(...) Su Europa e dintorni s’è rovesciata da tempo un’onda anomala, che pochi hanno colto anche se è forse la vera novità politica di quest’inizio di secolo. A sollevarla sono gruppi che solo per inerzia chiamiamo "movimenti", ma che meriterebbero un altro nome, dato che poco hanno a che fare con i gruppi (dal Movimento studentesco in poi) che in passato si sono chiamati così. Di questo fenomeno in Italia ci sono stati vari casi. È stato notato, ad esempio, che, nelle due ultime elezioni (il ballottaggio a Milano e Napoli e i quattro referendum), a vincere non sono stati i partiti ma proprio quella selva di movimenti e comitati che hanno sostenuto l’azione dei partiti pur tenendosene a distanza (...)
Il softpower della politica
Dal web alla partecipazione, anatomia del nuovo attivismo
di Raffaele Simone (la Repubblica, 25.06.2011)
Le primavere delle piazze arabe, gli indignados madrileni, il fronte referendario in Italia: un’onda anomala fa sentire sempre di più la sua voce al Palazzo. I protagonisti sono qualcosa di più e di diverso dei vecchi movimenti. Sono trasversali, si mobilitano su singoli temi via internet, hanno strutture veloci e leggere senza gerarchie né troppe regole. Per definirli in Usa hanno coniato il termine di "click activism". Ma comunque li si chiami una cosa è certa: stanno rivoluzionando il rapporto tra cittadini, partiti e potere
Su Europa e dintorni s’è rovesciata da tempo un’onda anomala, che pochi hanno colto anche se è forse la vera novità politica di quest’inizio di secolo. A sollevarla sono gruppi che solo per inerzia chiamiamo "movimenti", ma che meriterebbero un altro nome, dato che poco hanno a che fare con i gruppi (dal Movimento studentesco in poi) che in passato si sono chiamati così. Di questo fenomeno in Italia ci sono stati vari casi. È stato notato, ad esempio, che, nelle due ultime elezioni (il ballottaggio a Milano e Napoli e i quattro referendum), a vincere non sono stati i partiti ma proprio quella selva di movimenti e comitati che hanno sostenuto l’azione dei partiti pur tenendosene a distanza.
Quei movimenti hanno alle spalle vari predecessori, che negli ultimi anni sono riusciti a richiamare folle nelle piazze quasi senza aspettarselo: i girotondini, le bandiere iridate, le donne di "Se non ora quando", i movimenti per la costituzione, i no-global fino ai gruppi dei grillini. Se dapprima quelli sembravano fenomeni estemporanei, ora è chiaro che sono un trend della cultura politica della modernità.
Anzitutto, l’onda è internazionale. Nelle rivolte in Egitto, in Tunisia e in tutto il lato sud del Mediterraneo la parte decisiva spetta a movimenti "leggeri", di uomini, donne e perfino ragazzi, convocati, raccolti e messi in movimento con messaggi sms.
Senza la "primavera del gelsomino" (come qualcuno l’ha chiamata), Tunisia e Egitto non si sarebbero liberati dei tiranni. In Ucraina il movimento arancione si è adoperato contro il regime poliziesco del paese; e il colore arancione è stato ripreso anche in Italia come simbolo di gruppi di sinistra per i quali il "rosso" non era più abbastanza espressivo. Gli "Indignados" madrileni, per parte loro, si sono riprodotti in tutta la Spagna e in Portogallo e sembrano destinati a influire ancora sulla Grande Politica.
Una delle proprietà di questo fenomeno è la trasversalità. Nei movimenti si aggregano persone che hanno idee diverse sui grandi temi, dato che quel che le tiene insieme è una preoccupazione specifica, sia pure di ampia portata: i beni comuni, la dignità delle donne, la difesa della Costituzione, la salvaguardia dell’ambiente.
In Spagna, il movimento "¡Basta Ya!" ("Ora basta!"), tra i cui fondatori c’è anche Fernando Savater, si è battuto contro il terrorismo e per la definizione di un nuovo statuto di autonomia per i baschi; il gruppo francese "Ni putes ni soumises" ("Né puttane né schiave") si adopera dal 2003 in nome della dignità di genere.
La varietà degli obiettivi ha generato anche un gergo: il flash mob, ad esempio, è un movimento che colpisce e si dissolve, come il cartello "Riprendiamoci le spiagge", formato da studenti e precari, che l’altro giorno ha invaso la marina di Ostia senza pagare il biglietto di ingresso. Si tratta insomma di una sorta di attivismo reticolare, che opera in modo leggero, rapido e percussivo (negli Usa è nata la parola "click activism", per la capacità di reazione data dal web).
Trasversali come sono, queste entità esprimono stanchezza verso la forma-partito: quanto i partiti sono hard, lenti e distanti dalle esigenze della gente, tanto i movimenti vogliono essere soft, veloci e concreti. In sintesi: se i partiti sono l’antico hardware della politica, gli attivismi ne rappresentano il software. Da qui l’esigenza di auto-organizzarsi, senza gerarchie né troppe regole. Ci si può ritrovare la categoria di "leggerezza" di Calvino o la versione migliore della società liquida di Bauman. L’estraneità ai partiti è dovuta anche all’illusione, molto viva, di praticare una sorta di democrazia diretta: una specie di "co-produzione della cittadinanza" (come la chiama Robin Berjon) che duri al di là delle pure elezioni e che permetta di tenere d’occhio le persone a cui viene conferita la delega a governare.
Ma dietro i meriti stanno una varietà di punti deboli. Uno, cruciale, è la volatilità, inevitabile in ogni organizzazione soft e poco strutturata. La storia parla chiaro. Quasi dimenticato il movimento dei girotondi, uscito dal giro quello delle bandiere iridate. L’ultimo blog di "¡Basta Ya!" (www. bastaya. org) apre con un triste "Despedida" ("Congedo"): la mancanza di denaro e di persone che possano lavorare nel sito giustifica la chiusura dopo diversi anni.
Per orientarsi in questa foresta sono nati vari siti, come il francese "Mouvements", ricchissimo di dati. D’altro canto, l’uso della rete è un carattere cruciale di questo trend. Siccome i movimenti non hanno indirizzo né sede, non hanno soci né fondi, non hanno segreterie né archivi, la rete è la loro casa: portali fatti alla svelta, convocazioni lanciate all’istante per mail o sms, liste di simpatizzanti raccolte con Facebook, senza carta, francobolli o servizi postali.
Nella storia pullulano del resto i casi di regimi e forme politiche che si sono costruiti sfruttando i media del tempo: l’uso della radio e del cinema contribuì in modo decisivo all’affermazione di fascismo, nazismo e stalinismo. Degli effetti politici della televisione paghiamo ancora lo scotto.
Ma ora il medium in gioco non è più unidirezionale, ma è interattivo, istantaneo e soprattutto "sociale" e dilagante. Per questo non sappiamo ancora che effetti la rete potrà avere sulla nascita di nuovi paradigmi culturali e politici, ma sarebbe bene che a questo tema si dedicassero accurate previsioni, soprattutto in un paese come l’Italia, dove per il Palazzo la rete è solo un divertente gadget per perditempo.
Il fenomeno dei movimenti non interpella solo i cittadini, che vi trovano nuovi modi di esprimersi e di farsi sentire. Interessa ancora di più i partiti veri e propri e le istituzioni in generale: i movimenti sono infatti fortemente anti-partito e contengono una rischiosa istanza di "uguaglianza estrema" (come diceva Montesquieu).
Anche se incorporano ovvi impulsi di leadership personale, per lo più aggregano folle che hanno il dente avvelenato con le metodiche del partito: nomenklature, correnti, privilegi, tatticismi, rituali, prudenze, ecc. Possono senza dubbio servire come elettrochoc per partiti in affanno (come nel caso del Pd in Lombardia), ma il loro rapporto coi partiti è insieme di attrazione e repulsione.
Se riesce a non dissolversi, il movimento prima o poi presenta il conto, con il rischio di trasformarsi in partito o, peggio ancora, in frazione (come accadde coi Verdi in Germania) o in lobby. Altrimenti, il movimento, se è colto da "impazienza verso i limiti" (l’espressione è di Dominique Schnapper), può diventare un fattore di "regresso democratico", insomma un pericolo.
Dall’altro lato, i partiti, pesanti e ormai sordi perché hanno perduto le antenne per "sentire" le vibrazioni dello Zeitgeist, non possono ignorare il nuovo fenomeno, dato che i movimenti, operando a livello di terra, percepiscono umori, emozioni e bisogni della gente, anche se non sanno trasformarli in progetti e proposte, e tantomeno gestire i propri eventuali successi. In ogni caso i partiti e le istituzioni sono avvisati: attenti, un movimento potrebbe seppellirvi!
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
REFERENDUM E COSTITUZIONE: L’ISLANDA CHIAMA L’ITALIA. E L’ITALIA RISPONDE.
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI. Alcune note
DEMOCRAZIA "REALE": CHE COSA SIGNIFICA? CHE COSA E’? Alcuni chiarimenti, con approfondimenti
In Italia il 50% degli adulti non possiede un computer, né sa usare le mail.
Ecco la fotografia di un Paese che non conosce la grammatica del futuro
Quasi il 50 per cento degli adulti non possiede un pc né utilizza la Rete, non sa mandare una mail o pagare un bollettino online.
Un dato enorme se paragonato agli Stati Uniti e al resto d’Europa. Ma per fortuna tra i ragazzi sotto i 20 anni le proporzioni si invertono, e i "nativi digitali" sono perfettamente in linea con le competenze tecnologiche dei loro coetanei stranieri
"Scontiamo un forte ritardo nelle infrastrutture, ma anche resistenze culturali".
Problema non solo generazionale: la categoria meno "connessa" è quella delle donne
I più giovani svolgono un ruolo di supplenza: sono loro a insegnare a padri e nonni
di Maria Novella De Luca (la Repubblica, 3.11.2011)
Non sanno mandare una e-mail, né fare una ricerca su Google, non prenotano viaggi né tantomeno utilizzano l’home banking. Non sanno scaricare un modulo né riempirlo online, non frequentano l’e-commerce né i siti degli enti e degli uffici, ignorano Skype e Wikipedia, e se proprio devono consultare Internet (o magari compilare il Censimento) chiedono aiuto ai figli adolescenti o addirittura bambini. C’è un pezzo d’Italia adulta, over 40, trasversale alle regioni e alla geografia, agli studi e alle professioni, più femminile che maschile, che non sa più "né leggere né scrivere". Non conosce cioè il nuovo alfabeto digitale della vita quotidiana, e rischia in pochi anni (cinque, dieci al massimo, dicono gli esperti di nuovi linguaggi e nuovi media) di essere espulsa non solo dall’universo del sapere, quanto dall’accesso ormai sempre più online delle funzioni di ogni giorno.
Si chiama "analfabetismo digitale", ed è uno dei tre analfabetismi censiti dall’Ocse per descrivere chi oggi, nel primo come nel quarto mondo, è a rischio di emarginazione per mancanza di competenze. Un rischio ben presente nel nostro paese, dove gli analfabeti "totali" ormai non sono più dell’1,5% della popolazione, ma dove quasi il 50% degli italiani adulti non possiede un computer né utilizza Internet. Un dato enorme se paragonato al resto d’Europa e soprattutto agli Stati Uniti. Se però i genitori e i nonni arrancano, e ci pongono agli ultimi posti per "connessioni" alla Rete, è invece dai piccoli e piccolissimi che arriva la spinta opposta, in avanti, con ritmi quasi travolgenti: i digital kids made in Italy ma anche immigrati, nella fascia d’età che va dai 6 ai 10 anni, e soprattutto dagli 11 ai 17 anni, corrono velocissimi, apprendono da soli, sperimentano, conoscono e governano Internet esattamente come gli adolescenti di tutto il mondo cablato, stesse opportunità e stessi rischi inclusi. Una rivoluzione al contrario, dal basso verso l’alto, ma così accelerata da far temere che tra breve nella stessa famiglia e tra più generazioni si parleranno linguaggi sideralmente lontani.
Un po’ come avvenne negli anni del primo dopoguerra e dell’alfabetizzazione di massa, in cui furono i bambini che imparavano l’italiano a scuola ad insegnare a leggere e a scrivere ai nonni, i quali parlavano dialetti ormai incomprensibili ai nipoti, come ha ricordato un recente convegno a Torino dedicato ai nuovi analfabetismi e al maestro Manzi di "Non è mai troppo tardi". E infatti la presenza di pc è sensibilmente più alta nelle famiglie dove ci sono bambini e ragazzi, il 68,1% contro il 54,9%.
«Ma rispetto ad allora spiega Paolo Ferri, docente di Teorie e tecniche dei Nuovi Media all’università Bicocca di Milano e autore del saggio "Nativi digitali" il tempo dell’apprendere per non restare tagliati fuori dalla vita di tutti i giorni, si è drasticamente accorciato. Nel giro di 5, al massimo 10 anni, non avere la connessione ad Internet, non saperlo usare, porterà ad una frattura radicale tra chi potrà avere accesso al lavoro e chi no, ai concorsi, all’università, ma anche al semplice destreggiarsi tra un bollettino da pagare e una visita medica da prenotare.
E se sono diversi i tempi e i modi, oggi come ieri ci troviamo di fronte al problema di alfabetizzare una popolazione adulta, nell’assenza totale, da parte delle istituzioni, di una agenda digitale». In una fascia d’età strategica, quella tra i 45 e i 54 anni in cui si è nel pieno della vita produttiva, nel nostro paese soltanto il 53,0% degli italiani (dati Istat 2010) afferma di conoscere la Rete, e soltanto il 55,9% possiede un computer a casa. E il problema è più femminile che maschile, sono soprattutto le donne che non lavorano ad avere pochissime conoscenze tecnologiche. Nella stessa classe anagrafica negli Stati Uniti la connessione è invece dell’83%, e anche salendo con gli anni verso quella terza età dove i nipoti insegnano ai nonni i giochi e i trucchi del web, le connessioni Usa degli over 70 raggiungono il 45% contro il 12% dell’Italia.
«Ho imparato ad usare il computer grazie a mia nipote e ad un corso in parrocchia confessa Adele, 74 anni per poter leggere le mail di mio figlio che vive in Brasile e vedere sempre aggiornate le foto della sua famiglia. Poi però ho utilizzato queste nuove competenze per navigare, come dicono i ragazzi, e adesso partecipo a diversi forum e leggo le notizie».
«Noi scontiamo un forte ritardo nelle infrastrutture, nella diffusione della banda larga, ma anche una resistenza culturale. Quegli stessi adulti così restii ad usare un pc vivono invece incollati al telefonino aggiunge Ferri basti pensare che in Italia ci sono 150 milioni di sim card attive. Certo, c’è anche chi pensa che questa dipendenza dalla Rete sia dannosa, che se ne possa fare a meno, che comprima le capacità di apprendimento dei bambini.
In realtà i digital kids hanno imparato perfettamente a far convivere il mondo analogico con quello digitale, e i dati Ocse-Pisa dimostrano come i bambini con accesso alle tecnologie siano 50 punti più avanti, nel rendimento scolastico, dei coetanei che non le utilizzano». E l’elemento da sottolineare è che il divario tecnologico riguarda le generazioni e non le "razze", come si legge nel saggio "Profilo degli adolescenti immigrati di seconda generazione", pubblicato dal Cnel nella primavera scorsa. Tra i 15 e i 17 anni circa il 90% di questi adolescenti arrivati in Italia nella primissima infanzia, utilizza Internet con percentuali identiche a quelle dei ragazzi italiani. Ed è bella la testimonianza di Roxana, 40 anni, peruviana, badante e madre di una teenager: «Mia figlia adesso è in Italia, siamo state dieci anni lontane. È venuta per studiare: la prima cosa che ho fatto mettendo insieme due stipendi è stata quella di comprarle un computer. Così adesso mi insegnerà anche a parlare via Internet con i nostri parenti in Perù».
Certo, si può diventare schiavi del mezzo, come avverte con severità Benedetto Vertecchi, e il primo linguaggio «deve essere sempre e solo quello alfabetico, simbolico, concettuale, altrimenti non si impara a pensare, altrimenti avremo una generazione che usa più le dita che la testa». Che senso ha, si chiede Benedetto Vertecchi, «mettere le lavagne interattive nelle classi e poi smantellare i laboratori di fisica e di chimica, o regalare un computer ad un bambino di 5 anni e poi non digitalizzare le biblioteche?».
La discussione è aperta. Ed è giusto non enfatizzare i presunti saperi tecnologici, se poi, come scrive il fisico Paolo Magrassi nel divertente libro "Digitalmente confusi", (FrancoAngeli), buona parte di quei saperi servono per «scaricare filmati da youtube, youporn o redtube», o magari per connettersi e cercare amici su Facebook, insomma per pura evasione, andando poi a far la fila alla posta per pagare i bollettini o le tasse, ignorando quindi i vantaggi della vita online.
Tutto vero, ma in realtà, aggiunge Massimo Arcangeli, direttore dell’Osservatorio della lingua italiana Zanichelli, «il problema per una volta non è dei giovani che stanno riorganizzandosi su modelli cognitivi nuovi, con una trasformazione inarrestabile, una grammatica nuova, ma degli adulti, della loro fatica ad imparare, della loro resistenza ai nuovi linguaggi». Perché se il rischio dei digital kids è quello di strutturare menti «più sintetiche che analitiche, e di avere una memoria troppo breve e immediata, è vero anche che il loro approccio al sapere oggi viaggia su connessioni diverse, inedite, e non è più possibile parlare di queste competenze come di una cultura di serie B». Ma al di là del giudizio sulla "conoscenza", il tema è assai più concreto. Per coloro che oggi sono fuori dal world-wide web, per quel 47% di over cinquantenni che non frequenta né utilizza la Rete, dice Arcangeli «se non si trova un canale di alfabetizzazione di massa, attraverso la televisione, attraverso i corsi serali, proprio sul modello di quel famoso "Non è mai troppo tardi", il rischio concreto è quello di ritrovarsi in una manciata di anni ai margini della società».
SPAGNA
A piedi da Barcellona a Madrid
La marcia degli indignados
Un cammino lungo 29 giorni con altrettante tappe in città del Paese. Lo scopo dei partecipanti è quello di raccogliere altri compagni: sarà "una nuova iniziativa per far recepire l’indignazione". Il 24 luglio una grande manifestazione nella capitale *
BARCELLONA - Non si sono lasciati spaventare dal caldo afoso e, zaino in spalla, hanno iniziato il loro cammino verso la capitale. Una cinquantina di ’indignados’ spagnoli hanno lasciato stamani Barcellona per raggiungere Madrid a piedi: 652 chilometri in 29 giorni per ritrovarsi, insieme ad altre marce partite da Valencia e Cadice, nella capitale spagnola per una grande manifestazione il 24 luglio.
Nel loro viaggio attraverso la Spagna, i giovani di Barcellona si fermeranno in 29 città e paesini per raccogliere altri compagni: sarà "una nuova tappa per far recepire l’indignazione", ha detto David, uno degli organizzatori. In questa prima giornata di cammino, i ragazzi catalani, partiti alle 7 tra gli applausi dei passanti, si fermeranno a Esplugues de Llobregat e hanno previsto di passare la notte a Vallirana. Ogni sera, ad ogni tappa, si terrà un’assemblea, sottolinea un comunicato distribuito dagli ’indignados’ di Barcellona, "perché crediamo che camminare sia un modo per scambiarsi idee, ascoltare, costruire dei domani allo stesso tempo numerosi e diversi, uniti dalla stessa indignazione".
Il gruppo è assistito da un’equipe composta da un medico e da un’infermiera disoccupati. "Ci siamo preparati a ogni tipo di emergenza", ha spiegato il dottor Alvaro, con "medicine e tutto quello che può servire sopratutto a prevenire".
Ispirato dalla primavera araba, il movimento dei giovani ’indignati’ è nato spontaneamente il 15 maggio 1 per denunciare la corruzione della politica e rivendicare il diritto al lavoro e le proprie aspirazioni per un futuro migliore. E dopo lo smantellamento, il 12 giugno scorso, del loro accampamento alla Puerta del Sol a Madrid, i giovani "indignados" vogliono consolidare il loro movimento attraverso assemblee popolari e manifestazioni periodiche. Domenica scorsa almeno 200 mila persone hanno manifestato in tutta la Spagna, nella prima grande mobilitazione del movimento, contro la disoccupazione e la crisi economica.
* la Rwpubblica, 25 giugno 2011
Quei messaggi scritti nell’acqua
Dietro la vittoria dei due referendum si nasconde un modo prezioso di intendere la partecipazione
Una vasta rete di comitati, organizzazioni, cittadini impegnati a portare avanti idee e battaglie
di Goffredo Fofi (l’Unità, 26.06.2011)
Ahimé, niente cambia e la politika continua a fare i propri comodi con tutto il peso delle sue menzogne e ipocrisie, delle sue beghe interne e dei suoi ricatti incrociati e, per quel che riguarda noi cittadini, dei suoi ricatti nei nostri confronti, invero pesantissimi e intollerabili. Nessun politico (seguito in questo da quasi tutti i giornalisti), tanto meno a sinistra, sembra davvero tener conto delle indicazioni venute dalle comunali e dai referendum se non per far pesare sulla bilancia degli equilibri interni alla “casta” gli interessi della propria parte, e cioè del ristretto numero di coloro che di politika vivono, e dei loro parenti e collaterali e famigli.
A poco tempo dal voto, la manfrina è tornata a essere la stessa di sempre o, per dir meglio, quella degli anni della decadenza del sistema detto democratico e della decadenza stessa dell’Italia. I politici sono sordi e ciechi verso tutto ciò che non rientra nel loro gioco, ignorano il paese e ci ignorano, e noi i votanti gli serviamo soltanto come verifica del proprio peso interno e per riequilibrare quello delle varie forze che dovrebbero rappresentarci mentre rappresentano solo se stessi e i propri complici e amici, dentro uno stesso sistema e una stessa “baracca”, come arma di manovra, come bambocci senza qualità e senza peso.
L’impressione è quella di una sordità irrimediabile, immedicabile. E come sempre, non c’è peggior sordo e peggior cieco di chi non vuole sentire e non vuole vedere. Non resta dunque che prendere esempio da quel che succede altrove, per esempio dalla Spagna, dove le piazze sono riuscite a far cambiare il corso della politica, e lo slogan più gridato ai politici della destra del centro e anche, com’è noto, della sinistra è stato “Que se vayan todos”, ovvero: spediamoli, i politici, in blocco, tutti a casa.
Ma come? La mediazione politica continua a essere indispensabile, almeno sulla media durata, ma la politica potrà essere una buona politica soltanto se controllata dal basso, solo se dai movimenti nascono nuovi rappresentanti che rappresentano davvero gli interessi comuni, il bene comune, e non la chiusura, l’arroganza e il gusto del potere dei politici odierni, incuranti di quella responsabilità verso la collettività e verso il futuro che i nostri politici ignorano e penso ancora alla mediocrità (e spesso ignobiltà) della nostra sinistra. Ma bisogna prima di tutto che i movimenti ci siano, che ciò che si muove localmente e per piccoli gruppi e iniziative ed è tanto, tantissimo, e il referendum l’ha dimostrato trovi le forme del collegamento tra gruppi, diventi una forza di controllo, di pressione, di proposta. Bisogna insomma che la società civile risorga e cresca, e non si faccia più fottere, e cioè castrare corrompere soffocare dalle logiche e dagli inganni della politica.
Vorrei fare stavolta, nell’elenco dei giusti, l’elogio di un gruppo in particolare, che mi pare abbia avuto un notevole peso nella proposta dei referendum e nella vittoria dei sì, il cosiddetto “Movimento per l’acqua”, che si definisce «una rete formata da diverse centinaia di comitati locali e da diverse decine di reti, associazioni e organizzazioni nazionali». (Per farsi un’idea della sua ramificazione prima e dopo le elezioni, si cerchi il link del suo “Comitato promotore”.) Il motto che il Movimento si è scelto viene non a caso da Gandhi e dice così: «Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci».
Nato nel 2006 come Forum italiano dei movimenti per l’acqua, variamente corteggiato o osteggiato, questo movimento è cresciuto e ha dato battaglia assiduamente e ostinatamente, e ha saputo collegarsi ad altri movimenti europei e ha proposto e imposto il referendum sull’acqua, che è stato quello che ha trascinato gli altri. È stato aiutato molto strumentalmente da qualche politico (i soliti!), che ne ha capito subito i vantaggi che potevano venirgliene e che ancora cerca i modi di controllarlo, ma ha saputo difendere la propria autonomi a imporre le sue idealità e le sue regole, basate infine sulla trasparenza delle decisioni e sull’indissolubilità tra i fini e i mezzi. Raccoglie cattolici e laici, giovani e adulti, maschi e femmine, quel che resta di buono e di vivo dell’ambientalismo, del terzo settore, dell’ “altra economia”, dei terzomondiali eccetera e per il referendum questa rete ha raccolto la cifra record di un milione e 400mila firme, grazie a una schiera di giovani attivisti volontari mossi non dalla smania di infilarsi nella politica ma da quella di difendere un diritto inalienabile, che sono riusciti a praticare e diffondere un modo di far politica infine degno.