NOTA ALLA STAMPA
Milano, 30 Luglio 2010
LA VERGOGNA POLITICA SI E’ COMPIUTA SOTTO I NOSTRI OCCHI : CHI DENUNCIA LE MALEFATTE
DELLA COMPAGINE GOVERNATIVA VIENE DEFERITO AI "PROBI-VIRI" (chissà di quale " probità " si tratta?)
OGGI CI E’ FIN TROPPO CHIARO QUAL E’ IL SENSO DELLA DEMOCRAZIA PER SILVIO BERLUSCONI : IMPEDIRE OGNI CRITICA ALLA SUA PROTERVIA E AL SUO STRAPOTERE
IMPEDIRE ALLA MAGISTRATURA DI FARE IL SUO DOVERE NEL PERSEGUIRE I REATI
L’ASSOLUTISMO IMPERIALE DEL PREMIER TRAVALICA DA OGNI PARTE
PERSINO LA CHIESA DEL VATICANO E DELLA CEI E’ DIVENTATA AFONA, DOPO CHE UNA RIVISTA DI PROPRIETA’ FAMILIARE DEL PRINCIPE DI ARCORE HA PUBBLICATO A MO’ DI RAPPRESAGLIA UN SERVIZIO SUI PRETI GAY E LA LORO DOPPIA VITA.
IN ITALIA ORMAI SI GOVERNA CONTRO I MAGISTRATI E CONTRO L’AFFERMAZIONE DELLA LEGALITA’ E DELLA GIUSTIZIA, IMPASTOIATI DENTRO A CRICCHE E COSCHE VARIE, E CON LE MINACCE E LE INTIMIDAZIONI DI DOSSIER SEGRETI: IN PURO STILE PIDUISTA O P3, MENTRE LE TELEVISIONI E I ROTOCALCHI VARI CHE FANNO CAPO AL REGNANTE PRESIDENTE RIMBAMBISCONO IL "POPOLO" (nome che piace tanto alla Lega e a questa destra) NEL PIU’ BECERO STILE POPULISTA CHE SI RICORDI DAI TEMPI DEL DUCE
A GIANFRANCO FINI TUTTA LA SOLIDARIETA’ E SOSTEGNO, PERCHE’ E’ UNO DEI POCHI POLITICI CHE, AGLI INTERESSI MESCHINI DI BOTTEGA, HA SAPUTO ANTEPORRE IL RISPETTO DELLA LEGALITA’ E DELLE ISTITUZIONI, SECONDO UNO STILE EUROPEO E MODERNO DI DEMOCRAZIA.
Dopo gli scandali sessuali ecco arrivare quelli delle cricche e delle congreghe in stile P3: chi li ha denunciati, dopo l’intervento della Magistratura inquirente viene deferito dal PDL di Berlusconi ai cosiddetti "probi- viri" che ovviamente non avranno nessun carisma di "probità" dato che condanneranno chi denuncia le malefatte e non chi le compie!
Gianfranco Fini viene costretto ad uscire da un Partito, in cui il senso della democrazia vera e il rispetto per la libertà di parola non esiste, a meno che si tratti della libertà di parola del solo Premier e dei suoi quattro o cinque cortigiani di corte che si affacciano spesso dai video delle nostre domestiche televisioni per imbonirci.
La Chiesa del Vaticano è diventata l’ombra di se stessa, priva di parola e di voce per denunziare alcunchè in un deserto desolante e generale della vita pubblica e nella messa alla berlina di ogni senso dell’etica e della morale, nel mercimonio di ogni cosa, anche la più sacra e intangibile, nell’acquiescenza ad ogni corruttela e corruzione, nell’ignoranza più crassa e nell’ignavia totale.
Chi si fa’ paladino della privacy delle persone contro le intercettazioni non esita ad usare i giornali e le riviste di famiglia per imbastire e costruire ad arte delle campagne diffamatorie, non ultima quella inscenata da Panorama sui preti gay, arrivando ad usare i giornalisti come infilitrati dentro la Chiesa, carpendo la buona fede stessa delle persone (istigando e favorendo i comportamenti stessi da registrare poi per realizzare lo scopo ) e violando non soltanto il codice deontologico ma anche quello civile e penale...
L’Italia viene governata ormai con due strumenti anti- costituzionali: il populismo e il terrore di dossier segreti costruiti con le complicità di spezzoni deviati e devianti di apparati dello Stato, rispetto ai compiti loro affidati dalle leggi.
Chi governa crede in cuor suo di poter disporre di tutto e di tutti: sia con il potere politico, sia con quello economico per finire con quello dell’informazione. Chi non si adatta e si inchina viene di volta in volta intimidito e destituito.
Il degrado universale, sia culturale che politico, cui è stato portato l’intero Paese nell’ultimo decennio è ormai sotto gli occhi di tutti!
Confidiamo e speriamo che l’uscita del Presidente della Camera Gianfranco Fini da questa triste compagine di governo, dopo mesi di estenuante battaglia per riportare in Italia un po’ di senso delle istituzioni e di democrazia europea, non sia vano ma porti frutti di legalità ed onestà di cui tutti abbiamo urgente bisogno.
Chi invece persevera nella tracotanza e la protervia troverà quel destino finale che fu riservato al ricco Epulone e di cui parla il Vangelo.
"Stolto, questa stessa notte ti sarà richiesta la tua anima!... A Che vale all’uomo guadagnare il mondo intero lucrando, se poi perde la sua stessa anima! .... " (Gesù Cristo).
I TEOLOGI del CENTRO STUDI TEOLOGICI di MILANO
+ Mons. Giovanni Climaco MAPELLI Arcivescovo e Presidente
CHIESA CRISTIANA ANTICA CATTOLICA e APOSTOLICA in ITALIA Diocesi di Monza per l’Italia
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA TEOLOGIA POLITICA DELLA "SOVRANITA’ PRIVATA" DELL’IMPRENDITORE E LA COSTITUZIONE.
Il manifesto di Fini per un’altra destra
di Massimo Giannini (la Repubblica, 06.09.2010)
Forse è davvero finita un’epoca, per l’anomala destra italiana nata dalle macerie del popolarismo democristiano e forgiata nel fuoco del populismo berlusconiano. Con il Manifesto di Mirabello, Gianfranco Fini varca un confine e politico, ed entra in una terra incognita sulla quale può costruire finalmente un’"altra destra". Compiutamente democratica e liberale, moderata e costituzionale. Nel solco delle grandi famiglie conservatrici europee.
Era enorme l’attesa per questo rientro in campo del presidente della Camera, dopo un agosto trascorso nella trincea di Ansedonia a patire in silenzio l’assalto del "Giornale". Quella di Fini, stavolta, è davvero una svolta radicale. Può ridisegnare geografie e geometrie della politica italiana. E può cambiare il corso della legislatura berlusconiana.
Con un discorso di un’ora e mezzo, degno per toni e per temi di un congresso di fondazione e non certo di un raduno di corrente, Fini ha reciso per sempre le sfibrate e impalpabili radici che ancora lo tenevano unito a Berlusconi. Certo, le vicende personali hanno pesato. La "macchina del fango" messa in moto a Montecarlo dai giornali-fratelli del presidente del Consiglio non può non aver influito sulla reazione durissima messa in scena a Mirabello dal presidente della Camera. Quei "Tg ridotti a fotocopie dei fogli d’ordine del Pdl", quelle "campagne paranoiche e patetiche", quegli "atti di lapidazione islamica" e quegli "atteggiamenti infami rivolti non a me, ma alla mia famiglia": era difficile, se non impossibile, che la rabbia finiana covata in queste settimane ed esplosa ieri dal palco non si traducesse solo in una inesorabile denuncia dell’aggressione subita, ma alla fine sfociasse anche nell’inevitabile rinuncia a proseguire la convivenza politica nel Pdl.
Ma insieme, e oltre alla rottura umana, pesa la rottura politica. Nell’elenco puntiglioso dei motivi che in questi due anni hanno portato al divorzio definitivo tra fondatore e co-fondatore non c’è solo la rivendicazione del diritto al dissenso che dovrebbe costituire l’essenza di un vero "partito liberale di massa". C’è invece la piattaforma identitaria di una destra politica che non è più conciliabile, e forse non lo è mai stata, con quella berlusconiana. Dall’idea malintesa della "riforma della giustizia" fatta nell’interesse di un singolo e del garantismo come "impunità permanente", coltivata da chi al potere si sente forte e crede per ciò di essere "meno uguale" degli altri di fronte alla legge, al disprezzo per le istituzioni e gli organi di garanzia, esercitato da chi usa "il Parlamento come dependance dell’esecutivo". Dalla mancata difesa dei diritti degli "extracomunitari onesti", praticata da chi declina l’immigrazione come pura "guerra ai clandestini", alla mancata difesa dei veri valori dell’Occidente, svenduti per bieca "realpolitik" nella "genuflessione" di fronte a Gheddafi. Nell’aspra requisitoria finiana su ciò che è accaduto nel Pdl in questi mesi, non c’è conflittualità "congiunturale" che non nasconda anche un’evidente incompatibilità culturale.
E questo non vale soltanto per la "cifra" identitaria delle due anime che in questi mesi hanno faticosamente convissuto nel Pdl. Vale anche per l’azione di governo, che per Fini è stata deficitaria sotto tutti i punti di vista. Dai tagli lineari di spesa che hanno generato le "proteste sacrosante" delle forze dell’ordine e dei precari della scuola al ridicolo "ghe pensi mi" col quale si è creduto di riempire il vuoto al ministero dello Sviluppo. Dal federalismo inteso come "favore a Bossi" alle promesse tradite sul taglio delle province, sulle norme anti-corruzione, sugli aiuti alle famiglie. Il presidente della Camera non fa sconti, né al Berlusconi-leader né al Berlusconi-premier. E il dissenso, stavolta, è totale e radicale. Di metodo e di merito. Perché Fini ha finalmente il coraggio di dire quello che era ormai chiaro da almeno sei mesi. Da quando cioè, in quell’incredibile direzione del 22 aprile scorso, andò in onda in diretta su tutte le televisioni lo scontro "fisico" tra i due. E cioè che si sente ormai "altro" da questo Pdl, che il Cavaliere ha ridotto a "contorno del leader", a "coro di plaudenti" o a "popolo di sudditi". Ha fatto regredire a rozzo "partito del predellino", o a versione scadente di "Forza Italia allargata a qualche ex colonnello di An" pronto a servire qualunque generale.
Dunque, quando il leader di Futuro e Libertà dice che "il Pdl è morto il 29 luglio", con quell’atto autoritario di marca "staliniana" con il quale il co-fondatore è stato estromesso, non si limita a chiudere per sempre la breve stagione del Popolo delle Libertà. Fa molto di più. Il suo non è solo l’epitaffio conclusivo di un vecchio ciclo. Ma è anche l’atto fondativo di un nuovo corso. Non c’è ancora l’annuncio ufficiale della nascita del partito, che deve dare forma e sostanza a quello che per ora continua ad essere solo un gruppo parlamentare. Ma c’è già il manifesto di principi e di valori sul quale il nuovo partito sarà edificato. Un partito rigorosamente di destra, questo è chiaro. Pronto a rivendicare il suo Pantheon e a risalire all’Msi di Giorgio Almirante, che Fini non esita a celebrare. Pronto a dimenticare in fretta le tappe di uno "sdoganamento" repubblicano che avremmo voluto assai più sofferto, assai più autocritico. Ma un partito di destra pronto a saldare definitivamente il conto con Berlusconi, e a saldare direttamente la "rivolta di Mirabello" del 2010 con la "svolta di Fiuggi" del 1995. Come se il Cavaliere - in questi quindici anni di "traghettamento" dell’ex Movimento sociale, dalle "fogne" di un tempo alle alte cariche istituzionali di oggi - fosse stato una parentesi. Più o meno felice. Ma ormai chiusa per sempre.
Il presidente della Camera ha cercato in tutti i modi di non vestire i panni del Bruto, capace di accoltellare Cesare in nome di chissà quale congiura di Palazzo. "Né ribaltoni, né cambi di campo", quindi. Ed è stato attento anche a non offrire alibi al Cavaliere, né sulla fine anticipata della legislatura (che sarebbe "un fallimento per tutti noi") né sulla minaccia di elezioni anticipate (che è solo "avventurismo politico"). Non solo: il presidente della Camera ha offerto al premier un "patto di legislatura", per far fare a questo governo tutto quello che ha promesso in campagna elettorale e non è stato capace di garantire ai cittadini. Certo, in un quadro e in un equilibrio politico diverso, dove la maggioranza non poggia più su "un tavolo a due gambe di Berlusconi e Bossi", dove i parlamentari non sono in vendita "come i clienti della Standa" e dove le grandi riforme "in nome del bene comune si fanno anche coinvolgendo l’opposizione". Persino sulla giustizia il leader di F&L si è spinto a dare una sponda estrema al Cavaliere, non certo sul processo breve, ma su un provvedimento che ricalchi il Lodo Alfano e il legittimo impedimento, e gli garantisca "il diritto di governare" senza fare strage dei processi che interessano migliaia e migliaia di cittadini in attesa di giudizio.
Ma è chiaro che, al punto in cui siamo, queste offerte appaiono inutili. Improponibili per chi le formula, e irricevibili per chi le dovrebbe accogliere. Se è vero, come dice Fini, che il Pdl non c’è più, e che "non si rientra in una cosa che non c’è più", allora è ancora più vero che non c’è più neanche la maggioranza che ha vinto le elezioni il 13 aprile di due anni fa.
Ancora una volta, la previsione più sensata l’aveva fatta quell’animale politico che risponde al nome di Bossi: "Fini romperà, e allora vedo grossi problemi per il governo: il Cavaliere sarà un premier dimezzato...". Il Senatur è stato fin troppo ottimista. Più che dimezzato, stavolta il presidente del Consiglio sembra finito. Ha di fronte a se soltanto una strada: aprire la crisi, e azzardare la richiesta di elezioni anticipate, che non dipendono da lui ma dalle regole della Costituzione e dalle prerogative del Capo dello Stato. E’ un rischio mortale. Il "pifferaio di Arcore" ha smesso di ammaliare i finiani. E forse comincia a incantare un po’ meno anche gli italiani.
La politica dell’antistato
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 03.08.2010)
È arduo farsi un’idea precisa della portata della trasformazione politica prodotta dai governi Berlusconi. Ma è urgente cominciare a fare un rendiconto per poter agire con prudente speditezza e capire che cosa fare. Partiamo dalle accuse mosse dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, al premier nel momento del suo congedo burrascoso dal Pdl. La prima accusa è di trattare gli affari di stato come affari di partito e gli affari di partito come affari suoi; la seconda accusa è di far passare l’impunitá per garantismo. La logica patrimonialista viene denunciata da anni; ora è confermata dal suo piú autorevole testimone. Queste le componenti inanellate: lo Stato è il partito e il partito è l’azienda del premier; di qui nasce la politica dell’illegalitá, che non è dunque una semplice questione morale. Tutto si lega nella logica privatistica che è, questo è il punto, una logica dell’anti-Stato.
Questo governo non lascerá solo macerie, dunque. Lascerá qualcosa di nuovo, forse il lascito piú tremendo e anche quello che occorrerá subito demolire, senza second thought. Il monito di qualche giorno fa del presidente della Repubblica a mettere in moto gli «anticorpi» interni alla nostra democrazia è un autorevole punto fermo dal quale partire. È urgente smontare il metodo di governo messo in piedi in questi anni, ovvero l’identificazione della decisione con l’emergenza, dell’informazione con la propaganda, della giustizia con la persecuzione, della legge con i lacci alla libertá, della pratica dell’illecito con la favola della «poche mele marce».
A questo metodo corrisponde il teorema, sintetizzato dal presidente della Camera, della illegalitá sistemica, composta e ridimensionata ad arte come questione morale. Ma dietro il linguaggio bonario delle «poche mele marce» che il premier e i suoi Tg dispensano per noi popolo dell’ascolto passivo, si nasconde una vasta e organica trama di governo sotterraneo degli affari, delle amicizie, dei privilegi; una trama che ha la natura di una politica dell’anti-Stato, volta a cambiare il carattere del potere pubblico e delle relazioni tra Stato e cittadini.
Chiamandolo anti-Stato riconosciamo che questo partito-governo-azienda ha e ha avuto una filosofia, un progetto preciso, a suo modo sovversivo e radicale. In una lettera a Repubblica del 5 luglio scorso, il Ministro Bondi, spiegando la tempra innovativa del suo leader, affermava che la «solitudine» del premier rispetto, non all’opinione pubblica, ma «al mondo politico, istituzionale e culturale», al mondo delle «alte magistrature istituzionali» era causato proprio dal fatto che il premier è «totalmente avulso» dalla logica dello Stato di diritto, dal «potere di veto derivante da una architettura istituzionale» e «dalla sedimentazione di norme burocratiche». Questa analisi è illuminante e da prendere sul serio. Il presidente del Consiglio è un «uomo nuovo», e per questo ammirato da chi ha sempre sentito le istituzioni come un impaccio alla libertà, invece che come canali di coordinamento delle azioni collettive per rendere la libertà individuale sicura perché non alternativa alla libertà altrui.
Questa è una rottura radicale con lo Stato moderno; e una ferita che peserà sulla nostra democrazia, nonostante i suoi provati anticorpi. Peserà, perché l’ammirazione per il guasconismo del neofita non è per nulla un fatto isolato, ma una componente della nostra tradizione politica nazionale. Che il Premier sia visto come un modello di modernità a paragone dei funzionari pubblici (le «alte magistrature istituzionali») è segno di una filosofia radicalmente sovversiva della modernità: un’esaltazione della rivolta del dominium (potere della forza, economica e privata) contro l’imperium (potere del pubblico).
Un nuovo ancien régime nell’età del mercato, una rivincita dell’oikos contro la polis, della «fatticità» della forza degli interessi contro la «nomatività» delle relazioni pubbliche, del fastidio quasi a veder trattare «me» e «te» come uguali nonostante il «mio» potere sia tanto più grande del «tuo», della repulsione verso l’eguaglianza di rispetto.
Alcuni «rivoluzionari» di quarant’anni fa sono rimasti irretiti e stregati da questo «uomo nuovo» perché hanno visto in lui la personificazione della loro convinzione che l’idea della legge imparziale sia ideologia da parrucconi, fatta per nascondere il «vero» potere, quello che opera nella società, che agisce senza orpelli e senza ipocrita imparzialità.
Perché onorare le istituzioni se sono solo una formalità e un espediente ideologico? Perché non ammirare il potere nella sua diretta espressione? La lettura della «solitudine» di Berlusconi rispetto al mondo dello Stato rivela questa antica attrazione per il «realismo» contro la norma, il disprezzo per chi crede nel diritto e non sa ammirare il potere «reale», un potere capace di rimescolare il pubblico e il privato gettando alle ortiche la stantia e ipocrita arte liberale della limitazione e della separazione. L’illiberalità, denunciata anche da Fini, è la logica che presiede un’idea di libertà come potenza.
La pratica del rimescolamento di pubblico e privato che il Premier e i suoi amici e ammiratori hanno inaugurato in questi anni è un macigno che pesa e peserà ancora sulla nostra vita pubblica. Smantellare questa politica anti-istituzionale radicale è il compito più urgente, un compito il cui successo dipenderà da almeno due fattori: che l’opinione pubblica e l’informazione facciano il loro lavoro di svelamento e critica, che non accettino più di essere strumenti di nascondimento della verità per tenere i cittadini spettatori passivi e adoranti; che l’illegalità venga chiamata col suo nome e perseguita con sistematica determinazione affinché il governo degli affari sia smantellato e la sua filosofia si mostri per quello che è, una ideologia del potere illimitato.
EQUIVOCATO O EQUIVOCO? BENEDETTO XVI O BERLUSCONI, NESSUNO COMPRERA’ LE NOSTRE PAROLE
La Cei accusa: “Italia senza classe dirigente”
di Giacomo Galeazzi (La Stampa, 1° agosto 2010)
«La nazione manca di una visione. In un momento drammatico l’Italia è senza classe dirigente». Nell’episcopato nazionale e nella Curia romana c’è piena concordanza nel ritenere che non sia affatto casuale la tempistica del duro monito lanciato alla politica dai vescovi italiani attraverso Radio Vaticana. Mentre infuria lo scontro tra Berlusconi e Fini, la Cei anticipa in piena estate all’emittente della Santa Sede i contenuti del documento per le "Settimane sociali" in programma a Reggio Calabria a metà ottobre.
«L’Italia sta vivendo in questo periodo una fase delicata dal punto di vista politico, economico e sociale ma è un Paese senza classe dirigente, senza persone che per il ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione, degli obiettivi condivisi e condivisibili», denuncia Edoardo Patriarca, segretario del comitato scientifico e organizzatore degli Stati generali dei cattolici italiani. In pratica, gli strali piombano sulla scena politica direttamente dalla "cabina di regia sociale" della Chiesa italiana, ossia dall’organismo direttivo presieduto dal vescovo bertoniano Arrigo Miglio. Parole pesanti come pietre: «Il Paese attraversa un passaggio difficile in cui però la politica non svolge la funzione che le dovrebbe competere, cioè tentare di dare una visione con obiettivi di medio e lungo termine».
Per la Cei la politica è inadeguata a rappresentare una realtà sociale che «nei territori ha tante persone vive, capaci di tentare impresa» e che «ha tanto buon associazionismo, professionisti validi». Dunque, «mancano soggetti che abbiano la capacità di orientare, che si assumano la responsabilità di costruire percorsi nuovi di speranza». Perciò i vescovi indicano il «bisogno di riprendere a crescere, economicamente ma anche moralmente da un punto di vista educativo».
Da qui la prospettiva di un maggiore impegno diretto del laicato cattolico nella vita pubblica a favore dell’interesse collettivo. Nell’attuale vuoto di classe dirigente, infatti, i vescovi ripartono «dall’appello di don Sturzo per i Liberi e i Forti» del 1919. «Noi cattolici crediamo che questa responsabilità ce la dobbiamo assumere, altrimenti rischiamo non solo di essere irrilevanti ma di compiere un peccato di omissione verso il bene comune», precisa Patriarca, perciò i credenti «la smettano di lamentarsi della Chiesa, dei vescovi e inizino ad assumersi in prima persona il rischio della responsabilità», altrimenti «sarebbe un gesto molto grave verso il bene comune e la carità cristiana».
Getta acqua sul fuoco il portavoce Cei, Domenico Pompili: «Sono considerazioni elaborate da tempo in vista delle Settimane Sociali e non vanno automaticamente collegate alle odierne vicende politiche». Anche perché il comitato organizzatore è un’entità dotata di una sua autonomia rispetto alla Conferenza episcopale. L’epicentro della crisi però è il Pdl, accusato di «arroganza» da "Avvenire". Anche il quotidiano della Cei, infatti, è critico verso il Popolo delle libertà. «Un terremoto politico del quale è difficile per ora valutare appieno le conseguenze». Sul quale si possono trarre già alcune conclusioni: «Si sta disgregando il progetto di un sistema politico bipartitico, mentre si attenua anche la concezione del bipolarismo basata sull’autosufficienza, spesso esibita con una certa arroganza verbale poi smentita dai numerosi scivoloni parlamentari».
Per Avvenire «la maggioranza di centrodestra appare oggi esplicitamente friabile, mentre le opposizioni divergono sulla soluzione da dare a un’eventuale crisi formale del governo. Il rischio maggiore è quello di una soluzione di paralisi».
Analisi severe e stilettate caustiche come quelle piovute nelle settimane scorse sui palazzi della politica dalla galassia ecclesiale per i tagli della manovra al Welfare e alle mancate politiche per l’integrazione degli extracomunitari. «L’intervista di Bagnasco all’Osservatore Romano e il monito della Cei alla classe dirigente su Radio Vaticana dimostrano la convergenza di visione tra l’episcopato nazionale e la Segreteria di Stato che invece in altri momenti si erano nettamente separate nella valutazione della situazione italiana - evidenziano nei Sacri Palazzi -. A differenza della scorsa estate e dei laceranti strascichi del caso Boffo, stavolta i vescovi e i vertici della Santa Sede sono accomunati dalla preoccupazione per le conseguenze sul tessuto sociale e sulle famiglie del vuoto e del caos nella vita pubblica».
Insomma, in un quadro già indebolito dalla crisi economica, le gerarchie ecclesiastiche si ricompattano perché «la Chiesa intera teme per la tenuta del sistema Italia». Intanto a Castel Gandolfo Joseph Ratzinger lavora al suo appello sociale all’Italia previsto tra un mese per la visita a Carpineto Romano (paese natale di Leone XIII) nel bicentenario del Papa della "Rerum Novarum".
Un test per il popolo del leader
di GIAN ENRICO RUSCONI (La Stamap, 1/8/2010)
Dinanzi a un enigmatico disinteresse dei cittadini, si sta consumando uno scontro decisivo nel partito di maggioranza che dice di rappresentare il liberalismo italiano. Dentro a quel Pdl che in modo enfatico ha monopolizzato il concetto e la (presunta) pratica liberale. Non a caso i due protagonisti dello scontro, Berlusconi e Fini, si rimproverano reciprocamente di non essere liberali. Ma nessuno dei due viene dal liberalismo politico storico. Quella che stanno rappresentando è una mutazione della politica, anzi della democrazia, italiana per la quale non si è ancora trovato il nome appropriato.
In questa circostanza i cittadini sono spettatori non partecipi. Tutto infatti si sta sviluppando freneticamente nel circuito politico-mediatico dominato dalla personalizzazione della vicenda. Il pubblico sta a guardare. Capisce la posta in gioco? Il messaggio trasmesso dai media dice semplicemente che Berlusconi «ha buttato fuori Fini dal Pdl» perché contestava la sua leadership.
Non importa sapere se e come si sia discusso nel merito delle posizioni finiane. Non si sono infatti sentite obiezioni o argomentazioni in merito alle controproposte finiane in tema di intercettazioni o sulla spinosa questione morale. Ciò che conta è che le tesi di Fini non coincidono con quelle di Berlusconi. Peggio: si tratta di tesi non sgradite all’opposizione. Questo spiega tutto.
O meglio questo spiega la reazione di Berlusconi. Il Cavaliere da anni è il dominatore della scena politica italiana dove con il suo intuito e con il suo potere mediatico ha inventato uno stile politico di governo che gode di un innegabile consenso popolare. Ha raccolto attorno a sé una nuova classe politica. Ha creato un sistema di valori e di comportamenti incarnato dalla sua persona e contrapposto al sistema delle istituzioni esistenti considerate «frenanti» se non «nemiche». In una parola, ha creato «il berlusconismo».
Contro di esso si è gradualmente profilato Gianfranco Fini. Si tratta di un politico che nel giro di un ventennio ha avuto una sorprendente evoluzione (o, se vogliamo, maturazione) che lo ha portato da nostrane posizioni nazional-fasciste a una prospettiva di destra europea liberale. Adesso coerentemente, in antagonismo al berlusconismo, sostiene il primato delle regole istituzionali. Non la loro strumentalità a favore degli obiettivi più o meno legittimi della maggioranza politica.
D’istinto Berlusconi ha capito - meglio e prima di tanti suoi sostenitori - che con questo atteggiamento Fini è diventato il suo vero «nemico». Gli è intollerabile, anzi incomprensibile la pretesa di Fini di continuare a essere suo «alleato» politico senza essergli «amico». Sembra una sottigliezza trascurabile (squisitamente liberale), invece è la chiave per capire il berlusconismo in questa fase cruciale. D’istinto Berlusconi divide il mondo tra «amici» e «nemici» senza bisogno di conoscere le teorie di Carl Schmitt che (guarda caso) è stato il più brillante e coerente anti-liberale del secolo passato.
Insisto a parlare di «berlusconismo» perché il Cavaliere conta, deve contare sull’adesione di una classe politica e giornalistica, di un intero complesso mediatico che nel conflitto in corso investe interamente il suo destino. Senza i suoi «amici» Berlusconi è perduto: ma vale anche il reciproco. La classe politica che costituisce la maggioranza parlamentare è perduta senza Berlusconi. Ma entrambi sono perduti senza il loro «popolo-degli-elettori».
Siamo tornati al punto di partenza: il pubblico dei cittadini cosa pensa in questo momento? Per avere informazioni ragionate, ponderate e ragionevolmente complete il cittadino dovrebbe dedicarsi alla lettura attenta di più giornali. Ovviamente è impossibile. Nel migliore dei casi ciascuno si tiene ben stretto il «suo» giornale contando che sia corretto e completo nelle informazioni e nelle valutazioni che offre. Ma la maggioranza degli italiani - purtroppo lo sappiamo - non fa neppure questo. Gli italiani non sono grandi lettori (salvo che per lo sport) e specialmente per la politica sembra che si affidino sostanzialmente alle comunicazioni televisive.
Questa «democrazia mediatica» non risponde affatto ai criteri della «democrazia informata» quale è richiesta da politologi e filosofi. Neppure quando prende la forma del dialogo apparente dei talk show e simili manifestazioni, dove non si cerca il dialogo o il confronto di idee ma l’occasione per ribadire pubblicamente le proprie posizioni. Non si è mai visto un politico o anche solo un giornalista farsi convincere e mutare opinione nel corso di un talk show.
Probabilmente molti berlusconiani avrebbero preferito che non si arrivasse al punto di rottura di queste ore. Ma la scelta del leader è ineccepibile: deve mettere alla prova il «suo popolo», il suo partito che non è uguale agli altri partiti. Il «partito del popolo» berlusconiano infatti ha sostanzialmente la funzione di mettergli a disposizione consenso e risorse. Deve offrire personale esecutivo, realizzatore, implementatore delle idee del leader. E’ per definizione unanime e compatto. In caso estremo deve essere scosso dall’apatia e ri-chiamato alle urne. Pensa già a questo Berlusconi? Sarebbe in sintonia con l’emergenza del momento.
Dinanzi a un enigmatico disinteresse dei cittadini, si sta consumando uno scontro decisivo! Della mutazione della politica, anzi della democrazia, italiana per la quale non si è ancora trovato il nome appropriato.
Democrazzazione ... Democrasfondare ... Democrala
Democradominare ... Mutacrazia ... Mutasconicrazia
Mutascomunicrazia... Deorabermolucrazia ... Silscramolucrazia
Scremocrazia ... Procrasticrazia ... Berscomucraziavades
Mollucrazia .............................
Se! per caso!!! Questi dieci titoli identificatrici della "Penosa" situazione!!! Spece per un emigrato-Integrato con qualche bricciola di sentimento per la Nazione dove e’ nato che e’ rimasta nascosta...non so ancora dove! forse nella tasca o nel cervello-cuore o altrove....dicevo che; se questi dieci titoli non sono abbastanza.....ne procurero’ altri....essendo cosi’ facili; incatastrati nella mente a causa degli eventi per essere dispenzati; ora che ce ne’ tanto bisogno.
Dove porta il paese l’avventura del cavaliere
di EUGENIO SCALFARI *
SI VOLEVA la prova di quale fosse la democrazia concepita da Silvio Berlusconi e dai suoi accoliti della «cricca»? Ebbene, basta aver seguito i suoi comportamenti nei confronti del presidente della Camera, reo ai suoi occhi di dissentire su alcuni temi importanti e soprattutto sulla concezione, appunto, della democrazia e delle istituzioni che dovrebbero esserne il presidio. Per Berlusconi il presidente della Camera, eletto a suo tempo dalla maggioranza parlamentare di centrodestra, è semplicemente un funzionario alle sue dipendenze che se perde la fiducia del padrone deve andarsene senza fiatare.
Questo modo di concepire lo Stato, che Berlusconi ha esteso a tutte le istituzioni nelle quali lo Stato si articola, dal presidente della Repubblica alla Corte costituzionale, alla magistratura, rappresenta una gravissima deformazione della nostra democrazia repubblicana e un continuo attacco alla Costituzione. L’incompatibilità del premier con lo Stato di diritto era del resto nota da tempo e da tempo denunciata. La rottura con l’ala finiana del Pdl ne ha dato una conferma talmente plateale che non è più possibile ignorarla senza diventarne complici. Quell’incompatibilità costituisce una pregiudiziale che va al di là delle distinzioni tra destra, sinistra e centro. Fino a quando non sarà eliminata il rischio d’un regime autoritario incombente resta di altissimo livello e richiede decisioni dettate ormai dall’emergenza.
Non si tratta di non mettersi l’elmetto, come per tanto tempo e tuttora esortano quelli che si bendano gli occhi per non vedere e si turano le orecchie per non sentire. Si può combattere anche a testa nuda purché si sia consapevoli che il peggio è già avvenuto e non può essere arginato cedendo ulteriormente terreno. Questo hanno scritto nei giorni scorsi Ezio Mauro, Massimo Giannini, Stefano Rodotà e questo voglio anch’io ripetere perché sia chiaro il discrimine tra chi si accuccia sperando non so in quale «stellone» che ci porti in salvamento e chi invece sostiene che il peggio è già accaduto e non ci resta che combatterlo a schiena dritta con i mezzi che la democrazia repubblicana può utilizzare per recuperare la sua essenza e il popolo la sua sovranità confiscata.
Credo che Berlusconi abbia fatto un grave errore scatenando l’attacco contro il co-fondatore del Pdl. Governo e maggioranza si sono cacciati in una sorta di vicolo cieco; l’opinione pubblica che finora gli ha assicurato un largo appoggio assiste sbigottita allo sfaldamento del Pdl. I sondaggi segnalano questo stato d’animo e non sono certo incoraggianti per il Cavaliere. L’errore di Berlusconi ha comunque una causa che l’ha determinato o almeno fortemente incoraggiato. Sono stati infatti Bossi e lo stato maggiore leghista ad incitare il Cavaliere a licenziare Fini ed hanno contemporaneamente interposto una barriera contro ogni ipotesi di aggregare Casini al centrodestra.
Bossi sapeva di rischiare una posta molto alta se Fini e Casini avessero acquistato maggior peso all’interno del centrodestra. Si sarebbe acuita la pressione in favore delle Regioni e dei Comuni meridionali, il federalismo fiscale e la valutazione dei «costi standard» sarebbero diventate questioni di alta criticità; così pure tutta la politica di accoglienza dell’immigrazione. Perciò Bossi ha puntato la sua partita sulla rottura con Fini e sull’irrilevanza di Casini, accompagnando gli incitamenti con la minaccia di cercare per conto proprio altri appoggi alla sua politica. Resta ora da vedere se l’errore sia stato commesso anche da Bossi. La Lega non vuole che si parli di elezioni anticipate fino a quando i decreti attuativi del federalismo fiscale non saranno stati emanati.
Con la sua consueta eleganza Bossi ha risposto alzando il dito medio alle domande dei giornalisti su eventuali elezioni anticipate. Ma il protrarsi della situazione attuale espone l’intero schieramento di centrodestra, Lega compresa, ad un processo di continuo logoramento. Quanto potrà reggere il governo ad una cottura a fuoco lento qual è quella cui Fini e Casini possono sottoporlo graduando con sapienza l’intensità di quel bollore? Un supplizio tanto più tormentoso in quanto non prevede la morte del suppliziato ma lo sfaldamento graduale del consenso fino a limiti minimi. Potranno Berlusconi e la Lega reggere ad un processo di questo genere? Personalmente credo sia impossibile. A quel punto cercheranno la via d’uscita tornando alle urne. La risposta l’avremo non oltre la fine dell’anno.
La richiesta di scioglimento anticipato delle Camere comporta in via preliminare che il presidente della Repubblica verifichi se esiste una maggioranza favorevole al proseguimento della Legislatura. Se questa maggioranza c’è, dovrà indicare il presidente del Consiglio. Ma il capo dello Stato può anche dar vita ad un governo istituzionale che abbia la fiducia del Parlamento, se ritiene che la fine anticipata della Legislatura esponga il Paese a gravi rischi. Nel nostro caso i gravi rischi obiettivamente esistono e sono di natura economica e soprattutto finanziaria. Scadrà a partire dall’autunno una massa di titoli pubblici dell’ordine di cento e più miliardi di euro che imporranno al Tesoro una gestione tecnica particolarmente oculata e richiederanno al tempo stesso una guida politica che abbia una sua visione degli interessi generali e della coesione sociale.
Passare attraverso una campagna elettorale estremamente accesa e dall’esito incertissimo che dovrebbe svolgersi proprio nell’arco di tempo in cui il Tesoro si troverà al centro di mercati ribollenti e fortemente speculativi significa alzare le vele in mezzo ad un tifone che potrebbe diventare uno «tsunami» catastrofico. Il presidente Napolitano credo sia perfettamente consapevole della pericolosità che la strategia d’attacco di Berlusconi ha messo in moto. Sarà perciò suo diritto-dovere esplorare tutte le soluzioni che evitino un’imprudenza di massimo rischio.
Tutte le forze politiche e sociali che abbiano consapevolezza degli interessi del Paese dovranno fornire pieno appoggio al capo dello Stato creando le condizioni che assicurino successo alle sue iniziative. La condizione numero uno è di evitare le elezioni finché durerà l’emergenza del debito pubblico. Da questo punto di vista gli inviti ripetutamente lanciati da Di Pietro e anche da Vendola alle elezioni anticipate sono - è il meno che si possa dire - irresponsabili e sconsiderati, anteponendo meschini interessi di bottega a quelli reali del Paese. Darebbero di fatto una mano all’irresponsabilità berlusconiana e aprirebbero la strada alle peggiori avventure. È perciò auspicabile che si rendano conto di quale sia la risposta necessaria per evitare un caos politico e uno «tsunami» finanziario.
Bersani propone da tempo un governo di larghe intese. Casini ha detto più volte che in caso di emergenza è disposto a partecipare ad una soluzione di questo tipo. L’emergenza c’è, è in atto e raggiungerà il suo culmine se Berlusconi chiederà lo scioglimento anticipato delle Camere. Ma è del pari evidente che le larghe intese dovrebbero essere estese anche a quei settori del centrodestra che hanno fin qui subito con disagio e frustrazione il dominio della «cricca» all’interno del Pdl. Ce ne sono più di quanto non si creda. Il nuovo movimento di «Futuro e libertà» creatosi intorno a Fini potrebbe calamitare alcuni di quei settori risvegliandoli dall’ipnosi e portandoli ad una piena consapevolezza dei propri doveri civici. Personalità come Pisanu potrebbero svolgere un compito importante di raccordo con altri settori cattolico-democratici. E la Lega?
Bossi ha la responsabilità d’aver rafforzato in Berlusconi la strategia dell’attacco contro Fini. Ma ora vede il rischio che l’errore commesso può creargli per la nascita d’un federalismo che non sia nordista e secessionista ma crei una novità utile per snellire lo Stato burocratico e sprecone di cui la Lega denuncia l’esistenza ma del quale in quindici anni di partecipazione al potere non ha saputo creare né la giusta configurazione né le giuste alleanze per costruirlo.
Anche Bossi ha privilegiato finora la sua ditta rispetto a un’idea nazionale del federalismo. Ma non è questa la strada giusta. La Lega è molto forte nel Nord ma sul piano nazionale rappresenta il 12 per cento del corpo elettorale. Il tanto irriso Partito democratico è più del doppio della Lega e se avesse la grinta e la compattezza necessaria, specie in tempi d’emergenza, potrebbe recuperare nel suo bacino elettorale una parte almeno degli elettori che si sono rifugiati nell’area dell’astensione non per odio contro la politica ma per delusione ripetutamente subita. Il bacino potenziale del Pd è valutabile intorno al 40 per cento, ma basterebbe che ritornasse al risultato raggiunto da Veltroni nelle ultime elezioni politiche, pari al 34 per cento, per dare corpo al centrosinistra e a tutta l’opposizione.
In conclusione, nei prossimi mesi (se non addirittura nei prossimi giorni) si possono verificare tre diversi scenari. 1. Il governo cerca di governare affrontando un lento ma costante logoramento, senza avere né la bussola né più la forza di attuare una politica capace di preparare le condizioni d’un rilancio economico e sociale, e continuando invece a privilegiare gli interessi del padrone e dei suoi accoliti. 2. Per uscire dall’«impasse» Berlusconi tenta l’avventura delle elezioni anticipate. Se riesce nel suo intento il rischio è uno «tsunami» del debito pubblico con i titoli italiani al centro della speculazione mondiale. 3. L’avventurosa iniziativa elettorale viene bloccata e si dà luogo ad un governo d’emergenza con caratteristiche accentuatamente istituzionali che ricordino il governo Ciampi nominato dal presidente Scalfaro nel 1992.
Le persone di buon senso e di sollecitudine nazionale ed europea sanno benissimo in quale direzione muoversi purché trovino il coraggio di metter da parte le proprie botteghe e si assumano il carico di responsabilità che la situazione richiede.
* la Repubblica, 01 agosto 2010
Se il “vampiro” abbandona la Chiesa
di Ida Bozzi (Corriere della Sera, 31 luglio 2010)
«Seguire Cristo non vuol dire seguire i suoi seguaci»: con il suo rifiuto della «cristianità» - più propriamente della cattolicità - espresso però «in nome di Cristo», la scrittrice americana Anne Rice ha aperto su Facebook una discussione che ha provocato un terremoto. Il fatto, rilanciato con grande evidenza dall’influente Huffington Post e poi dal «Washington Post» e dal «Guardian», risale a mercoledì, quando l’autrice di bestseller come Intervista con il vampiro ha pubblicato un post inequivocabile: «Oggi smetto di essere cristiana. Ne sono fuori. Resto fedele a Cristo come sempre, ma non all’essere "cristiana"». Risultato: oltre 1.300 commenti e 2.900 «mi piace» (il contrassegno che esprime consenso su Facebook).
La svolta, per l’autrice dalla vita tormentata e segnata da dure esperienze, viene a pochi anni dall’altrettanto clamorosa (ed enfatizzata) conversione alla fede dopo 40 anni di ateismo. Di famiglia cattolica, orfana di madre da adolescente, la Rice ha perso nel ’71 la figlia Michelle di appena 5 anni, morta di leucemia, e nel 2002 il marito Stan, ucciso dal cancro. Ma nel ’98, risvegliatasi da un coma, la conversione: la scrittrice ritrova la fede e dedica i nuovi libri alla storia di Gesù. Uno choc per i fan del vampiro Lestat de Lioncourt (diventato film con Brad Pitt, Antonio Banderas e Tom Cruise) e di altri personaggi della Rice, atei tormentati e pessimisti dalla sessualità libera. Ora la nuova svolta, motivata però non da un cedimento di fede, ma da una presa di posizione contro quelli che indica come eccessi normativi della Chiesa e le sue posizioni sui diritti civili: «Rifiuto di essere anti-gay. Rifiuto di essere anti-femminista. Rifiuto di essere contro il controllo delle nascite. Rifiuto di essere anti-democratica. Rifiuto di essere contro la scienza». Quasi un manifesto.
Contro le gerarchie per un cristianesimo che viva di libertà
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 31 luglio 2010)
Anne Rice confessa lo stesso disagio che per secoli non solo grandi letterati, filosofi e scienziati hanno espresso con veementi parole di denuncia, ma che donne e uomini «comuni» hanno provato sulla propria pelle, a volte persino rimettendocela sul rogo o in qualche camera dei supplizi. Non deve dunque stupire che la protesta dell’autrice di una grande saga di vampiri, capace di conquistare milioni di lettori in tutto il mondo, venga da una persona che aveva aderito al cattolicesimo dopo un lungo e tormentato cammino. Le prime vittime di una religione che si manifesta attraverso coazione e gerarchia sono i suoi fedeli, e non i miscredenti di qualsiasi estrazione - siano essi libertini, agnostici, atei, o quel che volete.
Anne è colpita dall’eccessivo numero di regole imposte dalla Chiesa di Roma. Ora, non è che le altre religioni ne siano prive, anzi. Tuttavia, ogni associazione privata (e tali non possono che essere tutte le Chiese, almeno nel quadro di una democrazia liberale) si basa su un insieme di norme che ne definiscono l’identità: queste possono venire cambiate o sostituite nel corso del tempo, ma non possono esser tutte eliminate, pena lo sciogliersi dell’associazione stessa. La vera questione riguarda il contenuto di queste regole e il modo in cui sono imposte e recepite.
L’associazione nota come Chiesa cattolica ha sempre ridefinito il suo nucleo più profondo in una struttura autoritaria: come hanno fatto notare gli ultimi due pontefici, che hanno tenuto a ribadire (nel caso qualcuno si fosse illuso) che la loro Chiesa non è (e non può essere) una democrazia. Si potrebbe obiettare da parte cattolica che l’obbedienza data liberamente a chi si ritiene il custode della parola di Dio è la forma più alta di libertà. Ma questa è solo retorica, che giustifica la rinuncia a quell’autonomia che tipi come Voltaire o Kant ritenevano caratterizzasse gli esseri umani quando escono dallo stato di minorità: perché non dire tutti, come il Leporello alle dipendenze di Don Giovanni, «son prontissimo a servir»? Discriminazione della donna, cui tra l’altro è negato il sacerdozio, concezione rigida della famiglia «naturale» (senza alcuna concessione a persone di orientamento non eterosessuale), divieto di esercitare l’autodeterminazione nelle scelte sessuali e persino nelle decisioni che riguardano la propria fine. Per non dire dell’incapacità delle alte gerarchie di fare veramente i conti con l’individualismo economico, il libertarismo politico e con l’innovazione scientifica e tecnologica, che spazza via superstizioni e vincoli vecchi di secoli.
Anne Rice, dunque, colpisce nel segno. E vista la società in cui vive credo che provi una certa insofferenza anche per lo scollamento, che il mondo cattolico ben conosce, tra un insieme di norme in teoria rigidissime e una pratica che le elude con mille accorgimenti. Quest’ultimo mi pare un tratto ancor più evidente in un Paese come il nostro che non nel contesto anglosassone. È possibile una vita cristiana diversa da così? Senza guardare ai tanti esempi dell’Europa soprattutto settentrionale o del Nordamerica, anche in Italia c’è qualche esempio prezioso: basti pensare al tipo di Chiesa e di etica, non autoritario e non discriminatorio, realizzato nelle valli valdesi del Piemonte occidentale. Difeso, come sa la storia, con una coraggiosa resistenza a qualsiasi genere di oppressione e intolleranza.
Uno scontro tra due idee di democrazia
di MICHELE AINIS (La Stampa, 31/7/2010)
C’è un conflitto più grave, più esteso e lacerante, della frattura che in queste ore ha spaccato in due come una mela il maggiore partito politico italiano. È il conflitto tra due concezioni della democrazia, della legalità costituzionale. La prima è una democrazia plebiscitaria: significa che la sovranità si trasferisce dagli elettori al leader, il quale poi la esercita dettando in solitudine l’agenda di governo così come l’organigramma dello Stato. La seconda è una democrazia parlamentare, con i suoi riti, con i suoi tempi, con i suoi equilibri perennemente instabili. È alla prima concezione che si è richiamato Silvio Berlusconi, cacciando dal partito Fini e licenziandolo dallo scranno più alto di Montecitorio. È alla seconda che s’appella viceversa il presidente della Camera, alla sovranità del Parlamento anziché del Capo carismatico. Non che le democrazie debbano temere le occasioni di contrasto. Meglio portarle allo scoperto che nascondere la polvere sotto i tappeti. Non per nulla la nostra Carta regola il conflitto d’attribuzioni fra i poteri dello Stato. E infatti la nascita d’un gruppo parlamentare autonomo chiude una stagione di congiure, dove non era chiara nemmeno l’identità dei congiurati.
Ora finalmente potremo fare un po’ di conti, ma soprattutto dovrà farli Berlusconi. Perché sta di fatto che sbarazzandosi del proprio oppositore interno in nome della democrazia plebiscitaria, paradossalmente ha rivitalizzato la democrazia parlamentare. È in Parlamento, difatti, che il suo gabinetto dovrà trovare i numeri per continuare a governare. È lì che le forze politiche potranno decidere di battezzare un altro esecutivo. Ed è sempre al Parlamento che il Premier dovrebbe riferire circa la fase politica che si è aperta nel Paese. Lo farà? È giusto dubitarne: nella democrazia plebiscitaria le Camere sono un orpello, un accidente inutile. Ecco allora l’autentico conflitto che in Italia si consuma ormai da molti anni: quello fra Costituzione scritta e Costituzione materiale.
È un conflitto fra diritto e anti-diritto, che in ultimo ci rende viandanti nel deserto del diritto, perché i due regimi s’elidono a vicenda. Eppure si profilano entrambi all’orizzonte specie durante il frangente d’una crisi, quando sarebbe maggiormente necessario il salvagente delle regole.
Accadde per la prima volta nel 1994, dopo il ribaltone di Bossi che colò a picco il primo governo Berlusconi. Lui reagì chiedendo elezioni anticipate, in nome per l’appunto della democrazia plebiscitaria; invece il presidente Scalfaro insediò il governo Dini, in nome della democrazia parlamentare. Adesso ci risiamo: Fini non si dimette, le regole scritte non contemplano alcuna mozione di sfiducia verso i presidenti delle assemblee legislative, Berlusconi tira in ballo le regole non scritte. C’è però un colpevole, c’è un killer a viso scoperto, in questa strage delle regole di cui siamo costretti a celebrare i funerali. Questo colpevole è il sistema dei partiti: tutti, di destra e di sinistra.
Nella seconda Repubblica si sono avvicendati a turno sui banchi del governo, senza mai adeguare la Costituzione scritta al nuovo ordinamento materiale, o senza contrastarlo in nome della legalità formale. In più trattano le istituzioni come la propria cameriera. Ne è prova lo scandalo del nuovo Csm, dove hanno trovato un posto al sole l’avvocato di Bossi (Brigandì), quello di Berlusconi (Palumbo), quello di D’Alema (Calvi). Ne è prova altresì la lunga occupazione della presidenza di Montecitorio da parte dei segretari di partito, ancora senza differenze tra sinistra e destra: nell’ordine Casini, Bertinotti, Fini. E poi ti meravigli se il capopartito continua a fare il primattore anche da lassù? Non sei stato proprio tu - Prodi, Berlusconi - a farlo votare? Nella prima Repubblica, quando s’affermò la convenzione che la presidenza della Camera spettasse al Pci, Berlinguer ci mandò la Iotti, senza mai sognarsi d’occuparla in prima persona. Ma Berlinguer è morto, e neanche noi ci sentiamo troppo bene.
michele.ainis@uniroma3.it
Pio XII contribuì alla pace? ◆ Alcuni documenti della seconda guerra mondiale, precedentemente tenuti segreti e consegnati di recente all’Archivio Nazionale degli U.S.A., rivelano molte cose sul ruolo di papa Pio XII durante la guerra. Le informazioni sono state tratte da messaggi decifrati trasmessi per radio a Tokyo da vari inviati giapponesi. “Moltissimi pensano che il papa potrebbe fare tanto per portare la pace ma non toccherà l’argomento”, comunicò per radio l’ambasciatore giapponese a Berlino. Il servizio di Thomas O’Toole del Post di Washington osserva: “I documenti fanno capire chiaramente che durante la guerra il Vaticano impartì scarsa guida morale. Sembra che il papa si preoccupasse più dei bombardamenti in Italia e della sconfitta dei tedeschi sul fronte russo che non di portare la pace”.
“Perché, Signore, hai taciuto?” QUESTE parole sono state pronunciate da papa Benedetto XVI il 28 maggio 2006, in occasione della sua visita all’ex campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia, il luogo in cui i nazisti sterminarono centinaia di migliaia di ebrei e altri. Il papa ha aggiunto: “Quante domande ci si impongono in questo luogo! Sempre di nuovo emerge la domanda: Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male? . . . Dobbiamo rimanere con l’umile ma insistente grido verso Dio: Svegliati! Non dimenticare la tua creatura, l’uomo!” -
L’Osservatore Romano, 7 giugno 2006. Il discorso del papa ha suscitato vivaci reazioni. Alcuni hanno rilevato omissioni significative, come il mancato richiamo all’antisemitismo che caratterizzò le atrocità di Auschwitz. C’è anche chi ha letto nelle parole del papa un tentativo di sminuire la richiesta di perdono per le colpe della Chiesa fatta da Giovanni Paolo II. Un giornalista cattolico, Filippo Gentiloni, ha osservato: “Era però logico che non pochi commentatori di fronte alla domanda difficile su dove fosse Dio, domanda senza risposta, chiedessero invece risposta alla domanda più facile: dove era Pio XII?” (Adista, 10 giugno 2006) I commentatori si riferivano al silenzio di papa Pio XII durante l’Olocausto.
L’Olocausto e tutti gli altri genocidi commessi nel corso della storia umana dimostrano che “l’uomo ha dominato l’uomo a suo danno”. (Ecclesiaste 8:9) Davanti a tanto orrore il Creatore dell’uomo non ha taciuto; anzi nelle pagine della Bibbia ha spiegato perché ha tollerato il male. Dio, inoltre, ci ha assicurato che non ha dimenticato l’umanità, perché il periodo concesso all’uomo per autogovernarsi avrà presto fine. (Geremia 10:23) Vorreste saperne di più riguardo al proposito di Dio per noi? I testimoni di Geova saranno lieti di aiutarvi a trovare nella Bibbia le risposte alle domande che hanno lasciato perplesso papa Benedetto XVI.