paolo II, che Papa Ratzinger ha voluto espressamente regalare alla Chiesa di Cuba.
Anche questo gesto è stato accolto dagli applausi dei presenti, fedeli, religiose, sacerdoti, rappresentanti di altre confessioni cristiane e delle autorità cubane. In piazza anche un gruppo di Damas de blanco, madri, mogli, sorelle e figlie vestite di bianco dei 75 prigionieri politici arrestati nel marzo del 2003, di cui 20 sono stati liberati per motivi di salute ma 55 sono ancora in carcere, a scontare pene intorno ai 20 anni. «Siamo qui perché il cardinale Bertone e il Papa intercedano presso il governo per la liberazione dei nostri familiari - hanno detto le loro rappresentanti Miriam Leiva e Laura Pollàn - in carcere da anni solo per aver espresso le proprie opinioni».