FILOSOFIA,TEOLOGIA, E MEDICINA. Dio è Amore ("Deus charitas est") o Mammona (Deus caritas est")?! Cosa resta di una vocazione? Una professione divisa tra scandali ed etica....

I MEDICI, LA SOCIETA’, E IL GIURAMENTO "COSTITUZIONALE" DI IPPOCRATE. La lunga storia delle critiche a una professione necessaria. Sul tema: Giorgio Cosmacini, Marco Bobbio, e Ignazio Marino - a cura di pfls

I medici degli schiavi e i medici degli uomini liberi. I primi «fanno come un tiranno superbo e tosto si scostano» dallo schiavo malato. I secondi «danno informazioni allo stesso ammalato» e «non prescrivono nulla prima di aver persuaso per qualche via il paziente, preparandolo docile all’opera loro».
martedì 17 giugno 2008.
 
[...] Nel corso della cura il medico ha obblighi nei confronti del paziente e di nessun altro. Non è l’avvocato della società o della scienza medica o della famiglia del paziente o dei suoi compagni di sventura o di coloro che in futuro soffriranno della stessa malattia. Soltanto il paziente conta quando è affidato all’assistenza del medico. Già secondo la semplice legge del contratto bilaterale (in analogia, per esempio, al rapporto tra avvocato e cliente con il suo concetto etico- professionale del “conflitto di interessi”) il medico è vincolato a non consentire che nessun altro interesse entri in competizione con l’interesse del paziente alla sua guarigione. Ma, evidentemente, entrano in gioco regole ancora più elevate di quelle contrattuali. Possiamo parlare di un sacro rapporto di fiducia. In senso stretto il medico è per così dire solo con il suo paziente e con Dio [...]

-  La lunga storia delle critiche a una professione necessaria

-  Il termine "medico" deriverebbe dal verbo latino "medeor" che significa "rimediare". In età imperiale, la pratica della medicina è promossa a scienza vera e propria: nasce una figura professionale riconosciuta

-  Amati e odiati già nell’antica Roma

-  di Giorgio Cosmacini (la Repubblica/Diario, 17.6.08)

Medicus, la parola e la storia: il configurarsi della parola nello svolgersi della storia, non è univoco. Medico dal latino medeor, mederi, «rimediare», ma in senso più stretto «medicare»: è una prima ipotesi, forse la più attendibile. Fin dall’antichità romana il termine si è, per così dire, specializzato, assumendo un significato terapeutico vero e proprio: «risanare, curare, aver cura».

Medico come «curante». Nella Roma repubblicana, Plauto (254 - 184 a.C.), nella commedia intitolata La corda grossa (Rudens) fa dialogare così due dei suoi personaggi: «Sei medico?». «No, non sono medico, ho una lettera in più».

«Sei dunque mendìco?». Tra mendicus e medico c’era il divario di una lettera, ma nella vita sociale del tempo non c’era una grande differenza tra i due. Il medico era un uomo che aveva come sola risorsa quella di aver cura di altri uomini, ricevendone in cambio un obolo di riconoscenza. Senza lucrare, forniva egli stesso il medicamentum. Chiunque avesse avuto bisogno del suo aiuto, poteva trovarlo, a ogni ora del giorno e della notte, nella taberna medica, una bottega a metà strada tra l’ambulatorio e il dispensario.

Però Platone, con la sapienza espressa nelle Leggi, aveva riconosciuto che nella Grecia post-ippocratica c’erano già «due specie di quelli che si chiamano medici»: i medici degli schiavi e i medici degli uomini liberi. I primi «fanno come un tiranno superbo e tosto si scostano» dallo schiavo malato. I secondi «danno informazioni allo stesso ammalato» e «non prescrivono nulla prima di aver persuaso per qualche via il paziente, preparandolo docile all’opera loro».

Torniamo alla parola, che - come si vede - è un guscio lessicale dai vari significati. Nella Roma cesarea, Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.) nell’opera De lingua latina dedicata a Cicerone convalida l’ipotesi che fa derivare medicus da medeor. Però nella Roma imperiale, quando Aulo Cornelio Celso (I secolo d.C.) scrive il trattato De medicina, il termine "medico" ricorre nello scritto con relativa minor frequenza di altri vocaboli che pur riconoscono la medesima radice linguistica. In compenso chi esercita la cura è passato di grado: ora è colui che possiede la scientia medendi. La pratica è stata promossa a scienza, il mestiere a professione.

Nella bassa latinità, o nell’alto Medioevo, Isidoro di Siviglia (560-636), nella parte propriamente medica dell’opera enciclopedica intitolata Etymologiae od Origines e comprendente tutto quanto lo scibile, fa risalire l’etimologia di medicina a modus, cioè alla "giusta misura" che deve guidare chi la professa. «Per questo» scrive Isidoro, «la medicina è chiamata seconda filosofia, poiché entrambe le discipline sono complementari all’uomo». In tal senso si può ribadire ciò che aveva già detto Claudio Galeno (130-200 d.C.), medico dell’imperatore Marco Aurelio e dei suoi figli: «Il migliore dei medici sia anche filosofo».

Dopo Isidoro, è il medico ebreo Mosè Maimonide (1135-1204) a far risalire il termine medicina a medietas, o "arte del giusto mezzo", lontana da difetti ed eccessi, da penuria od opulenza, ed esercitata da chi cura non solo con "giustezza", cioè con misura, ma anche con "giustizia", cioè con equità. Siamo nel basso Medioevo, quando a Salerno nasce e fiorisce la prima Scuola di medicina, i cui docenti sono chiamati magistri, "maestri salernitani". L’arte medica, professata al suo maggior livello, è un’"arte magistrale".

Peraltro, nello stesso periodo storico, i licenziati dalle neonate Università - a Bologna come a Padova, a Parigi come a Montpellier - sono detti physici piuttosto che medici, sia perché la "fisica" era la scienza della natura (ivi compresa la natura umana), sia perché era opportuna una distinzione - di ruolo, di classe, di censo - dai chirurghi, lavoratori manuali bassolocati e meno retribuiti. La distinzione era recepita dai primi regolamenti ospedalieri, in età rinascimentale. Nel 1508 il primo documento a stampa sull’ordinamento di un grande ospedale - il milanese Ospedale Maggiore - fissava la dotazione di personale medico in «quattro physici, uno per braccio de la crocera, et altri tanti chirurghi similmente distribuiti».

Facoltà e collegi, corporazioni e consuetudini fissavano i cardini di una tradizione durevole, che peraltro ammetteva il formarsi, in antitesi, di una controtradizione iatrocritica o addirittura iatrofobica. Non aveva scritto Pindaro, in una delle sue Odi pitiche, che lo stesso semidio della medicina, Asclepio (l’Esculapio dei latini), «era stato messo in catene dal guadagno»? E l’usignolo di Valchiusa, Francesco Petrarca, nelle sue Invectivae contra medicum, non aveva definito «colore di medico» il giallore riflesso sul volto di chi scrutava l’urina nel bicchiere e nel contempo pensava in cuor suo al denaro da lucrare? «Il tuo pallore è dovuto alla tua cupidità», aveva scritto Petrarca: «Tu ragguardi l’urina e il tuo pensiero è nell’oro».

Il filone storiografico di critica della medicina ha anch’esso una tradizione di lunga durata, che va da Catone il Censore a Ivan Illich (Nemesi medica, 1977) passando attraverso molti altri esponenti tra cui Bernardino Ramazzini (1633-1714), assai più noto, giustamente, come autore del magistrale trattato Sulle malattie dei lavoratori (contemplante anche il primo caso noto d’inquinamento industriale dell’aere padano) che per aver descritto, degli appartenenti alla propria categoria professorale, «il buon umore, quando tornano a casa ben carichi di denaro». «Io ho osservato - scrive Ramazzini - che i medici non stanno mai tanto male quando nessuno sta male».

Qualunquismo denigratore o coscienza autocritica? Il medico ippocratico delle origini - in Grecia era detto iatròs - è nato con una propria tèchne peculiare, comprendente il buon metodo (il metodo clinico) e la giusta morale (l’etica del "giuramento d’Ippocrate"). Se il metodo è buono e l’etica non è un’etichetta, adesa in modo posticcio alla professione per tacitarne la cattiva coscienza, il medicus, il "curante" d’ogni tempo e d’ogni luogo, non ha da temere critiche di sorta. Da curante competente e disponibile, egli resta il punto di forza e di resistenza che regge tutto quanto il sistema.


-  Perché la medicina estende sempre più il suo campo d’azione

-  L’incertezza della cura. In un campo così variegato come quello biologico è difficile stabilire se per quel singolo paziente un trattamento sia indicato oppure no

-  Così diventiamo tutti ammalati

-  Michel Foucault: Medici e malati non sono coinvolti con pieno diritto nello spazio della malattia; essi vengono tollerati come altrettante perturbazioni difficilmente evitabili...

-  Max Weber: Il medico cerca con tutti i mezzi di conservare la vita al moribondo... La medicina non si chiede se e quando la vita valga la pena di esser vissuta

-  Guido Ceronetti: Il medico ha di fronte il dolore, non il mistero dell’essere, non un enigma teologico insolubile. (Ne sarebbe schiacciato per sempre)

-  Jean Baudrillard: Spossessato delle sue difese, l’uomo diventa completamente vulnerabile alla scienza... Sbarazzato dei suoi germi, diventa vulnerabile alla medicina

-  di Marco Bobbio la Repubblica/Diario, 17.6.08

Il professor Clifton K. Meador, docente all’Università di Nashville nel Tennessee, si trova una sera a cena con un nutrito gruppo di amici. Parlando del più e del meno, il discorso scivola su questioni di salute. Con grande sorpresa, scopre che nessuno dei suoi amici è davvero sano: alcuni hanno il colesterolo elevato, a uno è stata diagnosticata un’anemia lieve, a una signora hanno appena consegnato il referto di uno striscio vaginale definito "dubbio", a due signori è stato comunicato che la prova da sforzo "non è normale" e alcuni soffrono di problemi di disagio personale o sociale. Tutti prendono quotidianamente qualche medicina.

Meador riflette sul fatto che ormai le persone sane stanno scomparendo e scrive un articolo, che verrà pubblicato sul New England Journal of Medicine, una prestigiosa rivista medica, provando a immaginare come vivrà l’ultimo uomo sano. Sarà completamente occupato a eseguire esami del sangue, delle urine e delle feci, visite mediche generiche e specialistiche, esplorazioni periodiche di ogni orifizio, esami accurati della pelle, sottoponendosi ad attività fisica calibrata e a una dieta rigorosa (che dovrà continuamente variare, aggiornandosi ai risultati delle ultime ricerche).

Dalla pubblicazione di quell’articolo sono trascorsi quattordici anni e la situazione è probabilmente peggiorata. Il numero di persone "non sane", badate bene, non dico ammalate, sta aumentando vertiginosamente. Si ha l’impressione che il benessere sia ormai limitato da un perenne stato di malattia e sostenuto da controlli e trattamenti continui. Per capire cosa stia succedendo, proviamo a riflettere su due questioni delicate.

Prima questione. Perché la medicina ha esteso il proprio campo di intervento a tal punto da coinvolgere praticamente tutti? In modo profetico, nel 1976 Ivan Illich preconizzava in Nemesi medica, l’espropriazione della salute, che «l’effetto inabilitante prodotto dalla gestione professionale della medicina ha raggiunto le proporzioni di un’epidemia. Il nome di questa nuova epidemia, iatrogenesi, viene da iatros, l’equivalente greco di medico e da genesis, che vuol dire origine». Da allora, la malattia è diventata sempre più spesso una merce, oggetto di profitti. Se vengono curate solo le persone realmente ammalate, ci si limita a quel ristretto gruppo di pazienti che ha bisogno di un intervento medico per stare meglio.

Per espandersi, il mercato della salute ha bisogno invece di una crescente domanda. Una volta che tutti gli ammalati sono stati intercettati e sono più o meno presi in un ingranaggio diagnostico-terapeutico, il mercato si deve estendere a quelli che non hanno nulla, e che, a loro dire, sono sani. Bisogna allora attivare alcuni meccanismi, spesso sorretti dalla buona intenzione di migliorare la salute: l’induzione del bisogno (si suscita nella gente la paura di malattie e di invalidità future, prospettando il rischio di un accidente), il travisamento dei dati scientifici (si presentano i risultati delle ricerche in modo da enfatizzare quelli positivi e minimizzare quelli negativi), l’anticipazione della diagnosi (si iniziano a prescrivere medicine per valori di "anormalità" sempre più bassi), la creazione di nuove malattie (si fa credere che comuni disturbi siano vere e proprie malattie da curare), la prescrizione per indicazioni non appropriate (si prescrivono farmaci approvati per la cura di una malattia, a pazienti che hanno altre malattie), le campagne di sensibilizzazione (si diffonde la consuetudine di indire la giornata, la settimana o l’anno di una certa affezione, per indurre le persone sane a preoccuparsi e sottoporsi a esami e a visite).

Seconda questione. I trattamenti prescritti sono tutti utili e può succedere che si arrivi al punto di sottoporre un paziente a un intervento chirurgico non necessario? In questi giorni è stato sollevato il dubbio, da accertare nel prosieguo dell’indagine giudiziaria, che alla clinica Santa Rita di Milano venissero eseguiti inutili interventi chirurgici. Se verranno confermati, i comportamenti criminosi dovranno essere perseguiti, anche per non gettare discredito sui medici e sulle strutture sanitarie. Non ritengo però che si possano dividere i medici tra i tantissimi onesti, che prescrivono solo cure essenziali e appropriate e i pochi disonesti, che speculano su ignari pazienti. La realtà è molto più sfumata.

Noi medici ci troviamo sempre ad assumere decisioni in condizioni di incertezza. In un campo così variegato, come quello biologico, è difficile stabilire se per quel singolo paziente un trattamento (medico o chirurgico) sia indicato oppure no. Sappiamo, in molte circostanze, cosa potrebbe succedere in media a pazienti con condizioni simili; non possiamo però prevedere cosa capiterà proprio a lui. In ogni decisione possono anche intervenire interessi personali: non solo quelli di tipo economico che sono evidenti, riprovevoli, mal tollerati, controllabili e sanzionabili.

Proprio per questo i controlli non dovrebbero limitarsi agli aspetti formali e quantitativi (facili da verificare), da affidare a impiegati che esaminano il rispetto delle procedure. Si sa che i disonesti sono abilissimi a produrre rendiconti formalmente perfetti; se le procedure di controllo sono cavillose è più facile che venga preso nella rete chi dedica più tempo ai pazienti che alle relazioni. È ora di cambiare mentalità: bisogna entrare nel merito degli interventi per verificare l’appropriatezza delle scelte, la qualità delle prestazione, l’efficacia dei risultati.


-  una professione divisa tra scandali ed etica

-  Quando ero malato in ospedale ho iniziato a riflettere meglio sul mio mestiere
-  Gli ospedali pubblici stanno diventando terreno di conquista da parte della politica

-  Cosa resta di una vocazione

-  di Ignazio Marino (la Repubblica/Diario. 17.06.2008)

«Dottore, mi affido alle sue mani». Quante volte un medico si sente dire queste parole? E quante volte dovrebbe ricordarle nel momento in cui affronta l’impegno, e la sfida, di ridare la salute ad un altro essere umano? Quante responsabilità in gesti e comportamenti che alla lunga per noi medici possono diventare abitudine. Prima di iniziare un intervento chirurgico o una terapia, ci si dovrebbe porre il problema di quante sofferenze dovrà sopportare il paziente, quanti aghi infilati nelle vene, quante sonde introdotte nel corpo, quanti effetti collaterali dovuti ai farmaci e quale peso psicologico legato al dolore della malattia e alla speranza nella cura.

Purtroppo tutto questo, nella maggior parte dei casi, non fa parte delle preoccupazioni dei medici che si concentrano sui risultati da raggiungere ma forse non tengono in giusta considerazione le difficoltà del percorso. Per fare un esempio, è probabile che se un paziente ricoverato in ospedale non riesce a dormire perché spaventato e teso, il medico gli prescriverà un sonnifero, molto difficilmente si fermerà a parlare con lui per chiedergli il perché delle sue ansie e cercare di tranquillizzarlo con la sua presenza. In entrambe le situazioni alla fine il sonno arriverà ma i percorsi per raggiungere l’obiettivo sono stati molto diversi.

Io ho iniziato a riflettere più seriamente sul mio modo di fare il medico quando mi sono trovato dall’altra parte della barricata, da paziente ammalato, ricoverato in un letto di ospedale e con il medico che mi dice: la situazione è grave, dobbiamo operarti subito. Subito, ma siamo sicuri? Non possiamo ascoltare un’altra opinione prima di portarmi in sala operatoria? E se non mi risveglio più per l’anestesia? Sono domande banali ma assolutamente comprensibili ed umane. Per questo è fondamentale che ogni persona nel momento in cui si trova in difficoltà, a fare i conti con la malattia e con il dolore, abbia la certezza che il medico di fronte a lui è un professionista competente e preparato e che si può fidare. È inaccettabile, oltre che scoraggiante, avere il dubbio che quel medico abbia come suo primo interesse il denaro o che ricopra una posizione di responsabilità per appoggi politici o amicizie.

Per questo sostengo che vadano introdotti nel nostro sistema sanitario criteri che valutino esclusivamente il merito e la qualità dei risultati: la politica deve cessare di gestire la sanità e lasciare che le scelte tecniche vengano fatte dai tecnici. La politica deve avere l’interesse e la passione per progettare la sanità, che è una cosa diversa dal gestire. Per questo andrebbero modificati i meccanismi di nomina delle figure apicali degli ospedali. Il metodo purtroppo comune delle indicazioni e delle segnalazioni politiche andrebbe sostituito con regole trasparenti, non aggirabili, necessarie a garantire il buon funzionamento delle strutture ospedaliere e dei servizi sanitari in genere. Punti irrinunciabili sono: una formazione specifica, una competenza documentabile e il processo di selezione reso pubblico su Internet.

Se si trattasse solo di una questione di metodo, il problema sarebbe abbastanza facile da affrontare. Ma nel nostro paese si fatica a fare passi avanti per motivi culturali profondamente radicati, che non riguardano solo la medicina ma attraversano ogni settore della società. Ed è così che veniamo riconosciuti anche all’estero: gli italiani sono dotati di grandi capacità, intuizione e generosità umana profonda, ma solo in ambito individuale o nel contesto familiare. Quando c’è da mettere il proprio talento a disposizione di un progetto più ampio, per il bene comune, la generosità viene meno per lasciare spazio a comportamenti individualistici e distaccati. È un problema di grande portata perché impedisce il generale progresso della società in termini culturali, e costituisce un limite allo sviluppo di uno Stato efficiente, solidale, dove tutto funziona meglio grazie al contributo del singolo al bene comune.

Quando parliamo di sanità questo modo di agire può diventare pericoloso perché se un medico pone i propri interessi personali davanti a quelli dei pazienti, il rischio è di arrivare ad aberrazioni estreme, a veri e propri crimini come quelli della clinica Santa Rita di Milano. Senza ricordare tanto orrore, basta pensare agli scandali di medici che timbrano il cartellino in ospedale ma passano tutta la giornata in clinica, alle truffe ai danni del Servizio Sanitario Nazionale (quante volte abbiamo sentito di rimborsi anche per cure di pazienti deceduti da tempo), alle liste d’attesa talora gonfiate per spingere i malati a rivolgersi al privato dove il medico che visita è lo stesso dell’ospedale.

A rigor del vero i medici non hanno vita facile, vivono sotto la pressione di pazienti sempre più esigenti, che non si fidano e non accettano l’inesorabilità di alcune malattie; sul versante amministrativo subiscono i controlli di manager inflessibili che interpretano il loro compito solo nel rispetto del bilancio, vincolando l’attività dei reparti al budget stabilito.

La medicina di oggi è anche un grande business di cui i medici inevitabilmente fanno parte. La logica del "più operi più guadagni" è più diffusa di quanto non si creda, all’estero ed anche in Italia; non dovrebbe essere accettata da chi lavora in sanità ma purtroppo lo è, soprattutto nel privato.

E questo è un altro tema che andrebbe affrontato con serenità. La separazione ideologica tra pubblico e privato, le divisioni tra chi accusa, generalizzando, il pubblico di essere fonte di spreco e inefficienza o chi afferma che il privato ha come unico interesse il profitto sono anacronistiche e dovrebbero essere superate da una visione che porti alla valutazione dei risultati.

Entrambi, pubblico e privato, dovrebbero avere pari dignità, assolvere agli stessi compiti nell’interesse dei malati, seguire le stesse regole ed essere sottoposti ai medesimi controlli e verifiche. Questo dovrebbe valere per le amministrazioni ma soprattutto per chi lavora a contatto con i malati. Non mi spiego, per esempio, come il governo possa aver immaginato una norma che permetta di detassare gli straordinari agli infermieri che lavorano in clinica privata ma non a quelli degli ospedali.

Purtroppo oggi assistiamo a fenomeni preoccupanti per cui gli ospedali pubblici rischiano di diventare terreno di conquista da parte della politica mentre le strutture private lavorano spesso esclusivamente nell’ottica di raccogliere quanti più rimborsi possibili dalle amministrazioni regionali. Anche per questo sarebbe importante avere nel nostro paese un sistema di valutazione che valga per tutti, basato non sulla produttività tout court ma sulla qualità delle cure, misurabile con semplici indicatori come il tasso di sopravvivenza dei pazienti, le complicanze dopo un intervento, l’incidenza delle infezioni, l’appropriatezza delle terapie rispetto alla diagnosi e via di seguito. L’introduzione di un meccanismo di questo genere non è difficile dal punto di vista del metodo ma lo è concettualmente perché pochi in Italia sono favorevoli alla verifica del proprio lavoro e difficilmente si accetta di essere valutati, ed eventualmente premiati o sanzionati, sulla base dei risultati ottenuti.

Tuttavia, sarebbe un passo avanti determinante per migliorare la qualità dell’assistenza e contribuire a fare dell’Italia un paese moderno, al passo con ciò che accade nel resto del mondo.

Io credo che l’Italia possa farlo questo passo ma serve la volontà e l’impegno da parte dei medici di riappropriarsi di un ruolo centrale nella gestione della sanità e un salto di qualità da parte della classe politica che non si occupi di occupare posizioni ma di proporre innovazioni nell’organizzazione della società e progettare il futuro.


Sillabario

MEDICI

di HANS JONAS

Nel corso della cura il medico ha obblighi nei confronti del paziente e di nessun altro. Non è l’avvocato della società o della scienza medica o della famiglia del paziente o dei suoi compagni di sventura o di coloro che in futuro soffriranno della stessa malattia. Soltanto il paziente conta quando è affidato all’assistenza del medico. Già secondo la semplice legge del contratto bilaterale (in analogia, per esempio, al rapporto tra avvocato e cliente con il suo concetto etico- professionale del “conflitto di interessi”) il medico è vincolato a non consentire che nessun altro interesse entri in competizione con l’interesse del paziente alla sua guarigione. Ma, evidentemente, entrano in gioco regole ancora più elevate di quelle contrattuali. Possiamo parlare di un sacro rapporto di fiducia. In senso stretto il medico è per così dire solo con il suo paziente e con Dio.


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