Un contributo di Elvio Fachinelli (La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo, Milano, L’erba voglio, 1979) per capire meglio il vecchio e il nuovo fascismo - il berlusconismo... e l ’ideologia americana della fine della storia. Recensione (BELFAGOR, 3, 1980, pp. 363-365)
di Federico La Sala *
’Anomala’ e tuttavia oltremodo interessante è questa recente ricerca di Fachinelli. Essa nasce "all’interno dell’esperienza psicoanalitica, come effetto primo della sorpresa" (p. 7) di trovarsi di fronte a un uomo (nevrotico ossessivo) che annulla il tempo, ma giunge, poi, - allargandosi e quasi capovolgendosi- a toccare altri problemi (p. 7), specificamente storico-antropologici (il fascismo, le società arcaiche, ecc.).
La ragione di questo tipo di sviluppo è dovuto non tanto alla logica stessa dei problemi posti dall’analisi, quanto al fatto che l’esperienza del trovarsi di fronte a "un comportamento del tutto insolito nei confronti del tempo" (p. 135) ha scosso e sorpreso, svegliando l’uno e l’altro da un sonno dommatico, più l’intellettuale che lo psicoanalista: non a caso quest’ultimo pone in secondo ordine e si riserva di affrontare in un prossimo lavoro la questione - tra l’altro ritenuta centrale per la psicoanalisi stessa - del tempo dell’analisi e nell’analisi (pp. 7-8). Ma perché la sorpresa, e perché l’esigenza di una tal risposta?
II motivo è storico: l’irruzione sulla scena del presente di un agire strano nel tempo e sul tempo ha riposto all’intellettuale i non risolti problemi di quella crisi che investì (e investe tuttora, dato che ancora non si è data una risposta esaustiva - il dibattito sulla crisi della razionalità ha qui le sue profonde radici) la cultura europea di fronte all’affermarsi dell’ininterpretabile fascismo (p. 110), che fu proprio sì una parentesi, - spiega Fachinelli, restituendo cosi a Croce parte delle sue ragioni, - ma lo fu come "un modo di funzionare della storia, radicalmente diverso da ciò che si era conosciuto fino allora" (p. 110), e, totalmente dirompente nei confronti delle formalizzazioni ideologiche esistenti ("la Storia delle ’magnifiche sorti e progressive’", p. 150).
Inoltre, gli stessi esiti ’autocritici’ ("le esperienze di questo secolo ci hanno costretto ad aprire g1i occhi", p. 150) sulla Storia intesa come "flusso irreversibile, come totalizzazione, a senso unico in cui si riassorbono tutti i processi precedenti" (pp. 149-150), o, più in generale, su un modello di razionalità che, proprio in "una concezione totalitaria e omogeneizzantedel tempo storico" (p. 150), ha una delle sue strutture portanti, e, dall’altra, il tentativo di elaborare su un’idea molteplice di tempo storico un nuovo tipo di ricerche, inscrivono il contributo di Fachinelli in tale ambito e lo caratterizzano di un originale sforzo di superamento.
Da ciò, anche, il vago percepirsi, - dentro e al di la della risposta creativa alla sorpresa - nello stesso ritmo ’narrativo’ della ricerca, di una tonalità emotiva, quasi di testimonianza.
La ricerca prende le mosse, dunque, dall’analisi dell’uomo che annulla il tempo e dai suoi risultati: la ricostruzione. in funzione del tempo, di "un modo generale di vivere ossessivo" (p. 10). Di qui, procedendo "per salti e indizi, secondo una trama di fili " (P. A. Rovatti, I morti viventi e l’aquila littoria, "la Repubblica ", 17.11.79), e, in particolare, sempre seguendo "il filo del tempo", vengono posti in relazione e analizzati la nevrosi ossessiva stessa, "le società arcaiche e un movimento politico-sociale del nostro tempo" (p. 148), il fascismo.
Il risultato è la scoperta, in situazioni pur tanto dissimili. di analoghi nodi problematici che danno luogo, anche se con procedure diverse, a una stessa soluzione, allo stesso tentativo: annullare il tempo; o più a fondo e meglio, di un tratto comune. Questo tratto comune, non semplice ma complesso, è una configurazione: "essa delinea un nucleo dinamico, da cui si origina un movimento complesso particolare, sia individuale o collettivo; in questo senso essa si presenta come una matrice o cellula genetica" (p. 149), che, - proprio per il suo articolarsi intorno al tempo, e, anzi per il suo elaborarne uno - "è prima di tutto un cronotipo particolare" (p. 154).
L’individuazione di questa configurazione, o "cronotipo particolare" permette a Fachinelli di dare-trarre una prima indicazione: "sulla base di problemi specifici, affrontati da individui e società in condizioni del tutto diverse, è possibile arrivare a delineare tipi di soluzioni omogenee tra loro, nonostante l’immenso divario, a volte, di premesse e circostanze" (p. 1.48), e così a individuare-isolare altri cronotipi o configurazioni.
I varchi schiusi da quest’acquisizione sono molti, e, tutti sollecitano a pensare in modo nuovo su una serie di questioni notevoli. Già l’eterna questione del rapporto individuo-società viene ’superata’ dall’impostazione dell’indagine per problemi specifici e dall’individuazione di una cellula genetica comune a situazioni e collettive e individuali. Inoltre, e fondamentalmente, l’individuazione di questa cellula genetica comune mette in crisi il concetto di Storia e la concezione del tempo che la sostiene.
Infatti la matrice o cellula genetica individuata, prescindendo "da quella immensa accumulazione di fatti, di esperienze, di conquiste e di disfatte che rende la storia, come si dice abbastanza spesso, irripetibile", mostra proprio "la possibilità di ripetere, attraverso, lontananze abissali, una certa definita qualità del decorso storico, di produrre segmenti di storia o di vita individuale nei quali siamo costretti a riconoscere una caratteristica fondamentale comune". Questo, ovviamente, non esclude, - prosegue e tiene a precisare Fachinelli - "ma anzi ne rafforza, la peculiarità storica in senso stretto" (p. 149).
Le conseguenze sono notevoli. Innanzitutto, ci mette di fronte al fatto che "esistono differenti tempi storici, differenti curvature dello spazio in cui si svolge la vicenda umana", e, alla necessità di pensare, al posto di uno svolgimento unilineare, a più linee logiche particolari che si intersecano variamente in relazioni e problemi differenti, e anche ricorrenti, secondo ritmi temporali del tutto peculiari. E ci fa capire, finalmente, perché, "in certe condizioni, vediamo affiorare e dominare la scena sconvolgimenti inauditi, e dei quali ci eravamo scordati, o che pensavamo impossibili" (p. 150). E, ancora, quanto illusoria e ideologica sia l’idea del coincidere nel presente del tempo storico col tempo cronologico, e, quanto grande sia "la necessità di cogliere, in ogni esperienza individuale o collettiva, tutte le temporalità coinvolte, senza dimenticarne alcuna, o meglio, senza dichiararne abolita alcuna per decreto-legge politico o culturale" (pp. 152-3).
Ciò che sembra emergere, anche se con cautela e un po’ implicitamente, - dato il carattere ancora in fieri degli sviluppi possibili dai risultati della ricerca - tra gli spunti e le conclusioni (pp. 123-153) è l’esigenza o il compito di individuare possibilmente cronotipi non solo sul piano diacronico (come è stato fatto tra nevrosi ossessiva, società arcaiche e fascismo), ma anche sincronico, nel presente. In questo, Fachinelli sembra puntare verso approdi simili a quelli di Ernst Bloch, almeno per certi livelli. Questi, infatti, proprio cogliendo la sfasatura tra tempi storici non congruenti che esistono nello stesso presente cronologico ed elaborando il concetto di Ungleich-zeitigkeit (= non contemporaneità), giunge a prospettare "un multiversum temporale, un tempo a più dimensioni compresenti, un intersecarsi di piani diversi del tempo, un contrappunto di squilibri temporali fra diversi popoli, classi e individui che pur vivono nel medesimo tempo cronologico" (cfr. R. Bodei, Filosofia, in La Cultura del ’900, Milano, Gulliver, 1979; cfr. anche, e soprattutto, R. Bodei, Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, Napoli, Bibliopolis, 1979). Da notare poi che allo stesso Bloch la nozione di non-contemporaneità (centrale nel suo lavoro) permette di elaborare un’analisi del nazismo (tra l’altro, Bloch non è neppure citato in R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Bari 1971) molto più profonda e originale che non i vari sociologi o marxisti ortodossi, e molto vicina a quella di Fachinelli. Anzi, ci sembra, le ipotesi di Fachinelli confermano più a fondo quelle di Bloch, e, spiegano, insieme il tempo e i modi del manifestarsi del nazifascismo, e, in particolare, perché il fascismo come il nazismo - detto "giacobinismo del mito" da Bloch - riuscirono a "utilizzare i ceti ungleichzeitig" (R. Rodei, Multiversum, p. 35), cioè i ceti contadini e piccolo-borghesi.
Il contribuito di Bloch, su questo punto, ci sembra prezioso, e utile a portare avanti il discorso a cui con cautela accenna Fachinelli: costruire intorno all’elaborazione temporale (o cronotipia) una nuova organizzazione del sapere, puntando così - anche per l’essere questa "una prospettiva di lavoro su più piani" (p. 154) - a una riformulazione e unificazione dei vari saperi parziali esistenti (p. 155) sull’agire dell’uomo.
* (www.ildialogo.org/filosofia, Giovedì, 19 febbraio 2004)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Federico La Sala
Individuo e società... questione antropologica e paradosso del mentitore:
Sociologia, filosofia, psicoanalisi e critica della ragione "pura", troppo "pura"!
Una nota in ricordo e in omaggio al lavoro del sociologo Francesco Alberoni... *
Nonostante Alberoni abbia scritto un lavoro molto interessante e creativo, a partire dal suo celebre "Movimento e istituzione" (1977), intitolato "Genesi" (1989), l’ambiguità del suo orizzonte sociologico è rimasto per così dire intrappolato nella logica dell’individualismo (e non solo metodologico), ha chiuso un occhio (ricordare anche Freud) e non ha saputo sciogliere il nodo della nascita dell’ in_divi_duo, (dal e) del "due in uno" (da non dividere).
Il problema antropologico epocale è ancora quello evangelico giovanneo (e cristologico) di Nicodemo (Enzo Paci, 1944): "come si ri-nasce", "come nascono i bambini". Buon ferragosto (15 agosto 2023).
* IL LUTTO
Addio a Francesco Alberoni, storico rettore dell’Università di Trento *
Indagò Innamoramento e amore. Sociologo e accademico di fama internazionale, aveva 93 anni
ROMA. Grande cordoglio nel mondo della cultura per la scomparsa di Francesco Alberoni, morto ieri sera all’età di 93 anni a Milano. Rettore dell’Università di Trento tra il 1968 e il 1970, nella sua lunga carriera di sociologo, accademico, scrittore, ha indagato i movimenti collettivi e le comunicazioni di massa, i fenomeni migratori e la partecipazione politica. Ma è stato Innamoramento e amore, il saggio uscito per la prima volta nel 1979, tradotto subito in 25 lingue, in cui analizzava e raccontava l’innamoramento come il processo in cui due individui si ribellano ai loro legami precedenti e danno origine, attraverso l’entusiasmo dello ’stato nascente’, a una nuova comunità, a farne una star internazionale.
Francesco Alberoni si è spento al Policlinico dove era ricoverato da alcuni giorni per una complicazione sopraggiunta durante una terapia alla quale era sottoposto per problemi renali. La data dei funerali non è stata ancora stabilita.
Nato a Piacenza il 31 dicembre 1929, dopo la laurea in Medicina, a Pavia, allarga poi i suoi interessi alla psichiatria e alla psicologia, seguendo le orme di Franco Fornari e poi di padre Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica, poi ancora ai fenomeni sociali e di costume. Dal 1964 è docente di Sociologia alla Cattolica, ma la sua intensa attività universitaria lo vedrà poi rettore dell’Università di Trento tra il 1968 e il 1970, docente all’Università di Catania e alla Statale di Milano.
Nel 1997 è tra i fondatori dello Iulm di Milano e primo rettore fino al 2001. Ma è anche anche consigliere d’amministrazione della Rai tra il 2002 e il 2005 e presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, dal 2002 al 2012.
I suoi studi si soffermano in particolare sulla formazione e sulla dinamica dei movimenti collettivi (Movimento e istituzione, 1977), ma Alberoni si occupa anche di comunicazioni di massa (L’élite senza potere: ricerca sociologica sul divismo, 1963), di consumismo (Consumi e società (1964), di fenomeni migratorî (Integrazione dell’immigrato nella società industriale, 1967), di partecipazione politica in Italia (L’attivista di partito, 1967).
Dopo il boom di Innamoramento e amore, bestseller da un milione di copie, verranno L’erotismo (1986), Sesso e amore (2005), Lezioni d’amore (2008), il romanzo I dialoghi degli amanti (2009), e ancora acconti d’amore. Curiosi e un po’ irridenti (2010) e L’arte di amare. Il grande amore erotico che dura (2012) fino al più recente L’amore e gli amori (2017).
Tra le sue opere da ricordare anche Genesi (1989), Valori (1993); L’ottimismo (1994); L’arte del comando (2002); Leader e masse (2007). Parallelamente svolge un’intensa attività di editorialista per il Corriere della Sera che dal 1982 al 2011 ospita, ogni lunedì in prima pagina una sua rubrica intitolata Pubblico e privato che diventerà poi un libro per Rizzoli. Nel 2015 pubblica il volume antologico Il tradimento. Come l’America ha tradito l’Europa e altri saggi, mentre è del 2016 il saggio L’arte di avere coraggio. Condivide i suoi ultimi studi e pubblicazioni con Cristina Cattaneo Beretta, scrittrice, psicoterapeuta e giornalista.
*FONTE: ALTO ADIGE, 14 AGOSTO 2023 (RIPRESA PARZIALE).
RICOMINCIARE DA “CAPO”! PER LA CRITICA DEL “SOGNO D’AMORE” ... *
” Degli scritti che, quasi contemporaneamente al mio, si occuparono dello stessa argomento , solo due sono, degni di nota : Napoléon le Petit di Victor Hugo e il Coup d’Etat di Proudhon.
Victor Hugò si limita a un’invettiva amara e piena di sarcasmo, contro l’autore responsabile del colpo di stato. -L’avvenimento in sé gli appare come un fulmine a ciel sereno. Egli non vede in esso altro che l’atto di violenza di un individuo. Non si accorge che ingrandisce questo individuo invece di rimpicciolirlo, in quanto gli attribuisce una potenza di iniziativa personale che non avrebbe esempi nella storia del mondo.
Proudhon, dal canto suo, cerca di rappresentare il colpo di stato come il risultato di una precedente evoluzione storica ; ma la ricostruzione storica dei colpo di stato si trasforma in lui in una apologia storica dell’eroe del colpo di stato. Egli cade nell’errore dei nostri cosiddetti storici oggettivi. Io mostro, invece, come in Francia la lotta di classe creò delle circostanze e una situazione che resero possibile a un personaggio mediocre e grottesco di far la parte dell’eroe.”
(K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte. Prefazione dell’autore alla seconda edizione, [1869] ).
“Non basta dire come fanno i francesi che la loro nazione è stata colta alla sprovvista. Non si perdona a una nazione, come non si perdona a una donna, il momento di debolezza in cui il primo avventuriero ha potuto farle violenza. Con queste spiegazioni l’enigma non viene risolto, ma soltanto formulato in modo diverso. Rimane da spiegare come una nazione dì 36 milioni di abitanti abbia potuto essere colta alla sprovvista da tre cavalieri di industria e ridotta in schiavitù senza far resistenza”
(K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, 1852).
SIMONE WEIL: “L’immagine del corpo mistico di Cristo è molto seducente, ma l’importanza che si annette oggi a questa immagine mi pare uno dei sintomi più gravi della nostra decadenza. La nostra vera dignità infatti non sta nell’essere membra di un corpo, anche se mistico, anche se quello di Cristo, ma in questo : nello stato di perfezione, al quale tutti aspiriamo, noi non viviamo più in noi stessi, ma è Cristo che vive in noi ; in questa condizione, Cristo nella sua integrità, nella sua unità indivisibile, diviene, in certo senso, ognuno di noi, come è tutto intero nell’ostia. Le ostie non sono frammenti del suo corpo.
L’importanza attuale dell’immagine del corpo mistico dimostra quanto i cristiani siano miseramente esposti alle influenze esterne. certo inebriante sentirsi membro del corpo mistico del Cristo : ma oggi molti altri corpi mistici, che non hanno Cristo come capo, procurano alle proprie membra un’ebbrezza, a mio parere, della stessa natura” (Simone Weil, 1942.)
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LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE : LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA “CAPO”!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
KANT, GRAMSCI, E SIMONE WEIL. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
La truffa esiste anche in danno alla vita sentimentale
di Laura Vasselli (InLibertà, 10 Giugno 2020)
Chi non ha avuto modo di venire a conoscenza, se pur in modo fugace e non dettagliato, della vicenda del fantomatico Mark Caltagirone, promesso sposo virtuale della nota showgirl Pamela Prati?
Il gossip che si scatenato su di lei per questo autentico guazzabuglio di notizie, sulla cui veridicità si sono scatenati dibattiti televisivi di ogni livello, ha lasciato spazio ad una specie di “giallo informativo”, nel quale si sono aggrovigliati elementi di falso recitativo misti ad esternazioni di reale innamoramento con scenari rosei di vita futura con esclamazioni pubbliche di gioia del tipo “...sarò moglie e mamma!...e altre simili esternazioni.
Ma è meglio procedere con ordine.
Nei fatti reali, diversi mesi fa, Pamela Prati annunciò il suo matrimonio con questo tale Mark Caltagirone che, dal racconto della “promessa sposa”, era un imprenditore italiano che l’aveva portata con sé in molti viaggi di lavoro in giro per il mondo; la showgirl parlava di lui offrendo dati concreti e dichiarando che si trattasse di un personaggio noto nel suo ambiente ed apprezzato come professionista.
Tuttavia, nessun rilievo venne attribuito all’indizio della totale assenza di fotografie di lui, che giustificava con esigenze di riserbo sulla propria vita privata, anche in ragione della presenza dei suoi due bambini che sarebbero stati adottati dalla fidanzata, una volta che sarebbe diventata sua moglie.
Ma la data dell’8 maggio 2019 che era stata annunciata per le nozze, venne rinviata e - a seguito di verifiche, riscontri incrociati e indagini di vario tipo - si accertò che Mark Caltagirone non è mai esistito e che è stato un personaggio completamente inventato.
Dal racconto felice al disagio totale, Pamela Prati - che come ospite aveva raccontato in varie trasmissioni televisive la sua storia d’amore miseramente fallita - è stata costretta suo malgrado ad ammettere di essere stata plagiata, con tanto di conseguenze sul piano giudiziario in danno a chi l’aveva tratta in inganno, salvi poi ulteriori retroscena che non riguardano questo argomento.
Insomma, questo episodio di cronaca rosa ha reso conoscibile l’esistenza di preoccupante fenomeno in diffusione che è proprio quello definito “truffa amorosa” realizzata attraverso un sistema di manipolazione mentale costruita attraverso raffinate tattiche persuasive, elogi esagerati, false prospettive di “vita insieme per sempre” per far seguito a vissuti problematici più o meno verosimili per tutti i truffatori sentimentali in danno a persone desiderose di poter finalmente realizzare qualcosa che - a quanto pare - non passerà mai di moda: il “sogno d’amore”.
Queste vere e proprie condotte criminali penalmente perseguibili, attuate con gli inganni, gli artifizi e i raggiri che connotano il reato di truffa come disciplinata dall’art. 640 del codice penale, risultano essere incrementate nell’ultimo periodo perché favorite dall’isolamento imposto dalla protezione pandemica che ha reso più fragili le persone che vivono in solitudine, così esponendole in maniera così subdola al rischio di essere vittime di questo terribile reato, lesivo della buona fede e della dignità di chi auspica un’esistenza migliore attraverso la ricerca della felicità in coppia.
Attraverso l’uso della rete e dei social networks, i malcapitati destinatari di questo reato vengono portati a legarsi sentimentalmente con il truffatore che agisce fino ad ottenere vantaggi economici e di altra natura con trappole particolarmente sofisticate
Col sistema tipico della tela del ragno, l’autore della truffa comincia col reperire lentamente ogni utile informazione sulla vita privata della sua futura vittima, magari studiando i suoi interessi e le sue abitudini fino all’approccio diretto azionato con la creazione di un falso profilo dotato di apposito nickname.
Spesso la vittima resta malamente intrappolata nella rete perché viene prima sedotta e poi illusa attraverso sapienti approcci con forte carica psicologica persuasiva; questi autentici delinquenti sono infatti sempre pronti a intervenire sulle fragilità e sui i punti deboli della vittima che sono riusciti a scovare mediante questa tattica di attento e incalzante corteggiamento.
Scattano quindi i meccanismi di intimità, fiducia e comprensione tipici dell’innamoramento virtuale con questo partner apparentemente ideale che portano a credere in uno scambio sentimentale vero e proprio e che si realizza mediante attenzioni e pensieri quotidiani a sostegno dell’interesse dell’uno verso la vita dell’altro (compresi i diffusissimi messaggini del buongiorno e della buonanotte a cui viene ancora attribuita una valenza affettiva esageratamente elevata).
Una volta catturata la vittima, colui o colei che pone in essere la truffa, parte con l’azione vera e propria: inizia la filza delle lamentele su problematiche debitorie (tipo: devo restituire denaro a un caro amico che mi ha aiutato nel momento del bisogno!), su danni alla salute (tipo: devo subire un urgente intervento chirurgico!), su emergenze economiche (tipo: ho perso il bancomat!), su progetti in comune (tipo: dobbiamo arredare la nostra futura casa!), ma anche su depressioni causative di disagio che richiedono fondi a vario titolo economico e simili, fino alla diretta richiesta di danaro, di utilità e vantaggi di qualsiasi natura che induce all’offerta di aiuto economico spontaneo vero e proprio da parte della vittima che non riesce a vincere il senso di colpa in caso di diniego a pagare.
Nei casi più gravi, la vittima arriva anche ad indebitarsi e addirittura ad esaurire i risparmi per non deludere la falsa persona amata; non di rado si trova anche isolata per aver il truffatore escogitato anche il piano di allontanamento dagli affetti per rafforzare il suo potere facendogli perdere la lucidità e il senso di realtà.
Ma quel che stupisce maggiormente è che per la “coppia” non c’è, non ci sarà mai neanche alcun incontro personale; normalmente lontani per ragioni lavorative, truffatore e vittima fissano appuntamenti che vengono puntualmente disdettati con scuse o contrattempi di vario genere.
Raramente, infatti, si registrano casi di incontri a scopo sessuale perché il truffatore dovrebbe utilizzare all’esterno la sua falsa identità che costituisce un ulteriore tipo di reato a sé stante.
La suggestione della vittima è quindi talmente forzata da far credere che la finzione si confonda con la realtà; ecco perché occorre sempre - in ogni caso - verificare l’identità degli interlocutori virtuali e segnalare le anomalìe per la tutela di tutti.
Fingere dunque di provare sentimenti verso una persona al solo fine di trarre un ingiusto profitto è reato pieno; chi avesse voglia di approfondire il tema, può leggere la motivazione della Suprema Corte di Cassazione Penale che, con la sentenza n. 25165/2019 in materia di “truffa romantica” ha stabilito che essa
“non si apprezza per l’inganno riguardante i sentimenti dell’agente rispetto a quelli della vittima, ma perché la menzogna circa i propri sentimenti è intonata con tutta una situazione atta a far scambiare il falso con il vero operando sulla psiche del soggetto passivo“
Nota:
IL DESIDERIO, IL “SOGNO D’AMORE”, E LA TRAPPOLA DELLA “TRUFFA ROMANTICA”. *
PER CHI HA AVUTO L’OPPORTUNITA’ O IL MODO “di venire a conoscenza, se pur in modo fugace e non dettagliato, della vicenda del fantomatico Mark Caltagirone, promesso sposo virtuale della nota showgirl Pamela Prati”, CONSIGLIO UNA LETTURA ATTENTA DELL’ARTICOLO “La truffa esiste anche in danno alla vita sentimentale” (Laura Vasselli, "InLibertà", 10.06.2020), TOCCA UNA QUESTIONE FONDAMENTALE DELLA STESSA VITA DI OGNI PERSONA, NON SOLO SUL PIANO DEI RAPPORTI PRIVATI MA ANCHE DEI RAPPORTI PUBBLICI: “[...] credere che la finzione si confonda con la realtà , [...] perdere la lucidità e il senso di realtà”!
QUANTO TALE “PROBLEMA” SIA DEGNO DI ESSERE PENSATO A FONDO (E A TUTTI I LIVELLI) è chiaramente detto - come scrive l’autrice - nella motivazione della Suprema Corte di Cassazione Penale che, con la sentenza n. 25165/2019 in materia di “truffa romantica” ha stabilito che essa “non si apprezza per l’inganno riguardante i sentimenti dell’agente rispetto a quelli della vittima, ma perché la menzogna circa i propri sentimenti è intonata con tutta una situazione atta a far scambiare il falso con il vero operando sulla psiche del soggetto passivo“ (cit.).
CHE DIRE?! E’ UNA SOLLECITAZIONE A SAPERSI CONDURRE CON SENNO SIA NELLE QUESTIONI PRIVATE SIA NELLE QUESTIONI PUBBLICHE E UN INVITO A NON PERDERE IL SENSO DELLA REALTA’ (sul tema, non sembri strano né casuale, si cfr. l’articolo di Italo Mastrolia, su “#iorestoacasa, Forza Italia”). NE VA DELLA NOSTRA STESSA VITA : E’ UN PROBLEMA DI SANA E ROBUSTA COSTITUZIONE, A TUTTI I LIVELLI.
La sinistra prigioniera dell’Io
di Vittorio Giacopini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 05.06.2016)
Lo scrive quasi per inciso, velocemente. Nel ’73, ragionando della débâcle della “sinistra” di fronte al Vietnam, Elvio Fachinelli chiarisce di mettersi «dal punto di vista del futuro», che è «ciò che conta», mentre, nell’immediato, prevalgono la lingua di legno dell’ideologia, i motivi «di auto apologia anche nella sconfitta», la consolazione da niente dell’estremismo facile, il moralismo ricattatorio, gli schemi sterili. Di fronte alle bombe americane e allo sterminio, l’elusione del tema “privato” della responsabilità individuale da dichiarazione retorica, e politica, scadeva in alibi e apatia, falsando tutto. Non stava prendendo le distanze dalla sua parte politica: decifrava i segnali del presente, giudicava.
Da psicoanalista diffidente anche della sua istituzione (e di ogni istituzione, semplicemente), Fachinelli andava ancora una volta diritto “al cuore delle cose”, strappando maschere. L’esempio dei marines americani era, appunto, un esempio, o meglio un sintomo. Non erano «bestie assetate di sangue» ma gente normale, giovani «normali ai quali nessuno ha insegnato come compito primario il rifiuto di obbedienza ai feticci». Così, «dal punto di vista del futuro», coglieva un passaggio di fase capitale e la fine di un decennio confuso, ma bellissimo.
Con gli anni Settanta, si inaugura una nuova fase di controllo - di dominio - e la mancata capacità della sinistra di leggere nella Storia un inesauribile, esasperante intreccio di vicende individuali e collettive che ha creato un effetto di delega suicida.
«Come una volta si concedeva il cielo ai teologi, la sinistra ha concesso ai teologi dell’Io il problema della soggezione e della ribellione al potere».
Ecco, in questi suoi scritti politici (bellissimi), Fachinelli va effettivamente al cuore delle cose proprio scagliandosi contro i “teologi dell’Io”, questi sciamani, per tornare a mettere in primo piano quell’intreccio di piani labirintico che lega i fantasmi dell’Io al mondo e alla Storia e persino nella Storia e nel mondo genera (altri) fantasmi e blocchi e strozzature. Era il suo modo di fare politica e psicoanalisi, leggere il tempo.
In questa raccolta di saggi, articoli di giornali e interviste, editoriali, ci sono quasi trent’anni di Storia e una “lezione” di metodo e di sguardo inarrivabile. Nella prefazione al volume Dario Borso nota che forse il «paziente più complicato» di Fachinelli «fu l’Italia» e coglie nel segno. L’impressione - a leggere seguendo l’ordine temporale, anno per anno - è semplicemente raggelante.
La lunga analisi della società italiana che Fachinelli conduce sulle pagine dei «Quaderni Piacentini», o dell’«Erba Voglio», o dalle più posate colonne del «Corriere della Sera», o dell’«Espresso» radiografa una chiusura - una progressiva claustrofilia - che mette i brividi. Energie, pulsioni, istanze di liberazione e autonomia finiscono per svilirsi e impallidiscono. Lui non è che se ne lamentasse, ci ragionava.
Nel ’68 aveva ritrovato al cuore della “protesta” giovanile un’istanza di desiderio dissidente, cioè senza oggetto, capace quindi di scarto liberatorio nei confronti del reale, del potere (i giovani - diceva - si scagliano contro «un’immagine di società che mentre promette una sempre più completa liberazione dal bisogno, nello stesso tempo minaccia una perdita dell’identità personale»).
Oltre vent’anni dopo, ai tempi di Chernobyl, questo impulso di sovversione appare riassorbito, “recuperato”. «La novità più caratteristica, per un analista, di questa epoca dell’inquinamento, è la corrispondenza, a volte la coincidenza puntuale, tra alcuni dei più profondi fantasmi individuali e i tratti tipici dell’epoca stessa». Tra l’Io e la Storia, non c’è più margine di gioco, e non c’è più scarto.
Un dialogo mancato. Fachinelli e Pasolini nel 1974
di Dario Borso (Alfabeta 2, 16 aprile 2016)
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L’11 gennaio 1974 lo psicanalista Elvio Fachinelli scrive una lettera a Pier Paolo Pasolini dopo aver letto sull’«Espresso» il resoconto di una polemica innescata da Edoardo Sanguineti in reazione alla pasoliniana Sfida ai dirigenti della Rai apparsa un mese prima sul «Corriere della Sera». Di questa l’articolista dell’«Espresso» riportava in avvio i passi salienti: «Il Fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta [...] Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata [...] Si può dunque affermare che la “tolleranza” dell’ideologia edonistica, voluta dal nuovo Potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana [...] Fino a pochi anni fa, i sottoproletari rispettavano la cultura, erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso però del mistero della realtà, ora cominciano a vergognarsi della loro ignoranza». Poi passava a citare la replica sanguinetiana apparsa su «Paese Sera» del 27 dicembre: «Sono proprio dei cafoni, i sottoproletari dei nostri tempi! Perduta la splendida “rozzezza” di un tempo, non hanno più soggezione per il latinorum del signor curato... Felici gli analfabeti d’una volta che erano analfabeti veri, interi, tutti come si deve, tutti con il “mistero”, zitti, ordinati e contenti... Marx però era stato assai poco sensibile alla “irripetibile bellezza contadina”, la quale aveva anzi sbugiardato». Infine riportava un’esternazione di Pasolini: «Cosa ne sa Sanguineti, vissuto tra il salotto e la scuola, della vita popolare? Lo sapevamo gente come me, Penna, Comisso, esplosi fuori dal bozzolo borghese, esclusi, reietti, costretti a non vivere se non confusi dentro il popolo, nascosti dentro la sua oscura, anonima protezione. Sì, la vita popolare d’allora era più felice, perché così appartata che neppure il fascismo riusciva del tutto a contaminarla».
Fachinelli dal canto suo esordisce: «Non leggendo “Paese Sera”, non conosco il pezzo di Sanguineti, ma dalla citazione mi pare un modesto esercizio ortodosso marxista di un professore tranquillamente incattedrato e tranquillamente picì, di cui forse potranno piacere la malignità e la bravura letteraria, ma che rimane del tutto estraneo alle ragioni che motivano la passione e l’urgenza dei suoi interventi di questo periodo. Lei ha le antenne per accorgersi dei mutamenti in corso, Sanguineti no». E aggiunge: «È un po’ quello che è successo nel ’68: la rabbia che gli studenti provocavano in lei era chiarissima partecipazione, mentre le fredde e molto ortodosse osservazioni di Sanguineti erano già allora coerenti con il suo attuale presente» (il riferimento è rispettivamente all’arcinoto Il PCI agli studenti! e al coevo Rivolta e rivoluzione, dove Sanguineti su «Quindici» definiva gli studenti «anime belle» contrapponendo loro la linea Marx-Lenin-Mao).
Qui Fachinelli cambia registro, per riferirsi a un’intervista sul «Giorno» del 29 dicembre (non ripresa nei Meridiani Mondadori), dove Pasolini affermava: «Dall’età dell’innocenza siamo passati all’età della corruzione [...]. È stata la civiltà dei consumi, un fatto senza precedenti nella storia dell’uomo. Tutto è cominciato verso la metà degli anni Sessanta, la contestazione del ’68 oggi appare come l’ultimo sprazzo di vitalità, un movimento collettivo millenaristico. Si è chiusa l’epoca di quel mondo antico e barbarico che amavo [...] sarei contento, disposto a rinunciare a qualunque cosa per il reimbarbarimento del mondo: un mondo in cui valga la pena di lottare». Fachinelli nella lettera commenta: «mi chiedo se l’isolamento in cui si viene a trovare non si leghi a quella dicotomia che lei stabilisce tra “innocenza” e “corruzione”, con nostalgia della prima e rifiuto della seconda. Non le sembra che, parlando di innocenza, Lei metta in atto una idealizzazione, e che questa le sia possibile solo staccandosi, considerandosi staccato da quella “barbarie” e dalle sue vicissitudini? Ora, il movimento che ha portato il ragazzo di borgata al centro della città è lo stesso che ha portato lei all’uso del cinema, della tv, della provocazione culturale... Si potrebbe quindi vedere, nel suo rifiuto della “corruzione”, come un implicito giudizio negativo, in nome di quelle esigenze profonde riposte nella “innocenza”, di tutta una serie di attività, sue e di altri, connesse alla “civiltà dei consumi”. Scoprire in sé, per così dire, una zona di futilità distruttiva».
Una specie di affabile «Conosci e stesso», che ventilava però una messa in mora delle dicotomie pasoliniane - con tanto di bibliografia, se Fachinelli conclude annunciando l’invio del suo Bambino dalle uova d’oro: «troverà dentro questo libro, e di questo sono sicuro, in particolare nelle note, qualcosa della sua insoddisfazione e delle sue tragiche domande di questo periodo». Le note erano sei per una dozzina di pagine in tutto: chissà se Pasolini lesse almeno quelle.
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Il secondo atto del dialogo mancato (o atto mancato del dialogo) è a inizio estate, quando a proposito degli Italiani non sono più quelli, articolo apparso sul «Corriere» nel quale Pasolini dall’«omologazione culturale», denunciata sei mesi prima, deduceva non esserci più «differenza apprezzabile - al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando - tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista», Fachinelli interviene sull’«Espresso» del 23 giugno proponendo un soggetto cinematografico dal titolo «volutamente provocatorio» Le masse amavano il fascismo?: «Mettiamo un giovane intellettuale sulla trentina, un professore, di sinistra. Scorre gli articoli di Pasolini, che lo indignano, di solito. Intensa partecipazione a comitati antifascisti [...]. La notte, cominciano incubi, sempre con i fascisti che occupano le sedi dei comitati e dei partiti, arrestano, fucilano. In questo periodo, nel gruppo dei compagni arriva un nuovo. Intellettuale come lui, storia abbastanza simile, partecipazione a gruppi. Ma con un leggero scarto, ora. Partecipa con indifferenza alla lotta antifascista, dice che non è questo il pericolo principale; parla di psicanalisi, di antipsicanalisi, di gioco, di magia. Il professore è dapprima infastidito, incuriosito; poi [...] casca in uno strano torpore. La lotta fascismo-antifascismo non gli interessa più. Cominciano fantasie, in cui compare il nuovo arrivato, stanno insieme, fanno cose interessanti, discutono fra loro. Infine un’onda di sogni, in cui con terrore e piacere compaiono immagini erotiche, esplicite e no, lui e il nuovo arrivato, insieme. [...] I personaggi di queste fantasie e di questi sogni sono, in alcuni particolari fondamentali, gli stessi degli incubi e delle angosce centrate sul fascismo. I persecutori di ieri ricordano da vicino l’amato di oggi».
Sul quotidiano «Il Tempo» di Roma del 26 giugno l’intervento di Fachinelli viene definito un «pasticcio psicanalitico» finalizzato a «velare una pesante accusa personale (quasi un ricatto), e a sottintendere che forse Pasolini è un filofascista inconscio, per motivi ambigui»; il pasticciere/pasticcione, venutone a conoscenza dieci giorni dopo, comunica a Pasolini di avere inviato una smentita al quotidiano per dire che «l’articolista, partito evidentemente dal presupposto ideologico che io fossi tra i suoi “censori”, ha posto un’equivalenza assurda tra il prof. spregiatore di Pasolini ecc. - e Pasolini stesso, e di qui ha ricavato le sue ricattatorie conclusioni».
La smentita in effetti esce nei termini prospettati, con l’avvertenza: «avevo cercato di rendere la complessità di sentimenti e di passioni che sottostanno alla distinzione fascista-antifascista. Così facendo, mi era parso di essere più vicino alla posizione “estremista” di Pasolini che a quella dei suoi oppositori». Di nuovo dunque Fachinelli insiste sulla complessità, sulle contaminazioni; e di nuovo Pasolini rifiuta di rispondere, se non per interposta persona, in un’intervista sul «Mondo» dell’11 luglio: «l’intervento di Fachinelli mi è oscuro. L’oracolo è stato un po’ troppo “a chiave”».
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Il terzo atto si dipana per tutta la seconda metà del 1974, a partire da una lettera di Fachinelli del 30 luglio: «Con alcuni collaboratori sto cercando di mettere insieme - per settembre - un libretto diciamo così di “pronto intervento” su Cefis e il potere (Cefis e/o il nuovo potere), in cui l’accento cade sul secondo termine. Abbiamo pubblicato già due anni fa nella rivista “L’erba voglio” un discorso di Cefis, con un commento politico. La cosa incuriosì molto, ma soltanto ora possiamo capirne l’importanza. Disponiamo ora di un altro discorso, che si connette probabilmente a manovre finanziarie in corso, a cui hanno accennato i giornali. Le scrivo per proporle di fare, su questi discorsi, un’analisi testuale o una recensione».
Il primo dei due discorsi acclusi era stato tenuto dal presidente della Montedison il 23 febbraio 1972 all’Accademia militare di Modena e pubblicato sull’«Erba voglio» di luglio-agosto 1972 «a cura di Giorgio Radice», presumibile nom de plume del redattore dell’«Espresso» Giuseppe Turani (citato a fine numero tra i collaboratori), che lo presenta come originariamente «fatto pubblicare da Cefis sul mensile “Successo” a mo’ di manifesto ideologico», rimarcandovi la «totale riduzione a un unico “valore”: la crescita, lo sviluppo, il moltiplicarsi delle multinazionali», e il «ruolo tecnocratico-dominante all’ombra delle grandi aziende» auspicato per le forza armate. Il secondo discorso, destinato l’11 marzo 1973 alla vicentina Scuola di cultura cattolica, rifà la storia della Montedison per fissarsi sugli obiettivi: concentrazione degli impianti, mobilità del lavoro, superamento del meridionalismo, sostegno mediatico dell’azienda.
Pasolini non risponde ma, parlando il 7 settembre alla Festa provinciale dell’«Unità» di Milano, chiede: «Perché questo genocidio dovuto all’acculturazione imposta subdolamente dalle classi dominanti? Ma perché la classe dominante ha scisso nettamente progresso e sviluppo. Ad essa interessa solo lo sviluppo, perché solo da lì trae i suoi profitti. [...] Se volete capirlo meglio, leggete il discorso di Cefis agli allievi di Modena, e vi troverete una nozione di sviluppo come potere multinazionale - o transnazionale come dicono i sociologhi - fondato fra l’altro su un esercito non più nazionale, tecnologicamente avanzatissimo, ma estraneo alla realtà del proprio Paese. Tutto questo dà un colpo di spugna al fascismo tradizionale; ma in realtà si sta assestando una forma di fascismo completamente nuova e ancora più pericolosa».
Quella sera tra gli stand s’incontrarono, e Pasolini deve aver promesso un contributo al «libretto», se Fachinelli il 20 settembre gli invia un pacco specificando: «le faccio avere una conferenza di Cefis e una fotocopia del libro su di lui, ritirato».
La conferenza, tenuta al Centro alti studi militari di Roma il 14 giugno 1974 e passata a Fachinelli ancora da Turani (che un mese dopo la nominerà di sfuggita, assieme agli altri due discorsi, nel fortunatissimo libro Razza padrona), affronta il tema della crisi petrolifera proponendo un nuovo modello di sviluppo imperniato sulla chimica come motore dei settori agricolo, farmaceutico e dei servizi. Pasolini, evitando per la terza volta di rispondere all’invio, la utilizza sul settimanale milanese «Tempo» del 18 ottobre, definendola «una specie di prudente e gesuitico mea culpa»: «Cefis delinea un precipitoso ritorno all’agricoltura, lasciata nell’ultimo decennio in un criminale abbandono, e [...] un piano di ridimensionamento delle industrie anti-economiche e anti-sociali e soprattutto delle “attività terziarie”, cioè la produzione megalomane di beni superflui». Di più, ricorda la «passata arroganza» del discorso di Cefis «pubblicato su “Successo”, dove si delineava la “fine della nazione” e la nascita di un potere neocapitalistico “multinazionale”, con la susseguente trasformazione dell’esercito in un esercito tecnologico e poliziesco al servizio, appunto, di questo nuovo potere. [...] Era la fine della destra classica italiana. Era ed è. Perché la crisi economica e l’eventuale recessione non impediranno che questa, delineata da Cefis nel ’72, non sia la reale ipotesi del potere capitalistico per il proprio futuro».
Il libro è Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente, uscito a fine 1972 sotto pseudonimo, mentre le fotocopie potevano provenire da Turani come da Fachinelli stesso, in quanto più copie erano e sono presenti in biblioteche pubbliche milanesi. Come noto, esso era stato incettato da Cefis che lo riteneva deleterio alla sua immagine; in effetti si tratta di un libello di bassa manovalanza, poverissimo tra l’altro di scoop. Rimasto perciò inutilizzato da Turani, non si sa quale effetto abbia fatto su Pasolini, che tra le carte di Petrolio, suo ultimo romanzo progettato, infila comunque un appunto datato «16 ottobre 1974»: «inserire i discorsi di Cefis, i quali servono a dividere in due parti il romanzo in modo perfettamente simmetrico e esplicito». La perfetta contemporaneità tra l’appunto e la stesura dell’articolo su «Tempo» chiarisce che i discorsi sono i due lì citati, mentre la chiusa dell’articolo motiva la centralità che nel suo romanzo Pasolini intendeva dare a Cefis come fautore di un nuovo fascismo - in una parola, come golpista.
Tutto ciò confluisce nel celeberrimo Che cos’è questo golpe?, uscito sul «Corriere» del 14 novembre: «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che [...] rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il “progetto di romanzo” sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. [...] Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi. [...] Un intellettuale potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi. [...] Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi. Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi».
Col che siamo tornati al punto di partenza, a quello iato tra «corruzione» e «innocenza» su cui Fachinelli nella sua prima lettera civilmente obiettava, socchiudendo una porta che tenne aperta fino a novembre, quando sul n. 17 dell’«Erba voglio» annunciava l’avvio di una collana di «libretti». Finché il primo dicembre 1974 scrive a Pasolini: «mi sono stancato di continuare a telefonarle e sentirmi rispondere che la nota su Cefis era rimandata. Ne ho dedotto che per qualche ragione la cosa non le andava», chiudendo definitivamente con: «Le sarei molto grato se potesse farmi avere il materiale fotocopiato che le ho spedito».
Il materiale, come le lettere, giace tuttora nel Fondo Pasolini all’Archivio Viesseux.
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Il dialogo mancato ebbe un epilogo tre mesi dopo la morte di Pasolini, quando sull’«Espresso» del 15 febbraio 1976 Fachinelli commentò l’appena uscito Salò o le 120 giornate di Sodoma trasformando l’accenno iniziale alla «futilità distruttiva» in una diagnosi: «si tratta ancora di sadismo? O non piuttosto di qualcosa che, nell’apparente omogeneità dei comportamenti, se ne differenzia radicalmente e procede verso qualcosa d’altro, molto più rozzo e immediatamente distruttivo? La chiave della risposta è contenuta nello stesso film di Pasolini: ciò che manca è la rapina del godimento; e questa manca perché la legge a cui si raffronta è semplicemente un’ombra caricaturale e smorta di quella che fu; come un registro di notai o ragionieri si differenzia dal tesoro degli editti. Allora ciò che ancora si chiama, per inerzia, sadismo, è semplicemente sregolazione burocratica, impiegatizia, della morte. Non si uccidono più anime, cerimonialmente, per sottrarle all’immortalità dell’inferno; si manovrano e si aprono confusamente corpi come pacchi postali».
NARCISIMO E POLITICA FASCISTOIDE-MAFIOSA. Una nota molto illuminante sul tema è nel lavoro di H. A Rosenfeld ("Il narcisismo distruttivo e la pulsione di morte", in : "Comunicazione e interpretazione", Torino 1989):
"Herbert Rosenfeld è stato uno dei più eminenti teorici clinici d’Inghilterra. Nei suoi studi sui disturbi di personalità narcisisstica egli si è imbattuto in una metafore che, molto tempo dopo la sua morte, ha influenzato generazioni di clinici in tutto il mondo.
Rosenfeld ha paragonato la mente del narcisista a una gang mafiosa, governata da un potente leader - un Don mafioso - che è il distillato di tutte le parti distruttive di una personalità. Manipolatorio, cinico, privo di sensi di colpa, feroce, costringe al silenzio tutte le parti buone della personalità con mere intimidazioni. Liquida le azioni distruttive attraverso un’imposizione di lealtà e fedeltà di gruppo alla parte dominante dfella personalità e crea un senso interiore di coesione basato sull’odio.
Il lavoro di Rosenfeld è il culmine della visione crerativa offerta dalla "psicoanalisi delle relazioni oggettuali". Esso mostra come nel nostro mondo interno noi esistiamo come un insieme di sé diversi legati a oggetti (rappresentazioni mentali di altri e aspetti della realtà esterna) all’interno della mente.
Se siamo equilibrati, allora le rappresentazioni distruttive verranno bilanciate da parte amorevoli, premurose, costruttive ed etiche della personalità" (cit. da: Cristopher Bollas, La mente orientale. Psicoanalisi e Cina, Raffaello Cortina Editore, Milano 2013, pp. 161-162)
Federico La Sala
Sulla psicopatologia di Berlusconi
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta *
Una persona che ha un comportamento come quello di Berlusconi può essere definito clinicamente paranoico? Io lo considero tale da oltre 20 anni. Tra l’altro trovo conforto nella testimonianza di una Signora che lo conosce molto bene e scrive: «è malato, curatelo». Sono convinto che soffre di tante manie che a volte diventano deliri. LUIGI PINGITORE
Direi di no. Il disturbo di Silvio Berlusconi non è un disturbo paranoico nella misura in cui non è strutturato intorno ad un delirio sostenuto da una passione più o meno infondata e non corrisponde ad una perdita di contatto con la realtà.
I tratti di personalità esibiti nel corso di questi 20 anni fanno pensare piuttosto ad un disturbo narcisistico di personalità perché Silvio Berlusconi è una persona che ha vissuto a lungo nel culto della sua immagine ed ha creduto in modo perfino ingenuo in chi, traendone vantaggio (i Lavitola) o per puro e semplice innamoramento (i Bondi) ha alimentato il suo bisogno di piacersi e la sua illimitata fiducia in se stesso.
È proprio al disturbo narcisistico di personalità, d’altra parte, che si collegano naturalmente la sua tendenza allo svilimento del sesso e della donna che tanta parte ha avuto nel suo declino e la sua tendenza a proiettare sull’altro (il comunista o il magistrato «cattivo») la responsabilità dei suoi insuccessi.
Confuso (il discorso sui figli che vivono come gli ebrei nei lager) e in crisi, il Berlusconi instabile di oggi è il bambino ferito dall’offesa di chi non crede più di lui. Quello di cui avrebbe bisogno ed a cui avrebbe diritto è un lavoro terapeutico capace di farlo mettere in contatto con il bambino spaventato che si nasconde dietro l’angoscia dell’adulto.
* l’Unità, 18.11.2013
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Psicologia della separazione
Se l’identità è un’ossessione
La salute mentale di un individuo, e lo stesso vale per i gruppi e le istituzioni
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 21.11.2013)
La grande sovversione psicoanalitica del soggetto consiste nel mostrare che l’Io, come affermava Freud, non è padrone in casa propria ma è una unità strutturalmente scissa. Il soggetto non coincide - come voleva tutta una tradizione che discendeva da Cartesio - con il cogito, ma è abitato da più istanze. Esso appare come un parlamento nel quale vi sono partiti rappresentanti di diversi interessi: morali, pulsionali, cognitivi, critici, erotici, vitali, aggressivi.
La salute mentale non consiste nella presenza della monarchia assoluta dell’Ego ma nel comporre una sintesi efficace delle istanze promosse nel proprio parlamento interno. In questo senso per Freud la psicoanalisi era un’autentica esperienza di democrazia. La scissione tra i diversi partiti che compongono il parlamento interno deve essere ricomposta dal soggetto in un equilibrio che non è mai assicurato una volta per tutte. Anzi, si potrebbe aggiungere, che la malattia mentale è legata all’impossibilità di trovare un punto di accordo tra le diverse istanze che compongono la personalità psichica perché una di queste si vuole imporre sulle altre costringendole a rimuovere la loro voce.
Ne deriva che la salute mentale di un individuo - ma si potrebbe benissimo allargare il concetto al funzionamento dei gruppi e delle istituzioni - non consiste nel sopprimere le diverse istanze di cui è costituito il soggetto ma nel saperle articolare tra loro in modo sufficientemente flessibile.
Quando invece questa flessibilità - “plasticità” per Freud - viene meno si produce malattia, irrigidimento paranoico, intossicazione, patologia identitaria. Al posto di una vita psichica positivamente democratica si produce un rigetto violento delle “istanze di minoranza” che vengono espulse, bandite, allontanate dal soggetto. Si tratta di una espulsione violenta che anziché nutrire il dibattito interno del soggetto (di un gruppo o di una istituzione), finisce per generare una sorta di identità separata, alienata nella quale si cristallizzano, in una modalità scissionista, quelle parti interne del soggetto che questi non è più disposto ad ascoltare e a riconoscere come parti proprie.
La paranoia costituisce da questo punto di vista il regime più puro della scissione. In essa l’annullamento della scissione interna genera la scissione come espulsione, separazione di parti psichiche da sé e una loro proiezione verso l’esterno. Per questo la clinica psicoanalitica ci insegna che il nemico ha assai frequentemente il volto del simile e che l’odio più feroce e rabbioso di divora i fratelli, poiché l’oggetto massimamente detestato e rifiutato esprime la parte di noi stessi alla quale abbiamo tolto il diritto di parola.
Nella vita dei gruppi tutto questo è massimamente evidente: quante volte la lotta contro un nemico esterno offre la ragione della propria stessa identità e garantisce il compattamento dei legami interni? È quello che accade in ogni forma di razzismo, compreso quello omofobico. La nostra identità deve essere preservata dalla contaminazione con l’altro. Ma questo altro in realtà non abita in un continente straniero ma in noi stessi.
Ne consegue una legge generale: più si è flessibili verso se stessi e più tolleranti si è verso l’altro e più la democrazia interna ed esterna si arricchisce di contributi. Più, al contrario, si espellono i traditori, gli indegni, i reietti, gli impuri, gli oppositori interni, più, insomma, si rifiutano le voci che animano il dibattito interno e più, inevitabilmente, si utilizzerà la scissione come manovra difensiva incoraggiando meccanismi fatali di irrigidimento paranoico dell’identità.
La ferocia del potere maschile in una società spezzata
di Andrea Di Consoli (l’Unità, 27.05.2013)
Corigliano Calabro, come gran parte del Cosentino, non è mai stata terra di ‘ndrangheta, ma una silente violenza inesplosa la percorre e, insieme a essa, un continuo sottofondo di malessere sociale, di frustrazione, di collera. È una terra, questa, in bilico tra modernità e tradizione, ugualmente capace di eccellenze dell’ingegno e di rassegnate rese di fronte al degrado (si pensi, tanto per fare degli esempi, alle sparatorie, ai capannoni incendiati, allo sfruttamento della prostituzione, alle tendopoli di immigrati a Schiavonea).
Il diciassettenne coriglianese che ha bruciato viva, dopo averla cosparsa di benzina, la sua giovanissima fidanzatina Fabiana Luzzi (che, lo ricordiamo, non aveva nemmeno compiuto sedici anni), ci dice qualcosa di molto serio sulla malattia di quest’Italia, ovvero sul mescolamento senza amalgama di vecchi «valori» ormai decontestualizzati come onore e potere maschile, e nuove acquisizioni della modernità quali libertà femminile, edonismo, liquidità identitaria e affettiva.
Quando due faglie così diverse e così distanti finiscono col cozzare, a quel punto è inevitabile il terremoto, di cui l’omicidio di Fabiana è solo l’ennesimo, tragico epifenomeno. Le colpe sono sempre individuali, ma nessun delitto è davvero privo delle stimmate del tempo, cioè dei piccoli e grandi sommovimenti della contemporaneità.
Altrimenti dovremmo accettare la lettura sommaria e superficiale di quanti dicono, senza nessuno sforzo analitico, che «non si capisce più niente» e che l’Italia, molto semplicemente, «è impazzita». Invece, a un livello assai profondo della nostra società, è in atto una gigantesca lotta tra la libertà e le regole antiche, ovvero tra l’emergente ideologia della società liquida e la superstite ideologia della società radicata.
L’Italia non sa decidersi e, in attesa di decidersi, permette imbambolata questa stratificazione di impulsi e di idee che sono ora antichissimi e ora modernissimi. Quali erano i valori di Fabiana e del suo giovane carnefice? In che misura il mescolamento senza amalgama di valori dissonanti segnava le loro giornate? Due fantasmi ne minavano l’equilibrio: la ricerca spensierata della libertà e dell’esteriorità e l’oscuro bisogno di potere.
Nessuno ha avuto il coraggio di dire loro due semplici verità: che la libertà è un piacere difficile, faticoso e a volte pericoloso, e che nessuno è immune da sentimenti eterni quali il possesso, l’onore, la vendetta, che solo la cultura può tenere a bada. Infine è andata nel peggior modo possibile, e la confusione dei tempi s’è divorata la vita di questi giovani ragazzi, vittime di un terremoto che li ha penosamente sovrastati.
Ognuno, nella confusione generale, si regola come può e come sa; ma sempre più spesso capita di vedere mal convivere impulsi antichi e istanze moderne, come vivessimo in un Paese dove tutte le epoche siano all’improvviso divenute contemporanee.
E nessuno di noi è immune da questa confusione, che è anche linguistica, perché le parole che noi usiamo sono tutte ormai declinate arbitrariamente in base alla faticosa costruzione identitaria che ciascuno di noi sta sperimentando, mescolando alla rinfusa tutto ciò che capita per le mani. Dunque si parla tanto, ma spesso non ci si intende nemmeno un po’.
Forse la grande colpevole è questa società della facilità e delle scorciatoie (del piacere come unico dovere) che crea troppe illusioni e troppe inevitabili frustrazioni. Al dolore, alla perdita, alla sconfitta, all’abbandono (ai limiti dell’uomo) ormai si risponde con l’autolesionismo, con la vendetta, con il delitto, perché oggi ha riconosciuta dignità soltanto chi vince, chi ha una bella fidanzata, una bella macchina, un po’ di banconote da esibire davanti agli altri.
E in questo Paese dei balocchi essere abbandonati o allontanati da una ragazza non è più un triste e malinconico accadimento della vita (che sempre è fatta di gioie e di tristezze), ma il brusco risveglio da un sonno beato dove si era stati illusi che si poteva avere tutto e subito, vincere sempre e comunque, veder sempre riconosciuti i propri muscoli.
Non è mai stato e mai sarà così, e rimuoverlo può soltanto portare al crimine, alla rovina, a marcire in galera senza che nessun padre chieda scusa per aver insegnato impunemente il peggio della tradizione e il peggio della modernità, ovvero l’utopia rovesciata di una società che pensa di potersi sbarazzare della serietà (che è l’unica virilità possibile), che sempre è fatta di sacrificio e di pazienza, di tolleranza e di pietà, e del fondamento di ogni amore, che è l’intelligenza.
Fabiana ha lottato fino alla fine con l’omicida.
La madre: "Anche lui è una vittima"
Accoltellata dal fidanzato, Fabiana Luzzi ha usato le ultime forze per cercare di togliergli la tanica di benzina con cui il 17enne l’ha bruciata viva. L’ha confessato lui: si è alzata cercando di versare il carburante. Ma era troppo debole. A Corigliano scuole chiuse e corteo di studenti. La mamma: "Deve avere giustizia" *
CORIGLIANO CALABRO - Ha combattuto con tutte le forze. Fabiana Luzzi, la sedicenne uccisa dal fidanzato di un anno più grande a Corigliano Calabro, prima di morire bruciata ha tentato di togliere di mano al suo omicida la tanica di benzina con la quale intendeva darle fuoco. A raccontarlo è stato lo stesso ragazzo nel corso dell’interrogatorio. Dopo essere stata ferita da diverse coltellate quando si è resa conto che il ragazzo intendeva bruciarla, si è alzata e gli si è buttata addosso, cercando di versare per terra il contenuto della tanica. Poi, indebolita dalle ferite, è ricaduta a terra e lui le ha dato fuoco.
L’altra faccia della medaglia, in questa terribile storia di brutale violenza, sono le parole della mamma di Fabiana che, seppur distrutta dal dolore, ha la forza di guardare oltre il desiderio più naturale e immediato: giustizia, vendetta. "Anche lui è una povera vittima" ha detto la donna, riferendosi all’assassino 17enne di sua figlia, nel corso dell’incontro con l’arcivescovo di Rossano-Cariati, monsignor Santo Marcianò. L’arcivescovo, conversando con la mamma della ragazza, ha parlato di un possibile recupero dell’omicida.
Secondo la confessione del diciassettenne, dopo una lite per gelosia durante la quale Fabiana Luzzi l’avrebbe "aggredito", lui ha reagito accoltellandola. Più volte. Poi è andato a procurarsi la benzina, quindi è tornato indietro per bruciare i resti della ragazza. Che, ha raccontato, "era ancora viva quando le ho dato fuoco". Con le forze rimaste, poche per il sangue perso, l’ultimo tentativo di Fabiana Luzzi è stato quello di togliergli dalle mani la tanica. Ma è ricaduta indietro, e non si è più rialzata.
"Mia figlia ha il diritto di avere giustizia", ha detto la mamma di Fabiana Luzzi parlando con l’arcivescovo di Rossano-Cariati, mons. Santo Marcianò. L’arcivescovo si è recato a casa dei genitori della sedicenne, dove ha incontrato il padre e la madre.
Questa mattina a Corigliano Calabro le scuole sono chiuse in segno di lutto. Gli studenti, tra cui i compagni di Fabiana, hanno organizzato un corteo per la città che si concluderà sotto la casa della famiglia. I ragazzi indossano un nastro rosso. Il colore "dell’amore, che vogliamo portare per ricordare Fabiana", hanno detto. In testa al corteo uno striscione con la scritta "16 anni per sempre. Riposa in pace piccolo angelo". "La tua storia meritava più ascolto", c’è scritto sullo stesso striscione. E ancora: "Puoi raggiungere solo adesso la tua meta, quel mondo diverso che non trovavi mai. Solo che non doveva andare così, solo che ora siamo tutti un po’ più soli".
Destra e sinistra sotto il peso di Edipo
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 06.03.2013)
COSA è accaduto nella sinistra italiana in questa ennesima sconfitta elettorale? Un evidente problema nella trasmissione dell’eredità. Essa ha voluto aggirare il tempo fatale dell’avvicendamento, del lasciare il posto al nuovo, del rendere possibile il trauma necessario del rinnovamento. Il padre non ha voluto lasciare il suo posto. Non ha saputo vedere che il solo argine nei confronti del rifiuto socialmente diffuso della “politica” era animare un cambiamento interno della politica che esigeva la forza unica di un simbolo. Tale era la candidatura di Renzi dal punto di vista simbolico, al di là del giudizio politico che si può dare di lui. Ma per quale ragione questo avvicendamento non si è realizzato?
Esiste anche una responsabilità del nuovo, non solo del vecchio. Lo slogan della “rottamazione” è stato infelice quanto quello dell’“usato sicuro”. Se la metafora dell’usato sicuro era sintomatica di una difficoltà ad immaginare il trauma necessario del cambiamento - tenere quello che si ha ad ogni costo -, quella della rottamazione fallisce il senso autentico dell’ereditare.
Il vecchio padre si è irrigidito nella sua posizione perché non si è sentito riconosciuto dal figlio. L’ideologia della rottamazione voleva fare a meno dei padri senza servirsi di loro. Impraticabile: l’anima necessariamente conservatrice del partito e dei suoi organi istituzionali ha reagito emarginando il nuovo e uccidendo il figlio ribelle.
Illustrando il complesso di Edipo, Freud aveva messo in luce come la relazione tra i figli e i padri sia marcata da una ambivalenza profonda: il padre non è solo la rappresentazione eroica di un Ideale ineguagliabile, ma è anche un rivale con il quale si combatte un duello all’ultimo sangue.
La dimensione conflittuale dell’Edipo si risolve solo se le armi vengono deposte e si sancisce un armistizio: il padre deve riconoscere il suo inevitabile tramonto lasciando il suo posto al figlio, mentre il figlio deve riconoscere al padre il debito simbolico del dono della vita. Il padre diventa così una funzione indispensabile nella trasmissione dell’eredità e il figlio, in quanto erede, avrà il compito di realizzare in una forma nuova ciò che ha ricevuto.
Se il padre o il figlio non riconoscono questa discendenza simbolica, la dialettica edipica può incancrenirsi in una rivendicazione sterile: il padre impedisce al figlio di avere un suo posto nel mondo rifiutando di tramontare; mentre il figlio esige la morte del padre e il rinnegamento della sua provenienza e del debito che essa implica. Il conflitto si imbarbarisce: il nuovo vuole uccidere il vecchio perché il vecchio non lascia posto al nuovo e il vecchio non lascia posto al nuovo perché il nuovo non vuole riconoscere il suo debito nei confronti del vecchio.
Se il partito di Berlusconi è immune dalle dissonanze dell’eredità perché è strutturalmente privo di possibili eredi in quanto il padre è un Duce - senza discendenza, politicamente sterile - che fa coincidere la sua esistenza con quella del partito, dunque che esclude l’orizzonte della trasmissione della leadership, il problema dell’eredità già oggi sta attraversando e attraverserà fatalmente il movimento dei grillini.
Il padre di questo movimento non rappresenta per nulla il vecchio, la provenienza, la radice, la memoria, l’istituzione. Questo nuovo padre si propone come senza storia, senza memoria, senza provenienza, senza un volto politicamente riconoscibile, mascherato, radicalmente post-ideologico. Non ha mai voluto entrare sulla scena edipica della politica, ma si è sempre mantenuto fuori (Lacan gli direbbe; ma “fuori” da cosa? Tu pensi davvero che esista un “fuori”?). Il rifiuto del confronto con gli altri è una cifra essenziale di questa posizione che si propone come sorretta da un ideale di incontaminazione.
La dialettica democratica lascia allora il posto all’insulto dell’Altro che si mescola, come spesso accade in ogni fondamentalismo, con un fantasma di purezza: da una parte i puri, i redentori, dall’altra gli impuri, gli indegni. Di qui la sua forza anarchica e sovversiva e il potere straordinario di aggregazione di fronte ad un mondo politico drammaticamente corrotto e incapace di rinnovarsi dall’interno. La saggezza del nostro presidente della Repubblica che difende giustamente il diritto del popolo italiano di scegliere i suoi rappresentanti, urta drasticamente contro l’uso violento dell’insulto con il quale il padre del nuovo movimento insiste nel praticare il non-confronto con gli altri.
Ma che padre è quello che si manifesta attraverso l’insulto? Si tratta di un padre che non ricalca più in alcun modo il modello edipico del Padre come simbolo della Legge. Si tratta di un padre-adolescente, di un padre-ragazzo, che parla, si esprime e si veste come fanno i suoi figli. Si tratta di un padre che rivela sintomaticamente quella alterazione profonda della differenza generazionale che è una grande tema, anche psicopatologico, del nostro tempo. Nondimeno questo padre che si maschera con gli abiti dei figli è un padre che non vuole rinunciare ad esercitare il suo diritto assoluto di proprietà sui suoi figli.
Si provi a mettere questo padre di fronte alla critica o al dissenso e si vedrà in che cosa consiste la sua pasta. Dietro ogni leader totalitario che reclama la democrazia si cela una insofferenza congenita verso il tempo lungo della mediazione che la pratica della democrazia impone.
Il problema dell’eredità sembra allora rovesciarsi rispetto a quello che è accaduto alla sinistra: non è il padre come simbolo del vecchio che non vuole abbandonare il suo posto di fronte alla minaccia edipica della rottamazione, ma saranno probabilmente i figli che dovranno assumersi la responsabilità di non essere più “fuori” dalle istituzioni essendone diventati invece dei diretti rappresentanti. Saranno allora i figli a esigere il dialogo politico - rifiutato dal loro padre come segno di indegnità - come unica condizione per assicurare ad un paese in gravi difficoltà un governo possibile.
A questi nuovi figli dal viso pulito e dagli ideali forti dobbiamo affidare il compito di far ragionare un padre che sembra - almeno sino a questo momento - rifiutare la responsabilità che sempre comporta la sua funzione e a mascherarsi da “anima bella” che per Hegel era quella figura della Fenomenologia dello spirito che pretendeva di giudicare la storia dall’alto della sua beata innocenza senza considerare che nessuno mai può giudicare la storia senza considerare di farne parte.
Tempi moderni
La studiosa Myriam Revault d’Allonnes ha scritto un saggio su questo tema che ha aperto la discussione in Francia
“L’idea di crisi infinita sta cancellando il passato e il futuro”
di Fabio Gambaro (la Repubblica, 13.11.2012)
PARIGI «Oggi abbiamo tutti la sensazione di vivere una crisi senza fine. Ma una crisi che non finisce mai non è più una crisi. Diventa il sintomo di qualcos’altro». Proprio a questa crisi onnipresente e inamovibile che sembra diventata “la trama della nostra esistenza”, la filosofa Myriam Revault d’Allonnes ha appena dedicato un corposo saggio, La crise sans fin (Seuil, pagg. 197, euro 19,50), che in Francia sta suscitando moltissimo interesse. Ripercorrendo storicamente l’idea di crisi, la studiosa francese ne propone una lettura originale in relazione con la nostra percezione del tempo e del futuro. Una prospettiva che le permette di affrontare la questione, sfuggendo ad ogni disfattismo rinunciatario. «La società occidentale vive da tempo al ritmo di una crisi globale che colpisce l’economia e la cultura, l’ambiente e l’educazione», spiega Myriam Revault d’Allonnes, che insegna filosofia politica a Parigi, all’Ecole Pratique des Hautes Etudes e a Sciences Po. «Ma se oggi ne percepiamo tutta la vastità e l’oppressione è perché siamo particolarmente sensibili a una crisi economica che si prolunga nel tempo. Proprio perché valutiamo tutto attraverso le categorie dell’economia, abbiamo l’impressione di una crisi acuta e generalizzata. Da anni si parla della crisi della famiglia o della coppia, ma ciò non ha mai fatto presa sulla sensibilità collettiva».
Lei però sottolinea che si usa la parola crisi in modo improprio. Perché?
«C’è stato un vero e proprio rovesciamento del suo significato originario. I greci utilizzavano la parola krisis soprattutto in ambito medico per indicare una situazione estrema limitata nel tempo. Nella crisi è implicito il suo superamento. Alla fase acuta della malattia segue la guarigione o la morte. Inoltre, grazie alla crisi si esce dall’incertezza, si decide una strategia e s’individua una via d’uscita. Oggi però la crisi ci sembra permanente. E’ onnipresente, invasiva e continua. E si è incapaci di decidere una strategia d’uscita. A forza di parlarne, è venuto meno ogni esercizio critico sul suo statuto e sulle sue caratteristiche. Insomma, quella che era un’eccezione è diventata la norma».
Una crisi senza fine è ancora una crisi o diventa qualcos’altro?
«Questa impressione di crisi diffusa a cui non sappiamo sottrarci, è una metafora della condizione dell’uomo contemporaneo che rivela soprattutto la trasformazione della nostra relazione con il tempo e la nostra incapacità di pensare il futuro. Nella modernità, la crisi era una tappa nella realizzazione di un divenire caratterizzato dall’idea di progresso. Per Hegel, Marx e i teorici della economia politica, è una fase critica da superare in direzione di un futuro migliore. Oggi, se la crisi è percepita come insuperabile è perché è venuta meno l’idea di futuro. La nostra visione dell’avvenire è infatti incerta, non prefigurabile. Fino agli anni Ottanta avevamo ancora una prospettiva. La fine del lungo boom economico del dopoguerra e il crollo del muro di Berlino hanno però segnato la fine delle speranze secolari. Simbolicamente, per l’uomo occidentale è emerso come ha scritto Lévinas - un tempo senza promesse. Secondo me, questa è la chiave per capire la nostra situazione».
Un tempo senza futuro modifica anche la relazione con il presente?
«Il presente appare come dilatato all’infinito, invade tutto. Oltre al futuro, scompare anche il passato, dato che sembra impossibile fare ricorso alla tradizione. Ma oltre ad essere dilatato all’infinito, il presente non ha più significato, sembra non dirci più nulla e soprattutto ci sembra immobile».
Le trasformazioni tecnologiche non sembrano indicare un movimento continuo?
«E’ solo un effetto ottico. In realtà, questa accelerazione frenetica gira a vuoto senza produrre cambiamenti reali nelle nostre vite. Per Virilio ci troviamo in una situazione d’immobilità folgorante. La famosa frase del Gattopardo, occorre che tutto cambi perché tutto rimanga com’è, riassume molto bene la percezione che abbiamo della situazione.» All’epoca dell’Illuminismo, l’idea di crisi era legata al cambiamento. Oggi non è più così. Perché?
«L’inquietudine della modernità fa da sfondo all’attuale situazione di crisi. L’uomo senza più le garanzie offerte dalle trascendenze del passato, cerca di costruirsi delle nuove prospettive, che però non hanno più nulla di definitivo e certo. Da qui la situazione d’incertezza che alimenta la sensazione di una minaccia incombente. L’inquietudine e l’incertezza naturalmente possono alimentare lo spirito critico, ma anche - come avviene oggi - un sentimento di abbandono e d’impotenza di fronte alla catastrofe imminente. Come se né gli individui né le società avessero più le risorse per tentare di resistere al declino». Lei riprende la metafora dell’uomo in gabbia proposta da Max Weber...
«In effetti, una gabbia d’acciaio, che però non è solo il risultato delle costrizioni esterne che pesano sull’uomo, ma anche delle costrizioni che ciascuno impone a se stesso per adattarsi a tale situazione. Più o meno consciamente ogni individuo partecipa alla costruzione della gabbia in cui sta chiuso». Per alcuni questa condizione d’imprigionamento senza futuro rappresenta la fine della storia e della politica. Anche per lei?
«No. Il leitmotiv della fine secondo me è controproducente. Preferisco ricordare Hannah Arendt che, alla metafora della gabbia, contrappone la metafora della breccia. E’ un approccio non necessariamente più confortevole, ma certamente più produttivo. La breccia, oltre a indicare la rottura con la tradizione, spiega la condizione esistenziale e antropologica di un uomo che, anche quando smarrisce i propri punti di riferimento, non perde la facoltà di pensare e la capacità d’iniziativa. In questa prospettiva, la crisi può spingere a proiettarci in avanti alla ricerca di un nuovo inizio. Ritrovando il suo significato originario, la crisi diventa allora occasione di cambiamento».
Nella pratica, di fronte alla crisi, cosa si può fare?
«Innanzitutto, recuperare il senso critico per sottrarci alla gabbia che noi stessi abbiamo contribuito a costruire. Dobbiamo fare un lavoro critico su noi stessi, ma anche valorizzare le capacità della società democratica di sottrarsi all’immobilismo. Nella dinamica democratica c’è sempre qualcosa che ci permette di non considerarci condannati alla sconfitta».
Sul piano individuale, cosa può significare la metafora della breccia?
«Significa che l’individuo deve saper reinventare la propria relazione con il tempo, il futuro e l’incertezza. Naturalmente è molto difficile, specie nell’attuale situazione economica. Non è facile domandare a un lavoratore precario di ripensare il suo rapporto con un avvenire incerto. E non si tratta di vantare il fascino della precarietà o della flessibilità. E’ però necessario che il futuro sia pensato in modo diverso. Per gli individui come per le società occorre sapersi orientare nell’azione anche senza garanzie. Una società non deve per forza sapere quale sarà il suo avvenire per cercare di costruirlo. Lo stesso vale per gli individui, che dovrebbero riuscire a conquistare quella che Kundera chiama la saggezza dell’incertezza. Accettare l’incertezza non significa rassegnarsi alla precarietà, ma provare ad affrontare in modo diverso la realtà. Insomma, la crisi infinita non è la fine di tutto, ma un compito infinito che rifiuta la fatalità».
Il paradosso della freccia
Da Zenone al big bang, qual è il senso del tempo
Il saggio di Carroll esplora i misteri di uno dei concetti più affascinanti della fisica: perché certi fenomeni sono reversibili e altri no?
Questo testo ci permette di sondare le diverse teorie scientifiche sull’entropia
Le leggi di Newton ci offrono un mondo dove è possibile tornare indietro: ma queste non valgono sempre
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 11.01.2012)
Duemilacinquecento anni fa, Zenone di Elea decretò che una freccia in volo non può muoversi, visto che in ogni istante è ferma. E ne dedusse che aveva ragione il suo maestro Parmenide, a sostenere che il tempo non esiste. E che allora non esiste neppure il cambiamento, in mancanza di un tempo nel quale le cose possano cambiare.
Oggi il ragionamento di Zenone non ci sorprende più, perché il cinema l’ha reso popolare tra gli spettatori. Tutti sappiamo che nei film in realtà non accade niente. La storia è tutta nella pellicola, "anzitempo". E il divenire cinematografico non è altro che un’illusione, riducibile a una successione di istantanee statiche e "compresenti". Gli spettatori normali non vanno oltre queste ovvie constatazioni, ma i filosofi e gli scienziati sì. E si domandano se le cose stiano così solo al cinema, o anche nella vita al di fuori della sala. In particolare, si domandano se il tempo e il cambiamento esistano per davvero o se non siano un’illusione analoga a quella cinematografica.
C’è una specifica illusione temporale che il cinema non riesce a procurarci. Ed è invertire la direzione della freccia del tempo, semplicemente facendo girare la pellicola al contrario. La cosa non funziona, perché un film visto al contrario è completamente paradossale. Nessuno, infatti, ha mai visto una frittata disfarsi nelle uova intere. Un tuffatore, uscire dall’acqua per i piedi. Un vecchio, diventare giovane. E un morto, resuscitare.
L’ovvia constatazione è che così va il mondo. Ma la scienza non si accontenta delle constatazioni: vuole, e deve, anche capire perché il mondo va così. In particolare, vuole, e deve, capire da dove arriva la freccia del tempo, e come si accorda con il resto delle cose che essa ha già capito. Cioè, con il complesso delle leggi che formano collettivamente il sapere scientifico.
Benché queste leggi facciano regolarmente intervenire il tempo nelle loro formulazioni, a partire dai concetti basilari della velocità e dell’accelerazione, il problema della freccia del tempo è lungi dall’essere stato risolto in maniera soddisfacente. Ma talmente tanti passi avanti sono stati fatti verso la sua soluzione, che anche solo per enumerarli e illustrarli è necessario un denso libro di cinquecento pagine: Dall’eternità a qui di Sean Carroll (Adelphi), di cui proviamo a riassumere le tappe principali.
In principio fu la fisica newtoniana. Essa si interessa del moto di un piccolo numero di particelle isolate, come le palle di un biliardo o i pianeti di un sistema solare. Il loro moto avviene in una certa direzione, ma non sarebbe affatto paradossale che avvenisse nell’altra. Il film dello scontro fra due palle da biliardo, o di un’orbita planetaria, si può dunque proiettare al contrario, senza provocare nessuna sensazione di straniamento. Detto altrimenti, le leggi della fisica newtoniana sono reversibili, e non prevedono una freccia del tempo. Quest’ultima interessa invece fenomeni molto diversi da quelli studiati da Newton, come il calore.
Benché la freccia del tempo sia stata così battezzata solo nel 1927, dall’astronomo Arthur Eddington, la sua prima formulazione fu data nel 1850 da Rudolf Clausius, nella forma della cosiddetta seconda legge della termodinamica: «Il calore si trasferisce spontaneamente dai corpi caldi a quelli freddi, ma non viceversa». Cosa sia il calore, lo si può intuire dal fatto che quando si scalda dell’acqua, le sue molecole si muovono più velocemente, fino ad arrivare a un moto turbolento nell’ebollizione. Nel 1859 James Clerk Maxwell precisò questa intuizione, definendo la temperatura di un corpo come una misura dell’energia media delle particelle che lo compongono: più le particelle si muovono, e più sale la temperatura.
In maniera analoga si possono ridurre tutte le proprietà di un gas al comportamento statistico delle particelle che lo compongono e si scopre che la termodinamica non è altro che l’estensione della fisica newtoniana allo studio di un gran numero di particelle. In particolare, nel 1872 Ludwig Boltzmann adottò questo approccio per definire l’entropia di un sistema macroscopico come una misura del suo disordine, calcolato in base al (logaritmo del) numero delle sue configurazioni microscopiche indistinguibili.
Una volta definita l’entropia, Boltzmann la usò per spiegare l’emergenza della freccia del tempo. Il suo teorema H dimostrò infatti che «un sistema isolato evolve spontaneamente da stati a bassa entropia a stati ad alta entropia, ma non viceversa». Ma nel 1876 Johann Loschmidt notò che la cosa era paradossale: se le leggi della fisica newtoniana sono reversibili, da esse non dovrebbe essere possibile dedurre l’esistenza di un processo irreversibile, come la crescita di entropia.
Per risolvere il dilemma, Boltzmann propose l’ipotesi che il nostro "universo" non sia altro che una bolla a bassa entropia di un multiverso a massima entropia. L’esistenza del multiverso non ha bisogno di giustificazioni, perché il suo stato di completo disordine è a massima probabilità. L’esistenza del nostro universo si giustifica invece in base a una delle tante fluttuazioni, più o meno ordinate, che alla lunga devono prima o poi accadere. Quanto al perché noi siamo proprio in una di queste fluttuazioni a bassa probabilità, si spiega con il principio antropico: in fondo, possiamo essere soltanto nei luoghi che permettono la vita, come appunto quelli a bassa entropia.
Le idee di Boltzmann erano state sviluppate nell’ambito della termodinamica dell’Ottocento, ma sono state riformulate nell’ambito della cosmologia del Novecento. Il multiverso viene ora interpretato come il vuoto quantistico, e il nostro universo come una sua fluttuazione, in due possibili modi: o come un universo bolla, galleggiante nel vuoto, oppure come un baby universo, che se n’è distaccato. In entrambi i casi, come possibile conseguenza dell’inflazione primordiale proposta da Alan Guth nel 1979.
Perché la cosa abbia un senso, bisogna che il vuoto sia uno stato di massima entropia. A prima vista sembrerebbe il contrario, ma Roger Penrose ha notato che effettivamente l’entropia cresce, man mano che la freccia del tempo parte dal Big Bang, passa attraverso la formazione delle strutture galattiche e la loro dissoluzione in buchi neri, e va verso l’evaporazione di questi ultimi. Quanto all’entropia del vuoto, deriva dall’energia oscura responsabile dell’accelerazione dell’espansione dell’universo, scoperta nel 1998 da Saul Perlmutter, Brian Schmidt e Adam Riess, e premiata nel 2011 con il premio Nobel per la fisica.
Come si vede, oggi per parlare del tempo non bastano più frasi come quella di Agostino nelle Confessioni: «Se non mi chiedi cos’è, lo so, ma se me lo chiedi, non lo so». O aforismi come quello di Wittgenstein nel Tractatus: «Il mondo è tutto ciò che accade», e non «tutto ciò che c’è». Bisogna avere invece una solida informazione scientifica, per procurarsi la quale non ci sono vie regie, ma per iniziarsi alla quale Dall’eternità a qui costituisce un’ottima introduzione.
Perversione “narcinista”: è narciso e cinico
di Massimo Recalcati* (il Fatto Quotidiano” del 20 gennaio 2011
Silvio Berlusconi è un paranoico? No, non credo. Casomai lo fa (come quando recita il mantra dell’anticomunismo), ma non lo è affatto. La grande paranoia si nutre (seppur follemente) di ideali. Nella parola del Führer parlava la Storia che assegnava alle masse una missione scritta nel destino. La dimensione della paranoia è la dimensione del fondamentalismo e non del narcinismo (narcisismo più cinismo) berlusconiano. La perversione è la figura clinica che più ci consente di accostare il fenomeno del berlusconismo. In che cosa consiste? Non tanto nella presenza di comportamenti sessuali patologici, delle cose che si fanno sopra o sotto le lenzuola. In un lapsus esilarante una giornalista de La7, qualificando la Minetti, dice “igienista mentale” anziché “dentale”. Come sentenziava saggiamente Moana Pozzi: il sesso è nella testa. La perversione non è quello che si fa col sesso, ma l’igiene mentale di chi lo fa.
La perversione definisce clinicamente una patologia mentale il cui contenuto di fondo è l’angoscia profonda provocata dell’esperienza del limite. Il perverso non crede nella missione della Storia. Egli è totalmente disincantato. Vive solo per realizzare il maggior godimento possibile in questa vita. Tutto il resto viene dopo, è secondario, anzi è un ingombro alla realizzazione di questo compito che egli persegue come se fosse un vero e proprio cavaliere della fede. Solo che la fede del perverso non conosce ideali, anche se si ammanta di ideali, non conosce rispetto per la verità, anche se può spesso parlare in nome della verità e del suo giusto ristabilimento.
L’angoscia della morte o, che è lo stesso, l’angoscia per la propria impotenza sessuale impongono a Berlusconi di cancellare da un corpo che deve essere bionico tutti i segni della malattia e dell’invecchiamento. Per scongiurare l’angoscia egli si pone come un padrone apatico di questo godimento del sesso senza amore, anche se ne è un servitore inquietante. Perché il perverso può avere l’impressione di dominare tutto ciò che gli sta attorno, ma non la spinta a godere senza limiti. È la patologia mentale che rende vulnerabile e ricattabile il nostro premier. Questa spinta a godere (Fabrizio Corona docet!) è più forte di lui, non ne può fare a meno, e lo costringe a moltiplicare infinitamente i suoi oggetti. Il denaro gli offre l’illusione che potrà evitare la morte (eternizzandosi nella propria tomba concepita non a caso come un vero e proprio mausoleo); la giovinezza delle sue prede garantisce il ricambio del suo sangue e allontana lo spettro sempre presente della fine. Mostrarsi potente sessualmente non dà soddisfazione e proprio per questa ragione non c’è limite alla sua volontà di sesso (Fabrizio Corona docet).
La riduzione della politica allo slogan pubblicitario si situa sulla stessa linea di forza del disincanto cinico; egli sa dire alla gente ciò che la gente vuole sentirsi dire perché è un raffinato conoscitore della natura del godimento. Il suo ottimismo è un negazionismo delle turbolenze della realtà. Il suo culto della libertà, un libertinismo senza vergogna e senso del pudore. La sua simpatia (la barzelletta sempre pronta) rivela che tutto può essere oggetto di scherno; che si può dire tutto e il contrario di tutto perché quello che si dice si può ritirare o contraddire a piacimento . Se, come pensa il perverso, la verità non esiste, la menzogna è legge. Un altro tratto della perversione è infatti la negazione del valore della propria parola e di quella degli altri. Il suo idealismo è materialistico. Egli crede solo in ciò di cui può godere. Gode dunque è.
Perché un uomo anziano non può abbandonare questa dimensione compulsiva del godimento? Si potrebbe rispondere: per amore della vita. La perversione insegna invece che il dio oscuro che ingiunge di godere ad ogni costo non è il dio dell’amore ma il dio della morte. Il perverso non può frenarsi nella ripetizione delle sue abitudini perché questo è il solo modo che conosce per rimediare all’angoscia della morte. Deve moltiplicare e ripetere infinitamente lo stesso godimento. All’amore non ci crede. È, come ogni ideale, una trovata propagandistica. L’amore infatti non può mai essere un partito perché non fa massa. Ogni tiranno invece ama le masse. L’immagine pubblica che egli vuole dare di sé è l’immagine di un umile soccorritore dei più bisognosi. Ma nel privato questa immagine sembra lasciare il posto a quella del “drago” o, a quella ancora più oscena e incestuosa di “papi”, che gode come una macchina che non conosce usura. I giovani corpi promettono un godimento senza castrazione perché cancellano i segni corrosivi del tempo. Come nelle scene del marchese De Sade tutto si ripete come se il tempo non dovesse mai scorrere.
Dietro il volto sempre più trasfigurato, tipico dei tiranni a fine corsa, di Berlusconi c’è il fenomeno del consenso che egli riesce a catturare. Un’analisi superficiale lo vuole spiegare come effetto della manipolazione mediatica della realtà. Il problema è invece che Berlusconi ottiene il consenso non per la verità che oscura, ma perché oscura la verità, non perché viene smascherato come protagonista di festini a luci rosse con giovani donne, ma perché realizza qui festini con dedizione, non perché mente ma perché rivela l’inconsistenza della differenza tra la verità e la menzogna, non perché è incapace di sostenere con la giusta dignità istituzionale la sua funzione pubblica, ma perché ci mostra che siamo tutti uguali, che tutto nell’essere umano è finalizzato al godere il più possibile in questa vita (Fabrizio Corona docet!).
*Psicanalista lacaniano, Università di Pavia, autore di un saggio sulle patologie del nostro tempo, “L’uomo senza inconscio” (Raffaello Cortina)
Gioventù bruciata
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 08.12.2010)
Ha ragione Mario Adinolfi a ricordare che è cosa insultante oltre che menzognera, parlare di giovani senza futuro o d’una sola generazione depredata. Un trentasettenne precario non è più giovane, e il fatto che gli tocchi pregare per essere riconosciuto (questa l’etimologia di precario) è lo scandalo che vien mascherato chiamandolo giovane. Una catena di generazioni fatica a preparare prima l’età matura, poi l’anziana. I nati dopo il ‘70 sono la metà degli italiani: 28 milioni 150.000, non più solo figli ma padri che della vita attiva non conoscono che contratti brevi o niente contratti. Che s’imbarcano in lavori low cost o addirittura gratuiti, come denunciato da Michele Boldrin, professore di economia alla Washington University di St Louis ( Il Fatto, 11 novembre).
Lavorare gratis è una pratica in espansione, per chi non ha forze e soldi per fuggire all’estero. È una regressione, nei rapporti sociali e nel riconoscimento reciproco fra l’Italia che ha un posto e l’Italia che ha semplici attività, menzionata di rado. I giovani fanno questa scelta volontariamente, consapevoli d’essere immersi nella Necessità: dare il proprio tempo senza salario li rende visibili, consente di «accumulare punti». Alla fine del tunnel, chissà, il riconoscimento verrà e avrà gli occhi di un lavoro decentemente pagato. Lo sfruttamento s’è fatto banale: è un’usanza dettata dal principe (un bando dell’autorità). È la morale del tempo presente.
Se questa è la realtà, si può capire come la riforma Gelmini sia solo una miccia - così Ilvo Diamanti, lunedì su Repubblica - che ha acceso risentimenti acuti, non limitati all’istruzione che pure è «crocevia nella vita» d’ognuno. Analoghe micce anti-riforme si moltiplicano, a occidente, ma cruciali non sono le riforme, così come per Heidegger l’essenza della tecnica non è la tecnica ma quel che essa disvela, provoca. Nella rivolta dei giovani francesi la pensione è un pretesto: essi sanno che il paese invecchia, che i soldi dello Stato sociale non bastano. Se protestano con tanto accanimento è perché qualcos’altro è in gioco: il disagio, più radicale, riguarda l’esistere stesso; il perché e il come si vive l’oggi e si pensa, tremando e temendo, il futuro.
In tutti i paesi industrializzati il futuro è programmato penosamente. Adinolfi lo spiega bene nella rivista Week, iniziata il 25 novembre. Basandosi su ricerche dell’Istat e del Center for Research on Pensionsand Welfare Policies (Torino), Adinolfi fornisce cifre cupe sulla metà d’Italia che vive il precariato. Al momento, chi va in pensione o sta andandoci è sicuro di ottenere circa il 95 per cento della media dei compensi degli ultimi anni. Non così il precario nato dopo il ‘70: la percentuale crolla dal 95 al 36. Fra 20 anni, quando andrà in pensione, riceverà - se avrà lavorato 32 anni su 40 - 340 euro al mese.
Duro in tali condizioni fabbricare futuro, generare figli che non potremo sostenere e non ci sosterranno, impoveriti anch’essi. I rivoltosi vedono questo, guardandosi allo specchio: uno scenario che mette spavento. Che ti porta a dire, visto che a nulla è servito il titolo di studio: non resta che farmi menare dalla polizia. Esibisco la mia bile nera, come gli eroi di Moby Dick che è uno dei miei libri-vessillo. Non mi resta, come in Gioventù Bruciata di Nicholas Ray, che il chicken run. Il chicken run è la gara mortale che James Dean ingaggia coi compagni: vince chi guida l’auto sino all’orlo del burrone, tentando di saltar fuori in extremis. Chi fugge la prova è un pollo, un vile. È significativo che a costoro si neghi oggi perfino il diritto a morire, quando sei attaccato a un tubo senz’averlo deciso.
Il chicken run che impregna il tumulto è argomento tabù. Se ne ragiona molto sul Web - l’agora di queste generazioni - ma poco sui giornali. C’è una complicità tacita, che impedisce alla verità d’esser disvelata. Non ne parlano gli imprenditori, che del lavoro precario o gratuito profittano; e neanche i sindacati, tutori dei pensionati. Nella Cgil, il 53 per cento degli iscritti aderisce al Sindacato dei pensionati italiani (Spi). Se la crisi dice qualcosa - sulla crescita che nei paesi sviluppati s’abbasserà stabilmente, sul clima da proteggere, sullo Stato impoverito - questo qualcosa dovrà implicare nuove distribuzioni fiscali, e anche una mutazione di linguaggio. Riformismo, accordi bipartisan: sono vocaboli inani, se usati solo per dissimulare tagli. Tutti hanno rovinato l’istruzione, il patto bipartisan già esiste (da Luigi Berlinguer a Mussi, Moratti, Gelmini). L’accordo non va cercato tra partiti ma tra l’Italia che è nello Stato sociale e quella che ne cascherà fuori. Non di patti bipartisan c’è bisogno, ma di dirigenti (politici, imprenditori, sindacati, accademici) che queste cose le guardino in faccia.
Anche il popolo del disagio ha sue responsabilità. È un punto su cui Boldrin insiste crudamente: «Cosa volete fare, ragazzi e ragazze? A favore di cosa siete scesi in piazza, oltre che contro il ddl Gelmini? Perché è questa, non altra, la questione che dovete avere il coraggio d’affrontare». Il risentimento è comprensibile, ma il tema del merito sollevato dalla riforma resta. E che significa rottamare un ceto politico, se non invocare palingenetiche facce giovani? Perché difendere lo status quo universitario, finito in marasma? È come desiderare la crescita squilibrata che nel 2007 causò la crisi economica nel mondo.
Si disserta spesso in Italia della sindrome Peter Pan, che ti reclude nei focolari paterni o materni: secondo l’Istat, il 68 per cento vive coi genitori sino a 35 anni. Lo stesso succede in paesi cattolici dove la famiglia sostituisce il Welfare: Spagna, Irlanda. Ma la vista psicologica è corta, occulta le cause strutturali. Scrive Vincent Venus, direttore del Giovani Federalisti Europei a Berlino, che questa è una generazione diversa: ricorda gli anni ‘40. Non una conflagrazione militare le ha aperto gli occhi; ma la crisi del lavoro, del pianeta, dell’economia, è un’esperienza interiore di guerra: «È una sfida, quella odierna, che i nostri genitori hanno ignorato. Il compito è talmente vasto che somiglia a quello della generazione postbellica. Unica differenza: non si tratta solo di ricostruire la società, in Europa, ma di mantenere in vita il Welfare». Pur rispettando i conti, oggi esistono cose da preservare: la solidarietà sociale, il lavoro, il pianeta. La distruzione non è più creativa.
Fu così anche nel 1942, quando il Welfare prese la forma di un piano comune di lotta al bisogno: il piano di William Beveridge. «È proprio adesso, con la guerra che tende a eliminare ogni genere di limitazioni e differenze, che si presenta l’occasione. (...) Un periodo rivoluzionario nella storia del mondo è il momento più opportuno per fare cambiamenti radicali invece di semplici rattoppi» (Beveridge, La libertà solidale, Donzelli 2010).
Molti si domandano come mai il malcontento non sia esploso prima di Berlusconi, visti gli errori della sinistra. Domanda sensata, ma vista parziale. Lo spirito dei tempi modellato da Berlusconi e dalle sue Tv ha dilatato al contempo i risentimenti dei dannati e lo sprezzo dei salvati, sostituendo lo Stato sociale con la compassione o l’ignoranza. Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, ha detto in Tv: «Se un uomo a 37 anni non può pagarsi il mutuo è colpa sua: vuol dire che è un fallito». Nemmeno gli avversari del ‘68 usavano aggettivi simili. Negli italiani è stata svegliata nell’ultimo decennio, e nutrita, ingigantita, la parte peggiore. È come quando, nel febbraio 1932, il socialdemocratico Kurt Schumacher denunciò l’attacco di Goebbels ai socialdemocratici-partito dei disertori: «Tutta la propaganda nazionalsocialista è un costante appello alla brutta canaglia interiore ( Schweinehund) che abita ciascun uomo».
Il desiderio del Censis
di Ida Dominijanni (il manifesto, 04.12.2010)
Dopo la sfiducia (annunciata) dei finiani e della diplomazia internazionale, su Silvio Berlusconi si abbatte ora anche quella del Censis. L’icona dell’individualismo, del consumismo, dell’uomo solo al comando si è rotta, annuncia Giuseppe De Rita; un lungo ciclo - economico, politico, sociale e psicologico - si è concluso, lasciando sul campo fragilità e depressione, nelle vite singolari e nella vita collettiva. Un’altra bufala, commenterà l’Immarcescibile. E invece, come al solito la diagnosi del Censis centra il punto, va presa sul serio e soppesata.
Dopo averci avvertito, negli ultimi anni, che eravamo diventati una cosa a metà fra una mucillagine malinconica e una compagnia di replicanti in apnea, De Rita mette da parte gli attrezzi della sociologia e prova con quelli della psicoanalisi.
Quello che ci paralizza, dice, è qualcosa di più profondo della contabilità economica o di un trend che va storto: è un grumo inconscio, che annoda il rapporto fra desiderio e legge producendo una società priva dell’uno e dell’altra, del desiderio e della legge, i quali o vivono in una tensione reciproca o muoiono entrambi. Fonte evidente ma non dichiarata la letteratura post-lacaniana sull’eclissi dell’Edipo - in particolare il lavoro di Massimo Recalcati, ben noto a lettori e lettrici del manifesto -, De Rita riconduce a questo grumo la «sregolazione pulsionale», così la chiama, di una società priva di bussola, in cui al desiderio si sostituisce il godimento immediato e all’autorità della legge simbolica si sostituisce la frammentazione inefficace dei poteri e delle norme. Consumismo - degli oggetti e dell’altro ridotto a oggetto, delle merci e del sesso ridotto a merce: ricorda qualcuno? -, edonismo, narcisismo, egoismo, e insieme illegalità diffusa, criminalità, investimento immaginario su una leadership tanto personalizzata quanto impotente: il catalogo è questo, la fotografia del berlusconismo è calzante, e anche il grumo inconscio individuato è quello giusto.
Tuttavia il discorso è scivoloso. Lo sa lo stesso De Rita, quando passa dalla diagnosi alla terapia e scongiura la scorciatoia di una risposta che consista solo in un rafforzamento della legge (o nella litania «più legge, più merito»): la caduta della legge simbolica non si arresta con la stretta delle leggi repressive; non è di autoritarismo che ci sarebbe bisogno ma di autorità, e «non esistono in Italia quelle sedi di auctoritas che potrebbero o dovrebbero ridare forza alla legge». Per De Rita infatti è piuttosto sul secondo tasto che bisognerebbe battere, cioè sul rilancio del desiderio: «tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita». Senonché anche il desiderio non si lascia rilanciare da un’esortazione, e tantomeno da un dovere civile. E in una situazione politica come la nostra, in cui allo stato di illegalità permanente instaurato da Berlusconi si tende a contrapporre solo la parola d’ordine di una legalità-feticcio, è più che probabile che l’analisi del Censis porti a battere non sul secondo tasto ma sul primo.
Si scivola facilmente anche su un altro punto del discorso, quando De Rita riconduce il «soggettivismo» di Berlusconi alla scoperta della soggettività operata dal 68 e dal femminismo: non che siano la stessa cosa, ma «la libertà di essere se stessi» allora conquistata «ha trovato in Berlusconi colui che l’ha cavalcata». Cavalcata, o rovesciata nel suo contrario, traducendo la libertà politica in libero mercato e la soggettività in individualismo? La domanda cruciale è questa, e anche qui non sono ammissibili scorciatoie del discorso, salvo avallare reazioni come quella di Sacconi, il quale infatti coglie la palla al balzo per sentenziare che sì, emerge «un certo nichilismo» dal rapporto del Censis, ma «nasce dai cattivi maestri, figli degli anni Settanta, e va contrastato con i valori tradizionali».
Sono i rischi di un’applicazione troppo meccanica del discorso psicoanalitico al discorso sociale e politico. Meglio incassare intanto le molte fini decretate dal Censis: fine della leadership troppo personalizzata, fine del mito della governabilità e del decisionismo, fine della fede nei miracoli dell’unto dal Signore, fine della credenza nelle magnifiche sorti di un capitalismo che satura sfornando oggetti di consumo. E accogliere l’auspicio di una nuova forma di leadership politica, che sappia puntare sulla responsabilità diffusa. E che più che della dinamica desiderio-legge, che non è nelle sue mani, si occupi di arrestare il piano inclinato su cui il Censis, di anno in anno e ogni anno di più, fotografa impietosamente il paese.
Senza legge né desiderio. L’Italia sfiduciata del 2010
Il 44esimo rapporto Censis più che un’analisi socio-economica è una seduta di psicoterapia collettiva.
De Rita: «Chi governa dia agli italiani il senso della responsabilità». Il 70% non vuole più poteri al premier.
Il tramonto del «soggettivismo» e carisma del leader: Berlusconi «icona» di un ciclo finito
Il rapporto Censis mostra un Paese «appiattito», senza regole, preda di «facili impulsi sessuali»
di Federica Fantozzi (l’Unità, 04.12.2010)
E finì che ad essere sfiduciata fu l’Italia. Parafrasando Almodovar: un Paese senza più legge né desiderio. È il quadro fosco, e a tratti grottesco, che emerge dal rapporto Censis 2010. L’Italia che per resistere alla crisi si è ripiegata: «appiattita» e priva di pulsioni vitali, preda di comportamenti sregolati come bullismo e «facili godimenti sessuali», dove il «desiderio è esangue» perché schiacciato dalla preponderanza dell’offerta (inutile), dal sesto telefonino al millesimo corso universitario.
Più che un’analisi socio-economica, un’inquietante seduta di psicoterapia collettiva. Che mostra un Paese confuso e per niente felice. Ma certifica anche, attraverso la disillusione verso concetti chiave come «leaderismo» e «carisma», la fine di un ciclo politico iniziato 50 anni fa. Il 71% degli italiani non crede che attribuire più poteri al premier risolverebbe i problemi. Si sono sgonfiati a confronto con la realtà gli annunci mediatici del governo: la social card, il piano casa taumaturgico per il rilancio dell’edilizia, la lotta alla povertà, l’ormai mitica autostrada Salerno-Reggio Calabria. Prima di Berlusconi in Parlamento, insomma, pare che sia finito il berlusconismo nelle teste delle persone.
Spiega il presidente del Censis Giuseppe De Rita che la gente non si lascia più sedurre dal «soggettivismo» incarnato prima da Craxi, il decisionista che non voleva mediare con la Dc, e perfezionato da Berlusconi «che aveva anche l’ultimo step: i soldi».
Un’epopea cominciata in realtà prima, «con la rivendicazione di Don Milani della libertà di essere se stessi, che Berlusconi non ha creato ma cavalcato», e con le lotte femministe degli anni ‘70, le nuove leggi sull’aborto e sul divorzio: «Verticalizzazione e mediatizzazione del potere hanno esaurito la forza vitale». Il Cavaliere «icona del soggettivismo» a fortiori.Non è soltanto il fallimento del “ghe pensi mi”: è la tragedia dell’Uomo del Fare che nulla ha fatto agli occhi degli elettori.
Cosa resta? Una classe politica «litigiosa e poco focalizzata sui problemi strutturali». Una Pubblica Amministrazione che, con buona pace di Brunetta, non funziona e non convince.
Un’opinione pubblica «delusa e poco coinvolta». Una società cristallizzata nello stagno della triade minimalista: mattone, polizze assicurative, risparmi. Un’economia che, in controtendenza mondiale, anziché fare perno sull’autoimprenditorialità, la flessibilità di orari, il modello aziendale con partecipazione dei lavoratori agli utili, si confina da sé nel recinto sicuro del lavoro dipendente. Un’evasione fiscale che non si può più ignorare perché sono i «virtuosi» a pagarne il pegno.
Ancora: una fetta impressionante di giovani, 2 milioni e 242mila tra i 15 e i 34 anni, che non studia né lavora né cerca impiego. Secondo la metà degli italiani (tra cui il ministro Sacconi che però lo imputa ai residui del ‘68) lo fa perché rifiuta occupazioni faticose o poco prestigiose. Una scuola mortificata dove il 53% degli istituti si arrabatta ricorrendo al contributo volontario delle famiglie per sopravvivere. Dulcis in fundo: carceri invivibili con sovraffollamento al 150%, immigrati che cominciano a essere disoccupati, il pericolo che in tempi di ristrettezze la criminalità organizzata infetti ulteriormente il già non solidissimo tessuto sociale. Siamo «fragili» come persone e come massa, «spaesati, indifferenti, cinici, egoisti e narcisisti, prigionieri dei media».
Come uscirne? La ricetta di De Rita è secca: «Bisogna ritrovare energie e impulsi vitali. Chi si pone come leader non dovrebbe presentarsi con un’offerta proliferante su tutto ma dovrebbe avere la forza e il coraggio di ridare agli italiani il senso della loro responsabilità e della loro voglia».
Dalla Grande Illusione, insomma, alla Grande Passione. «Stiamo diventando una società con poco vigore perché abbiamo poco spessore». Servono leggi, regole, istituzioni rispettate e non picconate. Ritrovare il senso delle collettività partendo però dai singoli. Perché il 44% individua negli evasori fiscali il male principale del nostro sistema. Ma il 34% ammette di rinunciare volentieri a scontrino o fattura in cambio di uno sconto.
Marc Augé: «Rendiamo eterno il presente per paura del futuro»
L’antropologo francese parla del «nontempo» che caratterizza la nostra epoca e dei rischi di una società globale divisa in classi che ci porterà verso una pericolosa «oligarchia planetaria» piena di disuguaglianze
di Flore Murard-Yovanovitch (l’Unità, 07.10.2010)
Immigrazione e Rom. «Non esiste una “questione Rom”, ma una cattiva accoglienza dei Rom. Quanto alla multietnicità è un fenomeno naturale» L’ultimo suo appuntamento italiano è stato il Festival della Filosofia svoltosi il mese scorso a Modena Carpi e Sassuolo. Ma non sono i «luoghi» a interessare Marc Augé, e neanche il tempo... Al «nonluogo», il neologismo da lui coniato nel ’92, ha ora aggiunto il «nontempo», ovverosia il presente eterno che caratterizza questa nostra epoca recente.
Abbiamo incontrato il celebre antropologo francese in un nonluogo e nel nontempo per chiedergli uno sguardo sulla costruzione di un’Europa multietnica, sulle attuali reazioni di xenofobia che Francia e Italia hanno in comune e sul tema della diversità.
Professor Augé, cominciando dal presente, che fine ha fatto l’idea di uguaglianza nella società contemporanea?
«A livello globale c’è più ricchezza, ma non funziona il meccanismo di redistribuzione e il divario tra ricchi e poveri sta aumentando in modo vertiginoso. La società globale verso cui andiamo è irriducibilmente divisa in classi. Non puntiamo, perciò, verso una “democrazia planetaria”, come pensa Fukuyama, bensì verso una “oligarchia” planetaria... Con il rischio di una disuguaglianza inimmaginabile oggi, perché riguarda soprattutto la conoscenza, tra quelli che saranno alla punta del sapere e quelli chiusi in una permanenza del non sapere».
Ma c’è ancora un futuro, visto che nel suo recente libro «Che fine ha fatto il futuro?» parla del «nontempo» che sarebbe davanti a noi?
«Oggi c’è una sorta di ideologia del presente, si parla molto meno del “tempo”. Siamo accerchiati da strumenti di comunicazione che ci bombardano di messaggi e di immagini. C’è una istantaneità che, combinata alla sovrabbondanza visiva, dà l’impressione di essere rinchiusi dentro una specie di presente “artificiale”, eterno».
Dalle sue parole sembra che siamo condannati all’«eterno ritorno dell’uguale» di nietzschiana memoria...
«È solo una impressione, che corrisponde alla nostra paura del futuro. Anche se la storia e la scienza vanno avanti velocemente, c’è come una sorta di rifiuto del presente. Abbiamo la coscienza che il pianeta è fragile, i nostri sogni di benessere non si realizzano, non c’è uguaglianza sociale e la storia è violenta. Ne sembriamo sorpresi, allorché la storia è sempre stata violenta».
Come spiega che, nonostante il suo tragico passato di nazismo e fascismo, in Europa stiano riapparendo discorsi e atti xenofobi?
«C’è una crescita dei movimenti di estrema destra in Europa occidentale e nei paesi ex comunisti, come avevo già segnalato anni fa. L’Occidente ha una sua reazione di paura, ma non è l’unica, anche altri sono violenti. Ci sono ideologie mortifere nell’ombra, situazioni di tensione che purtroppo possono essere facilmente strumentalizzate».
A questo proposito, esiste una reale «questione Rom» o è una costruzione mediatica e politica?
«Non c’è un “problema Rom”, ma una questione di cattiva accoglienza dei Rom. Le strutture abitative non sono all’altezza, non hanno nemmeno decenti connessioni energetiche di base. Invece ci sarebbero cospicui finanziamenti europei per creare una degna politica di integrazione, ma essi sono sottoutilizzati e persino non utilizzati dai governi. D’altro canto, è una questione fittizia, dal momento che i rumeni sono comunitari, liberi di tornare quando lo desiderano, e che in Francia, i due terzi della cosiddetta “gente del viaggio” sono cittadini francesi. L’argomento, almeno nel mio Paese, è bassamente elettorale, in vista delle prossime elezioni».
Ma in Europa c’è, in generale, un attacco all’essere umano diverso, all’immigrato...
«L’Europa è cambiata molto con l’immigrazione, è in corso un inedito rinnovamento della popolazione. Basta scendere nella metro parigina e la multietnicità salta agli occhi. Ma solo quando ci sono crisi o incidenti, si parla, e in termini negativi, della diversità... Quando invece si potrebbe riconoscere come essa sia “accaduta” in modo del tutto naturale e con una positività dei nuovi rapporti interculturali. Non sono convinto, d’altronde, che il fenomeno di rifiuto del diverso sia maggioritario.
Con questi presupposti, quale rivoluzione culturale e politica è auspicabile?
«L’espressione “rivoluzione culturale” è troppo connotata storicamente. Fermo restando che la nozione di cultura e quella di rivoluzione dovrebbero essere sinonimi. La cultura dovrebbe essere sempre critica se non rivoluzionaria. La cultura non è lo specchio dell’esistente ma la sua disamina, la sua messa in causa; dovrebbe essere attenta, vigile. La cultura non è apolitica. E la politica, come la morale, dovrebbe ispirarsi alla scienza, che è il contrario della ideologia: fondarsi sullo stesso spirito della ricerca, prospettare ipotesi, cercare soluzioni anche provvisorie, formulare idee nuove, senza basarsi sui modelli del passato. Per questo faccio anzi l’elogio del futuro».
*
Chi è. Lo studioso che ha «inventato» il nonluogo
MARC AUGÉ Già Directeur d’études presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, dopo aver contribuito allo sviluppo delle discipline africanistiche ha elaborato un’antropologia della pluralità dei mondi contemporanei attenta alla dimensione rituale del quotidiano e della modernità. Ha inoltre focalizzato la sua attenzione su una serie di esperienze contemporanee che attraversano la progettazione urbanistica, le forme dell’arte contemporanea e l’espressione letteraria.
Tra le sue opere tradotte di recente: «Rovine e macerie» (Torino 2004); «Perché viviamo» (Roma 2004); «Tra i confini. Città, luoghi, interazioni» (Milano 2007); «Il mestiere dell’antropologo» (Torino 2007); «Il bello della bicicletta» (Torino 2009); «Il metrò rivisitato» (Milano 2009); «Che fine ha fatto il futuro? Dai non luoghi al nontempo» (Milano 2009). È componente del Comitato Scientifico del Consorzio per il festivalfilosofia.
L’Ocse rivela un record italiano: in un caso su due il reddito dei genitori
incide sulla vita degli eredi. Un genitore laureato è garanzia di un buon salario
Siamo il Paese dei figli di papà
lo stipendio è un fatto ereditario
di MAURIZIO RICCI *
ANDATE nel reparto maternità di qualsiasi ospedale. Guardate due culle vicine. I due neonati sembrano uguali, ambedue sani, vispi, vitali. Ma voi siete già in grado di dire che quello a sinistra, da adulto, guadagnerà almeno il 20 per cento in più di quello a destra, 2.500 euro al mese, ad esempio, invece di 2 mila. Come fate a dirlo? Semplice, quello a sinistra è figlio di un ingegnere. Non che quello a destra sia figlio di un barbone. Suo padre, in fondo, è ragioniere. La distanza fra i due titoli di studio paterni non sembra un abisso: ma è sufficiente per prevedere, con buona approssimazione, i loro, futuri, rispettivi redditi. Del resto, il bambino ancora più a destra, da adulto, porterà a casa non più di 1.500 euro al mese: suo padre è un operaio, che non è andato al di là delle medie inferiori.
E’ l’instantanea di una società immobile, pietrificata, con gerarchie sociali ed economiche pressoché immutabili, dove il merito individuale conta poco e in cui, dunque, salire la scala è una possibilità minima e precaria. In buona misura, lo sapevamo già, ma adesso lo certifica l’Ocse, l’organizzazione che raccoglie i paesi industrializzati, in uno studio di prossima pubblicazione ("A Family Affair"), che esamina, dati e statistiche alla mano, la mobilità sociale tra le generazioni, nei paesi ricchi del mondo. Ne risulta una spaccatura netta fra chi (Australia, Canada, paesi nordici) tende ad avere una mobilità sociale vivace e chi, invece, ne registra una lenta e faticosa: i paesi mediterranei e altri, che siamo abituati a considerare "democrazie avanzate", come Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna. Ma l’Italia va a collocarsi nel gruppo di testa della vischiosità sociale in quasi tutti i parametri considerati. E il futuro non appare migliore, visto che uno dei punti positivi, rispetto ad altri paesi, per la mobilità italiana (la scuola pubblica) appare oggi incerto, alla luce delle direzioni di riforma del sistema scolastico nazionale.
Quanto pesa, dunque, lo stipendio di papà? In Italia, per quasi il 50 per cento. Questa, dicono le statistiche raccolte dall’Ocse, è la misura in cui il reddito dei figli riflette in Italia quello dei genitori. Nel senso che, in media, metà del vantaggio di reddito che un padre che guadagna molto ha su uno che guadagna poco si trasferisce comunque, automaticamente - a prescindere dai talenti e dalle storie individuali - al proprio figlio. La percentuale è appena superiore in Gran Bretagna e appena inferiore in Francia e Stati Uniti. In Danimarca, Australia, Norvegia, questa trasmissione, per così dire, ereditaria non arriva al 20 per cento. Il risultato è il divario nei redditi, a seconda delle famiglie di provenienza. Avere un papà laureato, ad esempio, è una sorta di polizza assicurativa. Non solo perché, in Italia (con uno scarto vistoso rispetto a Francia e Inghilterra), il figlio dell’ingegnere ha quasi il 60 per cento di possibilità in più di laurearsi come papà, rispetto al figlio dell’operaio e oltre il 30 per cento, rispetto al figlio del ragioniere. Ma perché la laurea in famiglia sottintende un background culturale e sociale più favorevole. E, dunque, il figlio di un laureato italiano (si laurei o meno egli stesso) guadagnerà, in media, il 50 per cento di più del figlio di uno che si è fermato alle medie inferiori. Va peggio - per chi ha il padre che ha lasciato presto la scuola - solo ai portoghesi e agli inglesi. In Francia, questa dote scolastica preaccumulata è del 20 per cento. In Austria e Danimarca, non arriva al 10.
Molti parlerebbero di giustizia sociale, ma questo non è un problema dell’Ocse. Una società in cui tutti, nel bene e nel male, sono - e restano - "figli di papà" è, per l’organizzazione dei paesi ricchi, anzitutto un problema economico: un immane spreco di risorse. "Primo - dice lo studio - società meno mobili tendono più facilmente a sprecare o utilizzare male talenti e capacità. Secondo, la mancata uguaglianza di opportunità può influenzare le motivazioni, gli sforzi e, alla fine, la produttività dei suoi cittadini, con effetti negativi sulla efficienza complessiva e sul potenziale di crescita dell’economia". Forse, c’è anche l’immobilismo sociale a spiegare il lungo ristagno dell’economia italiana, dagli anni ’90 ad oggi. A moltiplicare la vischiosità dell’impianto sociale italiano c’è, infatti, una distribuzione vistosamente ineguale del reddito e della ricchezza di partenza. L’Ocse conclude che più è alta l’ineguaglianza sociale in un paese, più il paese è immobile. E l’Italia è uno dei paesi a più alto tasso di ineguaglianza, in Occidente.
I due dati - l’immobilismo e l’ineguaglianza - e i loro effetti sull’economia bruciano. Tanto di più, perché i timori dell’Ocse sullo spreco di risorse sono fondati sui numeri. Se è vero che il figlio di un laureato ha maggiori probabilità di laurearsi a sua volta e, comunque, di guadagnare di più, status sociale non significa affatto, in Italia, essere più brillanti a scuola. Nella classifica dell’Ocse, l’Italia (al contrario, ad esempio, di Usa, Francia, Germania e Gran Bretagna) è uno dei paesi in cui l’ambiente familiare ha meno influenza sui risultati scolastici, misurati dai test internazionali sulle capacità scientifiche degli studenti: il figlio dell’ingegnere non se la cava meglio del figlio dell’operaio in matematica. Più neutrali di noi, sotto questo profilo, sono solo canadesi, coreani e qualche paese nordico. Frutto, probabilmente, di un sistema scolastico pubblico ancora sostanzialmente omogeneo e socialmente integrato. In cui, cioè, non si apre un fossato fra scuole d’eccellenza e scuole di risulta e in cui è facile che il compagno di banco del figlio dell’ingegnere sia il figlio dell’operaio. Con vantaggi per tutti: lo studio registra che aumentare il mix sociale all’interno delle scuole può migliorare i risultati degli studenti economicamente svantaggiati, senza che appaiano effetti negativi sui risultati complessivi. L’Ocse insiste sugli effetti che il sistema scolastico ha nel compensare l’influenza del background familiare sui risultati scolastici del singolo studente. Da questo punto di vista, tuttavia, le ultime iniziative in materia di riforma della scuola italiana sembrano andare in direzione opposta a quella caldeggiata nello studio. L’Ocse, ad esempio, sottolinea che un sistema che spinga gli studenti ad anticipare la separazione fra i diversi percorsi di formazione si traduce, normalmente, in una maggiore influenza dell’ambiente familiare sui risultati scolastici. Analogamente, lo studio suggerisce che il proliferare delle opzioni fra diversi corsi alternativi finisce per esaltare l’importanza del background familiare di partenza sui risultati scolastici.
Il paradosso italiano è che preoccuparsi di assicurare a tutti uguali opportunità scolastiche, a prescindere dalla famiglia, finisce per apparire, alla fine, inutile. E’ come se il successo a scuola e quello nella vita, nel lavoro e nel reddito, fossero l’esito di due campionati diversi, separati, distinti e incomunicanti. Non solo, infatti, buona parte del futuro è già scritta nello stipendio di papà, ma dannarsi per studiare sembra servire a poco: a sentire gli economisti, in Italia, il grosso degli avanzamenti di carriera, nel nostro paese, è legato più ad anzianità ed esperienza che livelli di istruzione e competenza. E, d’altra parte, la catena delle rigidità è, probabilmente, più lunga di quello che appare dallo studio dell’Ocse. Qui entra in campo non solo lo stipendio di papà, ma anche quello di nonno. Se, infatti, il mio futuro si gioca fin da subito, sul reddito di famiglia, non ci sono possibilità che papà diventi ricco, spargendo promesse sulle future generazioni? La risposta è: scarsissime. La mobilità intergenerazionale in Italia è bassa, anche perché è bassa quella intragenerazionale. In parole più semplici, i redditi dei figli tendono a replicare quelli dei padri, perché è assai raro, statisticamente, che qualcuno modifichi, in modo significativo, le proprie condizioni di partenza, diventando molto più ricco (o più povero). Se la prima cosa la dice l’Ocse, la seconda la dice la Banca d’Italia. Fra il 2000 e il 2008, meno di una famiglia ricca su 100 è diventata povera. E solo una famiglia povera su 50 è diventata ricca. Oltre l’80 per cento dei poveri è rimasta povera o quasi. E quasi il 90 per cento dei ricchi è rimasto, più o meno confortevolmente, ricco.
© la Repubblica, 03 marzo 2010
Nel suo ultimo libro l’antropologo francese spiega i pericoli di un mondo da cui viene
espulsa qualsiasi narrazione distruggendo il senso degli avvenimenti
LA DITTATURA DEL PRESENTE
Marc Augé "Così la storia viene abolita"
Viviamo un tempo chiuso, orfano delle lezioni del passato e delle speranze dell’avvenire
I migranti espropriati della propria identità si devono riappropriare dei miti dell’origine
di Michele Smargiassi (la Repubblica, 20.10.2009)
Ogni impero sogna di abolire la storia. Saper fermare il tempo è la prova d’esame del potere assoluto: riuscire a cancellare assieme il rimpianto del passato e la speranza del futuro è la sua garanzia di perennità. Così ogni dittatura sul presente inaugura, inevitabilmente, una dittatura del presente. Ed è questa "presentizzazione" assoluta la minaccia che Marc Augé intravede dietro la maschera ottimista della globalizzazione e la sua eccitante coalescenza di tempi e di spazi. Un destino che l’"etnologo nel metrò" paventa e denuncia in questo suo ultimo Che fine ha fatto il futuro? (Elèuthera, 110 pagine, 12 euro; ma il calembour del titolo originale, Où est passé l’avenir?, allude anche alla scomparsa del passato).
Già da questi accenni si dovrebbe capire che nonostante la sua mole esigua non si tratta di un libro semplice. Va letto tutto con attenzione, tranne il sottotitolo inventato dall’editore italiano, Dai nonluoghi al nontempo, infondato (nel testo la parola nontempo non compare neppure una volta) e anzi dannoso perché accetta di ridurre una definizione seriamente fondata - nonluoghi - il cui travolgente successo ha rischiato di sommergerne la genialità, a una formula rivendibile all’infinito sotto copertine sempre nuove. Non è così, per nostra fortuna.
Che fine ha fatto il futuro? è un libro intenso, percorso da tensione etica e anche politica, che forse deluderà chi si è fatto di Augé l’immagine semplificata di un antropologo del quotidiano alla divertita esplorazione di metropolitane, aeroporti e parchi gioco. Che fine ha fatto il futuro? è invece un testo dall’orizzonte filosofico, ed è forse quello in cui Augé prende più nettamente le distanze dall’interpretazione postmodernista della contemporaneità, di cui pure condivide il presupposto, ovvero che là dove la modernità aveva distrutto ogni mito delle origini, la postmodernità ha distrutto anche ogni utopia avvenirista.
Ma nel suo en tusiasmo per la presunta libertà che la «fine delle narrazioni» ci donerebbe, il postmodernismo sembra ad Augé «la versione cool ed ecologista della "fine della storia"». Alla postmodernità ottimista Augé contrappone la preoccupata visione di quella che chiama, non da oggi, surmodernità, frutto del collasso dello spazio e dell’accelerazione del tempo in un pianeta sovracomunicante. Questo presente orfano delle lezioni del passato e delle speranze nel futuro, insomma, non gli appare affatto più leggero di prima, ma più denso, claustrofobico, saturo fino alla nausea dei surrogati della storia perduta: le immagini rese ubique da Internet, le rovine (che dissociano il senso del tempo dal suo scorrere), il turismo che unifica geografia e cronologia riducendo entrambe a spettacolo. Questo presente è prepotente ma fragile, oppresso com’è da ansie e paure. La prima e più terrificante delle quali, ovviamente, è la resurrezione di ciò che si è cercato di abolire: la storia.
Ogni società dominata dal presente teme l’evento come la peste. Lo esorcizza fin che può, sciogliendolo nelle spiegazioni di lungo periodo, negandone l’unicità e la rilevanza. Quando non può, perché l’evento è troppo poderoso, allora il potere cambia strategia: per reagire all’insopprimibile eventualità dell’11 settembre George W. Bush resuscitò un cadavere sepolto da oltre sessant’anni, la dichiarazione di guerra (al Terrore), che è sempre stata la regina della storia évenémentielle, ma ora diventa il suo opposto, il ritorno alla rassicurante continuità (era una guerra enduring, perenne), evento che nega l’evento e promette di risolverlo e annullarlo.
Ma proprio per questo la sfida si fa più dura e rischiosa. I frammenti di genere umano espropriati dalla storia, gli esiliati e i migranti costretti ad abbandonare la propria identità in un passato che viene ora dichiarato estinto, per rifondersi in identità straniere il cui futuro è programmaticamente bloccato, non hanno altra speranza di rivalsa se non riappropriarsi dei miti dell’origine come arma, e dei miti del futuro come programma d’azione, facendo ripartire la storia a colpi di eventi che non si possano sterilizzare, dunque sempre più violenti ed evidenti.
Augé, che resta un umanista, cerca di chiudere il libro su una nota di volonteroso illuminismo, immaginando «le condizioni di un’utopia dell’educazione» che disinneschino la bomba. Purtroppo, ben più realistica suona la sua profezia di poche pagine prima su ciò che sta maturando ai margini della surmodernità: «Se ciò da cui sono esclusi è la storia, non bisogna stupirsi se il rischio di vederli rientrare nella storia per le vie più pericolose e folli non è lontano».
Se l’outing fascista diventa di moda
di Daniela Amenta (l’Unità, 30.09.2008)
«Non ho vergogna a manifestare la mia fede politica. Del fascismo condivido ideali come la Patria». Parole di Christian Abbiati, portiere del Milan, poster preferito tra i ragazzini che tifano rossonero. L’outing arriva non propriamente imprevisto, dopo croci celtiche e svastiche da stadio. E dopo il saluto romano di Paolo Di Canio nel derby del 2005. Ieri, però, il quotidiano francese Le Monde ha inserito anche il romanista Alberto Aquilani tra i calciatori simpatizzanti «dell’estrema destra». Tre anni fa per Di Canio intervenne la Figc e così l’attuale commentatore Mediaset fu squalificato per un turno. Niente di più. Dalle curve fino nel cuore delle nostre città intrise di iconografia fascista. Scritte sui muri, tatuaggi, t-shirt. L’ultima “moda” è una placenta scura in cui galleggia la violenza, cresce la sostanza dell’intolleranza. Un’unica domanda: ma l’apologia di fascismo non era reato?
Aquile e duce, le bancarelle dei nostalgici
di Gioia Salvatori (l’Unità, 30.09.2008)
Gladio, aquila, busti del duce e fasci littori. Sulle bancarelle di souvenir del centro, nei mercatini storici e nei nuovi quartieri della capitale. Il gadget stile Ventennio a Roma spopola impunito.In piena movida notturna testaccina chi scrive, qualche mese fa, ha visto una mini-bancarella tutta dedicata al duce: busti, portachiavi a fascio littorio e teste con elmetto, impuniti erano in vendita a latere della strada dello struscio. Un caso sporadico. Ogni giorno, invece, nello storico mercatino di via Sannio, all’ombra della basilica di San Giovanni in Laterano, due o tre banchi vendono magliette con la faccia di Mussolini, insieme a T-shirt dei Led Zeppelin e dei Nirvana. Accanto sono pantaloni verde militare con tanto di cartuccere, giubbotti mimetici, cinghie nere e anfibi. Ce n’è per tutti quelli che vogliono spendere meno di 20 euro per look da curva e da strada «E magari quando si avvicina il primo maggio - racconta un ambulante - sugli stessi banchi spuntano pure le magliette del Che».
Sistematica la vendita del gadget nostalgico anche nel mercatino del weekend di via Conca d’Oro: Roma Nord, zona di palazzoni per lavoratori dipendenti a un passo dagli appartamenti bene del quartiere Trieste, il cui cuore nero, invece, è piazza Vescovio. Ogni sabato e ogni domenica mattina, a Conca d’Oro, tra l’usato e il nuovo di un mercatino che è una specie di Porta Portese in piccolo, spunta il banco dei nostalgici: elmetti stile III Reich, monete del ventennio, abbigliamento militare e quadri in bronzo del duce. Li comprano ragazzini che, in zona, racconta un militante della Fgci, se ne vanno a spasso con la foto di Mussolini nel portafoglio, magari senza sapere bene perché.
Poco lontano c’è la palestra popolare Primo Carnera, legata all’area movimentista, poi uscita dal partito, di Fiamma Tricolore. E sui muri, in una zona dove durante l’ultima campagna elettorale per le amministrative romane, non sono mancate aggressioni a gazebo del pd e minacce a militanti, la scritta politica imperversa: “Talenti nera” e “Vigne Nuove sostiene Fiamma Tricolore” e “rossi occhio”, tanto per dirne alcune.
Sulla stessa direttrice Nord, a ponte Milvio e, nella più centrale piazza Vescovio, non è meglio. Due anni fa fu proprio al liceo scientifico Farnesina di ponte Milvio, che Ft mise il cappello sull’occupazione scolastica. Fu la prima protesta studentesca tinta di nero della capitale, mentre Blocco studentesco, il braccio scolastico di Ft, schizzava in 12 mesi al 10 % di seggi nella consulta studentesca (organo di rappresentanza degli studenti medi) di Roma e provincia. E in zona, sui cartelli stradali e sui muri, simboli di Forza Nuova e Fiamme, non mancano mai. I busti del duce, invece, si trovano in centro tra souvenir e cartoline: a un passo dal Colosseo, magari sulle bancarelle degli urtisti di via dei Fori imperiali, o a un passo dalla stazione Termini, tra gadget kitsh e portachiavi a forma di Colosseo.
Internet. Il fiorente mercato di gadget e cimeli in rete
Vuoi i boxer con Benito? E vai su Ebay
di Alessia Grossi (l’Unità, 30.09.2008)
In tempi di maestro unico è possibile acquistare su Ebay.it per soli 2,6 euro un utilissimo «quaderno fascista della quinta elementare». Fascismo. Inserendo solo questa parola chiave su Ebay.it, il sito di commercio online più famoso al mondo, il motore di ricerca ti rilascia quasi tremila risultati. In italiano. Tremila oggetti all’asta per un insospettabile guardaroba nonché una nutrita libreria del ventennio. Così per pochi euro - fatta eccezione per quei gadget che vengono definiti «da urlo» - se sei un nostalgico puoi tornare a vestire, leggere e collezionare i vecchi fasti del tempo del duce con un solo click. Con una base d’asta che non supera quasi mai i 5 euro, infatti, hai a disposizione un corredo che va dalla «cuffietta italica» contro il vento della rivoluzione, ai boxer con faccione di Benito Mussolini proprio lì. Seguono t-shirt da ex giovane fascista, felpa con patacche di ogni genere, eleganti pantaloni alla zuava, arrogante cappotto con fascio littorio.
E non c’è bisogno che vi affrettiate. Per ora ci sono 0 offerte. Ma i venditori di cimeli che guardano al ventennio non si danno per vinti e anzi sono numerosi. Ciò può sconcertare, ma la barriera ideologica sulla rete è caduta ancor prima che nel senso comune, tanto per dire che sulla rete il mondo cammina più veloce, anche se non sempre va nella direzione giusta. Gli «oggetti caldi», come vuole il gergo dei compra - venditori di Ebay, infatti, sono quelli dedicati ai veri nostalgici. Quelli che Mussolini lo vogliono ovunque e che del fascismo vogliono ricordare ogni singolo precetto. Per loro Ebay vende una targa "come nuova": «Vietata la bestemmia e il turpiloquio». In vendita per soli 9,9 euro, invece, le «cartoline della propaganda fascista», anche queste utilissime, per gli auguri di Natale. E da abbinare alle medaglie, mostrine, spille a forma di lupa, distintivo originale della milizia, ecco le «divise originali» e il «fascio littorio». Per gli appassionati d’arte invece, irrununciabile la «statuetta del negretto» da mettere in salotto, chissà come mai unica nel suo genere ancora senza offerenti.
Il commercio «fascista» più fiorente su Ebay resta comunque quello librario. Insomma prima la cultura, le parole del duce, un «saluto raro del bambino balilla», un «autografo» con la M maiuscola e poi sotto il «mezzo busto» arriva l’investitura con tanto di «cinturone». Il tutto al modico prezzo di circa 100 euro, base d’asta. Se vi sembra poco fate un’offerta per il pezzo più caldo, il pugnale testa d’Aquila della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale modello 1937. L’asta parte sì da 1500 euro ma, pensate, «la lama non è mai stata pulita».
Intervista a: Guido Papalia.
Il procuratore: si segue la legge Mancino per manifestazioni di razzismo
«L’apologia non si applica mai»
di Massimo Solani (l’Unità 30.09.2008)
Procuratore Papalia, in Italia l’applicazione del reato di apologia del fascismo è rimasta praticamente monca. Cosa prevede la legge?
«Il reato, previsto dalla legge Scelba del 1952, in Italia è stato in realtà applicato ben poco. Questo anche perché la Cassazione ha richiesto che venisse accertato anche il pericolo di suscitare incitamento verso coloro che seguono queste manifestazioni o ascoltano questa propaganda. Serve insomma un riconosciuto pericolo per le istituzioni causato da simili comportamenti».
Una discriminante che ne ha reso particolarmente difficoltoso il riconoscimento?
«In qualche caso il pericolo verso le istituzioni è stato ravvisato, ma molto di rado. È successo per una persona armata di manganello che durante un comizio elettorale si era esibita in un saluto romano. E ancora per un gruppo di imputati che dopo la condanna si alzarono in piedi e gridarono “Sieg heil”. In quei casi si ritenne che simili comportamenti potessero suscitare in chi li ascoltava un desiderio di emulazione pericoloso per le istituzioni democratiche. Senza questo rischio si ritiene che l’apologia del fascismo non esista. Ma onestamente non so se questo orientamento sia corretto».
Ma la legge Scelba è l’unico argine verso simili comportamenti?
«Esiste una norma introdotta dalla Legge Mancino che punisce chiunque in pubbliche riunioni compia manifestazioni esteriori o ostenti simboli propri di organizzazioni fasciste o razziste. In questi casi non serve il rischio per le istituzioni, e infatti la Cassazione nel 2007 ha condannato alcuni tifosi che allo stadio Olimpico avevano esposto una bandiera con un fascio littorio».
È sufficiente? Ritiene che la legislazione italiana sia adeguata?
«La normativa è severa e colpisce duramente i fenomeni di razzismo, prevedendo una aggravante apposita. In particolare la legge Mancino, se interpretata in maniera fedele, condanna tutte quelle manifestazioni che tendono a propagandare, stimolare e diffondere idee di discriminazione razziale. Una norma che consente anche una applicazione piuttosto ampia, nonostante nel 2006 alcune modifiche ne abbiano ridotto l’efficacia diminuendo anche la sanzione penale prevista».
L’abolizione della legge Mancino o il suo depotenziamento è un cavallo di battaglia della destra e della Lega.
«Perché si confonde la libera manifestazione del pensiero con comportamenti che rappresentano aggressioni alla libertà e alla dignità altrui».
Linea di confine
Non basta una strada
Craxi, tema ineludibile
di Mario Pirani (la Repubblica, 4 gennaio 2010, p. 23)
La diatriba toponomastica a dieci anni dalla morte di Craxi andrebbe messa da parte. Svilisce un dibattito ineludibile perché grava ancora sulle nostre attuali vicende e seguiterà a pesare fino a quando le reciproche accuse non saranno metabolizzate.
Basterebbe por mente al fatto, ai limiti di un paradosso mai davvero esplorato, che l’ultima scissione all’interno della sinistra, a partire da quella del 1921, è stata quella che ha visto una grossa aliquota di dirigenti e di elettorato socialista passare in blocco nelle file di Forza Italia.
Per chi, come il sottoscritto, ha da sempre giudicato del tutto stravolgente e inaccettabile l’entrata nell’arena politica del padrone delle Tv, sarebbe fin troppo facile unirsi al coro e bollare la deriva socialista come l’esito di una propensione antropologica al tradimento di classe, ad una conversione al berlusconismo, ad un mutamento genetico derivante per naturale ascendenza dal craxismo, E chiuderla ancora una volta qui. Senza mai fare i conti con l’altrettanto naturale e permanente antisocialismo che i comunisti e i post comunisti, si portano dentro la pancia da sempre, con zoologica continuità: da quando disprezzavano Turati e appellavano Pietro Nenni di social-fascista , fino alle recenti trasformazioni (Cosa uno e due, Pds e Pd) che ha visto svalutato e irriso ogni apporto socialista restato fedele alla sinistra, impersonato, per ricordare qualche nome, da Giuliano Amato e Giorgio Ruffolo, da Rino Formica e Giorgio Benvenuto, fino ai sindacalisti della Uil che aderirono al Pds, e così via. Sprezzati e messi da canto per una ragione di fondo: la permanenza di una scelta che respingeva il nome stesso di socialismo , (passaporto per l’Europa poi, smarrito per strada) ma impronunciabile per denominare il "nuovo" partito in Italia.
La spiegazione esiste: la scelta, da Berlinguer
ad oggi, è rimasta sempre quella di privilegiare l’alleanza, fino alla
fusione, con la sinistra cattolica e respingere l’unità con il socialismo
democratico. Questo ha portato ad un riformismo azzoppato, timoroso di ogni
ostilità sulla sinistra, da quella di Di Pietro a quella della Fiom, e,
soprattutto, lo ha amputato della sua indispensabile funzione a difesa del
laicismo, nello Stato e nella società.
Come non capire che anche tutto questo
ha contribuito alla
deriva di milioni di socialisti verso la sponda d’approdo
berlusconiana?
La questione di Craxi s’intreccia con tutto ciò . Non ho spazio per approfondirla qui. Annoto solo l’intuizione storica di una riconquista di uno spazio autonomo del Psi, succubo fino al 76 della preminenza comunista, avvalorata dal consociativismo berlingueriano con la sinistra Dc, era una necessità per l’Italia. Anche la dilatazione del deficit pubblico fu spinta dal consociativismo e dalla invadenza sindacale che ne derivava.
Senza autonomia e peso autonomo del Psi nel governo di centro-sinistra, non ci sarebbe stata la svolta storica della scala mobile e l’inversione di una inflazione devastante, così come non ci sarebbe stata una scelta europeista epocale, quando Craxi, al Vertice di Milano dell’85 impose il voto a maggioranza contro la Thatcher per passare al Mercato unico; così come fu decisivo il suo intervento per permettere contro il Pci, l’installazione degli euromissli in Italia a fronte di quelli installati da Breznev, puntati sull’Europa per ricattarla.
Per far questo occorreva un partito dotato anche di autonomia economica. Di qui la scelta rovinosa delle tangenti, gli arricchimenti, gli scandali nel clima di cinismo real politik inalberato dal Capo. il giudizio, però, si è squilibrato da una parte sola: tutta la vita italiana era condizionata dai costi impropri della democrazia: la Dc inponeva tangenti pubbliche, il Pci riceveva i soldi prima dall’Urss e poi delle cooperative. Ma il marchio dell’immoralità è finito solo su Craxi. Il codardo insulto sfiorò persino i miglioristi del Pci, accusati di filocraxismo. Una ingiustizia storica che duole ancora.