Memoria del Sud

SECONDA GUERRA MONDIALE: LA RESISTENZA NEL SUD, MAI RACCONTATA. Parla (2004) la storica Gabriella Gribaudi

mercoledì 28 giugno 2006.
 

LA RESISTENZA MAI RACCONTATA

di Gabriella GRIBAUDI

realizzata da Katia Alesiano*

Gabriella Gribaudi insegna Storia contemporanea presso la facoltà di Sociologia dell’università Federico II di Napoli. Ha pubblicato Mediatori, Rosenberg & Sellier, Torino 1980; A Eboli, Marsilio, Venezia 1990; Donne, uomini, famiglie, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 1999; Terra bruciata. Le stragi naziste sul fronte meridionale, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2003; fa parte della direzione di Quaderni storici.

Durante la seconda guerra mondiale quali caratteristiche ha avuto la presenza dei tedeschi nella zona del fronte meridionale, cioè nel territorio compreso tra il luogo dello sbarco alleato del 9 settembre del 1943, il golfo di Salerno, e la linea di fortificazione Gustav, da Minturno a Cassino?

Gli alleati sbarcarono il giorno successivo alla firma dell’armistizio, per cui i tedeschi si trovarono a combattere contro di loro e nello stesso tempo a occupare il territorio, coincidenza che sicuramente aumentò il livello della violenza. Tutta questa zona della Campania e del basso Lazio era stata definita dai tedeschi “zona di occupazione”, come pure Trieste. Essendo una zona di fronte il governo civile italiano venne esautorato; diverso il caso dell’Italia del nord dove c’era la Repubblica Sociale che, con tutti i limiti di un governo violento e alleato coi tedeschi, conservò però una parvenza di giurisdizione civile.

Nelle zone di operazione venivano invece applicate le leggi di guerra tedesche, che poi sono quelle di un esercito di occupazione, perciò qualsiasi atto di disobbedienza della popolazione civile diventava passibile di fucilazione con estrema facilità. In alcune zone di fronte, per esempio, se si prevedeva che ci fosse una battaglia o si dovevano fare delle fortificazioni o c’erano delle particolari posizioni tedesche da difendere, si faceva evacuare la popolazione con un decreto, così, dall’oggi al domani.

Sulla fascia costiera di Napoli la gente fu costretta ad evacuare nel giro di poche ore per un raggio che inizialmente era di tre chilometri. I racconti parlano di persone cacciate dalle case, di camion che le raccoglievano per portarle via, di gente che piangeva, che scappava portandosi sulla testa quello che riusciva a salvare, di donne che non trovavano i bambini. Chi non ubbidiva all’ordine di evacuazione e tornava nei luoghi di combattimento dell’esercito tedesco poteva essere considerato una spia e quindi ucciso seduta stante.

Sul fronte meridionale questa è stata una delle maggiori cause di morti civili: anche le donne sorprese in zona di evacuazione potevano venire uccise. Il maggior numero di morti è stato comunque fra i contadini; in genere, se costretti ad andare via, non potevano portarsi le bestie, sempre che i tedeschi non gliele avessero già requisite o uccise. Così i contadini si nascondevano per poi tornare per dar da mangiare agli animali o per portarli via nottetempo. In questo modo ne sono morti tantissimi.

Nella zona di Mondragone gli uomini fucilati per motivi del genere sono stati una cinquantina. Klinkhammer, un famoso studioso dell’occupazione tedesca in Italia, sostiene che in questa zona l’occupazione è stata particolarmente dura perché si sono sovrapposti diversi livelli di violenza. Innanzitutto, dopo l’8 settembre, i possibili mediatori erano scappati tutti. La gente lo ricorda: “Eravamo in balia delle onde, nessuno ci difendeva”; molti furono costretti a rifugiarsi nelle chiese, spesso l’unica possibilità di riparo. Infatti molti parroci e vescovi erano rimaste le uniche figure di riferimento del territorio e molti cercarono di assumere ruoli di mediazione coi tedeschi.

Vicino a Napoli, a Mugnano, che si venne a trovare su una linea di fortificazione, due seminaristi, un diacono e un sacerdote, andarono insieme da alcuni gerarchi locali per mediare col comandante tedesco che il primo di ottobre aveva dato l’ordine di evacuazione; la gente era andata a cercare i “preti” nelle loro case per spingerli ad accompagnare i notabili fascisti di cui non si fidavano appieno. La mediazione fu negativa, il comandante quasi non li lasciò parlare e intimò loro di allontanarsi e di non fare ritorno al paese. I quattro religiosi si diressero verso il centro vicino, ma poi deviarono per un sentiero tornando alle loro case; scoperti, il comandante ne ordinò la fucilazione immediata e li fece schierare contro il muro di una masseria, i due collocati agli estremi riuscirono però a fuggire scampando all’eccidio.

Bisogna poi ricordare che alla legislazione di guerra si sovrapponeva la necessità tattica di fare terra bruciata agli alleati che stavano arrivando; un comportamento non nuovo per un esercito in ritirata, ma che qui assunse caratteri di particolare efferatezza, perché si era subito dopo l’8 settembre, quindi agiva la volontà di vendicarsi contro gli italiani che avevano tradito l’alleanza con Hitler. La distruzione del territorio, già disastrato dai bombardamenti alleati, fu così perpetrata con grande violenza: a Napoli misero mine dappertutto, distrussero le fabbriche, gli alberghi principali, ma anche nei paesi, prima di andare via, minarono i municipi, i palazzi dei nobili locali, le ville.

Infine c’è una vicenda che la memoria nazionale ha completamente rimosso e sono le enormi razzie di uomini; dimenticate proprio perché, a differenza di quelle avvenute nel nord, riguardarono i civili. Noi abbiamo trovato sia gli ordini che gli elenchi di deportati. Un ordine del 20 settembre per esempio imponeva di razziare tutti gli uomini per portarli in Germania per il lavoro coatto; fu allestito un campo di raccolta a Sparanise, che sta vicino alla ferrovia, e lì raccolsero gli uomini da deportare.

Le razzie avvennero fulmineamente in tutta la Campania e il basso Lazio nello stesso giorno, il 23 settembre, circondando i paesi e prendendo tutti gli uomini; tra questi e quelli presi a Napoli il 26 e 27 settembre siamo sui 18.000 -il numero è stato raccolto da Klinkhammer ed è verosimile.

Per dare l’idea di quello che fu l’occupazione tedesca nel Meridione, voglio menzionare anche l’ordine che imponeva di non consumare nessuna derrata o bene dell’esercito tedesco, ovvero di usare esclusivamente le risorse degli italiani.

Questo si tradusse nella requisizione di tutti gli animali e spesso, quando non potevano essere consumati subito o portati via, nella loro eliminazione.

In ogni paese esaminato, tutti insistono sul fatto che i tedeschi portarono via tutto. Rispetto, poi, alle uccisioni sistematiche degli animali che non potevano portare con loro, i testimoni dicono che lo facevano per spregio: glieli uccidevano davanti agli occhi e non glieli facevano prendere.

Abbiamo raccolto tantissime testimonianze su questo aspetto, molte sono sul maiale e hanno un aspetto antropologico interessante, la gente infatti si immaginava questi tedeschi particolarmente amanti del maiale: “ai tedesche ce piaceva assai o maiale”. Il maiale, tra l’altro, va ucciso seguendo una determinata procedura e poi va subito tagliato; non lo si può ammazzare a mitragliate o a colpi di pistola: significa sprecarlo; è appunto in questo che consisteva lo spregio fatto alla gente. Lo dice bene Vincenzo Salierno, un testimone di Buonalbergo: “C’era stato un periodo prima, che erano passati dei tedeschi e andavano girando per le case ammazzando i maiali. Ammazzando i maiali nelle case, proprio nelle case, qui, qui, qui a Buonalbergo. Ma poi li prendevano? No, li ammazzavano e li lasciavano... Il maiale se lo uccidi in un modo... Ecco, se viene sparato, l’animale non può essere più recuperato”. E poi Arturo Cavuoto di Ripabianca-Ceppaloni: “A Ripabianca facevane strage i tedeschi... se pigliavene e caprette, se pigliavene o puorche, se pigliavene i sasiccie, lardo... Tutto, tutto... ievene a mbaz’ì po’ puorche, baste che truvavene o porche subite l’accerevene e o mettevene”.

I militari tedeschi presenti in questa zona appartenevano a corpi speciali? Come si spiega una tale ferocia?

Qui c’era la divisione Hermann Goring, la responsabile dei maggiori massacri in Italia: ha compiuto sicuramente la strage di Civitella Val di Chiana e mi pare anche quella di Marzabotto. Si trattava di una divisione della Wehrmacht e non delle SS, anche se la gente spesso dice che c’erano le SS perché pensano che dei militari normali non avrebbero potuto agire con tanta ferocia. La Goring era un corpo d’élite della Luftwaffe, costituita da paracadutisti di una divisione corrazzata e particolarmente ideologizzata, raccoglieva infatti i suoi adepti tra le fila della Hitler Jugend, la gioventù hitleriana. Furono presenti anche a Napoli nelle Quattro giornate, poi fecero il massacro di Acerra, dove c’era stata un’insurrezione simile a quella napoletana; la gente aveva fatto le barricate per non fare entrare i tedeschi, loro arrivarono con tre o quattro carrarmati, travolsero le barricate nella via principale del paese sparando contro le case e poi bruciandole. Non solo: man mano che la gente usciva fuori la uccidevano, anche donne e bambini.

La conta sicura è di 100 morti, ma probabilmente il numero è superiore. Un dato importante è che la Hermann Goring veniva dal fronte orientale, quindi era abituata a un alto livello di violenza. In Italia infatti non si è mai arrivati ai tassi di violenza del fronte orientale, anche se il caso campano e del basso Lazio dimostra come i tedeschi usassero sistematicamente il massacro come strumento d’intimidazione della popolazione civile. Questo tra l’altro ben prima della primavera del ’44, anticipando quindi quella condotta di guerra che invece viene fatta comunemente risalire alle “misure antipartigiane” del maresciallo Kesserling.

La posta in gioco del resto era altissima: in Campania si combatteva una battaglia decisiva per la continuazione della campagna d’Italia. Nonostante la superiorità dell’artiglieria e dell’aviazione alleate, bisognava rallentare l’avanzata nemica e attestarsi su una robusta linea difensiva. Inoltre il retroterra politico-ideologico del nazismo e il contesto normativo permissivista e protettivo che si era creato consentivano un livello di violenza talmente elevato da non tollerare nessuna disubbidienza da parte della popolazione, per cui si ricorreva facilmente al massacro.

Ma ci sono stati anche dei casi classici di rappresaglie, cioè di ritorsioni contro atti ostili antecedenti, quindi di vendette. A Bellona, per esempio, dopo l’uccisione di un tedesco vennero ammazzati 54 civili smentendo quella proporzione di 1 a 10 che la gente cita generalmente, e che dalla documentazione in effetti non risulta. Le rappresaglie pigliavano un po’ a caso e in alcuni casi si riusciva addirittura a trovare un accordo. In un paese, ad esempio, fu un sacerdote, mi pare un salesiano, a incaricarsi della mediazione e in cambio della rinuncia alla rappresaglia i tedeschi accettarono una transazione commerciale, misero cioè dei camion in piazza perché la popolazione del paese li caricasse di alimenti.

Nelle Quattro giornate invece ci furono molti massacri di civili, ma anche questo non si ricorda; l’insurrezione napoletana è ancora molto sottostimata per certi aspetti. La gente si era ribellata spontaneamente in un crescendo che ebbe il suo culmine quando i tedeschi iniziarono i rastrellamenti degli uomini.

Come risposta, i nazisti entrarono in città e passarono nelle vie principali coi carrarmati. Alcuni testimoni ricordano che dopo aver avvertito uno sparo in un vicolo vicino a via Roma, nei pressi di piazza Dante, i tedeschi puntarono il cannone del carro in quella direzione uccidendo una famiglia intera e altre persone. La strategia dell’esercito occupante, di fronte all’insurrezione di una città, fu insomma quella di sparare nel mucchio. Poi però la storia dell’insurrezione napoletana è stata rielaborata solo come storia di combattenti, ignorando l’aspetto del massacro della gente. Il libro di Bocca per esempio parla di 50 o 60 morti, quando invece furono circa 160.

Questo perché si voleva appiattire tutto sul modello della resistenza nel nord Italia?

Di fatto è andata così. Quella in Campania e nel basso Lazio è una resistenza che avviene subito dopo l’8 settembre e io stessa prima di studiarla non pensavo che avesse questo spessore. Leggendo i libri di Meneghello o di Fenoglio si trovano descritte situazioni simili: subito dopo l’annuncio dell’armistizio la gente non sa che fare, i ragazzi si organizzano, cercano di difendersi. Soprattutto Piccoli maestri dà un quadro molto simile alla situazione che c’era qua, dove non c’è stato materialmente il tempo di creare un’organizzazione. Del resto anche al nord le organizzazioni partigiane si formarono mesi dopo; all’inizio tutti quanti si difesero come poterono oppure si nascosero. Da noi tutti gli episodi di resistenza, anche quella armata tipo Napoli o Acerra, non furono politici, bensì legati alla socialità di quartiere.

Poi ovviamente se c’era l’antifascista del quartiere era lui a prendere in mano la situazione, ma più spesso era quello che magari aveva fatto il soldato e ne capiva di più. Si trattò quindi di una resistenza non organizzata e spesso molto popolare. Certo, al Vomero c’era tutto un gruppo di studenti che combatteva e che poi nel dopoguerra è stato individuato dalle sinistre come gruppo organizzato.

Però la caratteristica principale resta che, nonostante ci fossero soldati sbandati (napoletani e non), quando i tedeschi cominciarono i rastrellamenti a tappeto fu la popolazione a reagire. Molti uomini infatti a quel punto invece di scappare presero le armi, ci furono infatti saccheggi alle caserme compiuti da italiani. Cominciò così un’insurrezione “defilata”, condotta un po’ come adesso gli scippi, per cui si stava nascosti nei quartieri dove i tedeschi non osavano inoltrarsi per paura di rimanerci invischiati, e poi si facevano delle incursioni nelle vie principali, si sparava, si gettavano le bombe contro i tedeschi che stavano passando, quindi ci si ritirava di nuovo nei vicoli. Vennero fatte anche barricate importanti, ma si trattava sempre di gruppi legati al territorio e ad esigenze di difesa.

Del resto la resistenza comincia sempre così: è un non tollerare una violenza che sta toccando tutti e che tocca il tuo territorio. Questo la gente lo spiega bene. Magari è un’elaborazione successiva, però forse neanche tanto, perché è gente che non ha grosse ideologie. Ci furono sono anche dei fascisti che combatterono nelle Quattro giornate. Noi ne abbiamo intervistato uno che allora era giovane e che semplicemente reputò che i tedeschi stessero esagerando, quindi prese le armi per una sorta di amor patrio. Tant’è che quando tutto finì lui rimase fascista. I tedeschi del resto avevano compiuto azioni durissime in città; prima dell’insurrezione, il 12 settembre, avevano ucciso dei marinai e dei civili vicino all’università, a piazza Borsa, rastrellando tutta la popolazione presente per costringerla ad assistere, addirittura a battere le mani, mentre uccidevano un marinaio sulle scale dell’università. Ecco, il testimone da noi intervistato era in quella folla e per la rabbia poi combattè nelle Quattro giornate.

Quindi c’è stata una specificità dell’esercito tedesco rispetto alla violenza e all’umiliazione delle vittime.

Certo, la specificità della violenza lo differenzia dagli eserciti alleati che pure commisero violenze; i bombardamenti alleati qua furono terribili, ci furono morti a non finire. Nel caso napoletano è stato forte anche l’elemento razzista, che ha giocato moltissimo nell’Europa dell’Est e molto meno in quella occidentale, se si esclude la persecuzione antiebraica. I tedeschi nel Sud furono particolarmente violenti un po’ perché erano molto arrabbiati con gli italiani per il tradimento dell’alleanza, ma un po’ anche per disprezzo verso questa popolazione meridionale.

Nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre saccheggiarono moltissimo, andavano nei magazzini del regime, li aprivano e cominciavano a servirsi, poi aprivano le porte alla gente, spesso per provocare disordini; una volta che la gente era entrata (essendo affamatissima si buttava a pesce nel saccheggio), arrivavano loro e sparavano in aria, li irridevano e giravano dei filmati. Ho provato a cercarli, ma non ci sono, eppure tutti dicono che sono stati fatti. I tedeschi insomma si divertivano a filmare questa plebe lacera che si contendeva i resti dei loro saccheggi. Un testimone ci ha raccontato che da bambino era andato con altri a saccheggiare, c’erano dei bidoni di olio, a un certo punto i tedeschi li sorpresero e chiesero loro se volevano l’olio, i ragazzini pensarono di averla scampata, ma, racconta il testimone, il tedesco li obbligò a immergersi nei bidoni e quando uscirono tutti pieno di olio si divertirono a fotografarli. Ora, sarà vero o no, l’avrà visto o l’avrà vissuto, dà comunque l’idea di come la popolazione percepisse i soldati tedeschi.

Moltissime testimonianze sottolineano proprio la volontà di umiliazione e la violenza gratuita degli occupanti che si presentavano col mitra, facevano paura. C’è insomma tutto il repertorio classico, come far scavare la fossa a quelli che stavano per fucilare, tutto per far capire che loro potevano dare la morte quando volevano. Questo la gente ce l’ha molto presente, molto più di quanto pensassi.

E’ un mito che nel sud si ricordino il tedesco buono; io ho trovato tantissime testimonianze contrarie; probabilmente sono tutte storie che non avevano avuto voce. Resta il fatto che non c’è una memoria unica: chi ha vissuto le violenze dei tedeschi dice che erano terribili, chi non le ha viste dice che no, i tedeschi erano meglio degli alleati. Un piccolo paese che ho studiato, e che si trovava sulla linea Gustav, è stato bombardato nell’autunno del ’43, ha avuto più di cento morti, poi è stato liberato dalle truppe marocchine e gli stupri certi mi pare siano stati 120 o 130, quindi una grossa parte delle donne del paese; ho raccolto testimonianze agghiaccianti, bambine di 11 o 12 anni prese da 20 o 30 soldati; ovviamente per queste donne e questi uomini, alcuni dei quali costretti a vedere stuprare le loro mogli e figlie, la violenza è stata quella dei liberatori.

L’idea di patria è uno dei cardini sia della retorica resistenziale che di quella repubblichina; che idea di patria emerge invece da queste testimonianze?

Direi che qui siamo fuori da entrambe queste retoriche, perché ad esempio di Salò nessuno parla, molti non sanno proprio che cosa sia. Nei discorsi sulla patria emerge l’esigenza della difesa; a Napoli, più che altrove, è fortissima l’identità cittadina, quindi la necessità di difendere la città. C’è un brano di Meneghello in cui il protagonista incontra una banda partigiana di un paese e nasce una discussione sulla morale, alla quale questi pongono fine dicendo nel loro dialetto che a loro importava di difendere il loro paese, il resto erano solo parole. A quel punto anche l’autore conviene che la patria non è una cosa astratta, è la quotidianità, è la rete sociale in cui viviamo, e se qualcuno tenta di distruggercela la difendiamo istintivamente.

A questo proposito noi usiamo la definizione di “resistenza ordinaria”. Si possono infatti distinguere diverse categorie di resistenza: c’è quella armata e qui c’è stata, anche se in una forma popolare che non è rientrata nei canoni interpretativi. Mentre infatti le insurrezioni delle città del Nord erano state organizzate dal Cln, qui la gente è insorta senza una direzione organizzata. Le Quattro giornate per esempio vengono giudicate un episodio onorevole per la città, ma di tipo populistico, al punto da assimilarlo alla rivolta di Masaniello e alle altre ribellioni susseguitesi nella storia di Napoli. Io non condivido questa valutazione, innanzitutto perché mi pare un fatto importante che la città, in assenza di qualsiasi direzione politica, abbia dimostrato di sapersi opporre con le proprie forze, e poi perché bisogna tener conto dello specifico momento storico: allora non c’era la possibilità di organizzarsi.

La mitologia della resistenza è molto legata al Cln e alla costruzione fatta dai partiti nel dopoguerra, qui invece i partiti non c’erano. C’è poi un altro tipo di resistenza, che è stata chiamata resistenza civile ed è quella, ad esempio, delle donne che aiutano gli uomini che combattono o che comunque si rifiutano di collaborare con gli occupanti.

Infine c’è la resistenza della gente che difende i propri modi di vedere il mondo, i propri codici morali e che non è disposta a cambiarli, per cui se si presenta uno che deve essere aiutato lo si aiuta senza pensarci troppo, obbedendo semplicemente a un codice assimilato. In quest’ultima categoria rientra anche la resistenza della gente che difende il proprio quotidiano, le proprie cose, il vicino. E’ gente che resiste nelle pieghe, per così dire, ma che lo fa onorevolmente.

Ovviamente, siccome in questa zona tutto ha avuto tempi molto brevi, non possiamo sapere cosa sarebbe successo sul lungo periodo, quando cioè si sarebbero dovute operare delle scelte più definitive. Però vedere come queste persone si sono comportate nell’immediato può darci delle indicazioni. In effetti si tratta di una popolazione che è vittima della guerra e che ha poche vie d’uscita. Sono sempre i deboli che, di fronte a un potere molto più forte, non avendo molte alternative, cercano di attivare dei comportamenti minimi di resistenza.

Accennavi all’episodio di un paese del casertano che ha protetto una trentina di ebrei con le famiglie...

Nel settembre del ’42 venne deciso il lavoro coatto degli ebrei; una parte degli ebrei napoletani in età da lavoro venne così precettata e inviata in questo paese dell’alto casertano che si chiama Tora e Piccilli.

All’arrivo di questi 31 ebrei maschi venne istituita una locale stazione dei carabinieri con tre uomini e il podestà, che pare avesse proposto Tora come paese d’internamento. I torani raccontano che erano stati affissi dei manifesti per informare la popolazione che sarebbero arrivati questi ebrei e che andavano isolati: non si sarebbe potuto parlare con loro oltre a tutta una serie di misure di segregazione. All’inizio fu il caos: gli ebrei avrebbero dovuto fare dei lavori agricoli, invece vennero messi a fare lavori nelle strade. Questo fece sì che questi ebrei cominciassero ad avere contatti con la popolazione a vari livelli. Nel paese c’era il palazzo avito della baronessa Falco, che normalmente risiedeva a Napoli dove frequentava l’élite di cui facevano parte anche alcuni dei deportati. Ebbene, vedendoli arrivare a Tora in quelle condizioni la baronessa non si capacitò di quanto stava accadendo e fu così la prima ad aprire loro la propria casa; ci sono le fotografie di questi ebrei sul terrazzo con la baronessa e le sue figlie che conversano o fanno feste. La baronessa quindi non dette retta alle leggi razziali del regime, riconoscendo come codice identitario e morale la classe sociale. A un certo punto la censura trova addirittura una lettera delle sue figlie in cui c’era scritto che s’annoiavano tanto e che per fortuna erano arrivati gli ebrei, così ora si divertivano. Già questo è significativo, non so se in Germania sarebbe mai potuto accadere. A quel punto, allora, anche l’arciprete accettò i nuovi venuti, abbiamo delle foto del fratello dell’arciprete con gli ebrei. L’élite dunque si dimostrò aperta. Una famiglia antifascista poi si offrì di ospitarli. I coatti si trovarono talmente bene nel paese da farsi raggiungere dalle famiglie; per sfuggire ai bombardamenti si rifugiarono a Tora e Piccilli addirittura degli ebrei napoletani non coatti. Alla fine erano circa una settantina.

Dopo l’8 settembre, quando i tedeschi diventarono nemici, gli ebrei furono impiegati nella costruzione di una serie di linee di fortificazione; in quella zona infatti c’era una linea molto importante, quella del Volturno, detta Viktor, dopo la quale c’era la Bernhard, per arrivare infine alla Gustav che è quella di Cassino. Gli ordini erano di resistere su queste varie linee per un certo numero di giorni e pian piano indietreggiare per poi attestarsi su Cassino. La zona quindi era piena di tedeschi, eppure nessuno degli ebrei di Tora fu preso, mai; i tedeschi tra l’altro rimasero lì due mesi, se ne andarono solo a novembre. Anche a Tora il 23 settembre vennero razziati gli uomini, ma non gli ebrei, già fuggiti, forse perché temevano di più i tedeschi; comunque nessuno dei torani fece la delazione su dove fossero nascosti gli ebrei, addirittura due donne ebree vennero indicate dal podestà per fare le interpreti perché sapevano il tedesco e nessuno le tradì.

Probabilmente questo non fu un atto di particolare eroismo, semplicemente non ci pensarono, non pensarono che in quel momento i tedeschi volessero prendere gli ebrei, e forse davvero i tedeschi in quella situazione non erano particolarmente interessati alla deportazione di ebrei; resta il fatto che se l’avessero saputo li avrebbero presi. I torani invece protessero i loro ebrei, si nascosero con loro nelle grotte; un caso di resistenza ordinaria, di adesione spontanea a un codice morale che permane e in cui si crede, al di là della guerra e degli ordini del regime.

Questi atti di disubbidienza però poi sono stati interpretati dalla storiografia ufficiale alla luce dell’evoluzione dei fatti successiva al ’46, quindi del voto massiccio delle popolazioni meridionali per la monarchia e per le destre, che ha alimentato lo stereotipo di una popolazione meridionale conservatrice e subalterna.

Le interpretazioni in genere sono meccaniche. Intanto bisogna considerare che la zona fino a Cassino venne liberata nel ’44 e che si trattò di una liberazione tragica, con le truppe del corpo di spedizione francese, i cosiddetti marocchini, che imperversarono incontrollate.

Questo ha segnato profondamente quella popolazione, che peraltro poi non ha ottenuto alcun riconoscimento delle proprie sofferenze. Inoltre stiamo parlando di persone completamente abbandonate, che avevano trovato nei maggiorenti locali e soprattutto nella chiesa l’unico riferimento identitario e protettivo. Questo soprattutto per quanto riguarda il frusinate e la provincia di Latina. La zona della Campania invece venne liberata prima, ma alla liberazione seguì immediatamente l’occupazione alleata, definita un’occupazione del nemico-amico, perché presentava tutte le caratteristiche di un’occupazione, pur essendo fatta da un esercito alleato.

Il dato interessante infatti è che le violenze tedesche in questa zona spesso andarono di pari passo con grandi violenze da parte degli alleati; a Napoli innanzitutto, bombardata come nessun’altra città italiana. Ma poi ci furono molti altri casi: a Capua, per esempio, il 9 settembre ci fu un bombardamento alleato che si dice abbia fatto mille morti; mentre i tedeschi, pur con una violenza sicuramente brutale, ne avevano fatti 60 o 70; anche a Cancello Arnone, che è sul Volturno, il bombardamento del 9 settembre fece centinaia di vittime e il paese venne raso al suolo. Ovviamente questo creò nella popolazione l’idea, che poi non è troppo sbagliata, che la guerra è una fatalità terribile che travolge i deboli e che è una faccenda in cui tutti sono cattivi.

La memoria contrastata di queste popolazioni in seguito, però, è stata anche strumentalizzata da parte di chi aveva interesse a mettere sullo stesso piano vincitori e vinti. Alludo soprattutto a certe élites politiche postfasciste, fortemente interessate alla rimozione delle stragi naziste e di tutta la violenza che caratterizzò la fase dell’occupazione tedesca; quelle stesse élites postfasciste che avevano avuto il tempo di riorganizzarsi nel marasma istituzionale e sociale che si era venuto a creare, riemerse con l’occupazione alleata. Mentre infatti nel Nord, subito dopo la fine dell’occupazione tedesca, la situazione passò in mano al Cln, quindi ai partiti antifascisti organizzati, che poterono rielaborare la memoria.

In questa zona del Sud invece, fra il ’43 e il ’45, si dimenticò quello che era successo: la guerra continuava,lagente stava male, non aveva la casa, c’era il contrabbando. Comunque, oltre al negazionismo di destra ce n’è stato anche uno di sinistra, determinato dal mito nazionale della Resistenza, per cui si lasciava ai margini l’esperienza di quella parte d’Italia in cui non si era potuta sviluppare la lotta partigiana nei termini descritti dal modello ideale, cioè bande militarmente organizzate da un comando centralizzato e politico. E’ significativo, ad esempio, che i partiti di sinistra non abbiano saputo dare un riconoscimento alla mobilitazione popolare delle Quattro giornate di Napoli, e questo solo perché non vi avevano partecipato attivamente.

Tornando però alla questione del comportamento delle popolazioni meridionali dopo il ’46, non istituirei un rapporto diretto di causa-effetto tra il fatto di essere democratici e il voto alle sinistre; anche i cuneesi, che pure furono combattenti della Resistenza, poi hanno votato per la Democrazia Cristiana e per la monarchia. Infine c’è il fatto che dopo il ’45 la storia d’Italia in qualche modo si è divaricata e le popolazioni del Sud non si sono riconosciute nella storia di questa Repubblica che si stava costruendo come “nata dalla Resistenza”, dove per resistenza s’intendeva appunto quella armata e politicamente organizzata dei gruppi che avrebbero dato vita ai partiti del cosiddetto “arco costituzionale”. In questo senso il voto alla monarchia rappresentava anche una ricerca di protezione.

In quest’interpretazione ha certamente avuto un peso anche il prevalere della corrente idealista nella storiografia, che si concentrava sul ruolo delle élites, élites che nel Sud avevano fatto una pessima figura.

Le responsabilità della storiografia idealista, nel misconoscimento della resistenza civile e autonoma, sono evidenti e, anche se il problema è comune a tutta l’Europa, in Italia venne acuito dal ruolo cruciale assunto dai partiti nell’arena politica e sociale del dopoguerra e dalla loro influenza sulla sfera culturale. Il risultato è che non esiste ancora una storia sociale della guerra: o è o guerra di militari, e quindi si studiano gli eserciti, le tattiche militari, le strategie, oppure è guerra di resistenza, ma comunque sempre guerra di uomini armati; e questo anche in Europa.

Prima che si cominci a parlare di popolazione civile ce ne vuole; anche di quello che è successo agli ebrei per lungo tempo non si è parlato: gli ebrei deportati non erano neppure stati messi nel pantheon delle vittime nazionali della guerra. E qui arriviamo al discorso sul revisionismo e l’ortodossia, perché nel conflitto tra revisionisti e ortodossi si ripropone in fondo un’ideologia di questo genere; gli ortodossi infatti difendono a spada tratta un’idea della formazione della Repubblica legata alla Resistenza armata.

Gli altri a loro volta, sostenendo la legittimità e la buona fede di entrambi gli schieramenti, si muovono comunque dentro un orizzonte che considera solo i combattenti in armi. E’ esemplare a questo proposito l’atteggiamento di chi si scaglia contro la zona grigia, cioè contro coloro che non avevano scelto né una parte né l’altra, difendendo chi ha combattuto con uno schieramento preciso. Il ragionamento è di nuovo quello per cui a contare sono gli uomini armati, sono loro che fanno l’identità della patria.

Questa è un’idea vecchissima che si ripropone continuamente e risale al nazionalismo risorgimentale, per cui la nazione si definiva come “nazione in armi”. Quindi l’identità della nazione era costituita dal suo esercito; di qui la consuetudine di fine ‘800 di fare delle sfilate di uomini armati che si chiamavano proprio “la nazione in armi”. La nazione invece sono anche le donne che resistono, sono le famiglie, il vivere sociale, le reti di paese. E questa nazione tanto vituperata in quell’occasione ha funzionato, mentre non hanno funzionato le istituzioni dello Stato, come non ha funzionato l’esercito che se l’era data a gambe. Purtroppo di questa resistenza manca un racconto collettivo, oppure, quando c’è, è quello di piccoli gruppi, privo di mediazioni istituzionali, espresso coi linguaggi locali, degli affetti.

La mancanza di un linguaggio collettivo per esprimere la sofferenza, di nuovo, è un dato comune all’Europa della Seconda Guerra Mondiale, perché in questo evento vittime e carnefici si sovrappongono, un territorio prima viene occupato da uno e poi da un altro, c’è chi è collaborazionista e chi no, e poi la maggior parte delle vittime è morta sotto le bombe, non combattendo. Per questo non si trova un linguaggio comune per descrivere la vittima.

Dopo la Grande Guerra il linguaggio è quello del soldato morto per la patria e quello del reduce. Questo linguaggio viene riutilizzato nel secondo dopoguerra per esprimere la sofferenza e il lutto, pur essendo assolutamente dissonante con quanto successo, specie in Italia, dove quasi tutti i nostri soldati erano stati fatti prigionieri, erano cioè delle vittime più che dei combattenti.

Ancora adesso, se si va a una manifestazione commemorativa nella nostra zona capita di sentir suonare Il Piave mormorava e di vedere il presentatarm ai caduti. Questi caduti però sono per lo più dei civili morti sotto le bombe o nelle rappresaglie; insomma non c’entrano niente col presentatarm.

* UNA CITTÀ, n. 121, maggio-giugno 2004


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