Postcolonialismo e Mente accogliente. L’io e l’altro ... e il traduttore ("dia-logica-mente") - non il traditore ("dia-bolica-mente")

IDENTITA’, LINGUE E NAZIONI. AL DI LA’ DELL’IMPERIALISMO: CO-FIGURAZIONE DI UN NUOVO "UNO", DI UN NUOVO "SOGGETTO MOLTITUDINARIO". Un’intervista con Naoki Sakai di Giulana Benvenuti e Paolo Capuzzo - a cura di pfls

mercoledì 27 febbraio 2008.
 
[...] La questione della soggettività, nell’orizzonte moderno, è stata tradizionalmente posta nei seguenti termini: come una o più persone rappresentano sé a se stesse. Quando parlo di «co-figurazione» voglio introdurre una dimensione dialogica nella questione della definizione dell’identità. Penso che dobbiamo chiederci in che modo la rappresentazione che gli altri danno di noi influenzi la costituzione dell’identità. Nel caso dell’Asia lo schema della «co-figurazione» ci mostra come il «noi» degli asiatici si sia formato storicamente attraverso la costruzione immaginaria di un «loro» da parte degli europei. Non dobbiamo tuttavia pensare una logica binaria, perché la costruzione dell’identità ha una natura dialogica che implica l’interazione di diversi soggetti con diversi livelli di relazione e di potere. [...]

-  naoki sakai

-  Quella traduzione del mondo nelle parole della sovranità

-  Il traduttore rende rappresentabile la differenza tra due lingue. In questo senso, è un soggetto in transito che tuttavia esercita un dominio perché è lui a decidere di mettere in comunicazione l’interno (la mia lingua) con l’esterno (la lingua dell’altro)
-  L’identità nazionale è l’esito di una relazione di potere e di adattamento che ogni paese stabilisce con le immagini dominanti di «national building». Un’intervista con lo studioso giapponese, animatore della rivista

di GIULIANA BENVENUTI E PAOLO CAPUZZO (il manifesto, 26.02.2008)

Nei giorni scorsi Naoki Sakai, uno dei più originali critici postcoloniali asiatici, ha partecipato a un convegno svoltosi a Rimini, dedicato alle prospettive internazionali su lingua, cultura e cittadinanza, e a un seminario bolognese.Sakai insegna negli Stati uniti, al Dipartimento di «Asian Studies»» della Cornell University, e si è occupato delle dinamiche politiche connesse alle relazioni di potere transnazionali, alle trasformazioni dello stato-nazione, ai concetti di moltitudine, soggettività e «razza», nonché al dibattito filosofico e linguistico sulla traduzione. Il suo viaggio in Italia ha rappresentato un’importante occasione per discutere le sue tesi sulla complicità tra globalizzazione e culture nazionaliste e per un confronto sulle identità interrelate di Asia ed Europa. Ma anche per porre al centro dela discussione pubblica un innovativo punto di vista sulla traduzione, elemento fondante non solo dell’analisi dei rapporti di potere del mondo globalizzato, ma anche della formazione di un nuovo «soggetto moltitudinario». Lo abbiamo incontrato dopo il seminario bolognese.

Nelle giornate di studio bolognesi ha introdotto il concetto di «co-figurazione» in riferimento al rapporto tra Europa e Asia. Può spiegare cosa intende con questo termine?

Credo che ogni definizione dell’identità sia in primo luogo una questione di identificazione e che l’Asia non sia un’eccezione. La questione della soggettività, nell’orizzonte moderno, è stata tradizionalmente posta nei seguenti termini: come una o più persone rappresentano sé a se stesse. Quando parlo di «co-figurazione» voglio introdurre una dimensione dialogica nella questione della definizione dell’identità. Penso che dobbiamo chiederci in che modo la rappresentazione che gli altri danno di noi influenzi la costituzione dell’identità. Nel caso dell’Asia lo schema della «co-figurazione» ci mostra come il «noi» degli asiatici si sia formato storicamente attraverso la costruzione immaginaria di un «loro» da parte degli europei. Non dobbiamo tuttavia pensare una logica binaria, perché la costruzione dell’identità ha una natura dialogica che implica l’interazione di diversi soggetti con diversi livelli di relazione e di potere.

Prendiamo l’esempio del Giappone. Nel Settecento si è posta la questione della nazione. Per il Giappone il riferimento nazionale era la Cina, ma alla metà dell’Ottocento il riferimento divenne la Gran Bretagna, che soppiantò decisamente il modello cinese. In questa fase storica il modello di identificazione aveva come principale riferimento la borghesia britannica, che divenne l’immagine dell’intero Occidente. Dopo la Seconda guerra mondiale l’Occidente, per i giapponesi, ha iniziato ad includere l’America e America significava esclusivamente Stati Uniti, non certo l’America Latina.

Oggi l’identità giapponese è ancora molto influenzata da come viene rappresentato l’Occidente e questo pone non pochi problemi perché il Giappone ha sempre avuto e continua ad avere relazioni importanti con paesi come la Corea e la Cina. Ma non è più chiaro come rapportarsi ad essi, visto che l’identità giapponese si è costruita nella relazione privilegiata con l’Occidente. E anche dall’altra parte vi sono difficoltà perché il Giappone è stato percepito come un paese facente parte dell’Occidente, come un impero al pari degli Stati Uniti.

Certo, il Giappone ha conosciuto l’esperienza di un doppio livello di relazioni imperiali. Da una parte ha vissuto una condizione di soggezione a grandi imperi come la Cina o gli Stati Uniti, ma al tempo stesso ha esercitato una funzione imperiale in varie parti dell’Asia....

L’impero cinese ha avuto un ruolo importante per il Giappone fino all’inizio dell’Ottocento, ma teniamo presente che non è mai stato una nazione. È un fatto importante perché il Giappone, al contrario, ha costruito la propria identità come nazione. Anzi, si è considerato l’unica entità nazionale presente in Asia, almeno fino al collasso dell’impero giapponese nel 1945. I suoi modelli di nazione sono comunque sempre stati occidentali. In particolare l’Inghilterra e la Francia sono stati i modelli di nation building nella storia giapponese. È solo con il ’45 che si è iniziato a percepire il processo di nation building giapponese come un processo di progressiva inclusione di minoranze, avvenuto attraverso l’apparato imperiale.

A questo proposito, è interessante porre la questione del postcolonialismo, in particolare nella relazione tra Giappone e Corea. Non crede?

Per quanto riguarda la Corea dobbiamo riferirci al momento della sua indipendenza, avvenuta nel 1945 in seguito alla sconfitta del Giappone nella Seconda guerra mondiale. Il Giappone, che non aveva riconosciuto fino a quel momento un’identità coreana separata dall’identità imperiale, non sapeva più come relazionarsi a questa nuova entità. La stessa difficioltà valeva anche per la Cina. Il problema si è posto in modo molto evidente a partire dagli anni Ottanta, quando le relazioni economiche, complicate dal processo di globalizzazione, hanno reso Cina e Corea concorrenti diretti del Giappone. E ciò ha avuto ripercussioni nei rapporti con gli Stati Uniti, anche perché gli americani nel dopoguerra avevano una qualche fantasia imperiale rispetto al Giappone. Ma negli anni Ottanta si sono confrontati con una concorrenza molto efficace. L’acquisto del Rockfeller Center da parte della Sony fu soltanto l’episodio simbolicamente più plateale di queste mutate relazioni.

Tutto ciò mi sembra un buon esempio di «co-figurazione», vale a dire di identità che si definiscono dialogicamente attraverso relazioni multiple. Quindi, nella mia prospettiva, il postcolonialismo ha poco a che fare con la caduta dei regimi coloniali. Il post di postcolonialismo indica piuttosto che l’immaginario che segnava la relazione coloniale è inscritto incisivamente nelle identità odierne, al di là di quanto esse corrispondano o meno a delle esperienze collettive del passato.

Una delle relazioni che lei ha problematizzato è quella tra l’unità della lingua e l’unità della nazione. Perché è improprio parlare di unità della lingua?

Non sostengo che oggi giorno non vi siano lingue nazionali. Il mio problema è un altro. È quello di pensare all’origine delle lingue nazionali in un senso genealogico. Ad esempio, nel Settecento in Giappone non vi era alcuna idea di una lingua giapponese. La lingua scritta e quelle parlate facevano riferimento ad una molteplicità di fonti e i parlanti spesso non si capivano tra di loro. Anche i dialetti e le forme regionali erano davvero molto diversificati e avevano tutta una serie di varianti ibride. Le èlite invece comunicavano attraverso il cinese classico. Lo stesso si può dire della Cina. E allora mi domando: perché le lingue dovrebbero essere unità discrete come le mele e le arance e non invece fluide come l’acqua?

L’idea di un giapponese standard viene introdotta soltanto nel 1868, al momento della restaurazione Meji. Si trattava di una lingua del tutto artificiale, introdotta intenzionalmente al fine di superare i conflitti locali. E per realizzare questo processo fu determinante la creazione di un sistema scolastico nazionale. Lo stesso si può dire dell’esercito. La creazione di un esercito nazionale fu un fondamentale veicolo di unificazione linguistica. Si mise insomma in atto un consapevole processo di nation building che ebbe un successo molto rapido. Il punto è che si è trattato di un processo artificiale, cioè costruito: non vi era nulla di naturale, perché avrebbero potuto prendere la lingua nazionale da qualsiasi parte. Alla scelta di elaborare un giapponese standard hanno inoltre contribuito anche discipline moderne come la linguistica.

Posto che l’unità della lingua nazionale è strettamente connessa alla costruzione di un’identità nazionale e si propone di sostanziare un sentimento di integrazione nazionale, esaminare genealogicamente la formazione dell’unità della lingua consente di mettere in discussione l’idea di un’identità etnica fondata su delle origini naturali e dunque tutto l’immaginario associato con la lingua e la cultura nazionali.

Le sue riflessioni sul linguaggio portano ad una rinnovata attenzione alla traduzione, intesa in senso ampio entro la rete di relazioni tra lingua, cultura e identità. Nel suo libro del 1997, ha parlato di «soggettività in transito», che cosa intende con questa definizione?

Si tratta di un concetto correlato a quello di «co-figurazione». Quando si parla di traduzione generalmente si fa riferimento al rapporto tra due lingue. Ma a questa prospettiva manca la percezione della presenza di un terzo agente nella comunicazione. Ad esempio, io non conosco la lingua russa e quando incontro un russo non capisco che lingua sta parlando. È solo la presenza di un interprete a farmi capire che si tratta del russo. Senza la sua presenza non sarei neppure in grado di capire che si tratta di un’altra lingua e che esiste un gap tra le due lingue. Questo significa che il traduttore è colui che rende rappresentabile la differenza tra due lingue. In questo senso il traduttore è un soggetto in transito perché si sposta continuamente da una lingua all’altra ed esercita una sovranità in quanto è lui a decidere di mettere in comunicazione l’interno (la mia lingua) con l’esterno (la lingua dell’altro). È un soggetto che si definisce in termini di «co-figurazione», di relazione, non semplicemente di autorappresentazione e per questo è un soggetto frammentato perché si definisce attraverso le sue molteplici relazioni.

Lei è tra i promotori della serie di volumi «Traces», che hanno alcuni centri di interesse privilegiati (biopolitica, modernità, globalizzazione) e tra questi la traduzione. Può raccontarci com’è nato questo progetto e quali sono le sue intenzioni?

Il gruppo si è formato negli anni Novanta sulla base di un comune interesse per il rapporto tra lingua inglese e imperialismo. Generalmente l’approccio critico a questo tema conduce alla rivalutazione delle lingue nazionali. Non era questa la nostra posizione e abbiamo perciò cercato di creare uno spazio di relazione tra lingue - del quale l’inglese fa parte, ma sul quale non esercita una funzione dominante - e di collocare la nostra attività intellettuale in questo spazio. Ho girato il mondo per espandere questo progetto. Sono stato in Inghilterra, Francia, Germania, Singapore, Cina, Giappone, Australia e naturalmente in Canada e negli Stati Uniti.

In questo momento i volumi della collana escono in quattro lingue (coreano, cinese, giapponese e inglese) e l’abbiamo collocata in quattro mercati editoriali nazionali. Non si tratta insomma di volumi scritti in quattro lingue, ma di quattro edizioni che fanno riferimento ai relativi mercati editoriali. E con una certa sorpresa abbiamo costatato che il mercato americano è quello più modesto. Siamo consapevoli dei limiti di questo progetto, ad esempio le lingue in Cina sono numerose e non raggiungiamo perciò l’intero pubblico. Ma si tratta di un passo in avanti. Stiamo attualmente trattando con degli editori tedeschi. È una serie di volumi monografici che si caratterizza per la forte interdisciplinarietà, ma la gran parte del lavoro riguarda la traduzione perché riceviamo testi da più lingue che vengono poi tradotti. È il tentativo di aprire uno spazio comune di riflessione intellettuale sulla base di una molteplicità di lingue e non sull’universalismo della lingua inglese. E questo riguarda anche gli autori che sono chiamati a rivolgersi ad un pubblico moltitudinario, alla «moltitudine che io sono».

Postcoloniale

Relazioni transfrontaliere di un intellettuale

Naoki Sakai nasce e studia a Tokyo. È un intellettuale molto presente nel dibattito giapponese anche dopo il trasferimento negli Usa, dove insegna prima all’Università di Chicago e poi alla Cornell University. Della sua ampia produzione, in parte disponibile solo in giapponese e in altre lingue asiatiche, vanno segnaliti due volumi usciti in inglese: «Voices of the Past: The Status of Language in Eighteenth-Century Japanese Discorse» (Cornell University Press) e «Translation and Subjectivity: On "Japan" and Cultural Nationalism» (University of Minnesota Press).

Alla fine degli anni Novanta ha lanciato la collana «Traces»: attualmente pubblicati dalla Hong Kong University Press, i volumi della collana - fino a oggi ne sono stati pubblicati quattro - escono contemporaneamente in inglese, cinese, giapponese e coreano. «Traces» è intesa come una radicale sfida alla «differenza coloniale» che secondo Naoki Sakai continua a organizzare la produzione e la circolazione del sapere e si presenta come spazio transnazionale e translinguistico di elaborazione critica della propria collocazione geografica nell’Asia orientale ma aperto a contributi provenienti da altre realtà. Per una presentazione del progetto, il sito internet: www.arts.cornell.edu/traces/index.htm


Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:

JAPANESE CIVILIZATION....

"ORIENTE" E "OCCIDENTE"....

MONOTEISMO, CRISTIANESIMO E DEMOCRAZIA

POLITICA E LINGUAGGIO...


Rispondere all'articolo

Forum