Gioacchino da Fiore ...

Al di là del "cattolicesimo" romano. Verità come "charitas" ed essere come "ereignis", evento. "PER UN CRISTIANESIMO NON RELIGIOSO". Un ’vecchio’ (2002) lavoro di Gianni Vattimo, recensito da Filippo Gentiloni

mercoledì 1 novembre 2006.
 
[...] "Mi rendo conto che ciò che propongo qui è una tesi densa di conseguenze e molto discutibile. Ma il compito di fronte a cui si trova oggi il mondo cristiano, e cioè l’Occidente, è quello di recuperare la propria funzione universalistica senza implicazioni coloniali, imperialistiche, eurocentriche. E’ difficile pensare che possa adempiere a questo compito accentuando la propria specificità dogmatica, etica, disciplinare. Una tale accentuazione, si può ragionevolmente sostenere, non corrisponde nemmeno all’essenza della dottrina cristiana , ma dipende piuttosto da una certa inerzia storica delle chiese come organizzazioni mondane" [...]

La croce divina nel mondo del globale

"Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso" di Gianni Vattimo per Garzanti. Una riflessione sulla religione nell’era della crisi delle grandi narrazioni e della globalizzazione che varca anche le mura di San Pietro

di FILIPPO GENTILONI (il manifesto, 24.07.2002)

Non pochi sono gli autori che studiano il "fatto" cristiano guardando al di là del cristianesimo attuale. Al di là: post. Laici e cristiani, se si può ancora considerare valida questa distinzione. Autori che non considerano esaurito il fatto cristiano, tutt’altro: non credono al trionfo di quella morte di Dio che era sembrata, alla fine dei secoli passati, salvifica per l’uomo e per la società. Pensano che, al di là della crisi, il fatto cristiano possa avere ancora una sua forte vitalità, ma in forme e modalità diverse da quelle attuali.

Particolarmente interessante, in questo senso, mi sembra la riflessione che sta portando avanti da anni Gianni Vattimo. Ora molti suoi interventi sono stati raccolti in un volume unico, dal titolo significativo Dopo la cristianità, sottotitolo: "Per un cristianesimo non religioso" (edito da Garzanti; si vedano anche il suo Credere di credere, Garzanti 1996 e i suoi dialoghi con i teologi Sequeri e Ruggeri in Interrogazioni sul cristianesimo, Edizioni Lavoro 2000) . Vale la pena di verificare come, per Gianni Vattimo, il "pluralismo post-moderno permette (a me, ma credo anche più in generale) di ritrovare la fede cristiana".

Post, dunque. Dopo il moderno. Non contano le date, ovviamente. Conta la cultura. La cultura da superare è quella razionalista, quella che aveva dominato gli ultimi secoli, raccogliendo, fra l’altro, anche l’eredità della metafisica greca. Una grande cultura all’insegna della razionalità, ma anche della sicurezza, delle idee chiare e distinte, delle bandiere vincenti, delle condanne per chi scantonava. Una cultura che, purtroppo, dice Vattimo, aveva pervaso di sé anche il cristianesimo, deformandolo, nelle strettoie rigide della dogmatica e dell’etica vaticana. Ora questa cultura è finita, grazie all’ermeneutica, a Heidegger, a Pareyson di cui Vattimo si dichiara alunno fedele. E così il cristianesimo può finalmente ritrovare la sua vera identità.

Non è una assoluta novità: alcuni pensatori, in minoranza, lo avevano previsto: così nel lontano Medioevo Gioacchino da Fiore. Così, più vicino a noi, Pascal, Dostoevski e anche Nietzsche.

Sul ben noto pensiero "debole" caro a Vattimo, la riflessione è ormai abbondante. Non altrettanto sul riflesso - assolutamente positivo - che la "debolezza" può avere sul postcristianesimo.

"Mi rendo conto che ciò che propongo qui è una tesi densa di conseguenze e molto discutibile. Ma il compito di fronte a cui si trova oggi il mondo cristiano, e cioè l’Occidente, è quello di recuperare la propria funzione universalistica senza implicazioni coloniali, imperialistiche, eurocentriche. E’ difficile pensare che possa adempiere a questo compito accentuando la propria specificità dogmatica, etica, disciplinare. Una tale accentuazione, si può ragionevolmente sostenere, non corrisponde nemmeno all’essenza della dottrina cristiana , ma dipende piuttosto da una certa inerzia storica delle chiese come organizzazioni mondane".

Perciò Vattimo coniuga la "debolezza" con l’incarnazione, momento centrale nel messaggio cristiano. Carne, cioè storia con le sue vicende, ma anche con i suoi percorsi tutt’altro che dogmatici.

"L’indebolimento dell’essere è uno dei possibili sensi, se non in assoluto il senso, del messaggio cristiano che parla di un Dio che si incarna, si abbassa e confonde tutte le potenze di questo mondo". Una nuova lettura, dunque, dell’antico concetto di incarnazione, ricca di feconde applicazioni per il post.

Un cristianesimo debole sarà, fra l’altro, un cristianesimo di pace, al di là non soltanto dei dogmi ma di tutte quelle crociate più o meno cruente, che i dogmi inevitabilmente hanno prodotto e continueranno a produrre. "La violenza si insinua nel cristianesimo quando esso si allea con la metafisica come `scienza dell’essere in quanto essere’ e cioè come sapere di principi primi".

La debolezza, quindi, alla radice di quell’ecumenismo oggi più che mai necessario, ma ancora difficile. E’ in gioco il concetto stesso di verità, che non può più considerarsi assoluta.

E anche quello di laicità, una conquista moderna alla quale la debolezza del "post" non vuole rinunciare. "Diventa importante che, entrando nel dialogo interculturale, il cristianesimo si presenti come il portatore dell’idea della laicità, che è l’idea stessa dell’universalismo della ragione spogliata delle sue accidentali - anche se molto radicate e pesanti - complicità con gli ideali del colonialismo e dell’imperialismo moderni".

E’ ovvio che il cristianesimo postmoderno di Vattimo nella sua etica sarà all’insegna della centralità della carità. L’altro: qui il pensiero di Habermas e Levinas si coniuga con quelli, apparentemente molto diversi, di Nietzsche e di Heidegger. Umiltà, carità e amicizia: "L’amicizia può diventare il principio, il fattore della verità soltanto dopo che il pensiero abbia abbandonato tutte le pretese di fondazione oggettiva, universale, apodittica. Senza un’autentica apertura all’essere come evento, l’altro di Lévinas rischia sempre di vedersi spodestato dall’Altro con la maiuscola". Il cristianesimo dopo la cristianità detesta, ovviamente, le maiuscole.

E, per concludere: "Verità come caritas ed essere come ereignis, evento, sono due aspetti che si richiamano in maniera stretta. ... Con tutte le imprecisioni che una tale conclusione, sebbene provvisoria, lascia sussistere, mi pare che proprio da questo punto si dovrebbe cominciare una riflessione su ciò che rimane, non solo da rimembrare, ma anche da fare, duemila anni dopo l’evento del cristianesimo".

Una riflessione, dunque, da cominciare. Sarà lunga e difficile. Si modificare - forse addirittura stravolgere una tradizione forte di venti secoli e anche di innegabili successi. Si tratta di riportare al cuore del cristianesimo la cultura ebraica al posto di quella greca. Non basteranno certamente gli sforzi di un Vattimo e di altri (fra cui Ramon Panikkar, del quale si dovrà parlare, in un analogo contesto, un’altra volta).

Ma forse, più degli sforzi di alcuni illuminati pensatori, saranno gli "eventi" - termine caro a Vattimo - a incamminare la storia del cristianesimo per la via della debolezza (dell’umiltà, per usare un termine più cristiano). Ne cito due di particolare importanza. Il primo è interno al cristianesimo stesso: il suo sfilacciamento. Roma è sempre meno centrale e granitica, le sue parole sempre meno ascoltate, soprattutto in fatto di etica. La struttura piramidale sempre più traballante. Gruppi, associazioni, comunità, ecc. sempre più autonome.

Il secondo è esterno. Roma è sempre meno al centro del mondo. Meno di Wall Street e anche della Mecca. La tragedia dell’11 settembre si deve leggere anche in questo senso. La globalizzazione, nel bene e nel male, tocca anche la cristianità, rendendola meno centrale, più periferica. Sarà inevitabile - e positivo - che la cristianità accetti il suo indebolimento.


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