LA RESISTENZA MAI RACCONTATA
di Gabriella GRIBAUDI
realizzata da Katia Alesiano*
Gabriella Gribaudi insegna Storia contemporanea presso la facoltà di Sociologia dell’università Federico II di Napoli. Ha pubblicato Mediatori, Rosenberg & Sellier, Torino 1980; A Eboli, Marsilio, Venezia 1990; Donne, uomini, famiglie, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 1999; Terra bruciata. Le stragi naziste sul fronte meridionale, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2003; fa parte della direzione di Quaderni storici.
Durante la seconda guerra mondiale quali caratteristiche ha avuto la presenza dei tedeschi nella zona del fronte meridionale, cioè nel territorio compreso tra il luogo dello sbarco alleato del 9 settembre del 1943, il golfo di Salerno, e la linea di fortificazione Gustav, da Minturno a Cassino?
Gli alleati sbarcarono il giorno successivo alla firma dell’armistizio, per cui i tedeschi si trovarono a combattere contro di loro e nello stesso tempo a occupare il territorio, coincidenza che sicuramente aumentò il livello della violenza. Tutta questa zona della Campania e del basso Lazio era stata definita dai tedeschi “zona di occupazione”, come pure Trieste. Essendo una zona di fronte il governo civile italiano venne esautorato; diverso il caso dell’Italia del nord dove c’era la Repubblica Sociale che, con tutti i limiti di un governo violento e alleato coi tedeschi, conservò però una parvenza di giurisdizione civile.
Nelle zone di operazione venivano invece applicate le leggi di guerra tedesche, che poi sono quelle di un esercito di occupazione, perciò qualsiasi atto di disobbedienza della popolazione civile diventava passibile di fucilazione con estrema facilità. In alcune zone di fronte, per esempio, se si prevedeva che ci fosse una battaglia o si dovevano fare delle fortificazioni o c’erano delle particolari posizioni tedesche da difendere, si faceva evacuare la popolazione con un decreto, così, dall’oggi al domani.
Sulla fascia costiera di Napoli la gente fu costretta ad evacuare nel giro di poche ore per un raggio che inizialmente era di tre chilometri. I racconti parlano di persone cacciate dalle case, di camion che le raccoglievano per portarle via, di gente che piangeva, che scappava portandosi sulla testa quello che riusciva a salvare, di donne che non trovavano i bambini. Chi non ubbidiva all’ordine di evacuazione e tornava nei luoghi di combattimento dell’esercito tedesco poteva essere considerato una spia e quindi ucciso seduta stante.
Sul fronte meridionale questa è stata una delle maggiori cause di morti civili: anche le donne sorprese in zona di evacuazione potevano venire uccise. Il maggior numero di morti è stato comunque fra i contadini; in genere, se costretti ad andare via, non potevano portarsi le bestie, sempre che i tedeschi non gliele avessero già requisite o uccise. Così i contadini si nascondevano per poi tornare per dar da mangiare agli animali o per portarli via nottetempo. In questo modo ne sono morti tantissimi.
Nella zona di Mondragone gli uomini fucilati per motivi del genere sono stati una cinquantina. Klinkhammer, un famoso studioso dell’occupazione tedesca in Italia, sostiene che in questa zona l’occupazione è stata particolarmente dura perché si sono sovrapposti diversi livelli di violenza. Innanzitutto, dopo l’8 settembre, i possibili mediatori erano scappati tutti. La gente lo ricorda: “Eravamo in balia delle onde, nessuno ci difendeva”; molti furono costretti a rifugiarsi nelle chiese, spesso l’unica possibilità di riparo. Infatti molti parroci e vescovi erano rimaste le uniche figure di riferimento del territorio e molti cercarono di assumere ruoli di mediazione coi tedeschi.
Vicino a Napoli, a Mugnano, che si venne a trovare su una linea di fortificazione, due seminaristi, un diacono e un sacerdote, andarono insieme da alcuni gerarchi locali per mediare col comandante tedesco che il primo di ottobre aveva dato l’ordine di evacuazione; la gente era andata a cercare i “preti” nelle loro case per spingerli ad accompagnare i notabili fascisti di cui non si fidavano appieno. La mediazione fu negativa, il comandante quasi non li lasciò parlare e intimò loro di allontanarsi e di non fare ritorno al paese. I quattro religiosi si diressero verso il centro vicino, ma poi deviarono per un sentiero tornando alle loro case; scoperti, il comandante ne ordinò la fucilazione immediata e li fece schierare contro il muro di una masseria, i due collocati agli estremi riuscirono però a fuggire scampando all’eccidio.
Bisogna poi ricordare che alla legislazione di guerra si sovrapponeva la necessità tattica di fare terra bruciata agli alleati che stavano arrivando; un comportamento non nuovo per un esercito in ritirata, ma che qui assunse caratteri di particolare efferatezza, perché si era subito dopo l’8 settembre, quindi agiva la volontà di vendicarsi contro gli italiani che avevano tradito l’alleanza con Hitler. La distruzione del territorio, già disastrato dai bombardamenti alleati, fu così perpetrata con grande violenza: a Napoli misero mine dappertutto, distrussero le fabbriche, gli alberghi principali, ma anche nei paesi, prima di andare via, minarono i municipi, i palazzi dei nobili locali, le ville.
Infine c’è una vicenda che la memoria nazionale ha completamente rimosso e sono le enormi razzie di uomini; dimenticate proprio perché, a differenza di quelle avvenute nel nord, riguardarono i civili. Noi abbiamo trovato sia gli ordini che gli elenchi di deportati. Un ordine del 20 settembre per esempio imponeva di razziare tutti gli uomini per portarli in Germania per il lavoro coatto; fu allestito un campo di raccolta a Sparanise, che sta vicino alla ferrovia, e lì raccolsero gli uomini da deportare.
Le razzie avvennero fulmineamente in tutta la Campania e il basso Lazio nello stesso giorno, il 23 settembre, circondando i paesi e prendendo tutti gli uomini; tra questi e quelli presi a Napoli il 26 e 27 settembre siamo sui 18.000 -il numero è stato raccolto da Klinkhammer ed è verosimile.
Per dare l’idea di quello che fu l’occupazione tedesca nel Meridione, voglio menzionare anche l’ordine che imponeva di non consumare nessuna derrata o bene dell’esercito tedesco, ovvero di usare esclusivamente le risorse degli italiani.
Questo si tradusse nella requisizione di tutti gli animali e spesso, quando non potevano essere consumati subito o portati via, nella loro eliminazione.
In ogni paese esaminato, tutti insistono sul fatto che i tedeschi portarono via tutto. Rispetto, poi, alle uccisioni sistematiche degli animali che non potevano portare con loro, i testimoni dicono che lo facevano per spregio: glieli uccidevano davanti agli occhi e non glieli facevano prendere.
Abbiamo raccolto tantissime testimonianze su questo aspetto, molte sono sul maiale e hanno un aspetto antropologico interessante, la gente infatti si immaginava questi tedeschi particolarmente amanti del maiale: “ai tedesche ce piaceva assai o maiale”. Il maiale, tra l’altro, va ucciso seguendo una determinata procedura e poi va subito tagliato; non lo si può ammazzare a mitragliate o a colpi di pistola: significa sprecarlo; è appunto in questo che consisteva lo spregio fatto alla gente. Lo dice bene Vincenzo Salierno, un testimone di Buonalbergo: “C’era stato un periodo prima, che erano passati dei tedeschi e andavano girando per le case ammazzando i maiali. Ammazzando i maiali nelle case, proprio nelle case, qui, qui, qui a Buonalbergo. Ma poi li prendevano? No, li ammazzavano e li lasciavano... Il maiale se lo uccidi in un modo... Ecco, se viene sparato, l’animale non può essere più recuperato”. E poi Arturo Cavuoto di Ripabianca-Ceppaloni: “A Ripabianca facevane strage i tedeschi... se pigliavene e caprette, se pigliavene o puorche, se pigliavene i sasiccie, lardo... Tutto, tutto... ievene a mbaz’ì po’ puorche, baste che truvavene o porche subite l’accerevene e o mettevene”.
I militari tedeschi presenti in questa zona appartenevano a corpi speciali? Come si spiega una tale ferocia?
Qui c’era la divisione Hermann Goring, la responsabile dei maggiori massacri in Italia: ha compiuto sicuramente la strage di Civitella Val di Chiana e mi pare anche quella di Marzabotto. Si trattava di una divisione della Wehrmacht e non delle SS, anche se la gente spesso dice che c’erano le SS perché pensano che dei militari normali non avrebbero potuto agire con tanta ferocia. La Goring era un corpo d’élite della Luftwaffe, costituita da paracadutisti di una divisione corrazzata e particolarmente ideologizzata, raccoglieva infatti i suoi adepti tra le fila della Hitler Jugend, la gioventù hitleriana. Furono presenti anche a Napoli nelle Quattro giornate, poi fecero il massacro di Acerra, dove c’era stata un’insurrezione simile a quella napoletana; la gente aveva fatto le barricate per non fare entrare i tedeschi, loro arrivarono con tre o quattro carrarmati, travolsero le barricate nella via principale del paese sparando contro le case e poi bruciandole. Non solo: man mano che la gente usciva fuori la uccidevano, anche donne e bambini.
La conta sicura è di 100 morti, ma probabilmente il numero è superiore. Un dato importante è che la Hermann Goring veniva dal fronte orientale, quindi era abituata a un alto livello di violenza. In Italia infatti non si è mai arrivati ai tassi di violenza del fronte orientale, anche se il caso campano e del basso Lazio dimostra come i tedeschi usassero sistematicamente il massacro come strumento d’intimidazione della popolazione civile. Questo tra l’altro ben prima della primavera del ’44, anticipando quindi quella condotta di guerra che invece viene fatta comunemente risalire alle “misure antipartigiane” del maresciallo Kesserling.
La posta in gioco del resto era altissima: in Campania si combatteva una battaglia decisiva per la continuazione della campagna d’Italia. Nonostante la superiorità dell’artiglieria e dell’aviazione alleate, bisognava rallentare l’avanzata nemica e attestarsi su una robusta linea difensiva. Inoltre il retroterra politico-ideologico del nazismo e il contesto normativo permissivista e protettivo che si era creato consentivano un livello di violenza talmente elevato da non tollerare nessuna disubbidienza da parte della popolazione, per cui si ricorreva facilmente al massacro.
Ma ci sono stati anche dei casi classici di rappresaglie, cioè di ritorsioni contro atti ostili antecedenti, quindi di vendette. A Bellona, per esempio, dopo l’uccisione di un tedesco vennero ammazzati 54 civili smentendo quella proporzione di 1 a 10 che la gente cita generalmente, e che dalla documentazione in effetti non risulta. Le rappresaglie pigliavano un po’ a caso e in alcuni casi si riusciva addirittura a trovare un accordo. In un paese, ad esempio, fu un sacerdote, mi pare un salesiano, a incaricarsi della mediazione e in cambio della rinuncia alla rappresaglia i tedeschi accettarono una transazione commerciale, misero cioè dei camion in piazza perché la popolazione del paese li caricasse di alimenti.
Nelle Quattro giornate invece ci furono molti massacri di civili, ma anche questo non si ricorda; l’insurrezione napoletana è ancora molto sottostimata per certi aspetti. La gente si era ribellata spontaneamente in un crescendo che ebbe il suo culmine quando i tedeschi iniziarono i rastrellamenti degli uomini.
Come risposta, i nazisti entrarono in città e passarono nelle vie principali coi carrarmati. Alcuni testimoni ricordano che dopo aver avvertito uno sparo in un vicolo vicino a via Roma, nei pressi di piazza Dante, i tedeschi puntarono il cannone del carro in quella direzione uccidendo una famiglia intera e altre persone. La strategia dell’esercito occupante, di fronte all’insurrezione di una città, fu insomma quella di sparare nel mucchio. Poi però la storia dell’insurrezione napoletana è stata rielaborata solo come storia di combattenti, ignorando l’aspetto del massacro della gente. Il libro di Bocca per esempio parla di 50 o 60 morti, quando invece furono circa 160.
Questo perché si voleva appiattire tutto sul modello della resistenza nel nord Italia?
Di fatto è andata così. Quella in Campania e nel basso Lazio è una resistenza che avviene subito dopo l’8 settembre e io stessa prima di studiarla non pensavo che avesse questo spessore. Leggendo i libri di Meneghello o di Fenoglio si trovano descritte situazioni simili: subito dopo l’annuncio dell’armistizio la gente non sa che fare, i ragazzi si organizzano, cercano di difendersi. Soprattutto Piccoli maestri dà un quadro molto simile alla situazione che c’era qua, dove non c’è stato materialmente il tempo di creare un’organizzazione. Del resto anche al nord le organizzazioni partigiane si formarono mesi dopo; all’inizio tutti quanti si difesero come poterono oppure si nascosero. Da noi tutti gli episodi di resistenza, anche quella armata tipo Napoli o Acerra, non furono politici, bensì legati alla socialità di quartiere.
Poi ovviamente se c’era l’antifascista del quartiere era lui a prendere in mano la situazione, ma più spesso era quello che magari aveva fatto il soldato e ne capiva di più. Si trattò quindi di una resistenza non organizzata e spesso molto popolare. Certo, al Vomero c’era tutto un gruppo di studenti che combatteva e che poi nel dopoguerra è stato individuato dalle sinistre come gruppo organizzato.
Però la caratteristica principale resta che, nonostante ci fossero soldati sbandati (napoletani e non), quando i tedeschi cominciarono i rastrellamenti a tappeto fu la popolazione a reagire. Molti uomini infatti a quel punto invece di scappare presero le armi, ci furono infatti saccheggi alle caserme compiuti da italiani. Cominciò così un’insurrezione “defilata”, condotta un po’ come adesso gli scippi, per cui si stava nascosti nei quartieri dove i tedeschi non osavano inoltrarsi per paura di rimanerci invischiati, e poi si facevano delle incursioni nelle vie principali, si sparava, si gettavano le bombe contro i tedeschi che stavano passando, quindi ci si ritirava di nuovo nei vicoli. Vennero fatte anche barricate importanti, ma si trattava sempre di gruppi legati al territorio e ad esigenze di difesa.
Del resto la resistenza comincia sempre così: è un non tollerare una violenza che sta toccando tutti e che tocca il tuo territorio. Questo la gente lo spiega bene. Magari è un’elaborazione successiva, però forse neanche tanto, perché è gente che non ha grosse ideologie. Ci furono sono anche dei fascisti che combatterono nelle Quattro giornate. Noi ne abbiamo intervistato uno che allora era giovane e che semplicemente reputò che i tedeschi stessero esagerando, quindi prese le armi per una sorta di amor patrio. Tant’è che quando tutto finì lui rimase fascista. I tedeschi del resto avevano compiuto azioni durissime in città; prima dell’insurrezione, il 12 settembre, avevano ucciso dei marinai e dei civili vicino all’università, a piazza Borsa, rastrellando tutta la popolazione presente per costringerla ad assistere, addirittura a battere le mani, mentre uccidevano un marinaio sulle scale dell’università. Ecco, il testimone da noi intervistato era in quella folla e per la rabbia poi combattè nelle Quattro giornate.
Quindi c’è stata una specificità dell’esercito tedesco rispetto alla violenza e all’umiliazione delle vittime.
Certo, la specificità della violenza lo differenzia dagli eserciti alleati che pure commisero violenze; i bombardamenti alleati qua furono terribili, ci furono morti a non finire. Nel caso napoletano è stato forte anche l’elemento razzista, che ha giocato moltissimo nell’Europa dell’Est e molto meno in quella occidentale, se si esclude la persecuzione antiebraica. I tedeschi nel Sud furono particolarmente violenti un po’ perché erano molto arrabbiati con gli italiani per il tradimento dell’alleanza, ma un po’ anche per disprezzo verso questa popolazione meridionale.
Nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre saccheggiarono moltissimo, andavano nei magazzini del regime, li aprivano e cominciavano a servirsi, poi aprivano le porte alla gente, spesso per provocare disordini; una volta che la gente era entrata (essendo affamatissima si buttava a pesce nel saccheggio), arrivavano loro e sparavano in aria, li irridevano e giravano dei filmati. Ho provato a cercarli, ma non ci sono, eppure tutti dicono che sono stati fatti. I tedeschi insomma si divertivano a filmare questa plebe lacera che si contendeva i resti dei loro saccheggi. Un testimone ci ha raccontato che da bambino era andato con altri a saccheggiare, c’erano dei bidoni di olio, a un certo punto i tedeschi li sorpresero e chiesero loro se volevano l’olio, i ragazzini pensarono di averla scampata, ma, racconta il testimone, il tedesco li obbligò a immergersi nei bidoni e quando uscirono tutti pieno di olio si divertirono a fotografarli. Ora, sarà vero o no, l’avrà visto o l’avrà vissuto, dà comunque l’idea di come la popolazione percepisse i soldati tedeschi.
Moltissime testimonianze sottolineano proprio la volontà di umiliazione e la violenza gratuita degli occupanti che si presentavano col mitra, facevano paura. C’è insomma tutto il repertorio classico, come far scavare la fossa a quelli che stavano per fucilare, tutto per far capire che loro potevano dare la morte quando volevano. Questo la gente ce l’ha molto presente, molto più di quanto pensassi.
E’ un mito che nel sud si ricordino il tedesco buono; io ho trovato tantissime testimonianze contrarie; probabilmente sono tutte storie che non avevano avuto voce. Resta il fatto che non c’è una memoria unica: chi ha vissuto le violenze dei tedeschi dice che erano terribili, chi non le ha viste dice che no, i tedeschi erano meglio degli alleati. Un piccolo paese che ho studiato, e che si trovava sulla linea Gustav, è stato bombardato nell’autunno del ’43, ha avuto più di cento morti, poi è stato liberato dalle truppe marocchine e gli stupri certi mi pare siano stati 120 o 130, quindi una grossa parte delle donne del paese; ho raccolto testimonianze agghiaccianti, bambine di 11 o 12 anni prese da 20 o 30 soldati; ovviamente per queste donne e questi uomini, alcuni dei quali costretti a vedere stuprare le loro mogli e figlie, la violenza è stata quella dei liberatori.
L’idea di patria è uno dei cardini sia della retorica resistenziale che di quella repubblichina; che idea di patria emerge invece da queste testimonianze?
Direi che qui siamo fuori da entrambe queste retoriche, perché ad esempio di Salò nessuno parla, molti non sanno proprio che cosa sia. Nei discorsi sulla patria emerge l’esigenza della difesa; a Napoli, più che altrove, è fortissima l’identità cittadina, quindi la necessità di difendere la città. C’è un brano di Meneghello in cui il protagonista incontra una banda partigiana di un paese e nasce una discussione sulla morale, alla quale questi pongono fine dicendo nel loro dialetto che a loro importava di difendere il loro paese, il resto erano solo parole. A quel punto anche l’autore conviene che la patria non è una cosa astratta, è la quotidianità, è la rete sociale in cui viviamo, e se qualcuno tenta di distruggercela la difendiamo istintivamente.
A questo proposito noi usiamo la definizione di “resistenza ordinaria”. Si possono infatti distinguere diverse categorie di resistenza: c’è quella armata e qui c’è stata, anche se in una forma popolare che non è rientrata nei canoni interpretativi. Mentre infatti le insurrezioni delle città del Nord erano state organizzate dal Cln, qui la gente è insorta senza una direzione organizzata. Le Quattro giornate per esempio vengono giudicate un episodio onorevole per la città, ma di tipo populistico, al punto da assimilarlo alla rivolta di Masaniello e alle altre ribellioni susseguitesi nella storia di Napoli. Io non condivido questa valutazione, innanzitutto perché mi pare un fatto importante che la città, in assenza di qualsiasi direzione politica, abbia dimostrato di sapersi opporre con le proprie forze, e poi perché bisogna tener conto dello specifico momento storico: allora non c’era la possibilità di organizzarsi.
La mitologia della resistenza è molto legata al Cln e alla costruzione fatta dai partiti nel dopoguerra, qui invece i partiti non c’erano. C’è poi un altro tipo di resistenza, che è stata chiamata resistenza civile ed è quella, ad esempio, delle donne che aiutano gli uomini che combattono o che comunque si rifiutano di collaborare con gli occupanti.
Infine c’è la resistenza della gente che difende i propri modi di vedere il mondo, i propri codici morali e che non è disposta a cambiarli, per cui se si presenta uno che deve essere aiutato lo si aiuta senza pensarci troppo, obbedendo semplicemente a un codice assimilato. In quest’ultima categoria rientra anche la resistenza della gente che difende il proprio quotidiano, le proprie cose, il vicino. E’ gente che resiste nelle pieghe, per così dire, ma che lo fa onorevolmente.
Ovviamente, siccome in questa zona tutto ha avuto tempi molto brevi, non possiamo sapere cosa sarebbe successo sul lungo periodo, quando cioè si sarebbero dovute operare delle scelte più definitive. Però vedere come queste persone si sono comportate nell’immediato può darci delle indicazioni. In effetti si tratta di una popolazione che è vittima della guerra e che ha poche vie d’uscita. Sono sempre i deboli che, di fronte a un potere molto più forte, non avendo molte alternative, cercano di attivare dei comportamenti minimi di resistenza.
Accennavi all’episodio di un paese del casertano che ha protetto una trentina di ebrei con le famiglie...
Nel settembre del ’42 venne deciso il lavoro coatto degli ebrei; una parte degli ebrei napoletani in età da lavoro venne così precettata e inviata in questo paese dell’alto casertano che si chiama Tora e Piccilli.
All’arrivo di questi 31 ebrei maschi venne istituita una locale stazione dei carabinieri con tre uomini e il podestà, che pare avesse proposto Tora come paese d’internamento. I torani raccontano che erano stati affissi dei manifesti per informare la popolazione che sarebbero arrivati questi ebrei e che andavano isolati: non si sarebbe potuto parlare con loro oltre a tutta una serie di misure di segregazione. All’inizio fu il caos: gli ebrei avrebbero dovuto fare dei lavori agricoli, invece vennero messi a fare lavori nelle strade. Questo fece sì che questi ebrei cominciassero ad avere contatti con la popolazione a vari livelli. Nel paese c’era il palazzo avito della baronessa Falco, che normalmente risiedeva a Napoli dove frequentava l’élite di cui facevano parte anche alcuni dei deportati. Ebbene, vedendoli arrivare a Tora in quelle condizioni la baronessa non si capacitò di quanto stava accadendo e fu così la prima ad aprire loro la propria casa; ci sono le fotografie di questi ebrei sul terrazzo con la baronessa e le sue figlie che conversano o fanno feste. La baronessa quindi non dette retta alle leggi razziali del regime, riconoscendo come codice identitario e morale la classe sociale. A un certo punto la censura trova addirittura una lettera delle sue figlie in cui c’era scritto che s’annoiavano tanto e che per fortuna erano arrivati gli ebrei, così ora si divertivano. Già questo è significativo, non so se in Germania sarebbe mai potuto accadere. A quel punto, allora, anche l’arciprete accettò i nuovi venuti, abbiamo delle foto del fratello dell’arciprete con gli ebrei. L’élite dunque si dimostrò aperta. Una famiglia antifascista poi si offrì di ospitarli. I coatti si trovarono talmente bene nel paese da farsi raggiungere dalle famiglie; per sfuggire ai bombardamenti si rifugiarono a Tora e Piccilli addirittura degli ebrei napoletani non coatti. Alla fine erano circa una settantina.
Dopo l’8 settembre, quando i tedeschi diventarono nemici, gli ebrei furono impiegati nella costruzione di una serie di linee di fortificazione; in quella zona infatti c’era una linea molto importante, quella del Volturno, detta Viktor, dopo la quale c’era la Bernhard, per arrivare infine alla Gustav che è quella di Cassino. Gli ordini erano di resistere su queste varie linee per un certo numero di giorni e pian piano indietreggiare per poi attestarsi su Cassino. La zona quindi era piena di tedeschi, eppure nessuno degli ebrei di Tora fu preso, mai; i tedeschi tra l’altro rimasero lì due mesi, se ne andarono solo a novembre. Anche a Tora il 23 settembre vennero razziati gli uomini, ma non gli ebrei, già fuggiti, forse perché temevano di più i tedeschi; comunque nessuno dei torani fece la delazione su dove fossero nascosti gli ebrei, addirittura due donne ebree vennero indicate dal podestà per fare le interpreti perché sapevano il tedesco e nessuno le tradì.
Probabilmente questo non fu un atto di particolare eroismo, semplicemente non ci pensarono, non pensarono che in quel momento i tedeschi volessero prendere gli ebrei, e forse davvero i tedeschi in quella situazione non erano particolarmente interessati alla deportazione di ebrei; resta il fatto che se l’avessero saputo li avrebbero presi. I torani invece protessero i loro ebrei, si nascosero con loro nelle grotte; un caso di resistenza ordinaria, di adesione spontanea a un codice morale che permane e in cui si crede, al di là della guerra e degli ordini del regime.
Questi atti di disubbidienza però poi sono stati interpretati dalla storiografia ufficiale alla luce dell’evoluzione dei fatti successiva al ’46, quindi del voto massiccio delle popolazioni meridionali per la monarchia e per le destre, che ha alimentato lo stereotipo di una popolazione meridionale conservatrice e subalterna.
Le interpretazioni in genere sono meccaniche. Intanto bisogna considerare che la zona fino a Cassino venne liberata nel ’44 e che si trattò di una liberazione tragica, con le truppe del corpo di spedizione francese, i cosiddetti marocchini, che imperversarono incontrollate.
Questo ha segnato profondamente quella popolazione, che peraltro poi non ha ottenuto alcun riconoscimento delle proprie sofferenze. Inoltre stiamo parlando di persone completamente abbandonate, che avevano trovato nei maggiorenti locali e soprattutto nella chiesa l’unico riferimento identitario e protettivo. Questo soprattutto per quanto riguarda il frusinate e la provincia di Latina. La zona della Campania invece venne liberata prima, ma alla liberazione seguì immediatamente l’occupazione alleata, definita un’occupazione del nemico-amico, perché presentava tutte le caratteristiche di un’occupazione, pur essendo fatta da un esercito alleato.
Il dato interessante infatti è che le violenze tedesche in questa zona spesso andarono di pari passo con grandi violenze da parte degli alleati; a Napoli innanzitutto, bombardata come nessun’altra città italiana. Ma poi ci furono molti altri casi: a Capua, per esempio, il 9 settembre ci fu un bombardamento alleato che si dice abbia fatto mille morti; mentre i tedeschi, pur con una violenza sicuramente brutale, ne avevano fatti 60 o 70; anche a Cancello Arnone, che è sul Volturno, il bombardamento del 9 settembre fece centinaia di vittime e il paese venne raso al suolo. Ovviamente questo creò nella popolazione l’idea, che poi non è troppo sbagliata, che la guerra è una fatalità terribile che travolge i deboli e che è una faccenda in cui tutti sono cattivi.
La memoria contrastata di queste popolazioni in seguito, però, è stata anche strumentalizzata da parte di chi aveva interesse a mettere sullo stesso piano vincitori e vinti. Alludo soprattutto a certe élites politiche postfasciste, fortemente interessate alla rimozione delle stragi naziste e di tutta la violenza che caratterizzò la fase dell’occupazione tedesca; quelle stesse élites postfasciste che avevano avuto il tempo di riorganizzarsi nel marasma istituzionale e sociale che si era venuto a creare, riemerse con l’occupazione alleata. Mentre infatti nel Nord, subito dopo la fine dell’occupazione tedesca, la situazione passò in mano al Cln, quindi ai partiti antifascisti organizzati, che poterono rielaborare la memoria.
In questa zona del Sud invece, fra il ’43 e il ’45, si dimenticò quello che era successo: la guerra continuava,lagente stava male, non aveva la casa, c’era il contrabbando. Comunque, oltre al negazionismo di destra ce n’è stato anche uno di sinistra, determinato dal mito nazionale della Resistenza, per cui si lasciava ai margini l’esperienza di quella parte d’Italia in cui non si era potuta sviluppare la lotta partigiana nei termini descritti dal modello ideale, cioè bande militarmente organizzate da un comando centralizzato e politico. E’ significativo, ad esempio, che i partiti di sinistra non abbiano saputo dare un riconoscimento alla mobilitazione popolare delle Quattro giornate di Napoli, e questo solo perché non vi avevano partecipato attivamente.
Tornando però alla questione del comportamento delle popolazioni meridionali dopo il ’46, non istituirei un rapporto diretto di causa-effetto tra il fatto di essere democratici e il voto alle sinistre; anche i cuneesi, che pure furono combattenti della Resistenza, poi hanno votato per la Democrazia Cristiana e per la monarchia. Infine c’è il fatto che dopo il ’45 la storia d’Italia in qualche modo si è divaricata e le popolazioni del Sud non si sono riconosciute nella storia di questa Repubblica che si stava costruendo come “nata dalla Resistenza”, dove per resistenza s’intendeva appunto quella armata e politicamente organizzata dei gruppi che avrebbero dato vita ai partiti del cosiddetto “arco costituzionale”. In questo senso il voto alla monarchia rappresentava anche una ricerca di protezione.
In quest’interpretazione ha certamente avuto un peso anche il prevalere della corrente idealista nella storiografia, che si concentrava sul ruolo delle élites, élites che nel Sud avevano fatto una pessima figura.
Le responsabilità della storiografia idealista, nel misconoscimento della resistenza civile e autonoma, sono evidenti e, anche se il problema è comune a tutta l’Europa, in Italia venne acuito dal ruolo cruciale assunto dai partiti nell’arena politica e sociale del dopoguerra e dalla loro influenza sulla sfera culturale. Il risultato è che non esiste ancora una storia sociale della guerra: o è o guerra di militari, e quindi si studiano gli eserciti, le tattiche militari, le strategie, oppure è guerra di resistenza, ma comunque sempre guerra di uomini armati; e questo anche in Europa.
Prima che si cominci a parlare di popolazione civile ce ne vuole; anche di quello che è successo agli ebrei per lungo tempo non si è parlato: gli ebrei deportati non erano neppure stati messi nel pantheon delle vittime nazionali della guerra. E qui arriviamo al discorso sul revisionismo e l’ortodossia, perché nel conflitto tra revisionisti e ortodossi si ripropone in fondo un’ideologia di questo genere; gli ortodossi infatti difendono a spada tratta un’idea della formazione della Repubblica legata alla Resistenza armata.
Gli altri a loro volta, sostenendo la legittimità e la buona fede di entrambi gli schieramenti, si muovono comunque dentro un orizzonte che considera solo i combattenti in armi. E’ esemplare a questo proposito l’atteggiamento di chi si scaglia contro la zona grigia, cioè contro coloro che non avevano scelto né una parte né l’altra, difendendo chi ha combattuto con uno schieramento preciso. Il ragionamento è di nuovo quello per cui a contare sono gli uomini armati, sono loro che fanno l’identità della patria.
Questa è un’idea vecchissima che si ripropone continuamente e risale al nazionalismo risorgimentale, per cui la nazione si definiva come “nazione in armi”. Quindi l’identità della nazione era costituita dal suo esercito; di qui la consuetudine di fine ‘800 di fare delle sfilate di uomini armati che si chiamavano proprio “la nazione in armi”. La nazione invece sono anche le donne che resistono, sono le famiglie, il vivere sociale, le reti di paese. E questa nazione tanto vituperata in quell’occasione ha funzionato, mentre non hanno funzionato le istituzioni dello Stato, come non ha funzionato l’esercito che se l’era data a gambe. Purtroppo di questa resistenza manca un racconto collettivo, oppure, quando c’è, è quello di piccoli gruppi, privo di mediazioni istituzionali, espresso coi linguaggi locali, degli affetti.
La mancanza di un linguaggio collettivo per esprimere la sofferenza, di nuovo, è un dato comune all’Europa della Seconda Guerra Mondiale, perché in questo evento vittime e carnefici si sovrappongono, un territorio prima viene occupato da uno e poi da un altro, c’è chi è collaborazionista e chi no, e poi la maggior parte delle vittime è morta sotto le bombe, non combattendo. Per questo non si trova un linguaggio comune per descrivere la vittima.
Dopo la Grande Guerra il linguaggio è quello del soldato morto per la patria e quello del reduce. Questo linguaggio viene riutilizzato nel secondo dopoguerra per esprimere la sofferenza e il lutto, pur essendo assolutamente dissonante con quanto successo, specie in Italia, dove quasi tutti i nostri soldati erano stati fatti prigionieri, erano cioè delle vittime più che dei combattenti.
Ancora adesso, se si va a una manifestazione commemorativa nella nostra zona capita di sentir suonare Il Piave mormorava e di vedere il presentatarm ai caduti. Questi caduti però sono per lo più dei civili morti sotto le bombe o nelle rappresaglie; insomma non c’entrano niente col presentatarm.
Donne resistenti in Campania
di Fosca Pizzaroni *
Oggi 25 aprile 2020 in cui tutta la popolazione è chiamata a “resistere” contro un nemico invisibile, in controluce possiamo rileggere quei giorni di ribellione e violenze che portarono alla costituzione della Repubblica italiana. Oggi, come richiamo a superare i campanilismi e le divisioni, torniamo a riflettere su quella parte fondante della nostra storia. Momento complesso, caotico, tuttora e sempre da rivisitare perché «la resistenza, ancora oggi, rappresenta in Italia un fattore di divisione» (M. Flores, M. Franzinelli, Storia della Resistenza, Bari, Laterza, 2019, p. XI). Fattore di pregiudizio che nasce proprio all’indomani di quel tragico arco di tempo disegnato tra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945, con la crisi che Nenni definì «vento del Nord», originata nell’aprile del 1945, subito dopo la liberazione, a causa di contrasti all’interno del Comitato Centrale di Liberazione Nazionale e del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. La liberazione del nostro Paese fu lenta e lo spezzò in più parti, ma quanto a ribellione, coraggio, dolore, sofferenza, sopraffazione, stragi e violenze se ne subirono in ogni minima particella di tutto il suo lungo territorio.
Questo 25 aprile 2020 ci invita come mai a superare stereotipi e luoghi comuni e non per falsi sentimentalismi ma grazie al lavoro della ricerca storica ed archivistica. Forse, fino ad oggi, sono meno conosciute le tragiche vicende del Sud, ridotte spesso alle Quattro Giornate di Napoli, vissute tra il 27 e 30 settembre del 1943, e viste come fatto estemporaneo di generosità propria delle popolazioni del basso Tirreno. Vicende messe in rilievo, invece, anzi riscoperte, dal lavoro della Commissione storica italo-tedesca, cui nel 2009 il governo italiano e quello della Repubblica Federale Tedesca diedero l’incarico di sviluppare l’esame critico di quel periodo, proprio per contribuire alla realizzazione di una nuova cultura della memoria (https://italien.diplo.de/blob/1600290/91b68fe8ac6b370ee612debfee141419/rapporto-hiko-data.pdf). Progetto che ha portato alla creazione dell’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (http://www.straginazifasciste.it).
Altra fonte di fondamentale importanza nel ridonare le linee della guerra portata avanti dai partigiani e dalle partigiane d’Italia e il ruolo da loro svolto nella lotta di liberazione nazionale è il fondo del Ministero della Difesa, Ufficio per il servizio riconoscimento qualifiche e per le ricompense ai partigiani (in sigla Ricompart), conservato presso l’Archivio centrale dello Stato. Non ancora del tutto inventariato, quindi non tutto a disposizione di studiosi/e, ma che alla voce “Campania” apre nuovi e sconvolgenti scorci sulla storia della nostra Resistenza. Panorami che rimettono in discussione l’attuale storiografia. Fondo ampiamente consultato da Giovanni Cerchia -professore di storia contemporanea presso l’Università del Molise - nel suo recente volume La Seconda guerra mondiale nel Mezzogiorno (Luni, Milano 2019), in cui si riportano alla luce nomi, fatti, luoghi, avvenimenti. Nomi, fatti, luoghi e avvenimenti che tornano ad avere volti, parole, azione, stati d’animo e pongono al centro dell’attenzione il portato delle donne alla costruzione della nuova Italia.
Donne come la Medaglia d’argento al valor militare Filomena Galdieri (Roccapiemonte, Salerno, 21 dicembre 1920- ivi, 25 settembre 1943). Ventiduenne salernitana, studente e infermiera volontaria presso l’Ospedale Villa Silvia, struttura sanitaria del comune natale di Filomena, in linea d’aria a circa 11 km da Salerno. Nei giorni immediatamente successivi al 9 settembre del 1943, data dello sbarco alleato a Salerno, il paese di Roccapiemonte era ancora occupato dai tedeschi. Purtroppo le carte relative alla Prefettura e alla Questura di Salerno per l’anno 1943 sono andate perdute, proprio a causa della dispersione intervenuta in seguito all’occupazione da parte delle forze armate alleate dell’edificio che ospitava i due uffici per stabilirvi il proprio quartier generale, di conseguenza non è dato ricostruire con chiarezza gli avvenimenti del giorno in cui fu uccisa Filomena. «Secondo alcune fonti Galdieri fu uccisa perché sospettata di aver curato militari alleati; secondo la motivazione della medaglia d’argento che fu conferita alla sua memoria, morì invece a causa di un colpo di artiglieria, non si sa se sparato dai tedeschi o dagli Alleati» (http://www.straginazifasciste.it/).
La motivazione della Medaglia d’argento recita così: «Spinta da sentimenti altruistici, si offrì quale infermiera volontaria presso l’ospedale civile per assistere e medicare numerosi feriti che affluivano all’ospedale. Rimaneva al suo posto di lavoro e di volontario sacrificio nelle più dure giornate di combattimenti, sprezzante del pericolo che incombeva per i continui bombardamenti operati nella zona. Nella fase più cruenta della battaglia mentre amorosamente medica un ferito, colpita da un proiettile di artiglieria cadeva colpita a morte». Al suo nome è stata dedicata la strada in cui sorge il centro medico di Villa Silvia.
Donne come la Medaglia di bronzo al valor militare Maddalena Cerasuolo (Napoli, 2 febbraio 1920 - ivi, 23 ottobre 1999). Lenuccia, così veniva chiamata, era la giovane operaia di un calzaturificio, ventitreenne «apparecchiatrice di scarpe» (in copertina). Durante l’insurrezione delle Quattro Giornate fece parte del gruppo dei «cercatori di armi», si distinse negli scontri al quartiere Materdei e partecipò alla battaglia in difesa del ponte della Sanità.
In seguito, come attestano gli archivi londinesi, fu utilizzata dagli agenti del servizio segreto inglese Soe (Special Operation Executive) in varie missioni: partecipò ad operazioni come la Hillside II e la Kelvin (D. Stafford, La resistenza segreta. Le missioni del SOE in Italia 1943-1945, Milano, Mursia, 2013). Fu perfino paracadutata oltre le linee nemiche, tra Roma e Montecassino, per raccogliere informazioni divenendo la “cameriera” della cantante napoletana Anna d’Andria, che cooperava con gli anglo-americani organizzando ricevimenti per carpire informazioni agli ufficiali tedeschi (S. Prossomariti, I Signori di Napoli, Roma, Newton Compton, 2014). Per il servizio reso agli alleati nel 1945 le fu conferito il “Patriot Certificate”. Nella motivazione della medaglia accordatale dalla Repubblica italiana leggiamo: «Dopo aver fatto da parlamentare dei partigiani con i tedeschi al Vico delle Trone, si distinse molto nel combattimento che seguì. Nella stessa giornata coraggiosamente partecipò anche allo scontro in difesa del ponte della Sanità, al fianco del padre, con i partigiani dei rioni Materdei e Stella». Il suo nome è stato dato al ponte che sovrasta il Rione Sanità.
Donne sconosciute e «patriote come la casalinga Clementina Pellone, religiose come suor Maria Antonietta Roncalli - la madre superiora del Convento di San Pietro e Paolo che nel corso della rivolta armata “teneva nascosti circa cento giovani, noncurante delle minacce dei Nazi-fascisti che, per indurla a cedere, si dettero a sparare all’impazzata nell’atrio del convento”. Non cedeva suor Maria Antonietta, pronta a spergiurare persino “sul Crocifisso che nessun giovane era nascosto” nei locali sottoposti alla sua autorità» (G. Cerchia, op. cit., p. 306).
Questo è solo un piccolissimo accenno a quell’Italia al femminile che soffrì e lottò in Campania. Non si è fatto, volutamente, riferimento alle stragi e sopraffazioni avvenute durante la ritirata germanica, né agli orrori perpetrati dai nuovi alleati anglo-americani. Nel rapporto della Commissione storica italo-tedesca, per l’Italia centro-meridionale peninsulare si riportano, ad esempio, i seguenti numeri relativi alle violenze nazifasciste: Arezzo con 160 atti di violenza, vittime 970, persone uccise 919; Caserta con 156 atti di violenza, vittime 506, persone uccise 470; Firenze con 155 atti di violenza, vittime 427, persone uccise 312; Napoli con 161 atti di violenza, vittime 320, persone uccise 184.
Quel torbido e angoscioso periodo che sembrò sgretolare il Paese in una morsa fratricida e disseminò massacri e stupri, violenze e saccheggi per l’intera Penisola, iniziò a vedere la fine nella primavera del 1945. E concludo con quanto già scritto nel mio volume Tra regime e burocrazia: Caserta 1935-1945. Un Viceprefetto una provincia (Perugia, Morlacchi, 2018): «per quell’anno [1945] il tessuto campano ben rappresenta le condizioni in cui si dibatteva l’intera nazione. Uno spaccato, dipinto con passione e forti tinte dallo storico Enzo Santarelli (Mezzogiorno 1943-1944. Uno sbandato nel Regno del Sud, Milano, Feltrinelli, 1999) in un testo autobiografico, che ci rinvia l’immagine di un’Italia in cui Sud e Nord sono espressione di un unico Paese devastato, sofferente ed alla ricerca di nuovi equilibri.
“Mezzogiorno, teatro passivo e vittima di operazioni militari e sciagure, anche in seguito ignorate assai a lungo dalla maggior parte delle stesse popolazioni del posto. [...]. Mezzogiorno fucina di eventi e di linee politiche, aperto ai profughi del Nord, pioniere della nuova democrazia postfascista, luogo di rielaborazione dell’impatto immane e capillare dell’invasione angloamericana”. Napoli, poi “era la più grande città dell’Italia liberata e in qualche modo un’immagine viva di tutto un paese”. Napoli, al cui territorio provinciale fino al settembre del 1945 appartenne anche Caserta, e la Campania rappresentano, in questo periodo, una qualsiasi delle città italiane, una qualsiasi delle nostre Regioni, dove “si viveva la ferocia delle ostilità e la speranza della pace, dove c’erano la guerra e il dopoguerra. [Dove le popolazioni] sfidavano e avevano sfidato condizioni di vita difficilissime. [Dove] l’impatto dell’occupazione tedesca era stato durissimo e la presenza, il passaggio di centinaia di migliaia di militari alleati avevano fatto il resto, scardinando visibilmente ogni norma sociale e civile. [Dove] nonostante ogni lutto e ogni miseria, l[e] città aveva[no] resistito e continuava[no] a resistere”».
* VitaMineVaganti, 25 aprile 2020 (ripresa parziale, senza immagini).
Meridionali nella Resistenza
di Alessandro Barbero *
Nel Partigiano Johnny, Beppe Fenoglio descrive l’incontro del protagonista con i partigiani a cui ha deciso di unirsi. Il primo in cui s’imbatte è un militare sbandato, ancora vestito in grigioverde, che gli intima il chi va là "con un accento così disperatamente siciliano... che Johnny se ne risentì, stupì ed accorò incredibilmente. Tutto aveva da essere così nordico, così protestante...".
Si sa che Fenoglio, come il suo personaggio, avrebbe voluto essere inglese e che per lui gli italiani erano tutti troppo meridionali, compresi i suoi concittadini di Alba. Ma far incontrare a Johnny proprio dei siciliani serviva a sottolineare in tono ancora più ironico il contrasto fra le sue illusioni libresche e la realtà italiana in cui viveva.
Che fossero militari giunti in Piemonte per ragioni di servizio, o figli di immigrati nati e vissuti al Nord, i partigiani di origine meridionale erano tanti nella Resistenza piemontese, e non di rado famosi. Il mitico Barbato, comandante di tutte le divisioni Garibaldi del Cuneese, era l’avvocato siciliano Pompeo Colajanni, comunista da quando aveva quindici anni, sorpreso dall’8 settembre nella caserma del Nizza Cavalleria a Pinerolo dov’era ufficiale di complemento.
Dante Di Nanni, esponente di punta dei GAP torinesi, morto in battaglia nel cuore di quel Borgo San Paolo dove la via principale oggi porta il suo nome, era figlio di immigrati pugliesi, che avevano abitato in via del Carmine prima di trasferirsi nelle case popolari di zona Regio Parco.
A loro e a tanti altri come loro la storiografia piemontese dedica da tempo una rinnovata attenzione, testimoniata fra l’altro dal volume Meridionali e Resistenza. Il contributo del Sud alla lotta di Liberazione in Piemonte, 1943-1945, uscito nel 2013 a cura di Claudio Dellavalle, presidente dell’Istituto Storico della Resistenza in Piemonte.
Le ricerche dirette da Dellavalle offrono un buon esempio delle possibilità che le nuove tecnologie offrono per l’analisi dei fenomeni di massa, paragonabile all’operazione che l’Archivio di Stato di Torino ha condotto sui garibaldini col progetto ’Alla ricerca dei garibaldini scomparsi’.
Alla fine della guerra di liberazione le commissioni per il riconoscimento dell’attività partigiana produssero decine di migliaia di schede individuali; nel 1995, per il cinquantesimo anniversario, gli Istituti piemontesi di storia della Resistenza le hanno utilizzate per creare online la Banca Dati dei Partigiani Piemontesi.
L’elenco dei partigiani meridionali pubblicato in Meridionali e Resistenza si basa su queste fonti, ed è impressionante: sono circa 6000, di cui 3000 combattenti e 400 caduti, quasi un decimo dei 5800 caduti partigiani in Piemonte.
Nell’Italia di oggi, sottolineare che c’erano così tanti meridionali nella Resistenza piemontese potrà stupire e addirittura sembrare provocatorio, agli occhi di chi pensa che l’Italia non sia mai stata unita. Scorrendo quelle migliaia di nomi, l’occhio cade sui nomi di battaglia, riportati ogni volta che li conosciamo.
Qualcuno rimanda esplicitamente ai luoghi d’origine: fra i lucani, ben nove si chiamavano Potenza, sei calabresi si chiamavano Cosenza, diciotto siciliani si chiamavano Catania. Fra i siciliani incontriamo perfino un Giacomo Valenza, nome di battaglia Terrone.
Ma tutti gli altri rimandano allo stesso immaginario adolescenziale italiano che già conosciamo attraverso i romanzi di Fenoglio e Calvino, e che spingeva quei ragazzi a chiamarsi Giarabub, D’Artagnan, Tarzan, Yanez, Sceriffo, Blek, Aquila rossa, o magari Lupo, Tigre, Feroce, Fulmine, Tempesta... Vien voglia avviare una ricerca di storia della mentalità sugli pseudonimi dei partigiani: ma non solo dei meridionali, però.
Perché riflettere su questo tema ci costringe a confrontarci con un problema fondamentale del lavoro dello storico: il modo in cui ci condizionano le preoccupazioni del presente. A ben guardare, che Pompeo Colajanni fosse di Caltanissetta lo abbiamo sempre saputo.
Solo che non era così importante sottolinearlo: se la sua presenza di siciliano in Piemonte poteva sembrare un dato rilevante, era semmai per sottolineare l’insipienza dello stato fascista, che metteva sotto sorveglianza quel pericoloso comunista, e poi lo spediva a Pinerolo a fare l’ufficiale di complemento in uno dei più prestigiosi reggimenti del Regio Esercito.
Quanto a Dante Di Nanni, bastava pensarci per capire che il suo nome era meridionale, solo che non ci si pensava proprio: sarà perché Borgo San Paolo è un luogo mitico della Torino operaia, ma a Dante Di Nanni abbiamo sempre pensato come a un gappista torinese, e basta.
Oggi, invece, diventa importante ricordare che i suoi erano meridionali. I suoi, non lui: e infatti Dante Di Nanni nella lista dei 6000 non c’è, perché l’elenco comprende solo quelli nati al Sud, non chi era nato al Nord da genitori magari appena immigrati.
Forse si poteva fare un passo in più, includendo anche la residenza e permettendoci di distinguere il fante della Quarta Armata, appena sbalzato dalla Francia in una regione per lui sconosciuta, dall’aggiustatore della Fiat che abitava da vent’anni in Barriera di Nizza. Perché, a dirla tutta, le identità si sovrappongono e convivono, e quello che insegnano tante di queste biografie è che si poteva essere al tempo stesso piemontese e meridionale, senza che una cosa escludesse l’altra.
Alla fine, constatare che nell’Italia del Duemila il luogo di nascita di un italiano è diventato così importante per definire la sua identità mette un po’ di tristezza.
E’ chiaro che anche allora quei meridionali erano consapevoli di esserlo, e che molti si saranno sentiti un po’ sperduti in Piemonte; vorrà pure dir qualcosa che il gruppo cui si unì Michele Ficco, nato a Cerignola ma immigrato a sei anni a Nichelino, di mestiere tornitore al Lingotto, fosse soprannominato "la Legione straniera" per i tanti meridionali che ne facevano parte.
Ma io credo che insistere tanto su questa diversità non facesse parte del loro orizzonte, in quell’Italia degli anni Quaranta così diversa da quella di oggi. Vincenzo Modica, il comandante Petralia, ricorda che a deciderlo a unirsi ai partigiani, l’8 settembre, furono "le parole che l’amico tenente Colajanni andava ripetendo a noi giovani ufficiali durante le passeggiate sotto i viali di Cavour: ’Vedete quelle montagne? Presto saranno piene di veri italiani’". Ci sarà una ragione se Barbato non disse "saranno piene di piemontesi e di meridionali".
* NUOVO MONITORE NAPOLETANO, 25 Ottobre 2016 (Ultima modifica il Sabato, 12 Novembre 2016)
Sud, la Resistenza dimenticata
di Mario Avagliano *
Una storia della Resistenza nel Mezzogiorno non è stata mai scritta. Di tutto quanto avvenne nel 1943 sotto la linea di Montecassino, si ricordano soltanto le quattro eroiche giornate di Napoli della fine di settembre. Eppure nel breve periodo dell’occupazione tedesca, in Campania, in Puglia, in Lucania e negli Abruzzi si verificarono numerosi episodi spontanei di resistenza militare e civile ai tedeschi. Pochi sanno della battaglia di Barletta o delle insurrezioni di Matera, di Scafati, di Teramo e di Lanciano, che videro la partecipazione di larghi strati della popolazione. Solo di recente alcuni studiosi (Gloria Chianese, Aldo De Jaco) stanno tentando di colmare questo vuoto storiografico, mettendo in discussione la vulgata ufficiale che contrappone "il vento del Nord" all’immobilismo del Sud.
Nel ’43 il contesto sociale ed economico del Mezzogiorno era profondamente mutato rispetto agli anni del grande consenso al regime. La fame, il freddo, i bombardamenti e le ristrettezze economiche, avevano distrutto la credibilità del fascismo. I meridionali erano stanchi della guerra e desideravano ardentemente la pace. E così il 25 luglio, giorno dell’arresto di Mussolini, espressero in modo deciso il distacco dalla dittatura, con numerose manifestazioni di giubilo.
D’altra parte, a quella data, il taglio del cordone ombelicale col fascismo era già maturo nella società meridionale. E da tempo. I primi episodi di "Resistenza" si erano registrati nel ’42, nelle campagne della Calabria, del Cilento, della Lucania e del foggiano, sotto la forma - inquadrata storicamente da politici (Aldo Moro) e da studiosi (Gallerano, Santarelli) - delle ribellioni contro le violenze squadriste. Si trattò di movimenti che assunsero maggiore consistenza dopo lo sbarco alleato in Sicilia (10 luglio 1943), e che ebbero un prevalente carattere di lotta sociale, anche se non mancarono i contadini che attaccarono i tedeschi in ritirata, recuperando le armi lasciate sul campo dall’esercito italiano.
"Le rivolte contadine - ha osservato la Chianese - furono un tassello importante della crisi non soltanto del regime fascista ma anche del blocco agrario latifondista fino ad allora egemone". E seppure di breve durata e spesso isolate, furono la premessa di una trasformazione irreversibile della società economica agricola, collegandosi al ciclo di lotte che nel dopoguerra contribuì all’approvazione della legge stralcio di riforma agraria, decisa dai governi centristi negli anni Cinquanta.
Con la caduta del fascismo, il vento della rivolta cominciò a soffiare anche nei centri urbani. La prima scintilla di quello che sarebbe stato il nuovo fronte di guerra dell’Italia, cioè la lotta contro i tedeschi, esplose ancor prima dell’armistizio, il 2 agosto del ’43, in Sicilia, a Mascalucia, un comune a dieci chilometri di Catania. Ad accendere la miccia fu l’ennesimo tentativo di furto di cavalli e di razzia compiuto da due soldati della Wehrmacht, che provocò prima uno scontro con i soldati italiani, poi un’autentica rivolta popolare armata contro i nazisti, alla quale presero parte decine e decine di cittadini e di militari, con perdite da entrambe le parti. Per spegnere il fuoco della ribellione, fu necessaria la mediazione del comando dei carabinieri.
Nei giorni successivi all’8 settembre del ’43, data dell’annuncio dell’armistizio con gli Alleati, in numerose città e in vari presidi militari si registrarono atti di resistenza ai tedeschi, spesso frutto dell’inedita collaborazione tra soldati, carabinieri e popolazione civile. Le cronache parlano di combattimenti a Bari, a Ischia, a Napoli, a Vieste, a Benevento, a Nola, dove per rappresaglia i tedeschi fucilarono dieci ufficiali italiani. A Barletta tra il 10 e il 12 settembre si scatenò una battaglia cruenta per la difesa della città: i soldati del Presidio militare, guidati dal colonnello Grasso, resistettero per due giorni agli attacchi, con l’aiuto di molti civili. Nel salernitano, a Cava de’ Tirreni, la popolazione collaborò attivamente con gli Alleati.
L’avanzata delle truppe anglo-americane verso Nord fu più lenta del previsto. Dopo l’iniziale sbandamento, i tedeschi ripresero il controllo della situazione, occupando le città e agendo spesso con brutalità. I soldati di Hitler erano un esercito in ritirata, che cercava di fare terra bruciata dietro di sé: rastrellando manodopera da utilizzare nell’industria bellica in Germania, compiendo stupri, saccheggi di viveri e razzie di bestiame, distruggendo gli impianti produttivi.
I casi di eccidi di civili o di militari da parte dei tedeschi furono assai numerosi, in ogni parte del Sud. Il primo eccidio si verificò il 12 agosto del ’43, a Castiglione di Sicilia, dove i nazisti in ritirata massacrarono sedici persone e ne ferirono venti. A differenza che per le stragi tedesche nel centro-nord, che nel dopoguerra sono state oggetto di indagini giudiziarie e di commemorazioni ufficiali, nel Mezzogiorno invece vi è stato un generale processo di rimozione della memoria di questi episodi criminali. E’ quello che è accaduto per il massacro di Caiazzo, sulle cui responsabilità è stata fatta luce solo di recente, grazie alle ricerche di Giuseppe Capobianco sulla Resistenza nel casertano, un territorio martoriato dove, in quell’autunno tragico (settembre-dicembre ’43), le vittime civili raggiunsero le 2023 unità, pari al 5,5 per cento di quelle di tutt’Italia nello stesso periodo.
Lo storico tedesco Gerhard Schreiber, nel suo ultimo lavoro, riconduce gli eccidi nazisti nel Sud al rancore accumulato contro gli italiani dopo il "tradimento" del 25 luglio, sottolineando le gravi responsabilità non solo delle SS ma anche degli ufficiali dell’esercito regolare tedesco, che agirono per "spirito di vendetta". Ma la colpa non fu solo dei tedeschi. In uno studio sulla Resistenza nel Sud, uscito di recente, Aldo De Jaco documenta che anche alcuni ufficiali e carabinieri italiani favorirono la politica delle stragi oppure non vi si opposero in alcun modo.
In questo quadro l’opposizione al nemico da parte dei meridionali - come ha scritto Gloria Chianese - nacque "in primo luogo come reazione al terrore tedesco", e fu "strettamente connessa agli eccidi" e all’atteggiamento tracotante dell’esercito occupante.
Fu questo il caso anche delle quattro giornate di Napoli, che iniziarono il 27-28 settembre come reazione ai rastrellamenti operati dalle SS (con l’internamento di 18.000 uomini) e all’ordine di sgomberare tutta l’area occidentale cittadina. Ma la rivolta partenopea, che costò la vita a 562 napoletani, non deve essere considerata un fatto isolato. Essa fu preceduta e seguita da un insieme di veri e propri momenti insurrezionali aventi carattere popolare: impugnarono le armi contro i tedeschi gli abitanti di Matera (21 settembre), di Teramo (25-28 settembre), di Ascoli Satriano (26 settembre), di Nola (26-29 settembre), di Scafati (28 settembre), di SerraCapriola (1° ottobre), di Acerra (1° ottobre), di Santa Maria Capua Vetere (5-6 ottobre), di Lanciano (5 ottobre). A Maschito, un piccolo paese in provincia di Potenza, la popolazione si ribellò contro la guerra e la monarchia costituendo addirittura una "repubblica".
Di molti di questi episodi di resistenza si occupa il già citato libro di De Jaco, che ha il merito di ricostruire decine di eventi minori, come quelli accaduti in molti centri della Lucania, della Puglia, della Campania e degli Abruzzi.
C’è un filo rosso che lega tutti questi momenti di lotta ai tedeschi: la partecipazione di gruppi di combattenti molto eterogenei (giovani, uomini, donne, contadini, borghesi, ecc.), che diede alla Resistenza meridionale quel carattere di "guerra di popolo" che la rende unica nel suo genere. E’ per questo che Giorgio Bocca ha scritto che "nel Sud, la volontà di resistere è come un’energia tellurica di cui non si possono prevedere gli sbocchi", definendo questa volontà "resistenza anarchica", non dispregiativamente, ma indicando la mancanza di organizzazione o gerarchia alcuna, con la predilezione per l’azione spontanea e improvvisa di tutta la popolazione.
Certo la resistenza meridionale non fu un fenomeno di massa. Dopo l’8 settembre in gran parte del Mezzogiorno mancò il tempo di organizzare una resistenza armata ai nazisti, con l’eccezione degli Abruzzi, dove sono note le imprese e il seguito popolare della banda partigiana della "Conca di Sulmona", che poi confluì nella "Brigata Maiella". I partiti avevano ripreso da poche settimane l’attività politica, dopo vent’anni di clandestinità. E l’occupazione tedesca, anche se feroce, ebbe breve durata. La mobilitazione popolare fu un fatto episodico. E non poteva essere altrimenti. Le bande partigiane che si formarono sulle montagne del centro-nord ebbero bisogno di mesi per organizzarsi, e se a un certo punto poterono reclutare tanti giovani, fu anche grazie ai bandi di leva della RSI e ai rastrellamenti di manodopera da parte dei tedeschi.
In ogni caso il contributo del Mezzogiorno alla guerra di Liberazione non fu limitato alle rivolte popolari. Migliaia furono i meridionali che militarono nelle formazioni partigiane sulle Alpi e sugli Appennini. Purtroppo non esistono stime precise al riguardo, ma nell’immediato dopoguerra lo storico piemontese Augusto Monti arrivò ad affermare che "le formazioni partigiane che, militarmente organizzate, agirono contro i tedeschi e i loro alleati, sui monti che fan ghirlanda alla pianura del Po (...) furono almeno per un quaranta per cento costituite di ’uomini del Mezzogiorno’".
Più realisticamente, raffrontando alcuni dati parziali (ad esempio quelli sul partigianato nelle province di Cuneo e Torino), si può sostenere che in media il 15-20 per cento delle formazioni partigiane erano costituite da militari del Sud dello sbandato e liquefatto regio esercito italiano.
Per i soldati meridionali, che si trovavano lontani da casa, l’8 settembre fu veramente una data spartiacque, che impose una scelta netta e drammatica: o darsi alla macchia, salire sulle montagne e unirsi ai partigiani, con molti sacrifici, senza stipendio e sotto il rischio della fucilazione; oppure aderire all’esercito repubblicano, che assicurava vitto, alloggio e soldi. La maggior parte di loro scelse il campo giusto.
Numerosi furono anche i meridionali che si arruolarono nel CIL, il Corpo Italiano di Liberazione, che combatté a fianco degli Alleati, e talvolta li precedette addirittura nella liberazione di alcune zone della pianura padana. E non è da dimenticare il prezioso contributo alla causa della libertà da parte degli IMI: migliaia di soldati e di ufficiali del Sud furono internati e in molti casi morirono nei campi di concentramento tedeschi in Germania o in Polonia perché restarono fedeli al giuramento al re e rifiutarono di aderire all’esercito della Re pubblica Sociale.
Insomma, la resistenza nel Sud, come ha scritto la Chianese, "ci fu, anche se frammentata in una miriade di episodi di cui spesso è stato difficile ricostruire la memoria". E se la motivazione iniziale delle rivolte fu la reazione al terrore tedesco, vi furono momenti di grande coinvolgimento popolare e vi ebbero un ruolo anche i partiti politici. Ciò nonostante queste esperienze influenzarono debolmente la crescita democratica del Mezzogiorno, che fu a lungo sotto la cappa dell’occupazione anglo-americana.
La stessa vicenda del "Regno del Sud", dove l’intero apparato dello stato - prefetti, questori, commissari prefettizi - operava all’insegna della continuità badogliana, frenò il cambiamento della società meridionale. La classe dirigente dei partiti non ebbe né il tempo né la possibilità di "farsi stato". Un risultato invece che al Nord le bande partigiane e i Cln riuscirono a conseguire, avendo una parte importante nei processi di epurazione o nella designazione dei prefetti e dei sindaci.
In conclusione è importante superare l’immagine di un Mezzogiorno conservatore e filofascista. Il lavoro di recupero della memoria degli episodi di resistenza meridionale compiuto negli ultimi anni colloca il Sud nel contesto nazionale e fa della guerra di Liberazione un valore "italiano" nel senso pieno del termine.
Bibliografia
G. BOCCA, Storia dell’Italia partigiana, Laterza, Bari 1966
G. CAPOBIANCO, Il recupero della memoria. Per una storia della Resistenza in Terra di Lavoro - Autunno 1943, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995
G. CHIANESE, Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, in E. COLLOTTI-R. SANDRI-F. SESSI, "Dizionario della Resistenza. Storia e geografia della Liberazione", vol. I, Einaudi, Torino 2000
G. CHIANESE, Matera, Napoli, Caiazzo: il Sud si ribella, in "Il Manifesto", 25 aprile 1995
A. DE JACO, La Resistenza nel Sud. Cronaca per testimonianze, Argo, Lecce, 2000
A. MONTI, Il movimento della Resistenza e il Mezzogiorno d’Italia, in "Rinascita", n. 4, 1952
E. SANTARELLI, La rivolta di Lanciano e la Resistenza nel Mezzogiorno, in "Rivista Abruzzese di Studi Storici dal fascismo alla Resistenza", anno IV, nn. 2-3, luglio-novembre 1983
G. SCHREIBER, La vendetta tedesca 1943-1945. Le rappresaglie naziste in Italia, Mondadori, Milano 2000
* IL PORTALE DELLA GUERRA DI LIBERAZIONE: LA RESISTENZA DEL SUD.
Vorrei sapere, cortesemente, se esistono analoghe testimonianze, soprattutto da parte della popolazione civile, su quel che accadde ad Eboli e nella Piana del Sele, prima dei bombardamenti dei primi giorni di agosto del 1943 e poi, a seguire, fino a tutto il periodo compreso tra lo sbarco alleato nel Golfo di Salerno e la costituzione del Governo provvisorio...
La Ch. Prof.ssa Gribaudi, cui va la mia più profonda stima, può darmi un suggerimento? Grazie di cuore.
Cordialmente Francesco Abate Eboli
Gli eroi della brigata Maiella. *
Avevano conquistato la libertà invece di aspettare che gli altri la conquistassero per loro, decisero di fare la guerra per conquistarsi il diritto alla pace e alla democrazia. Questa è la straordinaria epopea della brigata “Maiella”, una formazione partigiana di volontari abruzzesi,che lottarono al fianco degli Alleati dopo l’armistizio del maresciallo Badoglio, all’indomani del 8 settembre 1943, che lasciò il nostro Paese diviso in due, e con le Regioni del centro-nord ancora in mano agli occupanti nazi-fascisti.
La vicenda di questi figli d’Abruzzo è purtroppo poco nota nella storia d’Italia, ma fu la prima brigata partigiana a costituirsi nel centrosud-Italia,ed era alle dirette dipendenze del comando britannico del colonnello Alexander,inquadrata regolarmente nel Comitato Nazionale di Liberazione,e fu l’unica brigata che non operò soltanto in territorio abruzzese,ma si spinse fino ad Asiago,partecipando tra l’altro alla liberazione delle città di Pesaro,Ravenna e Bologna(infatti i partigiani “maiellini”furono i primi ad entrare nella Bologna liberata all’alba del 21 aprile 1945), battendo sul campo i fascisti ed i tedeschi.
L’ispiratore della banda,nonché futuro comandante,era un avvocato socialista originario di Torricella Peligna vicino Lanciano, Ettore Trolio,allievo di Turati,e segretario politico di Giacomo Matteotti,antifascista della prima ora. Il comandante Trolio capisce che la libertà non può essere “un regalo” degli Alleati,ma bisogna guadagnarsela sul campo con la lotta partigiana ed il sacrificio. La prima azione armata della banda,è a Pizzoferrato nel gennaio 1944,truppe inglesi e volontari della “Majella” dopo due giorni di battaglia,mettono in fuga un intero battaglione tedesco,al comando del maresciallo Friedchmann,e già nel giugno del 1944 l’Abruzzo è liberato dall’occupazione nazi-fascista.
Trolio decide di non sciogliere la banda, ma decide di proseguire verso le Regioni del nord,in Emilia- Romagna,e nel Veneto,i partigiani abruzzesi danno il loro grande contributo alla lotta di liberazione nazionale,al fianco delle formazioni garibaldine e cattoliche. .Dopo il 25 aprile 1945,la brigata Maiella decide di sciogliersi in una cerimonia solenne a Brisighella,in provincia di Ravenna,dove la loro bandiera rossa di guerra,riceve la Medaglia d’oro al valor militare, e i suoi uomini si dedicheranno senza reclamare onori e privilegi,alla ricostruzione dell’ Italia devastata dal ventennio fascista caratterizzato dalla miseria,e dalla guerra.Trolio ed i suoi partigiani vengono inquadrati come ufficiali regolari nel ricostruito Esercito regio italiano, ma si rifiutano di giurare fedeltà al Re, in quanto i maiellini lo ritengono il diretto responsabile della presa del potere di Mussolini, ed anche perchè la loro ispirazione politica è repubblicana e socialista.
Credo che la straordinaria esperienza di lotta antifascista della brigata Maiella,è stata forse l’unica forma di Resistenza armata ed attiva,nel Sud-Italia,perciò per onorare il sacrificio dei combattenti abruzzesi,ma anche di tutti quegli uomini e quelle donne che sono morti per la loro,e la nostra libertà e che scegliendo la via delle montagne per organizzare la Resistenza antifascista e con il loro sacrificio hanno garantito alla nostra nazione ed al nostro popolo istituzioni libere e democratiche,ed è un nostro dovere continuare la loro lotta per la democrazia e la legalità, contro il sopruso e la prepotenza. (Bologna 10/10/2006)
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Pierluigi Talarico