Archivi
La rivista «La Nuova Europa» pubblica una lettera inedita in Italia in cui l’autore russo prefigurava l’equivalenza dei regimi
Pasternak: nazismo e comunismo sono gemelli
Lo scrittore nel ’33 definiva i due totalitarismi «figli della stessa notte materialistica»
di Boris Pasternak (Corriere della Sera, 14.07.2008)
5 marzo 1933, Mosca
Miei cari mamma e papà, scusate se per tanto tempo non vi ho scritto, proprio non mi riusciva.
Non so come rispondere alla tua domanda a proposito di Anatolij Vasil’evic’; è questione terribilmente difficile e non ne ho il cuore. Un uomo che ha sofferto un colpo, la cui vita è appesa ad un filo, invecchiato, irriconoscibile, pronuncia davanti agli scrittori un discorso pubblico sulla drammaturgia, pieno di odio e di minacce, assetato di sangue e rivoluzionario: e questo quando ha già un piede nella fossa. Io ascoltavo con orrore e indicibile pietà. Mi sarà difficile trattare con lui, tanto più che si dice sia ancora malato. Forse è meglio che tu chieda a Šura.
Avete gioito troppo presto per la mia raccolta: l’hanno vietata. E inoltre in questi giorni hanno vietato anche la seconda edizione de Il salvacondotto, dedicata alla memoria di Rilke. Nonostante tutti questi dispiaceri siano insignificanti rispetto a come vive qui la gente, scriverò comunque a Gor’kij, per quanto ciò mi pesi. Le parole sul mio conto in cp. pal. hanno colto nel segno. Amara verità.
Come spesso ti ho scritto, a volte mi sembra di essere impazzito o di vivere in un incubo. La passaportizzazione riguarderà anche me: colpisce le due donne che fino ad oggi erano insieme a mio carico e che io ugualmente mantengo. Inoltre, Zina ha ancora una zia che probabilmente sarà sfrattata e non sa dove sbattere la testa. Garrik è già in confusione. Sono nel panico anche i vicini, i Frišman e Praskov’ja Petrovna. Con le tessere del pane ci sono state molte dolorose disavventure. Eppure gli scrittori sono portati in palmo di mano. Ma come fa la gente comune?
D’ora in avanti, forse, diventerà impossibile scriversi: è probabile che cresca la diffidenza da entrambe le parti. Ecco perché scrivo più apertamente che mai e proprio sul tema centrale, affinché in futuro possiamo limitarci esclusivamente a scambi di battute sulla salute, sempre che questa lettera vi arrivi e che a me non succeda nulla.
Auguro di tutto cuore, come pochi altri fanno, che sia coronato da successo qualsiasi tentativo di costruire un’umanità finalmente umana; e lo auguro soprattutto al nostro, visto che è proprio questo lo scopo per cui sono state sopportate così tante prove nel nostro Paese. Mi tormenta la stessa cosa nel nostro sistema qui e nel vostro, per quanto possa sembrarti strano: cioè il fatto che si tratta di movimenti nazionalistici e non cristiani, che corrono l’uguale rischio di scivolare nel bestialismo del fatto e che comportano un’identica rottura con la tradizione secolare misericordiosa, che si nutriva di trasformazioni e di prefigurazioni e non delle mere constatazioni della cieca inclinazione. Sono due movimenti gemelli, di pari livello, dove uno emula l’altro, il che è sempre più triste. Sono le due ali, destra e sinistra, della stessa notte materialistica.
Rispondimi comunicandomi di aver ricevuto questa mia lettera e dandomi notizie sulla vostra salute, e fammi anche sapere se devo continuare a scrivervi in russo o se è meglio in tedesco. Nel caso la corrispondenza alla nostra vecchia maniera crei difficoltà, per comodità comincerei a scrivervi nel mio pessimo francese storpiato. Avete letto la biografia di Wagner di Guy de Pourtalès? Leggetela. Ho molti progetti, ho una voglia matta di lavorare, ma tutto ciò è ancora là da venire: è idealismo.
Vi bacio forte Vostro Borja
Lo scrittore Boris Pasternak (1890-1960) ritratto nel 1924 con la prima moglie Evgenija Lourie e il figlio Evgenij
La capacità rabdomantica di anticipare gli eventi
di Dario Fertilio (Corriere della Sera, 14.07.2008)
Un Boris Pasternak talmente ispirato da sembrare il dottor Zivago, da identificarsi completamente con il suo personaggio letterario più famoso. È questo il profilo dell’autore di questa lettera, inedita fuori dalla Russia.
Testimonianza doppiamente forte e inquietante, se si considera la data che porta, cioè il 5 marzo 1933. Hitler era cancelliere in Germania da due mesi, mentre il regno staliniano teneva ancora in serbo i suoi orrori peggiori.
Eppure Pasternak già sapeva quel che sarebbe accaduto. Come spiegarlo? La risposta è nel passo in cui si parla di prefigurazione, cioè della capacità di vivere gli eventi in anticipo, immaginandoli: questa è considerata caratteristica distintiva dello scrittore ma, più in generale, tessuto connettivo di qualsiasi esperienza realmente umana. È invece il materialismo, secondo Pasternak, ovvero il «bestialismo del fatto», a distruggere l’uomo e la sua anima.
Ma là dove il profetismo dello scrittore si rivela inquietante è nel paragone fra «i due regimi gemelli di pari livello, dove uno emula l’altro», comunismo e nazionalsocialismo. Chi, oltre a Pasternak, poteva aver già colto nel 1933 quella affinità tra i due sistemi che qui lo spinge a scrivere: «Sono le due ali, destra e sinistra, della stessa notte materialistica»? Certo, un altro grande della letteratura russa, Vasilij Grossman, avrebbe descritto in Vita e destino l’equivalenza delle due bandiere rosse - una con la falce e martello e l’altra con la svastica - ma sarebbe arrivato a una simile, amara conclusione solo nel 1960.
L’unica spiegazione possibile è questa: la particolare filosofia di Boris Pasternak, la sua teoria riguardo alla necessità di lasciarsi invadere dalla vita senza remore, pronunciando un sì a ogni suo aspetto, comprese le illuminazioni e le contraddizioni, lo rese straordinariamente ricettivo, acuto, rabdomantico nell’indagare la marea montante dei totalitarismi.
Il merito della scoperta va a Serena Vianello, che si è imbattuta nel documento (il cui originale appartiene al fondo Pasternak di Oxford) consultando a Mosca l’Opera Omnia dello scrittore, da poco pubblicata. I riferimenti cui si allude nel documento sono stati decifrati da Simona Vianello: Anatolij Vasilevic, ad esempio, è Lunacharskij, primo commissario del popolo per l’Istruzione, cui il padre di Boris sperava di strappare l’autorizzazione a pubblicare un suo libro. Šura è il nomignolo di Aleksandr, fratello minore dello scrittore; la «passaportizzazione» allude al nuovo obbligo di passaporto interno con indicazione del domicilio; Garrik era un grande pianista, marito della sua futura seconda moglie; Guy de Pourtalès un biografo svizzero famoso all’epoca. Soltanto della misteriosa sigla «cp. pal.» sembra non sia ancora stata trovata la chiave.
Sul tema, inrete e nel sito, si cfr.:
Boris Leonidovič Pasternak (Wikipedia).
ULTIMO BANCO
16. Il Natale secondo Fëdor
di Alessandro D’Avenia (Corriere della sera, 23 dicembre 2019)
San Pietroburgo, Natale 1875. Al club degli artisti è in corso una scintillante festa di Natale, durante la quale molti dei presenti cercano di mettersi in mostra e di sembrare più belli e intelligenti. Un uomo in disparte, guardando con attenzione la scena e i volti degli invitati, nota che tutti si divertono ma che in realtà nessuno è veramente contento, allora decide di smascherare il gioco: «La disgrazia è che voi ignorate quanto siete belli. Ognuno di voi potrebbe subito rendere felici tutti gli altri in questa sala e trascinare tutti con sé. E questo potere esiste in ognuno, ma così profondamente nascosto, che è diventato inverosimile. La vostra disgrazia è nel fatto che vi sembra inverosimile».
Chi ha parlato in modo così bruciante è Fëdor Dostoevskij che racconta l’episodio nel suo Diario di uno scrittore, che raccoglie gli scritti dell’omonima rubrica tenuta sul settimanale “Il cittadino”. Per Dostoevskij, osservatore acutissimo, l’episodio mostra che se l’uomo smette di credere nella presenza di qualcosa di trascendente dentro e fuori di sé, diventa insicuro e comincia a disprezzare sé e/o gli altri.
Al fatto di cronaca lo scrittore fa poi seguire un racconto. Alla vigilia di Natale, in un gelido scantinato, un bambino di sei anni, infreddolito e affamato, cerca di svegliare invano la madre. Allora esce per le strade innevate di Pietroburgo con indosso pochi stracci: chi lo incontra finge di non vederlo per non doversene occupare. Egli si rifugia in una casa piena di persone che festeggiano, ma viene cacciato con la magra elemosina di una moneta che gli cade di mano perché ha le dita congelate. Si rincuora osservando una vetrina piena di giocattoli ma viene colpito e inseguito da un ragazzaccio. Scappa e si nasconde dietro una catasta di legna. Dopo un po’ di tempo finalmente non ha più freddo e sente una voce misteriosa che gli dice: «Vieni alla mia festa di Natale, bambino». Così si ritrova in un luogo caldo, luminoso e pieno di bambini: ad accoglierlo c’è la madre sorridente. L’indomani, dietro la legna, i proprietari trovano il cadavere del bambino.
Finisce così il racconto Il bambino alla festa di Natale da Gesù, e la festa in cui il piccolo si ritrova è l’eternità. Dostoevskij dice di essersi ispirato a un fatto vero ma riguardo al finale aggiunge: «Quanto alla festa di Gesù poteva questo avvenire o no? Proprio per questo sono un romanziere, per inventare». Il racconto del bambino è la chiave per comprendere a cosa non credono più gli artisti della festa: in Dio e nel suo manifestarsi.
Lo scrittore era convinto che quella di Cristo fosse una storia che si ripete in tutte le vite umane, infatti in ogni suo capolavoro mette in scena un passo evangelico che ne è la chiave di lettura: senza Lazzaro non si comprende Delitto e Castigo, senza le nozze di Cana I Karamazov, senza l’indemoniato liberato I demoni... Ne era convinto perché aveva sperimentato più volte l’intervento di Dio nella concretezza della sua vita: la condanna a morte e la grazia all’ultimo istante; i lavori forzati in Siberia e la lettura a memoria dell’unico libro a disposizione, il Vangelo; la malattia, la crisi economica e creativa, e l’incontro salvifico con la futura moglie Anna. Per lui la presenza di Dio nella vita di ogni uomo, per quanto nascosta o rifiutata, è continua e inesauribile.
Il bambino dello scantinato, uno dei tanti che morivano di fame e freddo nella sua città, è infatti il Bambino di Betlemme: egli vaga con pochi stracci (le fasce) per le strade della città-mondo in cerca di uomini che vogliano accoglierlo, per loro muore (la catasta di legna) in croce, ma risorge nella festa eterna. Per Dostoevskij, Dio passa accanto a noi in infiniti modi ma soprattutto nelle creature fragili, come i bambini, dalla sofferenza dei quali era tormentato come mostrano pagine abissali dei suoi romanzi. La fragilità è la veste umana con cui Dio si fa vivo dentro e fuori di noi: non è mai un’evidenza schiacciante, ma un sussurro, un invito, un’occasione, una luce silenziosa... Non saremmo liberi se non fosse così, e chi non è libero non può amare.
Gli invitati alla festa «si divertono ma nessuno è contento» perché hanno smesso di credere al Padre che li ama senza riserve: chi non si sente amato, così com’è, fatica ad amare sé e gli altri. Lo vedo tutti i giorni: i ragazzi con genitori che li fanno sentire amati sono più sereni; affrontano la vita come un’avventura faticosa ma promettente; hanno le spalle e il cuore coperti. Dostoevskij crede fermamente che Dio passa vicino a ognuno di noi in vesti non appariscenti, chiedendoci di collaborare con lui. Vi auguro di riconoscerlo, cari lettori, con le parole che Dostoevskij scrisse a un uomo incerto se assistere o meno una donna colpevole di infanticidio: «Non fatevi sfuggire il momento in cui il Signore fa la sua mossa». Così il Natale accadrà in e attraverso di noi. Auguri!
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UBUNTU: "Le persone diventano persone grazie ad altre persone". "CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO. "La meditazione" di Marianne Williamson, nel discorso di insediamento (1994), con approfondimenti.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Il caso.
La Ue equipara nazismo e comunismo
La risoluzione evidenzia la necessità di uno sguardo storico comune dell’Europa a ciò che ora la unisce: il rifiuto di ogni totalitarismo
di Riccardo De Benedetti (Avvenire, domenica 22 settembre 2019)
La risoluzione del Parlamento europeo di giovedì scorso, 19 settembre, che ha sostanzialmente equiparato sul piano storico il nazismo al comunismo, possiede tutte le caratteristiche per diventare uno spartiacque politico-culturale decisivo per l’identità della stessa Unione Europea. Intanto perché è il Parlamento Europeo a essersi espresso su una questione di tale rilevanza, non una qualsiasi Commissione o un Tribunale con giurisdizione incerta. La risoluzione, votata da 535 deputati a favore, 66 contro e 52 astenuti, è un atto politico vero e proprio.
A esprimersi a favore il gruppo del Ppe, di cui fa parte Forza Italia, il gruppo Identità e Democrazia a cui aderisce la Lega, il gruppo dei Conservatori e Riformisti di cui fa parte Fratelli d’Italia e anche quello dei Socialisti e Democratici di cui è membro il PD. I parlamentari italiani di tali gruppi presenti in aula ieri, risultano aver tutti votato a favore. Il che è confortante se non persino sorprendente.
Ma cosa dice, in sintesi la risoluzione? Che, dopo Norimberga, «vi è ancora un’urgente necessità di sensibilizzare, effettuare valutazioni morali e condurre indagini giudiziarie in relazione ai crimini dello stalinismo» (era quel che cercò di fare la grande antropologa Germaine Tillion, incarcerata nel lager di Ravensbrück, dove perse la madre, raccogliendo per dieci anni dopo la fine della seconda guerra mondiale i documenti dei crimini nazisti ma anche quelli perpetrati nei gulag staliniani, come si può leggere nel volume che riunisce i suoi saggi specifici: Alla ricerca del vero e del giusto); che «l’integrazione europea è stata una risposta alle sofferenze inflitte da due guerre mondiali e dalla tirannia nazista, che ha portato all’Olocausto, e all’espansione dei regimi comunisti totalitari»; che il «riconoscimento del retaggio europeo comune dei crimini commessi dalla dittatura comunista, nazista e di altro tipo, nonché la sensibilizzazione a tale riguardo, sono di vitale importanza per l’unità dell’Europa e dei suoi cittadini e per costruire la resilienza europea alle moderne minacce esterne».
In questo modo la comoda distinzione tra “stalinismo” e “comunismo” non è più possibile. È quella distinzione infatti che ha consentito finora a tante forze politiche e culturali di lucrare su una presunta differenza morale e storica tra stalinismo e comunismo grazie alla quale si poteva, e si doveva, condannare il nazismo assolvendo il comunismo che nulla, secondo costoro, aveva a che fare con lo stalinismo. Nella risoluzione, invece, quasi sempre la parola “stalinismo” è accompagnata e usata insieme a “comunismo”.
Ed entrambe sono altrettanto chiaramente accostate ai crimini commessi dal nazismo e dal fascismo e come tali da considerare, senza attenuanti o assoluzioni pregiudiziali. La risoluzione di fatto invita a proseguire il lavoro della memoria che è stato compiuto nei riguardi della Shoah e che ora deve allargarsi più decisamente alle vittime del comunismo. Il che è possibile fare proprio superando gli equivoci storici e morali, persistenti e reiterati, anche da molte personalità della cultura europea, relativi alle presunte differenze tra crimini nazisti e comunisti.
È un lavoro storico culturale che avrà bisogno di tanto impegno e tante risorse perché per troppo tempo molta parte della cultura europea si è adagiata nella convinzione che non si potessero nemmeno accostare i crimini nazisti a quelli comunisti, equiparare lager gulag e foibe. Un atteggiamento in molti casi frutto di convenienze accademiche dovute al potere culturale che in diversi paesi europei esercitavano i partiti comunisti.
Certo la risoluzione, richiamando anche la Russia ai suoi doveri di democrazia, e quindi a fare la sua parte per ciò che riguarda il riconoscimento delle responsabilità del comunismo e la necessità del superamento dei suoi residui nelle istituzioni e nella politica, si proietta in avanti, verso la necessità di uno sguardo storico comune dell’Europa a ciò che ora la unisce, nel superamento di quanto l’ha divisa in maniera sanguinosa e tragica per quasi tutto il Novecento.
E quel che la unisce è certamente il rifiuto dei totalitarismi nelle diverse forme storiche in cui si sono presentati e nell’evitare che si ripropongano, nella convinzione e nell’auspicio, però ancora tutto da realizzare, che non se ne riproducano di nuovi e di incogniti.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Il caso
Il ciclone Zivago: nuovi documenti sul libro di Pasternak
di Sergio Di Giacomo (Avvenire,19 agosto 2015)
«Meglio di qualsiasi altro scrittore sovietico, Pasternak è riuscito a creare l’immagine della Russia del XX secolo, con la sua coscienza, la sua anima e la sua spiritualità...Non pubblicare un romanzo come questo costituisce un crimine contro la cultura»: con questa definizione netta e incisiva il grande traduttore, slavista e studioso di letteratura e cultura russa Pietro Antonio Zveteremich (1922-92), nella scheda editoriale inviata all’editore Giangiacomo Feltrinelli nel maggio 1956, si fece entusiasta promotore della traduzione e pubblicazione di uno dei più celebri romanzi del Novecento, Il dottor Živago pubblicato in prima mondiale dall’editore milanese nel novembre 1957, che diede il successo mondiale a Boris Pasternak, Premio Nobel della letteratura nel 1958. Fu così che i lettori italiani, e poi di tutto il mondo, ebbero la possibilità di leggere le commoventi pagine di una delle più intense storie romantiche ed epiche della storia della letteratura mondiale, divenuta mitica grazie al film di David Lean del 1965 con Omar Sharif e Julie Christie.
La pubblicazione del romanzo, completato alla fine del 1955 dopo la prima stesura del 1953, fu frutto di un’autentica epopea internazionale, che viene ricostruita dallo studioso Paolo Mancosu, docente a Berkeley, California, nel volume dal titolo Zhivago nella tempesta in uscita dalla Fondazione Feltrinelli in italiano e inglese. Bisogna ricordare anche che esiste una fitta corrispondenza tra lo scrittore russo, Zveteremich, e l’editore Feltrinelli, come riportato anche nella biografia di Carlo Feltrinelli Senior service. Lo stesso figlio dello scrittore fa riferimento a molteplici «peripezie che accompagnarono l’edizione del romanzo in Italia», un autentico intrigo internazionale vissuto durante le fasi concitate della “guerra fredda” e del disgelo, vicenda complessa - con il Kgb, il Pcus e l’Unione degli scrittori russi che consideravano il romanzo opera “antisovietica” - su cui si sono soffermati, oltre a Velerio Riva che fu testimone diretto, diversi giornalisti (Fiori, Papuzzi, Grasso, etc.).
La figura di Zveteremich, nato a Colonia da padre triestino, risultò davvero decisiva in questa intricata e avvincente vicenda editoriale. «È doveroso ricordare il suo contributo alla realizzazione della famosa edizione del romanzo. Fu proprio lui a convincere Feltrinelli a stampare Il dottor Živago, ben comprendendone l’importanza. È stato il primo a tradurre il libro in lingua straniera e il primo a trovare gli equivalenti per rendere il tessuto metaforico di questa opera complessa. È rimasto nell’ombra, forse a causa della sua modestia». Così scriveva sul “Corriere della sera” del 16 aprile 2008 il figlio di Pasternak, Eugenij Borisovic, che fu curatore della revisione della prima edizione russa del romanzo realizzata nel 1994. Un ruolo decisivo confermato dallo studioso di letteratura russa Giuseppe Iannello, che ha tradotto alcuni carteggi: «Fu Zveteremich ad insistere con l’editore milanese, superando le tante pressioni politiche, anche della sinistra italiana, che volevano scongiurare la pubblicazione del romanzo. Purtroppo la sua traduzione originale del 1957, realizzata in tre mesi, fu tradita nelle edizioni successive».
Come ricorda la sua allieva, la polacca Aleksandra Parysiewicz Lanzafame, Zveteremich fu un intellettuale apprezzato da Calvino, Fortini, Soldati, Strehler, Vittorini, autore di programmi Rai, disegnatore, collaboratore de “Il politecnico”, illuminato traduttore di classici russi, del dissidente premio Nobel Solzenicyn, e delle poetesse Achmatova e la Cvetaeva. È stato celebrato di recente a Messina, proprio nel giorno della scomparsa di Sharif, con la posa di un suo busto posto accanto a quella di Pasternak, donati da alcune accademie russe, in quell’Ateneo peloritano dove insegnò letteratura russa dal 1974 al 1992.
Tutto aveva avuto inizio nel 1954, quando sulla rivista “Znamja”, lo studioso scopre le poesie di Boris Pasternak e viene a sapere che lo scrittore stava completando il romanzo Il dottor Živago, su cui in seguito si attivò, per conto di Feltrinelli, anche Sergio D’Angelo, collaboratore di Radio Mosca, che riuscì ad ottenere i diritti editoriali. Fu il traduttore, dopo aver fatto visita a Pasternak nel settembre del 1956 nel suo ritiro di Peredelkino (dove era controllato dai funzionari sovietici), a trasmettere a Feltrinelli - il quale aveva fretta di stampare il romanzo per superare la concorrenza della francese Gallimard - la richiesta di procedere il prima possibile alla pubblicazione del romanzo, la cui traduzione era stata completata il 18 giugno 1956.
L’iter per la pubblicazione fu alquanto complesso e pieno di incomprensioni. Lo slavista Angelo Rivellino, che apprezzava Pasternak solo come poeta, parlava di quel libro come «cosa minore», testimoniando degli ostacoli che il romanzo ebbe anche nel nostro mondo culturale, nonostante l’attenzione di personalità come Vittorio Strada, che lo aveva segnalato invano all’Einaudi. Il manoscritto fu inviato, incompleto e inedito, dallo stesso Pasternak allo scrittore Varlam Salamov, imprigionato in un gulag per il suo dissenso al regime: «Da tempo non leggevo in russo qualcosa all’altezza di Tolstoj, Cechov e Dostoevskj », scrisse Salamov, che grazie a quelle pagine si interrogò sul “Mistero cristiano”.
Questa spy story trova un altro elemento, scovato dallo studioso Ivan Tolstoj, che, come rileva Santavecchi sul “Corriere della sera” del gennaio 2007, parla del caso dell’«edizione della Cia» del romanzo, la copia in russo che fu copiata a Malta dagli agenti americani e inviata ai giurati del Nobel per potergli fare vincere l’ambito premio. Come epigrafe di questa storia da romanzo, ci rimane il telegramma che Pasternak mandò a Feltrinelli tramite Zveteremich: «Egregio signore, la ringrazio di cuore per la sua commovente sollecitudine. Mi perdoni per l’ingiusto trattamento che le ha procurato e, forse, ancora le procurerà, il mio amaro destino. Che la protegga il nostro lontano futuro, in cui credo, e questo mi aiuta a vivere».