De Sade? Un filosofo rivoluzionario che predisse Freud
Il «divino marchese» colmò un vuoto della Rivoluzione francese: il diritto di ogni essere umano di soddisfare le proprie pulsioni sessuali
di Renato Barilli (l’Unità, 29.06.2010)
Abbiamo già evocato l’ombra di Sade, a proposito del quadrilatero impostato dal Laclos di cui, del resto, il Divino marchese (1740-1814) fu quasi un perfetto coetaneo, però con l’avvertenza che per passare dall’uno all’altro bisogna capovolgere la visuale: il male che i protagonisti delle Relazioni pericolose tramano incessantemente è partorito nell’oscurità, nei recessi della mente, o appunto affidato al segreto epistolare, perché, se venisse rivelato, si meriterebbe la condanna unanime della casta nobiliare ancora pienamente insediata al potere.
Sade invece ne farebbe i requisiti di un insegnamento obbligatorio, all’altezza degli assunti generali della sua filosofia. In altre parole, egli è un filosofo, il terzo grande del Settecento francese, dopo Voltaire e Rousseau, magari con l’aggiunta a latere di Diderot, ma anche con la conseguenza (già verificata nei casi precedenti) che queste prestazioni di autori filosofi, benché assai alte nel profilo generale della cultura del secolo, strappano esiti alquanto minori, in sede specificamente narrativa.
Così è anche nel caso di Sade, in cui la narrazione è schematica, ripetitiva, esattamente come avveniva nei romanzi a tesi voltairiani, non nella Giulia rousseauiana, dove semmai il limite sta in una retorica troppo paludata e diffusa, che però sa fare il giusto posto anche alle ragioni del sentimento.
Ma dunque, in sostanza, questi filosofi narratori vanno giudicati, e stimati, in primo luogo per la profondità dei rispettivi messaggi teorici, nei cui confronti la narrazione assume un compito ancillare. E profondo, radicale è senza dubbio il messaggio lanciato da Sade, nella sua unilateralità, nella sua oltranza quasi maniacale. In fondo, egli è venuto per porre rimedio ai gravissimi limiti che il senno del poi, partorito nel corso dell’Ottocento e più ancora del Novecento, ha scoperto negli immortali principi del 1789, che magari immortali sono davvero, e tuttora validi, ma appaiono reticenti e incompleti su tanti fronti.
C’è in essi un totale vuoto e silenzio per quanto riguarda i diritti del quarto stato, cioè del proletariato, che prima ancora di esercitare una libertà di pensiero o ottenere un’uguaglianza giuridica e politica, avrebbe voluto essere liberato dai bisogni materiali, avere pane a sufficienza, lavoro decoroso e a ritmi sostenibili. Sia ben chiaro che di rivendicazioni del genere l’opera di Sade non si occupa per nulla, apparendo ancora intenta a mettere in scena i rappresentanti della nobiltà, aristocratici con le borse floride, così da poter praticare un costume sessuale totalmente libero.
Ma appunto questo è l’altro versante che la Rivoluzione francese non ha affatto toccato: il diritto spettante a ogni essere umano di soddisfare le pulsioni sessuali, l’eros primario da cui è dominato, senza prescrivergli limiti e censure artificiose. Ovviamente, la Rivoluzione francese, anche nelle predicazioni pur liberatorie di Voltaire e di Rousseau, non dava posto né a Marx né a Freud (...).
E beninteso, come già accennato, non c’è Marx nelle elucubrazioni del Divino marchese, ma un Freud anticipato di quasi un secolo, con una perentorietà e un estremismo che poi non ritroveremo nel padre della psicoanalisi. Freud verrà per diagnosticare la presenza insopprimibile del continente oscuro dell’Es, dell’eros, della libido, ma pure ad ammonire che la civiltà consiste nel trovare un giusto equilibrio, tra quelle spinte e le censure, che pure ci devono essere, se si vogliono alimentare gli alti costi del progresso. Sade ha l’estremismo del primo scopritore, che non si concede freni, getta sul tavolo l’intera posta, con assoluta univocità.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PERVERSIONI di Sergio Benvenuto. UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO
La perversione non è un comportamento sessuale deviato, visto che la trasgressione è comune a tutte le forme di erotismo. È piuttosto una sfida impossibile contro qualsiasi regola, qualsiasi precetto legato alla cultura, in nome di un concetto astratto di Natura Una tendenza che ai giorni nostri è forte più che mai
Il nostro lato Sade
il libertino che sfida la Legge
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 06.03.2016)
Nessuna figura come quella del perverso si candida ad infrangere ogni tabù. È la sua professione e il suo programma. È la sola perversione degna di questo nome: sfidare la Legge degli uomini mostrando la sua natura falsa e ipocrita, poiché la sola Legge che conta è quella del proprio godimento.
Un luogo comune, avallato anche da una certa psicoanalisi, ha voluto invece considerare la perversione come una aberrazione del comportamento sessuale, come un vizio che sottolineerebbe il carattere deviato, anarchico, esorbitante della sessualità. In realtà, da questo punto di vista, gli esseri umani sarebbero tutti egualmente perversi. Il desiderio sessuale è, infatti, abitato strutturalmente da una dimensione lussuriosa. Freud parlava a questo proposito già della sessualità del bambino come di una sessualità perversa-polimorfa. Mentre nel mondo animale il sesso sembra rispondere alla bussola infallibile dell’istinto, la sessualità umana eccede quella guida, la sconvolge; non si piega né alla finalità riproduttiva, né a quella del rapporto sessuale come semplice congiunzione dei genitali. Lacan ironizzava affermando che nella sessualità umana non c’è mai nulla di naturale, nulla di realistico: i gusti e le pratiche sessuali non sono piegati alla legge biologica dell’istinto ma appaiono sempre devianti, strambi, simili a dei collage surrealisti.
La vera perversione non si manifesta dunque nelle pratiche sessuali fuori norma anche perché è la sessualità umana come tale a essere “normalmente” perversa. Né si manifesta nella spinta a trasgredire la Legge perché nella trasgressione della Legge c’è già una qualche forma di riconoscimento del valore simbolico della Legge. Ne è una prova il senso di colpa che accompagna solitamente ogni atto trasgressivo.
Nell’Epistola ai Romani Paolo di Tarso ha messo bene in evidenza il nesso che lega la Legge al peccato. Solo se esiste una Legge può esistere anche il senso della sua trasgressione, ovvero il senso del peccato. È questa la dimensione della perversione che accompagna ordinariamente il desiderio umano, il quale può intensificarsi e inebriarsi grazie all’esistenza di un limite e al brivido provocato dal suo oltrepassamento trasgressivo.
Lo insegna anche il mito biblico di Genesi: è l’interdizione dell’oggetto (il frutto dell’albero della conoscenza) che lo rende un oggetto di desiderio. Più si rende un oggetto qualsiasi proibito e inaccessibile, più si alimenta il suo desiderio. Questa spinta del desiderio a superare il limite della Legge, non definisce però ancora la vera perversione.
Per intenderne davvero il significato bisogna abbandonare la dialettica tra Legge e desiderio sul quale si fonda l’iscrizione simbolica del tabù. Il vero perverso, infatti, vuole distruggere ogni tabù, cioè vuole liberare il desiderio da ogni forma di Legge, vuole sfidare la Legge degli uomini nel nome di un’altra Legge.
È quello che Lacan vede incarnarsi nell’opera libertina del marchese De Sade. Questi non si accontenta della versione paolina della Legge e della sua trasgressione. Questa nuova Legge con la quale il vero perverso pretende di smascherare la Legge degli uomini come un’impostura, una maschera, un artifizio ipocrita è la Legge del godimento. Essa non trova posto nei Codici, ma è per Sade iscritta nella Natura.
È il fondamento vitalistico che anima il sogno del perverso: seguire la Legge della Natura per raggiungere un godimento puro, non ancora corrotto dal linguaggio. Per questo la pedofilia è una delle espressioni più forti e inquietanti della perversione: godere dell’innocente significa ricuperare un godimento pieno, assoluto, non ancora contaminato dall’esistenza della Legge. Nessun tabù, compreso quello dell’incesto, deve ostacolare questo dispiegamento onnipotente e cinico del godimento.
Il disegno politico della perversione si chiarisce così come lo sforzo inumano di liberare le leggi della Natura dalle catene repressive delle Leggi della Cultura per riportare l’uomo al suo fondamento materialistico, vitalistico, come spiega pedagogicamente M.me Saint-Ange alla sua giovane depravata discepola Eugénie ne La filosofia nel boudoir: «Spezza le tue catene a qualunque costo, disprezza le vane rimostranze di una madre imbecille, a cui non devi che odio e disprezzo. Se tuo padre ti desidera, concediti: goda di te, ma senza incatenarti; spezza il giogo se vuole asservirti... Fotti, insomma, fotti: è per questo che sei al mondo. Nessun limite ai tuoi piaceri se non quelli delle tue forze o delle tue volontà».
Il teatro perverso di Sade, le giovani donne straziate, degradate, seviziate, umiliate dai loro carnefici, non ha altro fine che questo: riportare il godimento alla sua Origine, liberandolo definitivamente da ogni mancanza. Il richiamo alla Legge della Natura avviene così contro la Legge degli uomini, falsa e corrotta. Il vero crimine non è, infatti, quello del libertino, ma quello della Legge che osa imporre dei limiti al godimento; il vero crimine non è quello sadiano, ma quello dell’uomo falsamente morale che non rispetta le leggi della Natura.
Sade ci costringe a invertire il punto di vista morale della distinzione tra Bene e Male, tra Virtù e Vizio. Il vero peccato non è quello del libertino - il Vizio - ma quello della morale - la Virtù - che nega i desideri “naturali” che costituiscono l’essere umano. La Legge degli uomini è vista come un serpente o una vipera velenosa dalla quale bisogna difendersi. Essa impone sacrifici, limiti, soglie simboliche inutili che mutilano la spinta auto-affermativa di godimento della vita. In questo il marchese de Sade anticipa una svolta epocale in corso del nostro tempo dove i suoi proseliti si moltiplicano mostrando che la Legge degli uomini è solo una maschera artefatta della sola Legge che conta: l’affermazione incontrastata della propria volontà di godimento.
Celebrare Sade
di Alberto Brodesco (Nazione Indiana, 12 dicembre 2014)
In queste settimane, trascorso da pochi giorni il bicentenario della morte (3 dicembre 1814), sono in corso in diversi punti d’Europa degli eventi in celebrazione di Sade. Una prima importante iniziativa è la mostra “Sade. Attaquer le soleil” al Musée d’Orsay di Parigi, curata dalla grande studiosa sadiana Annie Le Brun. Una seconda mostra, “Sade, un athée en amour”, è organizzata alla Fondation Martin Bodmer di Ginevra per la cura di Jacques Berchtold e Michel Delon, la massima autorità in materia.
La prima esposizione va in cerca di Sade trovandolo dappertutto (nei dipinti di Goya, Géricault, Ingres, Rodin, Picasso...); la seconda, più filologica, esibisce manoscritti originali, illustrazioni d’epoca e altri reperti storici quali il calco in gesso del cranio di Sade. Alla dimensione espositiva si sommano poi le iniziative accademiche: un convegno a Parigi (“Sade en jeu”, 25-27 settembre) e uno a Aix-en-Provence (“Les lieux de la fiction sadienne”, 23 ottobre).
I risultati scientifici della recente ondata di studi sadiani sono talvolta sorprendenti, come quando, nel corso di una sessione dal titolo “Sade auteur comique?” del convegno parigino, la sala si è trovata a ridere alla lettura di alcuni passaggi particolarmente barocchi delle 120 giornate di Sodoma. Un terzo convegno ad Amsterdam (“Sade Today”, 2 dicembre) ha individuato in Sade un “teorico queer” ante litteram. Gli approcci francesi e quello olandese mostrano delle sostanziali differenze di impostazione: i primi, pur lasciando spazio a ipotesi non convenzionali, partono dall’analisi dei testi; l’altro apre le porte all’attualizzazione e alla libertà interpretativa.
Indicando due direzioni diverse, questi orientamenti scientifici sollecitano considerazioni più generali sulla questione del rapporto della contemporaneità con Sade. Dietro alla possibilità stessa di mostre e convegni, dietro all’odierna divulgazione sadiana o al Sade divulgato stanno infatti due fattori distinti e complementari. Il primo è il secolo e più di lavoro critico su Sade - diciamo da Maurice Heine in poi. Il secondo è una società profondamente cambiata rispetto ai tempi in cui stampare Sade portava a processo gli editori (va ricordato il coraggioso Jean-Jacques Pauvert, morto quest’anno). La convergenza di queste due spinte permette agli organizzatori del convegno di Amsterdam di tenere la loro sessione pomeridiana sul palco del teatro erotico “Casa Rosso” dell’omocromatico quartiere.
La disinvoltura con cui si può oggi parlare di Sade si inserisce nel complessivo sdoganamento non solo della pornografia ma anche dell’immaginario BDSM come legittimo oggetto culturale, persino alla moda. Se Sade è stato per molto tempo un corpo estraneo, inammissibile, ora lo si può considerare finalmente uno scrittore, di cui gli specialisti sono autorizzati (e finanziati) a parlare.
Ma quale Sade esce da queste celebrazioni? Se nemmeno Sade, che segna un non plus ultra nella storia della cultura occidentale, si sottrae all’integrazione nella società dello spettacolo, che cosa ha la possibilità di rimanerne fuori? Era la stessa Annie Le Brun curatrice della mostra al Musée d’Orsay a parlare in passato di una “straordinaria resistenza di Sade allo spettacolare”. E invece oggi intorno a Sade si organizzano esposizioni, rassegne di film, un quiz online su The Guardian... Sade diventa addirittura il personaggio di un popolare videogame, Assassin’s Creed Unity. È banale dirlo, ma i quarant’anni che son trascorsi da Salò o le 120 giornate di Sodoma, dove Pier Paolo Pasolini utilizzava l’inassimilabile Sade proprio a fini anti-spettacolari, hanno prodotto delle conseguenze che caricano di ulteriore forza le argomentazioni pasoliniane. In una società in cui la provocazione è il nuovo conformismo, la sparizione dell’osceno, trasformatosi nell’on-scene di cui parla Linda Williams, porta con sé la scomparsa di uno spazio etico, quello che induce a lasciare dei contenuti al di fuori della scena.
Nel periodo eroico del surrealismo Sade è stato essenzialmente un ispiratore di cattivi pensieri. Schierarsi dalla parte di Sade voleva dire non solo épater le bourgeois ma anche difendere l’indifendibile, sedersi dalla parte del torto. In un testo del 1929-30 dalla strana, paradossale attualità - una lettera mai arrivata ai destinatari intitolata “Il valore d’uso di D.-A.-F. de Sade” -, Georges Bataille tenta in modo complesso e disordinato di liberare Sade dalla trappola dei suoi ammiratori letterari per restituirlo al campo dell’azione rivoluzionaria. Sade è ancora oggi un “prossimo nostro” non per il piacere dello scandalo che sa provocare ma per quanto in esso rimane repellente, per ciò che costringe ad abbandonare la lettura o la visione. Il recupero della forza politica dell’osceno passa per l’apparizione dell’insopportabile e dell’inguardabile.
Per la versione inglese del documento di Bataille : The use value of D.A.F de Sade
Sade non fu mai messo all’Indice
In Francia si fece 28 anni di carcere, le sue opere erano un caso editoriale che dura tutt’ora
di Francesco Margiotta Broglio (Corriere della Sera, 01.12.2014)
Nel 1947, per la prima volta, varie opere di Sade vengono pubblicate a Parigi con il nome e l’indirizzo di un editore, Jean-Jacques Pauvert, che inizia con La storia di Juliette ovvero le prosperità del vizio , apparsa in origine nel 1797 con il falso luogo «In Olanda» e arricchita da cento incisioni. Di essa l’autore negò la paternità, ma i librai non esitarono a tradirlo, mentre du Ravel dichiarò che egli aveva superato se stesso con uno scritto ancora più detestabile di quell’infame «capolavoro di corruzione» rappresentato da Justine (1791), sorella di Juliette, che sarà seguito dai 4 volumi della Nuova Justine. Nel marzo 1801 Sade viene nuovamente arrestato (in tutto saranno 28 i suoi anni di carcere) e il manoscritto di Juliette viene sequestrato dalla polizia, ma i librai parigini nel 1802 fanno a gara per ristampare e diffondere le sue opere. Si trattava, e così sarà fino al 1947, di edizioni clandestine o di tirature molto ridotte.
Pauvert, che aveva sfidato tabù sociali e leggi sulla censura pubblicando 24 volumi di Sade, venne «severamente condannato» nel 1957 dal tribunale di Parigi per aver stampato opere contrarie al buon costume (delle quali vennero ordinate la confisca e la distruzione), denunciate dalla Commissione per i libri prevista dalle leggi: tra i testimoni Paulhan, Bataille, Cocteau, Bréton. L’anno successivo l’editore, difeso da un principe del foro, Maurice Garçon, accademico di Francia, verrà assolto in appello per l’acclarata nullità della decisione della Commissione per l’assenza di alcuni suoi membri.
Come ha scritto lo stesso Pauvert, per la prima volta «veniva riconosciuto il diritto di esistere all’opera più scandalosa di tutti i tempi», ma il 21 dicembre 1958 la Francia di de Gaulle approverà una legge che ripristinava la censura con misure definite da Garçon più dure di quelle di Napoleone, in quanto con la scusa di tutelare l’infanzia esse davano il potere al ministro dell’Interno di predisporre una lista di libri proibiti. Dopo qualche garanzia per gli editori negli anni Sessanta, il nuovo codice penale del 1994 introdurrà pene severe contro libri o audiovisivi che diffondessero messaggi violenti o pornografici violando la dignità umana: ancora Garçon qualificherà le relative norme «il capolavoro della Censura».
Gli ultimi anni Novanta del Novecento vedranno però l’opera di Sade consacrata nella prestigiosa Bibliothèque de la Pléiade di Gallimard, a cura di Michel Delon. Gli studi su di lui si erano, peraltro, moltiplicati, come l’attenzione dei più accreditati intellettuali mondiali.
Colpisce comunque che negli anni trascorsi dal tempo di Sade, scomparso esattamente due secoli fa il 2 dicembre 1814, la Chiesa di Roma non paia essersi accorta dei suoi scritti particolarmente violenti contro la religione. Negli «Indici dei libri proibiti» pubblicati dal papato in questo lasso di tempo (l’ultimo è del 1948, nel 1966 l’ Index verrà eliminato) mai l’autore o qualcuna delle sue opere blasfeme si rinviene nella nota collezione quasi completa di normative, documenti, elenchi di scritti pubblicata a Ginevra e a Montréal dal De Bujanda. Non mancano Voltaire e Rousseau, Casanova e d’Annunzio, Beccaria, Sartre e Simone de Beauvoir, Zola e Balzac, Fogazzaro e Moravia, Gioberti e Rosmini, Croce e Gentile, George Sand e Ada Negri, che certo non appartengono al «mondo alla rovescia» del nostro marchese. Sade peraltro era un grande conoscitore della Bibbia e la sua «religione» appare «molto più complessa e paradossale di una antiteologia che si contentasse di proclamare tutto il contrario dei valori della Chiesa» (Vilmer).
Non si rinviene traccia di Sade nella documentazione conservata negli archivi romani della «Congregazione dell’Indice», soppressa nel 1917 da Benedetto XV con l’attribuzione delle relative competenze a quella del Sant’Uffizio. Non è agevole, quindi, spiegare i silenzi della Chiesa, che non possono essere dovuti né a distrazione dei censori ecclesiastici, né alla scarsa notorietà o alla paternità non immediatamente dichiarata di alcuni scritti, né, ancora, al fatto che le opere lascive sarebbero ricadute in una generica e originaria condanna. Opere del genere infatti, in diverse epoche, si ritrovano tra quelle condannate.
Si aggiunga che alla sua morte, nonostante le diverse disposizioni testamentarie, Sade ebbe diritto ai funerali religiosi e venne sepolto nel cimitero del manicomio di Charenton in una tomba senza nome, ma con solo una grande croce di pietra. Le autorità di polizia furono tranquillizzate: metà dei suoi numerosi manoscritti vennero da esse sequestrati e dati alle fiamme, l’altra metà chiusi in un baule e consegnati alla famiglia che, fino alla quinta generazione dei Sade, si guardò bene dall’aprirlo.
Solo di recente è stato ritrovato ed esposto a Parigi al Museo dei manoscritti il famoso rouleau , un insieme di fogli clandestini incollati tra loro sui quali Sade aveva trascritto Le 120 giornate di Sodoma e che restarono nella sua cella alla Bastiglia quando venne trasferito a Charenton e, dopo la presa della fortezza nel 1789, finirono in mani private.
C’è la diffusa convinzione che tutta l’opera di Sade si iscriva «nel pensiero del suo secolo», rielaborando «assunti ampiamente diffusi della filosofia illuministica soprattutto nel suo versante ateo e materialista» (Gorret). Si è parlato di lui come «figlio maledetto dei Lumi» (Deprun), ma anche di un suo collegamento con la «dottrina agostiniano-calvinista-giansenista della totale depravazione dell’uomo» (Crocker), mentre Barthes lo ha accostato a sant’Ignazio e Lacan a Kant.
Di certo il silenzio ecclesiastico sulle sue opere appare tanto più stupefacente se si tiene conto che, proprio in Juliette , egli immagina un episodio nettamente blasfemo e mette in ridicolo papa Braschi (Pio VI) - alla cui «incoronazione» aveva assistito - facendogli scrivere una lunga «enciclica», intitolata Di tutte le stravaganze dell’uomo , piena di dottrina e di riferimenti storici, filosofici e teologici, che esalta l’assassinio e gli assassini. Quel che è più grave è che Juliette negozia con il Papa - che lei provoca in tutte le forme e definisce «fantasma orgoglioso» e «vecchia scimmia» - la dissertazione e i suoi contenuti in cambio di una «immensa orgia, piena di lussuria e di libertinaggio» che si sarebbe svolta intorno all’altare di San Pietro protetto da enormi paraventi. Pio VI, comunque, riconosce che l’elevazione delle idee di Justine è estremamente rara tra le donne e conclude il suo testo con queste parole: «Tutti i popoli hanno sgozzato uomini sugli altari dei loro dei. In ogni tempo l’uomo ha provato piacere versando il sangue dei suoi simili e... talvolta ha mascherato questa passione con il velo della giustizia, talvolta con quello della religione. Ma il fondamento, lo scopo era, senza dubbio alcuno, lo stupefacente piacere che ne provava». Un testo profondamente... sadico (o sadista?) che sicuramente non dovette sfuggire ai censori ecclesiastici, ma che continua, dopo più di due secoli, a poter essere letto senza tema di pene anche solo spirituali.
Il bicentenario del «divin marchese» (1740-1814)
Sade, il vizio della scrittura
Le mostre e i libri per l’anniversario ne fanno apprezzare il ruolo di «rivelatore ideologico» e quello più fine, di autore
di Daniela Gallingani (Il Sole Domenica, 23.11.2014)
In occasione del bicentenario della morte di Sade, avvenuta il 2 dicembre 1814, pare giunto il momento di sgombrare il campo dai pregiudizi che hanno condizionato questi due secoli di interpretazione della sua opera. In particolare, quello relativo al suo ruolo di «rivelatore ideologico» di dinamiche culturali e di processi storici di matrici diverse e spesso contrastanti. In una simile prospettiva, si stanno moltiplicando in tutta Europa mostre, convegni, seminari, in un rituale commemorativo previsto per i grandi scrittori.
E finalmente sono in prevalenza la scrittura di Sade e la genesi delle sue opere al centro di questi eventi, in una continuità virtuale con la rivoluzione iniziata nel 1947 con la pubblicazione di Jean-Jacques Pauvert dell’Histoire de Juliette, e che raggiungerà l’apice nel 1990, con l’edizione del l’opera completa nella Bibliothèque de la Pléiade, a cura da Michel Delon.
Furono, in effetti, l’Affaire d’Arcueil (1768) e l’Affaire de Marseille (1772), che l’avevano visto protagonista di orge sfrenate e di disdicevoli violenze compiute su giovani donne, servi e nobili a un tempo, a fare da subito di Sade l’immagine stessa del male, sì da renderlo appunto, via via, l’ispiratore del Terrore e il difensore del sensualismo più sfrenato, giungendo, sotto il Consolato, a essere strumentalizzato sia dai monarchici che dai repubblicani.
Persino nel carcere di Charenton dove venne rinchiuso, fu ritenuto colpevole di diffondere, con le rappresentazioni teatrali che organizzava, una perniciosa contaminazione morale che unicamente il carcere appunto, si auspicava, avrebbe potuto ostacolare per sempre.
Paradossalmente, soltanto quando si incominciò a declinare il sadismo e il masochismo dal punto di vista medico e patologico, Sade iniziò ad apparire più colui che aveva osato «mettere in scena» il sadismo che non il sadico per eccellenza. Ma anche il Novecento non si liberò del tutto dai condizionamenti ideologici che avevano investito da sempre l’opera di Sade. Da Apollinaire a Paulhan fino ai Surrealisti, Sade è la «vittima assoluta», il prototipo del rivoluzionario radicale e trasgressivo che avrebbe determinato la presa della Bastiglia, la vittima innocente dei poteri che si erano alternati tra Sette e Ottocento, il paladino di un immaginario erotico che aveva in Justine la donna nuova, colei che «possedeva le ali per rinnovare l’universo intero».
In parallelo, poi, con l’affievolirsi degli estremismi avanguardisti del primo Novecento, Sade ritrovò una mitizzazione capace di esprimere a pieno la negatività dei tempi, che lo dipingeva come il responsabile della morte dell’individuo, dei suoi valori e dei suoi principi.
Occorreva prendere Sade sul serio, proclamavano i "nouveaux philosophes", da Klossowski a Bataille e a Lacan, da Foucault al gruppo di «Tel Quel», perché Sade - affermavano - «ci concerne tutti e appartiene alla modernità del XX secolo». Ancora una volta, però, si confondeva l’«uomo Sade» con l’«uomo sadiano», un mostro concettuale che emigrava trasversalmente dalla filosofia, alla storia, dall’estetica alla politica, indagato mediante le categorie della follia, della perversione, del desiderio e che faceva assurgere il sadismo a potente strumento di analisi della società postmoderna, dominata dal potere economico e dall’alienazione.
Così, di nuovo, è la specificità della scrittura di Sade che continua a essere trascurata, insieme alla sua valenza autorale. Uno scrittore, Sade che, al contrario - e ora finalmente viene sottolineato - corregge più volte i suoi manoscritti; si nutre della lettura ossessiva dei testi più disparati; si cimenta in un esercizio sfrenato di riappropriazione, e talora di plagio, di ogni genere letterario, dalla novella al dialogo filosofico, dal romanzo epistolare al pamphlet, spesso distorcendoli, trasformandoli e quasi brutalizzandoli a suo piacimento, come avviene anche per la Storia, che è implacabilmente sottomessa, quasi malmenata dalla scrittura sadiana.
La retorica classica, alla base dell’architettura delle Cent Vingt Iournées, i finti parallelismi di Aline et Valcour, i molteplici punti di vista che si alternano nella costruzione del Voyage en Italie, o i riti culinari che duplicano le turpi azioni dei convitati del Castello di Silling, sono impietosamente rimanipolati per spostare continuamente il centro della narrazione e impedirne una conclusione e una interpretazione univoche.
Eppure, l’enorme mise en scène ordita da Sade in nome dell’eccesso e dell’iperbole sembrano paradossalmente scontrarsi con un limite, una sorta di inappagamento infinito e continuamente rievocato, rappresentato via via da un castello, da un sotterraneo, da una prigione, comunque da uno spazio chiuso e circolare in cui tutto diventa lecito, e nel quale un lettore desideroso di essere soddisfatto da ogni dettaglio, viene implacabilmente convocato, con la parola e con lo sguardo.
I limiti della Rivoluzione, dello Stato, della Religione e della Ragione, si traducono in un discorso volutamente ripetitivo e ossessivo che disegna e denuncia le rovine di un mondo immobile nella sua inadeguatezza. Immobile come il Portrait imaginaire di Man Ray, in cui il viso di pietra di Sade ci restituisce il progetto implacabile di un testimone inflessibile e insopportabile delle contraddizioni del suo tempo e dei vizi della modernità.
A Parigi
Le peripezie di un rotolo
di Stefano Salis (Il Sole Domenica, 23.11.2014)
È notte e fa freddo nel carcere della Bastiglia. In pieno centro di Parigi, il suo più illustre prigioniero, il marchese maledetto, Alphonse De Sade, non teme il gelo; piuttosto l’occhio dei guardiani. Molto probabilmente, però, loro, non sanno cosa stia facendo. Tutte le notti di questo freddo ottobre-novembre 1785, alla luce tremula e fioca di una candela, con fatica ed energia, il marchese compie il suo più vero più efferato e più reiterato delitto: scrivere. Scrive su minuscoli pezzi di carta, da una parte e dall’altra. Una grafia piccolissima, precisa, ed elegantissima, viste le condizioni in cui la pagina è vergata.
I foglietti gli arrivano clandestinamente, pochi alla volta, con la complicità della moglie e di qualche sodale: sono rettangoli di appena 11,2 cm di larghezza nei quali si dovrà squadernare l’intero catalogo delle deviazioni sessuali. Sta nascendo, ricopiato pazientemente notte per notte, il testo delle 120 giornate di Sodoma. Nessuno deve vedere: giorno dopo giorno, pezzo dopo pezzo, i fogli sono incollati (con una strana mistura, fabbricata anche con la sua urina) e formano un rotolo. Il rotolo viene messo in sicuro nella cella: sotto il pavimento, nelle fessure delle pietre. Ogni notte la furtiva scena si ripete.
Il marchese al carcere ci è abituato. Imprigionato per la prima volta nel 1740 a 23 anni passerà ben 27 anni della sua vita dietro le sbarre di undici prigioni e fortezze differenti. All’epoca, per essere carcerati basta poco: una lettera, recante la firma del re e di un suo funzionario, che ti dichiari malvisto e il gioco è fatto. Al marchese di queste lettere ne sono arrivate diverse. La sua carriera di carcerato è molto più solida di quella di scrittore: ogni tanto riesce a far uscire clandestinamente dalla cella qualche scritto, qualche lettera d’amore, qualche invettiva. Ma questa volta no. Le cose andranno peggio di come ha previsto.
Ironia della sorte, e della storia, De Sade viene improvvisamente rilasciato il 2 luglio del 1789. Non ha tempo però di raccogliere le sue cose, soprattutto la più preziosa, il rotolo delle 120 giornate, che ormai ha raggiunto i dodici metri di lunghezza. Esce e arringa la folla: distruggetela, questa prigione! Pochi giorni dopo la Bastiglia cade sotto la sferza dei rivoluzionari: il rotolo è perduto. Per sempre? come tale lo riterrà il suo autore, fino alla morte o...
Sì, qualcuno degli insorti lo trova, capisce che si tratta di un pezzo da collezione (i bibliofili riconoscono sempre la leccornia) e lo vende alla nobile famiglia dei Villeneuve-Trans. Ecco che il manoscritto, pezzo unico ed eccezionale, resta in mani private, per tre generazioni. Le peripezie non sono finite.
Nel 1904 il rotolo viene venduto a un sessuologo berlinese Iwan Bloch, che ne capisce il valore, soprattutto, dal suo punto di vista, scientifico. Lo trascrive: nasce il catalogo dei comportamenti "sadici". Gli strafalcioni e gli errori materiali di Bloch sono molti, ma almeno, finalmente, il testo vede un’edizione pubblica.
Non è finita. Il rotolo è ricomprato nel 1929 dal nobile Charles de Noailles che ne fa predisporre una nuova edizione, nel 1935. Una nipote di de Noailles fa poi l’errore di prestarlo a un editore, sedicente suo amico. Fiutato l’affare, l’editore lo rivende al più grande collezionista di erotica di sempre: lo svizzero Gérard Nordmann: siamo nel 1982. Inizia una battaglia legale per il riottenimento del rotolo, promossa dall’editore Carlo Perrone, erede de Noailles. I tribunali francese e svizzero arrivano a conclusioni opposte. L’epilogo, però, è vicino. E arriva, a suon di euro.
Il più grande collezionista di manoscritti al mondo, Gérard Lhéritier, media tra i contendenti e, sborsando 7 milioni di euro (!), se lo compra e lo riporta finalmente in Francia dove, per la prima volta (un solo passaggio pubblico precedente, alla Fondazione Bodmer nel 2004), lo espone, fino al 18 gennaio al pubblico nel suo nuovo Institut des Lettres et Manuscrits inaugurato per l’occasione in rue de l’Université.
Così, oggi, il rotolo di De Sade troneggia nella sala centrale della mostra, sala alla quale si arriva dopo avere visto altri capolavori di bibliofilia (i predecessori del libertinismo, intellettuale ed erotico) e prima di vedere gli esiti più belli della sua influenza (dal punti di vista della bibliofilia), con i surrealisti. È una mostra che emoziona, che istruisce e che racconta. E che, una volta di più, ci fa vedere quante meraviglie contengano questi miracolosi oggetti di carta. Spero di averne restituito un briciolo: perché il consiglio non può essere che andare a vedere di persona.
Il personaggio. Indomito e nobile
di Giuseppe Scaraffia (Il Sole Domenica, 23.11.2014)
Era stato un bambino biondo, altero e insufflato che il mondo doveva soddisfare i suoi capricci. Quando un augusto compagno di giochi, forte del suo rango, gli aveva fatto una prepotenza, Donatien Alphonse François non aveva esitato a tempestarlo di pugni. "La crudeltà, ben lontana dall’essere un vizio, è il primo sentimento impresso in noi dalla natura."
Allontanato dei genitori, Sade venne mandato dalla nonna che lo viziò teneramente, accentuando i suoi difetti. Poi fu affidato a uno zio abate, uomo colto, raffinato e libertino. Madame de Sade veniva da una ricca famiglia di recente nobiltà, lieta d’unirsi ai discendenti dalla Laura di Petrarca. Il marchese era innamorato della giovane sposa e desiderava molto dei figli. Lei lo ricambiava con foga. Nelle lettere lui lodava il «bellissimo» deretano e l’anima di Pélagie.
La sua prima detenzione, nel 1763, per "eccessi di dissolutezza" non incrinò la solidarietà di Pélagie. Nel 1772 la suocera era diventata la sua maggiore persecutrice. Al genero non erano bastate le attrici scandalosamente esibite nel castello, nè le prostitute seviziate. Poco dopo la nascita del terzo figlio, era fuggito in Italia con la giovane, innocente cognata.
Malgrado tutte le colpe del marito, la docile e sgraziata moglie non lo abbandonava, sempre pronta a tacitare col denaro le vittime dell’aggressivo erotismo del consorte. «Avete immaginato di far miracoli riducendomi a un’atroce astinenza, l’accusava Sade, ...è stato uno sbaglio: mi avete infiammato la mente, inducendomi a creare dei fantasmi che dovrò realizzare». Però restava sempre un padre. Al teorico dell’incesto la figlia pareva goffa e banale, "una buona, grossa massaia".
La storia fece irruzione nella cella della Bastiglia nel 1789, proprio quando Sade era riuscito a ottenere, sublime paradosso, una serratura interna. Nel saccheggio degli insorti andò (momentaneamente) smarrito anche lo sterminato serpente di carta delle 120 giornate di Sodoma.
Giunto al manicomio di Charenton con un ordine di carcerazione di "durata illimitata", per i reati di sodomia, avvelenamento e libertinaggio, Sade vi sarebbe rimasto fino all’anno seguente, quando la rivoluzione lo liberò. Abbandonate le ultime esitazioni, l’ex-marchese era entrato nella sezione delle Picche di Place Vendome. Pur adorando il re, detestava gli abusi della monarchia. «Cosa sono? Un aristocratico o un repubblicano? Ditemelo voi, per favore, perchè, per quel che mi riguarda, non ne capisco niente».
Il terribile inverno del ’95 lo sorprese sprovvisto di tutto. L’inchiostro si gelava nel calamaio e Sade era costretto a tenerlo a bagnomaria. Nel ’97 furono pubblicate la Nuova Justine e Juliette, in cui risuona l’eco della ferocia politica di quei giorni.
Nel 1801 il marchese fu arrestato e imprigionato, probabilmente su delazione del suo editore, benchè negasse la paternità di Juliette . L’obesità dei carcerati aveva cancellato quasi completamente la sua svelta figura. Soltanto gli occhi conservavano una strana luminosità, "come una brace morente tra i carboni spenti". Due anni dopo, su richiesta della famiglia, ansiosa di privarlo delle ultime proprietà Sade venne trasferito al manicomio di Charenton.
Nel testamento del 1806 chiese di essere seppellito in un bosco. Sopra le sue spoglie avrebbero dovuto seminare delle ghiande, in modo che, appena si fosse riformata la vegetazione, «le tracce della mia tomba scompaiano dalla faccia della terra...». Quando morì, il 2 dicembre 1814, lasciò il ricordo di un vecchio signore dai modi squisiti, che pronunciava le peggiori sconcezze con una voce dolcissima, mentre disegnava sulla sabbia del cortile delle figure oscene.
I racconti
Sapeva anche essere tenero
di Chiara Pasetti (Il Sole Domenica, 23.11.2014)
Il conte Donatien-Alphonse-François de Sade (1740-1814), conosciuto anche con il soprannome attribuitogli dagli scrittori decadenti della fine del XIX secolo di «divin marchese», è stato uno dei protagonisti sotterranei della vita letteraria dell’Ottocento. Le sue opere, benché circolassero clandestinamente (e nelle biblioteche fossero à l’enfer, ossia non consultabili) a causa dei crimini commessi dai suoi personaggi, che l’opinione pubblica attribuiva, a torto, a lui, vennero lette con grande attenzione dagli autori di quel secolo, su cui ebbero una forte influenza; in particolare, da Baudelaire e Flaubert, il quale dichiarava di voler tenere sul comodino dei suoi ospiti tutti i libri del «grande Sade», e da «pensatore e demoralizzatore» quale era ne apprezzava moltissimo il pessimismo totale («un po’ rancoroso come quello di tutti i moralisti», secondo il giudizio di Antonio Veneziani), condito da sagacia, ironia e da una vena iconoclasta particolarmente vivida, e invitava gli amici a essere come il marchese, «filosofi e uomini di spirito».
In occasione dell’anniversario della sua morte, avvenuta duecento anni fa nel ricovero per malati mentali di Charenton in cui era rinchiuso dal 1803, esce ora una sua raccolta di Storielle (tratte da Historiettes, Contes et Fabliaux), per molto tempo passate sotto silenzio; ritrovate e pubblicate postume nel 1926 a cura di Maurice Heine, che come tutti i surrealisti ne apprezzava lo spirito di rivolta contro ogni forma di tirannia, vennero composte in carcere nel 1788 come molte altre sue opere, tra cui le ben più celebri Cent Vingt Journées de Sodome.
Come scrive il curatore Veneziani, sono dodici raccontini che costituiscono delle «piccole perle, ora divertenti, ora sognanti, sapide e liberatorie», che sfatano il giudizio negativo spesso attribuito al suo stile di scrittura, definito da molti critici sciatto e ripetitivo. Qui de Sade dà prova di una narrazione raffinata e pulita, che coinvolge il lettore per l’originalità delle vicende e per i guizzi improvvisi. Ma soprattutto, queste Storielle mostrano un altro volto dell’autore «nero e terribile».
Il torbido sensualismo presente nei testi più noti, la sessualità perversa, le oscenità e le prosperità del vizio, la stravaganza morbosa e l’atmosfera sulfurea e malata, da «tenebroso harem di larve crudeli», tutti «fiori del male» dell’«atroce e sanguinoso bestemmiatore», lasciano qui il posto a una spassosa leggerezza, che si compiace del piacere di scrivere e di divertire, e che rispetta tutti i gusti e le fantasie, anche quelle più bizzarre, perché trova che siano originate «da un principio di delicatezza».
La frenesia di Justine, i personaggi femminili e maschili tormentati e viziosi, tragici e delittuosi, qui non trovano spazio, e de Sade si concede una promenade più rilassata e, appunto, delicata, che incontra vescovi impantanati e cocchieri costretti alla bestemmia, istitutori trasgressivi e allievi ingenui, verginelle istruite alla virtù che istigano invece perversioni di mariti libidinosi, e "maisons de passe" dove si godono senza pericolo «i piaceri della voluttà».
Il tutto condotto da una vena beffarda che serpeggia in ogni storia, e che richiama alla mente il giudizio di Apollinaire sul divin marchese, «lo spirito più libero che sia mai esistito a tutt’oggi», un ironico libertino che, come lui stesso aveva confessato, ha concepito tutto ciò che si può concepire in questo ambito (e non solo!), ma... «non ho mai fatto tutto quello che ho concepito e mai lo farò». Gli crediamo?
Uno, nessuno centomila Sade
Pornografo libertino o illuminista radicale?
I testi meno noti su leggi, libertà e ateismo offrono un quadro inedito del “Divin Marchese”
di Paola Dècena Lombardi (La Stampa TuttoLibri, 22.11.2014)
Sade, chi era veramente? Un abietto, aristocratico Lucifero, che da astuto giacobino d’occasione ha cavalcato gli sconvolgimenti della Rivoluzione francese per accreditarsi poi come un filosofo-scrittore, più per aspirazione e prestiti che per originale realizzazione? O è stato la vittima sacrificale di un’epoca di passaggio di cui ha condiviso privilegi e lussuria, utopia rivoluzionaria e disillusione?
Celebre più per la dismisura dell’erotismo che pervade quasi tutti i suoi romanzi e per l’ateismo che erige a sistema, assai meno per l’esperienza di vita e per gli altri scritti: per chi si accosta alla lettura di Sade, a due secoli dalla morte, l’interrogativo resta. Chi era veramente l’uomo accusato di «libertinismo estremo», che tra brevi arresti e detenzione ha passato più di trent’anni recluso, prima tra il forte di Vincennes e la Bastiglia, poi tra l’Ospizio per carcerati e malati di mente di Charenton?
All’erotismo di Sade si è rivolto quasi subito l’interesse critico, ma il percorso per una rivalutazione è stato lungo. E al lettore, soprattutto italiano, sfugge in gran parte l’altro Sade, l’autore di testi di carattere filosofico, politico e critico letterario. Il Dialogo tra un prete e un moribondo, che mette in scena un’apologia dell’ateismo in nome dell’uomo secondo natura; La modalità della sanzione delle leggi, in cui Sade propugna la partecipazione popolare diretta nell’elaborazione del processo costituente, e L’idea sui romanzi, che ripercorrendo dalle origini la storia dell’affabulazione fino alla narrazione romanzesca, dalla dissertazione erudita e dalla lettura critica della letteratura contemporanea approda a un’appassionata autodifesa, propongono un piccolo tassello dell’altro Sade. E riferendosi a tre momenti diversi della vita ne rivelano atteggiamenti, stati d’animo e letture che danno la misura della sua cultura illuminista.
Nel primo, il tu con cui il moribondo si rivolge al prete che gli risponde con il voi, rispecchia l’orgoglio dell’aristocratico che «circondato dal lusso e dall’abbondanza, giunto all’età della ragione (ha) creduto che la natura e la fortuna si fossero unite per colmarmi dei loro doni. E un pregiudizio così ridicolo (lo) ha reso altero, dispotico e collerico». La foga con cui il citoyen mette in guardia dal pericolo di una delega che non tenga conto dell’assenso popolare nel sancire le leggi, può far supporre una strategia per rafforzare la sua fede politica, ma anche l’anarchismo che caratterizza tutti i suoi comportamenti.
Scritta in carcere, quando ancora spera nella libertà, L’idea sui romanzi che metterà in prefazione ad Aline e Valcour, è l’ancora di salvezza che dovrebbe convincere a riabilitarlo. Attraverso la rassegna erudita che all’inizio mette a dura prova il lettore ma che poi si stempera nell’interpretazione, c’è la passione dell’uomo di lettere gran lettore e grafomane, che nella scrittura e nella rappresentazione di pièces teatrali troverà l’unica via di salvezza alla sua condizione.
Contro la mitizzazione poetica e morale dei surrealisti, Klossowski e Lacan, Bataille e Foucault, Deleuze, Barthes e Sollers, tra gli altri, con i loro saggi hanno indagato in modo critico aspetti di carattere religioso, filosofico e psichico, letterario dell’opera complessa e della travagliata esperienza di vita di Sade. Ma di fronte all’ambiguità della dismisura dello scrittore e dell’uomo, resta il desiderio di saperne di più. Cosa c’è a monte dell’esperienza? Cos’ha segnato profondamente l’infanzia e l’adolescenza di Sade? Il suo silenzio in proposito, interrotto in brevi frasi o allusioni, sembra riflettere un pudore di chi non voglia coinvolgere i suoi corruttori.
Dalla montatura del caso Sade da parte dei contemporanei e dalle contraddizioni e ambiguità dell’uomo, che emergono sul filo dei testi in cui molti sono i calchi e i prestiti, la figura di Sade appare, almeno a chi scrive, doppiamente vittima: del suo tempo e di se stesso. È inevitabile, infatti, chiedersi perché non abbia cercato mediazioni più proficue mostrando ravvedimento o maggiore prudenza. Perché abbia seguitato a subire una condizione disumana rivendicando «una fermezza d’animo che non ha mai saputo piegarsi e che non si piegherà mai». Per orgoglio aristocratico o per identificazione nel ruolo di filosofo-martire perseguitato? In questo caso, l’idea di Freud che il sadismo comporti necessariamente un elemento masochista, risulterebbe pienamente confermata. E con l’esempio più appropriato.
De Sade e le tenebre dell’Illuminismo
Lo scrittore più scandaloso nacque come filosofo ultrarazionalista. Un negatore delle leggi e dei peccati
di Daniele Abbiati ( Il Giornale, 12/10/2014)
Non fa male parlare di de Sade. Non è sadico intrattenersi, alla debita distanza di due secoli dalla sua morte, con l’uomo-aggettivo più violentato della Storia. Incominciarono quando aveva un solo giorno di vita, il 3 giugno 1740, deturpandogli due nomi su tre: i suoi genitori lo volevano Luis-Aldonse-Donatien, e il parroco di Saint-Sulpice (Sulpice suona assai bene accanto a supplice , supplizio...), con il concorso di colpa di due domestici gli impose Donatien-Alphonse-François.
E finirono il 2 dicembre 1814, nell’ospizio-manicomio di Charenton, sottovalutando l’aggravarsi della congestione polmonare che lo portò dritto all’inferno all’età di 74 anni e mezzo giusti giusti. A Charenton era già stato rinchiuso il 4 luglio 1789, dieci giorni prima della presa della Bastiglia. Le altre tappe del suo Tour de France carcerario furono: Vincennes, Pierre Encise, Miolans, la Bastiglia, Madelonnettes, Saint Lazare, Picpus, le prigioni Napoleoniche e Bicêtre. La maglia gialla dell’ignominia e della perversione non gliela toglie nessuno.
Tuttavia non fa male parlare del diabolico Divin marchese, anche perché di carne al fuoco (ahi! ahi! brucia) ce n’è tanta. Come detto, il 2 dicembre saranno 200 anni dalla sua dipartita, insalutato ospite sul «mucchietto di fango» della Terra, come la chiamava lui, e le celebrazioni scalpitano sottotraccia sia nell’universo pornofilo internettiano, sia in quello accademico editoriale: ne vedremo delle belle.
Poi martedì prossimo apre al Musée d’Orsay della Parigi che fu sua la grande mostra «Sade. Attaquer le soleil», vasta e fluviale circumnavigazione di un’aberrazione diventata mito attraverso le opere dei vari Goya, Géricault, Ingres, Rops, Rodin, Picasso, e con la lenta penetrazione sotterranea, prima, durante e dopo la Rivoluzione, dei suoi romanzi e racconti che sarebbe una licenza poetica definire licenziosi.
«Il carattere violento di alcune opere e documenti può urtare la sensibilità dei visitatori», ammonisce il sito del museo, gettando un ulteriore pizzico di zolfo sotto l’ardente graticola della pruderie . Una pruderie peraltro alimentata da un video promozionale elegante ma decisamente hot firmato da David Freymond e Florent Michel in cui una moltitudine di giovani corpi dei quattro sessi si avvinghiano in un apparente disordine fino a formare la scritta DE SADE.
Da ricordare inoltre che sempre a Parigi e lì nei pressi, al Museo delle Lettere e dei Manoscritti di boulevard Saint-Germain, è esposto il pezzo più pregiato della produzione sadiana, cioè il manoscritto originale di Le 120 giornate di Sodoma o la Scuola del libertinaggio , vergato durante il soggiorno alla Bastiglia su un rotolo di carta lungo 12 metri e largo 11,5 centimetri.
Il presidente e proprietario del museo, Gérard Lhéritier, ha scucito la bellezza di 7 milioni di euro per sbaragliare la concorrenza della Biblioteca Nazionale di Francia, riportando così in patria il trofeo di caccia che era finito, dopo alterne vicende, in Svizzera, acquistato dal miliardario Gérard Nordmann, possessore di una colossale Biblioteca Erotica.
Ultima, per ora, noterella made in France , è l’omaggio trasversale, dal Figaro a Libération , tributato a Jean-Jacques Pauvert, l’editore che iniziò diciannovenne a coltivare il culto di de Sade, alimentandolo per tutta la vita, fra l’altro con la monumentale biografia in tre volumi Sade vivant , morto il 27 settembre scorso.
Lungi da noi, e da chiunque altro sia in grado di intendere e di volere, la volontà di santificare il Nostro. Piuttosto, una volta applicate le attenuanti generiche a chi trascorse più o meno trent’anni al gabbio sotto accuse pesantissime come violenza sessuale e avvelenamento e altre più... opinabili come sodomia e condotta immorale, sarà il caso di leggere la sua parabola come uno fra i tanti possibili esiti della temperie culturale detta dei Lumi. La ragione razionalizza ogni cosa, peccati e reati compresi, soprattutto quando affonda le proprie radici nella potenza della Natura, la quale sa essere soavemente pastorale come terribilmente ctonia, sotterranea e ancestrale.
E per capire da dove partì de Sade, ecco il volumetto Strenne filosofiche (La vita felice, pagg. 166, euro 11,50) che riunisce tre scritti molto razionali palesemente influenzati da d’Holbach e de La Mettrie, risalenti al primo periodo di cattività a Vincennes, magari da porre in parallelo, più che con i suoi libri più sulfurei e v.m. 18, con le Storielle (Elliot, pagg. 62, euro 8,50), sapidi racconti (a)morali che ci offrono un de Sade light .
Mentre non sono proprio «leggerissimi» I crimini dell’amore sul tema dell’incesto editi da L’ombra di Roma che usciranno a ridosso del bicentenario. Li ha ritradotti, rinfrescandoli e aggiornandone la prosa, Filippo D’Angelo, autore del romanzo La fine dell’altro mondo (minimum fax, 2012). «La revisione delle versioni italiane - spiega D’Angelo - è necessaria poiché troppe sono vetuste e sovente scorrette e non rendono un buon servizio all’autore. De Sade merita di essere recuperato anche in questa chiave di attualizzazione».
Già che ci siamo, procuriamoci infine Florville e Courval o della fatalità (Elliot) e il saggio Sade di Maurice Heine (Castelvecchi). Perché non fa male parlare di de Sade e leggerlo. Ricordando che anche i Lumi, sotto sotto, ebbero le loro tenebre.
Una lezione del grande filosofo sui meccanismi dell’opera del Marchese
Sade e Justine, se la scrittura diventa desiderio assoluto
Il suo scopo non è comunicare né convincere nessuno. Bensì superare il confine tra la realtà e l’immaginario
di MICHEL FOUCAULT (la Repubblica, 27.11.2011)
Perché scriveva Sade? Cosa poteva significare, per Sade, l’esercizio della scrittura? Dagli elementi biografici che abbiamo su di lui, sappiamo che ha riempito di inchiostro migliaia di pagine, molte più di quelle che si sono salvate. Una quantità ragguardevole si è persa, ogni qualvolta Sade è stato imprigionato. Sade scriveva, infatti, su pezzetti di carta che gli venivano regolarmente sequestrati. È così che ha redatto Le 120 giornate, alla Bastiglia, terminandole credo nel 1788-89.
Quando la Bastiglia venne espugnata dai rivoluzionari, quelle pagine gli furono confiscate. Ecco il lato oscuro della presa della Bastiglia: la sparizione de Le 120 giornate del Marchese. Fortunatamente queste pagine vennero ritrovate, ma solo dopo la sua morte. Al tempo, per quella "perdita", Sade versò, è lui stesso a ricordarcelo, "lacrime di sangue". L’ostinazione che Sade ha posto nella scrittura, le sue lacrime di sangue unitamente al fatto che ogni volta che pubblicava un libro veniva sbattuto in galera - ecco, tutto ciò prova che Sade attribuiva alla scrittura un’importanza ragguardevole.
Con il termine "scrittura" non bisogna intendere il mero fatto di scrivere, ma il fatto di pubblicare. Poiché - ricordiamocelo - Sade pubblicava i propri testi. E se la fortuna voleva che, mentre li pubblicava, egli fosse fuori di prigione, ciò non impediva che fosse arrestato non appena quei medesimi testi fossero pubblicati. E il tutto proprio a causa della loro pubblicazione. Da dove viene dunque la serietà della scrittura in Sade? Io credo che a un primo sguardo sia dovuta a un fatto, a più riprese espresso in Justine e Juliette. Sade si rivolge ai lettori non in ragione del piacere che i suoi racconti possono provocare in loro, ma proprio per ciò che di sgradevole può esservi narrato.
Lo dice chiaramente: «Non avrete di che provare piacere, ascoltando il racconto di storie tanto raccapriccianti. La virtù punita, il vizio ricompensato, bambini massacrati, ragazzi e ragazze fatti a pezzi, donne incinte impiccate, interi ospedali dati alle fiamme. La vostra sensibilità sarà rovesciata, il vostro cuore non ne potrà più. Ma che cosa volete che vi dica? Non è alla vostra sensibilità, né al vostro cuore che mi rivolgo. Mi rivolgo alla vostra ragione - ad essa solamente. Voglio dimostrare una verità fondamentale, ossia che il vizio viene sempre ricompensato e la virtù punita». Si pone però un problema.
Quando seguiamo un romanzo di Sade, ci accorgiamo che non c’è assolutamente logica nella ricompensa del Vizio e nella punizione della Virtù. In effetti, ogni qualvolta Justine, che è virtuosa, viene punita, la punizione non dipende mai dal fatto che abbia commesso un errore di ragionamento, che non abbia previsto qualcosa o sia stata cieca nei confronti di una talaltra cosa. No, Justine ha calcolato perfettamente tutto, ma le capita sempre una qualche terribile sventura. Sventura che attiene all’ordine del caso e come tale la punisce. Justine salva qualcuno? Bene, quando l’ha tratto in salvo, finisce per massacrarlo. Massacra colui a cui ha appena salvato la vita. Qui è il caso, sempre il caso, che interviene, mai la conseguenza logica dei suoi atti. E questo caso determina la punizione.
Quando Sade afferma di indirizzarsi «non al vostro cuore, ma alla vostra ragione» non è dunque in questione la razionalità del Vizio, né della Virtù. Sade non si prende seriamente, qui. Ma allora, che cosa vuole fare quando pretende di indirizzarsi alla nostra ragione, mentre l’ossatura del racconto si rivolge a tutt’altro orizzonte? Credo che per capirlo occorra riprendere un passaggio - il solo, in Justine e Juliette - che si riferisce allo scrivere. Juliette si rivolge a un personaggio, a un’amica già perversa, ma non totalmente perversa. Non ancora almeno. Qui si tratta di fare l’ultimo apprendistato, di salire l’ultimo scalino della perversione.
Ecco i consigli di Juliette: «Rimanete quindici giorni senza occuparvi di lussuria. Distraetevi, divertitevi con altre cose, ma fino al compimento del quindicesimo giorno non lasciate il minimo spiraglio alla più piccola idea libertina. Poi coricatevi, da sola, nella calma, nel silenzio e nell’oscurità più profonda. Ricordatevi allora di tutto ciò che avete bandito in quei quindici giorni. Date poi alla vostra immaginazione la libertà di presentare differenti modi di pervertirvi. Percorreteli nel dettaglio. Passateli in rassegna. Persuadetevi che tutta la terra vi appartiene e avete il diritto di cambiare, mutilare, distruggere, rovesciare qualunque essere. [...] Il delirio si impossesserà di voi. Accendete allora la candela e trascrivete sui fogli la specie di smarrimento che vi ha infiammato, senza dimenticare alcuna circostanza che aggravi i dettagli. Addormentatevi, dopo averlo fatto. L’indomani, rileggete le note e ricominciate l’operazione».
Ecco dunque un testo che chiaramente ci mostra un modo di usare la scrittura. Un uso chiaro delle scrittura. Si parte dalla libertà totale assegnata all’immaginazione, si scrive, ci si addormenta, si rilegge, si procede con un nuovo lavoro dell’immaginazione, si passa a una nuova elaborazione per mezzo della scrittura e infine, come dice Sade, alla maniera di una ricetta culinaria: «Commentate...».
Credo si debba studiare a fondo, in maniera più decisa e precisa, questo testo. Chiediamoci allora come funziona, in esso, la scrittura.
Direi che in primo luogo la scrittura vi gioca un ruolo intermediario tra immaginario e reale. Sade, o il personaggio in questione, si dà fin dall’inizio alla totalità del mondo immaginario possibile e deve quindi variare questo mondo, superarne i limiti, spostarne le frontiere. Va oltre, proprio mentre credeva di aver già immaginato tutto, ed è questo che va trascritto più volte e solo quando sarà arrivato a una data realtà, allora potrà accedere al famoso: «Commentez ensuite». Come se fosse facile, commentare quando si è sognato di massacrare migliaia di bambini, di bruciare centinaia di ospedali, di far esplodere un vulcano... La scrittura è dunque questo processo, questo momento che ci porta fino a un reale che, a dirla tutta, spinge il reale fino ai limiti stessi dell’inesistenza. La scrittura è ciò che permette di spingersi sempre oltre le frontiere dell’immaginazione. Il principio di realtà o, piuttosto, la scrittura è ciò che a forza di spinte successive sposta il momento della conoscenza oltre l’immaginazione. La scrittura è ciò che forza a far lavorare l’immaginazione, introducendo un ritardo nel momento in cui il reale finemente si sostituirà al principio di realtà. La scrittura spinge la realtà fino a divenire irreale quanto l’immaginazione. La scrittura - ecco la sua prima funzione - abolisce le frontiere tra realtà e immaginazione. La scrittura esclude la realtà, ecco quindi che cancella tutti i limiti dell’immaginario.
Ci sono però altre funzioni che orientano la scrittura. La scrittura, in particolare, cancella il limite temporale, cancella i limiti dello sfinimento, della fatica, della vecchiaia, della morte. A partire dalla scrittura, tutto può continuamente, indefinitamente ricominciare. Ma mai la fatica, mai lo sfinimento, mai la morte si affacceranno in questo mondo della scrittura, che è precisamente l’elemento che cancella la differenza tra principio di realtà e principio di piacere. La scrittura introduce il desiderio nel mondo della verità, togliendo a esso le briglie e i limiti del lecito e dell’illecito, del permesso e del proibito, del morale e dell’immorale. La scrittura introduce il desiderio nello spazio dove tutto il possibile è indefinitamente possibile e illimitato. La scrittura permette all’immaginazione e al desiderio di non incontrare più altra cosa che non sia la sua individualità. Permette al desiderio di essere sempre, in qualche modo, all’altezza della propria irregolarità.
In conseguenza di tutte queste illimitazioni prodotte dalla scrittura, il desiderio diventa legge a sé stesso. Diviene sovrano assoluto che detiene la propria verità, la propria ripetizione, il proprio infinito, la propria istanza di verifica. Niente potrà più dire al desiderio «sei falso», niente può rinfacciargli «non sei totalità», niente «è vero ciò che sogni, ma c’è qualcosa che ti si oppone». Niente può più dire al desiderio «ci sei, ma la realtà dice un’altra cosa». Grazie alla scrittura, il desiderio è entrato nel mondo della verità totale, assoluta, illimitata senza possibile contestazione esterna.
Ecco dunque che, osservata da questa prospettiva, la scrittura sadiana non ha come caratteristica il mettere in comunicazione, l’imporre, il suggerire a qualcuno le idee o i sentimenti di un altro. Non si tratta assolutamente di persuadere qualcuno di una verità esterna. La scrittura sadiana è una scrittura che non si indirizza a nessuno. Non si indirizza a nessuno nella misura in cui non si tratta di persuadere a nessuna verità che avrebbe ipoteticamente nella testa, avrebbe riconosciuto e dovrebbe quindi imporre al lettore. La scrittura di Sade è una scrittura assolutamente totalitaria, tanto che nessuno può esserne persuaso in un senso, e nessuno può comprenderla nell’altro. Ecco dunque che per Sade è assolutamente necessario che tutti i suoi fantasmi passino per la scrittura e attraverso la scrittura, in ciò che ha di materiale, poiché, come ci dice il testo di Juliette, è proprio questa scrittura, quella materiale, fatta di segni posti su una pagina che possiamo leggere, correggere, riprendere e via all’infinito - è questa scrittura che mette il desiderio in uno spazio illimitato, dove ciò che è esteriore, il tempo, i limiti dell’immaginazione, le concessioni e i divieti, sono totalmente e definitivamente aboliti.
La scrittura è dunque il desiderio che ha avuto accesso a una verità che nulla può più contenere. Una verità senza limite. La scrittura è il desiderio divenuto verità. Verità che ha preso forma di desiderio. Del desiderio ripetitivo, del desiderio illimitato, del desiderio senza letto, del desiderio senza esteriorità, dove l’esteriorità è la soppressione dell’esteriorità in rapporto al desiderio. Questo è quanto la scrittura porta a compimento, nell’opera di Sade. Ed è la ragione che lo spinge a scrivere.
POLITICA- 06 LUG 2010
Manovra/ Vendola: Sembra scritta da marchese De Sade
Impone a paese stagione sadica senza prospettive di crescita
Roma, 6 lug. (Apcom) - La manovra economica sembra scritta dal marchese De Sade. Lo ha detto il governatore della Puglia, Nichi Vendola, in collegamento con ’Skytg24 Mattina’. "Infligge al Paese - osserva - una stagione sadica senza alcuna prospettiva di crescita. Anzi, come dicono gli economisti anche del centrodestra, è una manovra che vedrà l’abbattimento del Pil e la perdita di ulteriori 100mila posti di lavoro. E allora, a noi governatori di grandi regioni, l’idea che ci tolgano le risorse che servono per finanziare gli incentivi allo sviluppo, i servizi sociali, il trasporto pubblico locale e le politiche ambientali, ci mette di fronte a una situazione catastrofica. Per questo c’è la ribellione, indipendentemente dal colore politico, di tutte le Regioni. Rischiamo di diventare gli amministratori fallimentari di un futuro opaco".
La Rivoluzione nacque dai libertini. E Sade lo sapeva
Il Marchese sosteneva che lo spirito del 14 luglio doveva realizzarsi in uno Stato garante di tutti gli istinti naturali: come la sopraffazione del più forte, l’omicidio, la calunnia
di Errico Buonanno (il Riformista, 23.03.2012)
Il marchese de Sade non finirà mai di scandalizzarci. Le sue provocazioni tutte coscienti, tutte volute non impallidiscono col tempo, semplicemente perché, da buon libertino, da ottimo illuminista, egli era innanzitutto un indagatore della natura umana. Conosceva a perfezione i meccanismi, diremmo oggi psicologici e neurologici, del gusto e del disgusto, dell’attrazione e della repulsione. Fu amato per questo dai surrealisti: non in quanto grottesco, ma in quanto anticipatore di Freud. Sade non sarà mai pacificato. Per questo ogni pagina, ogni riga, continuerà a porci dei problemi. A deliziarci, a tormentarci. Coscientemente, a disgustarci.
Stampa Alternativa ha da poco riproposto alcuni suoi scritti poco noti. Sotto il titolo conciso di Ancora uno sforzo si raccolgono pagine politiche, e soprattutto il quinto dialogo della Philosophie dans le boudoir, appello accorato e fulminante alla Francia rivoluzionaria che portava il titolo più esteso e geniale di Francesi, ancora uno sforzo se volete essere repubblicani. Una modesta proposta alle forze giacobine per realizzare finalmente, totalmente, lo spirito del 14 luglio. Semplicemente: distruzione completa della religione, e ritorno assoluto ai principi naturali dell’uomo. Principi che, naturalmente, Sade sa benissimo non corrispondere affatto con la fratellanza e la concordia di cui cianciavano gli idealisti. L’uomo è animale, prodotto della natura come insegnava il vate Rousseau. E questo significa che uno Stato più giusto dovrebbe garantire la legalità di tutti gli istinti naturali: sopraffazione del più forte, omicidio, calunnia. E prostituzione, ovviamente, sesso libero e dominatore. Solo così la Francia potrà veramente essere un faro di liberazione per tutto il resto dell’umanità.
Lo sforzo logico e retorico con cui il Marchese cerca di dimostrare la necessità di questa completa rivoluzione etica ci spiazza, ci intriga, ma soprattutto ci lascia aperte due ipotesi almeno sulla reale natura di queste pagine infuocate. Cosa voleva, veramente, Sade? Come dovremmo prendere e intendere il suo appello? In un suo saggio del ’96, Libri proibiti, Robert Darnton aveva meravigliosamente dimostrato come il libertinismo avesse costituito il vero apripista per la libertà politica e ideologica dell’illuminismo. La Rivoluzione Francese era letteralmente nata dai romanzi lascivi e pornografici, che erano riusciti prima delle rivolte di popolo e della ghigliottina ad abbattere il vecchio regime a colpi di scandali morali. Perciò De Sade, il maestro del libertinismo, sarebbe assolutamente coerente, assolutamente giacobino con queste proposte scandalose: il Divin Marchese era il più rivoluzionario dei rivoluzionari, un profeta che, al solito, gli stessi esponenti della nuova Francia furono costretti a sacrificare e a mettere a tacere, per permettere alle sue idee di normalizzarsi e di tramutarsi in politica, in realtà.
Eppure qualcosa continua a stridere, qualcosa continua a insospettirci. Ed è il sospetto che Stefano Lanuzza espone nell’introduzione. Sade non poteva non rendersi conto dell’inattuabilità di questo ideale. Da marchese, da nobile, da figlio - volente o nolente - dell’ancien régime, non poteva non osservare sprezzante l’imbarbarimento della parola libertà messa in piazza col Terrore. Ecco così che emerge, allora, una “seconda versione di Sade”.
Non oltranzista, ma sfacciato e sarcastico fustigatore delle ristrettezze mentali delle stesse forze rivoluzionarie. Quella di Sade sarebbe una “modesta proposta” alla Swift, una caricatura della brutalità giacobina tesa soltanto a mostrarne gli eccessi. Di là dal mito, di là dalla figura pubblica, il sadismo era letteratura e filosofia, e come ogni autore di filosofia e letteratura, questo scrittore forsennato conosceva l’iperbole e l’ironia, e sapeva dove colpire per mettere a nudo il proprio avversario. Ancora uno sforzo è insomma un ricatto tra pulsioni e società. Se veramente i rivoluzionari affermavano di voler restituire l’uomo alla bontà della proprio natura, Sade gridava loro sarcastico l’unica verità che essi facevano finta d’ignorare: la natura non è buona, è brutale. Perciò decidessero da che parte stare, ché i mezzi termini non erano concessi.
Quale sia la verità, quale versione sia corretta, sinceramente poco importa. La grandezza di Sade rimane la stessa: quella, cioè, di continuare a camminare coscientemente sul filo, sapendo bene che la scelta, altrimenti, a destra o a sinistra, è sempre e comunque solo il baratro.