Filosofia e Filologia

CULTURA E GIOCHI DI POTERE IN ITALIA: UN "INFINITO" FANGO?!! Ma in che lingua traduciamo?!! Giovanni Semerano ha fatto la sua proposta: perché non approfondirla anche se dovesse far vacillare apparati culturali e soprattutto autorità e poteri consolidati da quegli apparati? Un’ennesima sollecitazione di Umberto Galimberti - a cura di pfls

sabato 31 marzo 2007.
 
[...] In uno dei suoi ultimi lavori, L’infinito: un equivoco millenario, Giovanni Semerano, che rifiuta l’origine indiana delle lingue europee, dimostra che la parola di Anassimandro "apeiron", che è poi la prima parola della filosofia greca, che come tutti sanno è nata in Asia Minore, non vuol dire "infinito" o "indeterminato", come vuole Aristotele e dopo di lui l’intera storia della filosofia, ma semplicemente "terra", "polvere", "fango", dall’accadico "eperu", vicino al semitico "apar", da cui l’ebraico "aphar" [...]

Tra cultura e giochi di potere

Risponde Umberto Galimberti *

-  Certamente ricorderà di quando la "Fibula Prenestina" veniva celebrata come il primo documento della letteratura latina, finché negli anni ’80 si scoprì che si trattava di un falso. Ora ci risiamo, solo che in questo caso non si tratta di un falso ottocentesco, ma di un equivoco millenario. La recente pubblicazione del volume I Presocratici a cura di Giovanni Reale ha infatti riportato d’attualità un frammento di Anassimandro che rappresenta il primo documento della filosofia occidentale. In tale frammento l’"àpeiron" viene proposto come principio fondamentale di tutte le cose; da Aristotele in poi questo termine veniva tradotto con "infinito", rendendo incomprensibile la sequenza logica della scuola di Mileto che incominciava con l’acqua di Talete e si concludeva con l’aria di Anassimene. In mezzo, incomprensibilmente, c’era l’infinito di Anassimandro. Quando frequentavo l’università le cose stavano così.
-  Poi è arrivato il filologo Giovanni Semerano che ha compiuto un’autentica rivoluzione, rintracciando le origini del latino e del greco non in un fantomatico indoeuropeo ma in lingue storicamente documentate come l’accadico e il semitico. Così, proprio negli stessi anni in cui veniva svelato il mistero della Fibula Prenestina, cadeva il mito dell’indoeuropeo. -Confermando il detto "nemo propheta in patria", Semerano è stato apprezzato più all’estero che in Italia, dove si continua a tramandare l’errore di Aristotele come se niente fosse. Ora, mentre la "Fibula Prenestina" venne immediatamente espunta dai libri di testo, temo che i manuali di filosofia ci metteranno un bel po’ prima di tener conto delle ricerche di Semerano, ma forse almeno i nipoti dei miei alunni potranno conoscere l’Anassimandro restaurato. Paolo Clemente (esplo@tiscali.it)

Ma lei crede davvero che la cultura sia immune dai giochi di potere? Per carità! Come tutte le cose, anche le ipotesi culturali meno verosimili servono a mantenere il prestigio di certe cattedre e la posizione di chi, per mantenere la propria "autorità in materia", non vuole che il sapere avanzi. Prendiamo l’esempio degli Etruschi, a proposito dei quali l’allora massima autorità in materia, Massimo Pallottino, sosteneva l’indecifrabilità di quella scrittura, in quanto quella cultura aveva in Toscana la sua origine senza altre derivazioni, nonostante Erodoto avesse scritto nelle sue Storie che gli Etruschi provenivano dalla Lidia, in Anatolia.

Giovanni Semerano, a cui non fu mai assegnata una cattedra universitaria, partendo dall’accadico decifrò quella scrittura, ma la sua scoperta, per l’autorità di Pallottino, non ebbe nessun seguito. E la scrittura etrusca rimase inutilmente avvolta nel suo enigma.

Verso la fine degli anni Settanta Giovanni Spadolini, conosciuto Semerano, gli commissionò una ricerca dell’etimologia della parola "Italia", che allora veniva resa come "terra dei vitelli", da "vitulus" (vitello). Semerano segnalò che la "i" di "vitulus" era breve, mentre la "i" di "Italia" era lunga e perciò era presumibile che la parola venisse dall’accadico "atulu", che significa "terra del tramonto", cui corrispondeva la parola etrusca "hinthial" che vuol dire "ombra".

Fu allora che l’inviato in Italia del giornale inglese The Guardian si incuriosì del personaggio e lo raggiunse a Firenze. Lo intervistò, uscendo poi con un titolo a tutta pagina: "An Italian professor finds accadian roots under the linguistic tree" (un professore italiano scopre le radici accadiche sotto l’albero delle lingue). La notizia sconvolse il mondo culturale anglosassone e lasciò indifferente quello italiano, a eccezione dell’assirologo Giovanni Pettinato, che, in qualità di capo della spedizione italiana in Siria, rinveniva 20 mila tavolette della biblioteca di Ebla, che, opportunamente tradotte, confortavano l’ipotesi di Semerano.

In uno dei suoi ultimi lavori, L’infinito: un equivoco millenario, Giovanni Semerano, che rifiuta l’origine indiana delle lingue europee, dimostra che la parola di Anassimandro "apeiron", che è poi la prima parola della filosofia greca, che come tutti sanno è nata in Asia Minore, non vuol dire "infinito" o "indeterminato", come vuole Aristotele e dopo di lui l’intera storia della filosofia, ma semplicemente "terra", "polvere", "fango", dall’accadico "eperu", vicino al semitico "apar", da cui l’ebraico "aphar".

Ma che succede se questa parola, a cui Heidegger in Germania e Severino in Italia hanno dedicato splendide pagine, ha un significato così modesto, come modesta è l’acqua di Talete e l’aria di Anassimene, pensate rispettivamente come principio di tutte le cose? Non c’è qui più affinità con il motivo della cultura semita, dove il Creatore plasma il primo uomo con l’"aphar", con la polvere della Terra, e dopo la maledizione divina lo condanna a dissolversi nell’"aphar", nella polvere, di quanto non ce ne sia con la tradizione filosofica che rende "apeiron" con "infinito", "indeterminato" con tutte le implicazioni filosofiche che ne seguono?

Qui gli esempi potrebbero continuare, ma noi ci fermiamo per rivolgere a Heidegger e a tanti filosofi e filologi quello che Heidegger stesso chiedeva a suoi predecessori: "Ma in che lingua traduce l’Occidente?". Semerano dà la sua proposta: perché non approfondirla anche se dovesse far vacillare apparati culturali e soprattutto autorità e poteri consolidati da quegli apparati?

* la Repubblica D Magazine, 31.03.2007



GIOVANNI SEMERANO *

Giovanni Semerano (1913 - Firenze, 2005) è stato un filologo italiano, studioso delle antiche lingue mesopotamiche.

Ha conseguito la laurea a Firenze, dove tra i suoi insegnanti vi sono stati: l’ellenista Ettore Bignone, il filologo Giorgio Pasquali, il semitologo Giuseppe Furlani, Giacomo Devoto e Bruno Migliorini.

È stato membro dell’Oriental Institute di Chicago.

Per alcuni anni ha insegnato greco e latino al liceo; nel 1950 è stato nominato Soprintendente bibliografico per il Veneto e nel 1955 per la Toscana. Ha insegnato in un corso di lezioni di latino medioevale all’Università di Firenze, nell’ambito della Scuola di paleografia latina. In seguito è stato direttore della Biblioteca Laurenziana e successivamente della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Nel 1967 è stato insignito della medaglia d’oro per i benemeriti della cultura. Fu membro onorario dell’Accademia Etrusca.

-  Indice
-  1 La teoria
-  1.1 Critiche
-  2 Le opere
-  2.1 "Le origini della cultura europea"
-  2.2 "L’infinito: un equivoco millenario"
-  2.3 Altri esempi del metodo paretimologico di Semerano
-  2.4 Altre opere

La teoria

A differenza di quello che la linguistica storica considera assodato, Semerano non ritiene plausibile l’ipotesi dell’indoeuropeo, sottolineando il fatto che si tratti di una lingua congetturale, e priva di testimonianze: mettendo in luce l’enorme quantità di vocaboli che, nelle lingue europee, risultano ancora, a suo dire, privi di una convincente etimologia, ipotizza una loro origine mesopotamica, dalle lingue accadica e sumera.

Secondo i suoi sostenitori, il lavoro di Semerano avrebbe apportato un rilevante contributo ad una migliore comprensione della storia di tutte le lingue europee, non solo di quelle antiche e classiche come la greca, la latina e dell’etrusco ma anche di tutte le altre (compresi le lingue/dialetti), sia antiche che moderne, in ambito italico ed europeo.

Tra i vari uomini di cultura noti, che concordano con le tesi di Semerano, vi sono: Umberto Galimberti (filosofo), Massimo Cacciari (filosofo), Franco Cardini (storico del Medioevo), Luciano Canfora (filologo), Emanuele Severino (filosofo), Elémire Zolla (filosofo). Tra essi non figurano linguisti - se escludiamo in parte Luciano Canfora, il quale, tuttavia, ritiene validi gli aspetti culturali e storici dell’opera di Semerano, non quelli strettamente linguistici.

Critiche

Le teorie di Semerano sono fortemente criticate dalla maggior parte dei linguisti. Infatti, egli contesta la teoria dell’indoeuropeo appuntandosi in particolare contro i linguisti tedeschi degli inizi dell’Ottocento, ma senza tener conto della successiva evoluzione degli studi (per esempio la cosiddetta teoria delle onde, in tedesco Wellentheorie), che ha portato a una correzione e affinamento delle prime ipotesi.

Inoltre, l’affermazione di Semerano, secondo cui l’esistenza dell’indoeuropeo sarebbe una "favola", si scontra di fatto con le scoperte archeologiche, che avrebbero in seguito verificato la teoria, come la decifrazione (avvenuta con successo e con ricco apporto di nuovi dati storici) delle tavolette ittite, realizzata partendo dal presupposto che si trattasse di una lingua indeuropea scritta nei caratteri della scrittura cuneiforme, o la scoperta, in manoscritti tardoantichi e altomedievali, dei dialetti del Tocario in Asia centrale fra Russia e Cina.

Infine l’intera teoria si basa su una vastissima serie di accostamenti di termini eterogenei, senza tuttavia che venga proposto un coerente modello alternativo a quello elaborato dalla linguistica tradizionale, senza che venga definito un metodo di fondo per il rinvenimento di prestiti e derivazioni, e senza che vengano spiegate e definite le leggi linguistiche che avrebbero presieduto alla derivazione delle varie lingue esaminate dalle antiche lingue mesopotamiche. L’intero sistema di Semerano appare fondato sulla paretimologia, e poco serve a giustificarne l’orientamento il fatto che Semerano stesso critichi l’idea che le lingue vadano confrontate tenendo conto delle loro strutture grammaticali e fonetiche, a partire dai documenti più antichi realmente attestati, visto che i suoi scritti non propongono di meglio che delle generiche assonanze.

Le opere

"Le origini della cultura europea"

L’opera, con il sottotitolo "Rivelazioni della linguistica storica" (Leo Olschki, Firenze 1984-1994) si articola in 4 volumi, due dei quali di etimologia: uno della lingua greca e uno della lingua latina e delle voci moderne; gli altri due consistono nella disanima di migliaia di parole antiche e moderne presenti nelle lingue europee, di cui vengono proposte relazioni e corrispondenze con le antichissime lingue semitiche, con l’ebraico, con l’arabo, con il sanscrito, con l’antico cinese e con molte lingue africane. Diverse pagine sono dedicate all’etrusco.

La tesi sostenuta nel volume è quella di un’antica unità culturale protostorica dell’Europa e del Vicino Oriente, sulla base di una derivazione mesopotamica di molti termini geografici ed etnici. Il significato originario di molti nomi di città, popoli, fiumi, personaggi, divinità, oggetti d’uso comune; verbi, propri dell’attività manuale e del pensiero, ecc.; viene infatti abitualmente riconosciuto in un generico sostrato "mediterraneo" che raccoglie tutto ciò che non risulti inquadrabile nel sistema linguistico indoeuropeo (continentale): l’autore propone di utilizzare piuttosto come alternativo quadro di riferimento l’accadico, il linguaggio con la più antica e ampia tradizione scritta, appartenente alla famiglia delle lingue semitiche e con tracce di sostrato sumerico, di cui si ha abbondanza di testimonianze, come le decine di migliaia di tavolette in cuneiforme, scoperte negli archivi dell’antica città di Ebla in Siria (Assiria) e portate alla luce dagli archeologi di una missione italiana, nel 1968.

Secondo l’autore questo quadro linguistico dimostrerebbe l’influenza esercitata sulla nascita delle civiltà europee dalla Mesopotamia, irradiata lungo la via continentale del Danubio e lungo le coste del Mar Mediterraneo, dall’Africa fino all’Irlanda, sulle vie del commercio dell’ambra, dello stagno e anche del ferro.

Sul piano storico, tuttavia, le idee di Semerano non sono particolarmente innovative, poiché nessun sostenitore della linguistica tradizionale ha mai negato i profondissimi debiti di carattere culturale che le civiltà antiche hanno nei confronti dei popoli del Medio Oriente, e in particolare del mondo semitico, a cominciare dall’invenzione dell’agricoltura, della città e dell’alfabeto. Questo però non implica discendenza linguistica fra l’accadico e il greco, il latino o il sanscrito, poiché la grammatica dell’accadico è incompatibile per struttura e fonetica con quella del greco, del latino e del sanscrito, tre lingue che invece hanno desinenze, sintassi e strutture assai simili. Popoli di lingue molto diverse condividono spesso la stessa cultura materiale: ad esempio, i Giapponesi e gli Americani condividono l’uso di computer e telefonia mobile e molte innovazioni dell’informatica vengono dal Giappone. Questo però non implica che la lingua inglese derivi dal giapponese.

"L’infinito: un equivoco millenario"

L’opera, con il sottotitolo "Le antiche civiltà del Vicino Oriente e le origini del pensiero greco" (Bruno Mondadori, 2001, collana "Sintesi" ISBN 8842497622), ha come obiettivo quello di rileggere la cultura e soprattutto la filosofia della Grecia classica, sulla base dell’ipotesi di una derivazione di tutte le lingue da una comune matrice accadico-sumera. Ciò permette all’autore una reinterpretazione radicale dell’intera vicenda della Grecia arcaica e classica, non più vista come una miracolosa isola di razionalità, ma come parte integrante di un’unica comunità che comprende Mesopotamia, Anatolia ed Egitto.

La tesi del volume si basa su una nuova interpretazione del termine Ápeiron, centrale nella filosofia di Anassimandro. Il filosofo definisce infatti l’elemento da cui hanno origine tutte le cose, il loro principio (in greco anticoarkhé) con il termine àpeiron, che abitualmente viene ritenuto costituito da a- privativo ("senza") e da péras ("determinazione", "termine") e tradotto pertanto come "indeterminato" o "infinito". Secondo Semerano, tuttavia, poiché la parola péras ha una e breve, mentre àpeiron ha un dittongo ei che si legge come una "e" chiusa lunga, il dittongo non può essersi prodotto dalla e breve di péras.

Semerano riconduce invece il termine al semitico ’apar, corrispondente al biblico ’afar e all’accadico eperu, tutti termini che significano "terra". Il noto frammento di Anassimandro, in cui si dice che tutte le cose provengono e ritornano All’àpeiron non si riferirebbe dunque ad una concezione filosofica dell’infinito, ma ad una concezione di "appartenenza alla terra" che si ritrova in tutta una precedente tradizione sapienzale di origine asiatica e che è presente anche nel testo biblico: "polvere sei e polvere ritornerai".

Sulla base di questa interpretazione, Semerano rilegge dunque tutto lo sviluppo della filosofia precedente la sofistica in una chiave anti-idealista e anti-metafisica, ridisegnando i confini tra divergenze e affinità tra gli antichi pensatori, e riconducendone la maggior parte entro una fisica corpuscolare, che accomuna tra gli altri Anassimandro, Talete e Democrito.

La ricostruzione di Semerano tuttavia non regge nemmeno a una prima analisi obbiettiva, poiché in realtà essa sembra ignorare che nel dialetto ionico, a differenza che nell’attico e in molti altri dialetti greci, l’alternanza fra "e" ed "ei", fra vocale breve e dittongo, si trova spesso ed è originata da dinamiche linguistiche ben note. Sinonimi del termine usato dal filosofo, si trovano infatti in Omero, dove si parla di pòntos apèiritos, che secondo le tesi del Semerano non dovrebbe essere più tradotto come un "mare infinito", ma come un improbabile "mare terroso" o "fangoso".

Inoltre, sul piano filosofico, le fonti greche che parlano di Anassimandro, ed erano linguisticamente e culturalmente molto più vicine di noi al filosofo di Mileto, alludono chiaramente al fatto che egli identificava la causa della sofferenza, dell’infelicità, della morte, nella colpa originaria che gli esseri avrebbero, di essersi de-finiti e de-terminati rispetto all’in-finito, in-determinato e in-definito àpeiron, che a questo punto, interpretato come "terra", non renderebbe conto delle successive evoluzioni del pensiero presocratico. in Empedocle, ad esempio, l’idea di felicità di ciò che non è determinato, è presente nel concetto originario di sfero, perfetto e sferico, il quale "gode della sua solitudine avvolgente". Nello sfero perfetto i quattro elementi acqua, terra, aria, fuoco, convivono commisti e confusi in virtù della forza dell’amore. La sofferenza del mondo deriva, in Empedocle, dal fatto che in esso l’odio o contesa scinde lo sfero, in cui tutto è indeterminato, e costringe gli elementi e le cose a determinarsi. Questa idea è discesa direttamente da quella di Anassimandro, se però il suo àpeiron è interpretato secondo il greco ionico aneu peiratos, senza determinazione definita. A loro volta, i due filosofi sono influenzati dalla religiosità spiritualistica e non contrattualistica dell’orfismo.

Non vale contro tale interpretazione, l’affermazione di Semerano, secondo cui, tra i fisici ionici, mancherebbe qualcuno che vede nella terra, l’arkhé o principio delle cose, così come Talete l’aveva visto nell’acqua, Anassimene nell’aria, Eraclito nel fuoco. In realtà, l’idea che la Terra fosse madre di tutte le cose era ben presente agli antichi: era al centro del mondo ideale tradizionale di Omero e di Esiodo, da cui i filosofi presocratici (se escludiamo solo in parte Talete, che si rifaceva al mito omerico di Oceano e di Tetide), tendono a prendere le distanze in modo più o meno netto. Perciò i filosofi presocratici non parlano della terra come di un principio informante: perché questa appariva come principio delle cose nel mito da cui spesso, anche se non sempre, cercavano di distaccarsi criticamente.

Negare quest’ultimo aspetto di distacco dal mito e dalla tradizione, proprio della filosofia di Anassimandro, e della filosofia ionica presocratica in genere, significa, in pratica, non comprendere la specificità del pensiero greco come pensiero critico rispetto all’autoritarismo della tradizione religiosa. Ciò significa altresì che i conflitti fra filosofia e concezioni tradizionali, che ricorrono nella storia della civiltà occidentale e sono proprie già del mondo greco, restano di fatto inesplicabili, se si accettano le idee di Semerano.

Altri esempi del metodo paretimologico di Semerano

Un altro esempio delle paretimologie di Semerano è dato dalla sua proposta per l’origine del latino res "cosa": egli lo fa infatti discendere dall’accadico rēš "testa" (costrutto rēšu), trascurando completamente il fatto che la -s finale del latino è la desinenza del nominativo (dunque il tema della parola latina è re- -*reh- non rēš). È legittimo ritenere che, se avesse preso le mosse dall’accusativo rem, sarebbe forse risalito all’accadico rēmu "ventre". È chiaro, da tutta la sua opera, che egli si è semplicemente servito, senza troppi scrupoli metodologici, di dizionari delle più svariate lingue, di cui spesso, deliberatamente, non prendeva in considerazione gli effettivi meccanismi grammaticali.

Altre opere

-  Il popolo che sconfisse la morte. Gli Etruschi e la loro lingua - (Bruno Mondadori, 2003)
-  La favola dell’indoeuropeo - (Bruno Mondadori, 2005)
-  Dizionari etimologici della lingua greca e della lingua latina - (Leo Olschki, Firenze 1984-1994)

Da Wikipedia, l’enciclopedia libera (ripresa parziale)


Rispondere all'articolo

Forum