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DIOCESI DI CASERTA
4 FEBBRAIO 2007
XXIX GIORNATA PER LA VITA
La vita è il natale
di Raffaele Nogaro, Vescovo di Caserta *
2 LA VITA è il NATALE
Noi siamo “mortali”. Ma siamo anche, e
soprattutto, “natali”.
Si muore ad una forma, per nascere in una nuova: si
muore all’infanzia, all’adolescenza per
assumere la responsabilità adulta.
Fino al “dies natalis”, eminenter.
L’animale nasce una volta sola.
L’uomo non è mai nato
del tutto. Nasce di nuovo ad ogni atto
di pensiero, ad ogni atto di amore, ad ogni atto di
coscienza. L’uomo è colui che nasce.
I grandi pensatori dell’ultimo secolo:
M. Heidegger tematizza: “l’essere per la morte”
P. Ricoeur riflette su : “essere per la vita”
H. Arendt, in “Vita activa” insiste: “l’uomo muore,
e non è nato per morire ma per incominciare”.
L’uomo non ha il senso della nascita.
Dice la Arendt che l’uomo dell’occidente, è l’uomo
del pensiero al maschile.
Da sempre ha coltivato l’idea dell’autoconcepimento,
dell’autorealizzazione permanente,
dell’uomo che si fa da sé, mai debitore a nessuno
di nulla:
L’uomo della Bibbia: “Essere come Dio, conoscere
il bene e il male” (Gen.3,5).
L’uomo greco: “Pantòn krematon metron, antropos einai
- “l’uomo è la misura di tutte le cose”(Gorgia).
L’uomo moderno “Homo faber fortunae suae”.
Ma la comprensione che oggi l’uomo ha di se stesso
si esprime attraverso alcune “tendenze”
di profonda decadenza umana.
- Una progressiva spettacolarizzazione.
Sembra che oggi tutto sia diventato Spettacolo.
Una cosa vale nella misura in cui si fa vedere.
Così la “coscienza”che non si vede non ha importanza.
Si occupa l’esistenza a coltivare l’ “immagine”,
non la coscienza.
- Le trasformazioni della comunicazione.
C’è ancora la comunicazione dei “sentimenti”, del
dramma dell’interiorità.
Ma si impone la nuova concezione del comunicare:
trasmettere notizie e messaggi nella
maniera più efficace.
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L’interlocutore non è più una persona, ma un “bersaglio”,
da raggiungere, da persuadere
e da controllare.
- Il predominio del consumo.
L’altro, persona o cosa, non sono realtà capaci di
rendere la mia vita più umana, ma sono
oggetto di assimilazione e di sfruttamento.
È la civiltà dell’utensile e del mercato.
- Il tramonto della cultura e lo sviluppo della
scienza (Michel Henry- “La barbarie” ).
Aumentano le conoscenze, ma viene a mancare
la “sapienza”, il gusto di dar sapore alla vita .
Michel Cioran : “l’uomo del mio tempo è in grande
affanno, perché al posto dell’Immortalità
ha messo la sua gloria terrena.
È indispensabile, oggi, recuperare il dinamismo
dell’essere “natali”.
M. Zambrano, in “Chiari del bosco” è convincente.
Il natale è la vita dell’uomo e delle donne.
Il “nascere” ha i contenuti più genuini della vita e
dell’immortalità.
- Il nascere è “svegliarsi”. Aprire i sensi e
riempirli di meraviglia. Fare gli occhi grandi di
fronte al miracolo della vita.
- Nascere è “riconoscere l’amore”, dal calore del
grembo, all’abbraccio infinito della madre,
al petto che nutre con dolcezza, alle parole di ogni
grazia, che costruiscono la speranza di
tutta la vita.
- Nascere è “vedere la luce” il bisogno di verità, di
libertà, di pace. Vedere la luce per
imparare a costruire ogni aurora.
È questa la coscienza, unica dell’uomo, che anche
se deve morire, non è nato e non nasce per
morire, ma per incominciare
(cf. H. Arendt, “Vita activa”).
- Rimane sempre presente l’“esperienza di morte”,
il “sapore dell’abisso”. Ma la
coscienza è coscienza di vita, coscienza di nascita,
coscienza dell’incominciare.
Non può non essere altrimenti, perché la nostra vita
non è autocreazione, non è l’arroganza
dell’essere personale.
Ma la mia vita è un “Dono” ricevuto, è l’ “atto
d’amore” che esprime la mia persona, è la “
nascita dalla madre”: “Sono amato, dunque sono”,
dirà ancora la Arendt.
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Il pensiero al maschile è mortale:
“Penso, dunque sono” (Descartes).
Il pensiero al femminile è natale:
“Sono amato, dunque sono”(Arendt)
e l’amore non finisce mai.
Non è giusto dimenticare la nascita, che significa
ricevere la propria persona e non farla in proprio.
La vita è una gratuità, non un interesse esclusivista.
La vita è umiltà che accoglie,
non egoismo che si impone.
La vita è sempre un “essere nella braccia di lui”,
che non ritira mai il suo dono.
“omnia possum in eo qui me confortat”.
Anzi lo rende sempre più abbondante:
“ dove abbonda il peccato - la morte,
sovrabbonda la grazia - la vita”(Rm. 5,20).
Se l’uomo è il suo natale è anche la sua Risurrezione.
- Solo la convinzione che il natale appartiene alla
vita dell’uomo motiva la “speranza”.
La speranza è l’urgenza di nascere del tutto, di
portare a compimento ciò che abbiamo dentro
di noi solo in modo abbozzato.
La speranza è la sostanza della vita, il suo volto più
espressivo ma anche la grande tensione
verso qualcosa che non c’è ancora.
Per questo l’uomo ha il tempo, è nel tempo.
Se l’uomo fosse già formato del tutto, se fosse già
nato internamente e completamente, non
avrebbe senso la sua lotta nel tempo (cf. Maria
Zambrano, “Verso un sapere dell’anima”).
- L’esistenza dell’uomo è un “abbozzo”. È
l’imperfezione cosciente, che vuole raggiungere
il compiuto, che sostiene l’anelito a una vita piena e
felice, che concorda i suoi ideali con il
desiderio e con la progettualità.
La speranza è inquieta, non si accontenta di registrare
l’esistente, di abbonarsi a ciò che è già accaduto.
La speranza è una voglia incontenibile di orizzonti
interi, di beatitudini genuine.
Ma per coltivare la speranza occorre ricordarci che
ogni nascita è incompleta.
Mentre l’animale nasce una volta per tutte,
l’uomo non è mai nato del tutto.
Deve affrontare la fatica di generarsi di nuovo.
Nessun mondo si adatta perfettamente a lui, nessun
incastro con le cose, con gli oggetti gli
riesce perfettamente.
L’uomo straripa da ogni parte, incapace di adattarsi,
insofferente verso ogni tentativo di incasellamento.
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Dove si vede che la ragione della speranza è la libertà
e che la libertà è la ragione della speranza.
Inadattabili e mai nati interamente, siamo chiamati a
crearci il nostro mondo, il nostro posto,
a partorire incessantemente noi stessi
e la realtà che ci ospita.
Chi vacilla nella speranza, e tiene lo sguardo rivolto
al passato, prende la vita come una
sconfitta, come una capitolazione,
come una disavventura.
La speranza è di nascere di nuovo, di essere nuovamente
generati, di trasformare l’incompiutezza
della nascita in una ricerca di pienezza d’umanità.
Erich Fromm continua: “Sperare significa essere pronti
in ogni momento a ciò che ancora non è nato.
Coloro che sperano vedono e amano ogni segno di
una nuova vita e sono pronti in ognimomento
ad aiutare la ri - nascita”(“La rivelazione
della speranza”).
Charles Péguy dice che “la giovane e piccola speranza è
contro l’abitudine”.
“Questa bambina è incaricata di ricominciare sempre.
Essa è il principio
È il principio della ri - creazione, come l’abitudine è
il principio della de - creazione;
essa fa, come l’abitudine disfa;
essa semina inizi di esseri,
come l’abitudine suscita meccanismi.
La speranza introduce ovunque entrate e guadagni,
entrate in creazioni, come l’abitudine
introduce ovunque uscite per ammortamenti e funerali
(“Lui è qui”).
Scrive ancora Pèguy:
“Il segreto dello spirito è far - nascere,
dei mattini giovani con delle vecchie sere;
delle anime sorgenti con delle anime cadenti;
delle anime luminose con delle anime torbide;
delle anime viandanti con delle anime stagnanti”.
Tutta la vita è natale.
Tutta la vita cosciente è un nascere di nuovo.
La nascita, come illimitatamente vita è
la risurrezione di Cristo, che è la mia risurrezione.
- È questione di coscienza; chi si considera “mortale”
vede attorno a sé solo segni di decomposizione
e di rovina.
Chi sceglie di essere “natale”,
saprà affrontare la vita in maniera feconda e creativa.
+ Raffaele Nogaro
* IL DIALOGO, 04.02.2007.
SUL TEMA, NEL SITO, CFR.:
Il prete del grembiule
di Raffaele Nogaro (già vescovo di Caserta)
Mosaico di pace, gennaio 2011
“Esultai quando mi dissero andiamo, andiamo alla casa del Signore”(Ps 122,1). Così due giorni prima di morire mi confidava don Tonino: “Ho bisogno di andare ad abbracciare il Padre”. Emozionatissimo ascoltavo: “Il padre è tutto dono di sé. Anch’io mi sono sempre donato, non mi sono mai risparmiato”. “So che lui è impaziente di rivedermi, e io non ho più paura dei miei peccati”. Ecco il volto bellissimo del “discepolo di Cristo”, di colui che dà la vita ai fratelli. Alla nascita ebbe il nome di Antonio. Significa:”fiore”. La Scrittura avverte: “flores florescunt - i fiori devono fiorire”.
E la vita di don Tonino è una fioritura mirabile di opere di bene. Diventa sacerdote, ministro della bontà del Padre, consacrato alla felicità e alla salvezza dei fratelli. Vive nel nostro tempo, in un contesto sociale nel quale vengono consumate tutte le ideologie del potere e dove si continua a proclamare il primato dell’etica. Di essa però si difende soltanto il nome. Una realtà che si lascia distribuire nelle cornici più impressioniste: è l’etica del pluralismo, l’etica del relativismo, l’etica dell’utilitarismo, l’etica soprattutto dell’autoreferenzialità, per cui diventano valore solo la proprietà privata e l’egoismo.
Don Tonino mantiene vivacissima l’etica del Vangelo, la “forma Christi”, che è la professione della compassione, della misericordia, del perdono, dell’amore incondizionato del prossimo. Diventa per questo il prete del “grembiule”, il prete del servizio più umile d’umanità, che rincorre il diseredato, l’immigrato, il barbone, l’ubriacone, l’“orfano di ogni genere”.
Il grande impegno di leggere “i segni dei tempi” proviene dal Vangelo. L’originalità di riproporlo alla nostra Chiesa è di don Tonino. Egli vede palpitare i “segni del Signore nell’urgenza di pace”, che tutte le genti ormai esprimono. La pace è valore assoluto d’umanità. Il Vangelo è la rivelazione della pace, dell’amore incondizionato del Prossimo. Non c’è alcun valore, al di là della pace, dell’esercizio dell’amore di Gesù fra gli uomini.
La profezia nuova e genuina della pace, la “Pacem in terris”, fin dagli inizi, meraviglia, piuttosto che convincere. Chi vuole praticarla, al di là di ogni accomodamento e di ogni pur legittima convenienza, è il vescovo di Molfetta. Parlo del vescovo, dell’apostolo pertanto, che nella Chiesa dà inizio a un percorso nuovo di vita e di speranza. In molti, nelle sfere superiori, vorrebbero ridurre la portata dell’enciclica, nel timore di contraddire la continuità dottrinale del Magistero.
Don Tonino, presta attenzione al Vangelo più che al Magistero: e in modo giustissimo, perché sul tema della pace, la Chiesa non sa mantenersi, fedelmente, madre e maestra di vita. Nell’enciclica di Giovanni XXIII c’è innanzitutto la proclamazione dell’infinita dignità dell’uomo, eminentemente inviolabile come Dio. E don Tonino vi costruisce “le basiliche minori” che sono l’uomo indigente, in grado di celebrare l’incarnazione di Dio. Le forme di inquinamento della vita umana sono il male da sradicare.
Don Tonino si scontra perciò con i politici e con la Chiesa. E rimane impavido, certo di fare la volontà del Padre. Non ha nessuno dalla sua parte, né vescovi, né i preti, meno ancora gli uomini del potere, quando si mette contro l’installazione degli F16 a Crotone, quando lavora per il disarmo e per l’obiezione fiscale alle spese militari. Dopo gli interventi sulla guerra del Golfo, viene addirittura accusato di incitare alla diserzione. Confessa di soffrire le pene dell’inferno, ma rimane infrangibile, perché ha la coscienza dei giusti.
Il vescovo Bello svolge continuamente il discorso della pace, che è l’unica promozione d’umanità. È un discorso nuovo e pieno di luce. Si pensava a una priorità dei grandi valori della vita: la libertà, la verità, la giustizia. La pace, invece, otteneva un valore straordinario, ma successivo e aggiunto.
Don Tonino, nella suggestione evangelica della “Pacem in terris”, afferma che il bene “primo” è la pace. Non c’è senso della libertà, né criterio di giustizia, non c’è riconoscimento della verità se non c’è pace. È la pace il valore, che promuove ogni sorta di bene, è quell’amore universale che costruirà la famiglia umana unita.
La pace crea la vita. Crea la libertà, la giustizia e la verità. La pace crea ogni genere di benessere tra gli uomini. La pace rende don Tonino un Mosè liberatore. Già malato, compie la marcia pacifica a Sarajevo, proclamando la sua fede nella vita, al di là di ogni violenza: persone di religioni diverse e di nazionalità diverse, vengono unite dal grande ideale di sperimentare un’altra ONU, quella dei popoli: “Vedete, noi siamo qui, allineati da questa idea, quella della nonviolenza attiva. Noi siamo venuti qui a portare un germe: un giorno fiorirà. Gli eserciti di domani saranno questi uomini disarmati”.
Sarebbe decadenza della Chiesa, trascurare la testimonianza adamantina di questo vescovo. Sono oggi, i “tempi di Dio”, in cui si esprime universale la volontà di pace. In Italia la invocarono Lanza del Vasto, Aldo Capitini. Diventò la passione di vita per Milani, Balducci e Turoldo.
Don Tonino costruì la teologia della pace con il sacrificio della sua vita. E ne divenne il profeta. Profeta al punto di lasciare in consegna alla Chiesa il messaggio inconfondibile: “Tutti i vescovi della terra si facciano banditori della giustizia e operatori di pace. E assumano la nonviolenza come criterio ermeneutico del loro impegno pastorale, ben sapendo che la sicurezza carnale e la prudenza dello Spirito non sono grandezze commisurabili tra loro”.
Quando si aspetta la salvezza dall alto
di Enzo Mazzi (il manifesto, 27 gennaio 2011)
Il problema della crescita culturale della società come esigenza primaria emerge con prepotenza dalla vicenda berlusconiana. Incriminazioni e condanne giudiziarie, manifestazioni, campagne di firme, manovre politiche parlamentari, nuove elezioni, pressioni sulla gerarchia cattolica perché condanni e si dissoci apertamente, campagne mediatiche, sono tutti tentativi encomiabili. Ma al fondo la domanda è se e come servono per uscire dal pantano culturale in cui stiamo affogando.
Forse converrebbe rivisitare il Gramsci della ’egemonia culturale’ che ribalta il primato marxista del cambiamento strutturale per porre invece al primo posto la crescita culturale del popolo. Prendiamo l’attesa spasmodica del pronunciamento del Vaticano e della Cei che ha caratterizzato non solo il mondo cattolico aperto ma il mondo politico tutto e il pianeta dei media. Ma questo aspettare la salvezza dall’alto non fa parte dell’egemonia culturale della destra, non ribadisce uno dei principi fondanti del cosiddetto berlusconismo?
«Non si porta salvezza se si è complici della ingiustizia e della violenza istituzionali», afferma il vescovo mons. Raffaele Nogaro sul numero in uscita di Micromega. E’ un’affermazione di grande valore etico. Che si coniuga necessariamente e conseguentemente con un altro principio etico fondamentale: la salvezza viene sempre dal basso, viene dalla presa di coscienza, dal formarsi e dall’emergere come soggetti politici delle masse di « inesistenti », di semplici «oggetti », di «strumenti passivi».
E’ questo il messaggio che da anni, da quando sono nate, portano avanti le comunità cristiane di base col loro stesso esistere. Le quali infatti concludono un loro comunicato con la seguente affermazione: «La drammatica crisi che la società e la chiesa italiane stanno vivendo può essere anche occasione per i cattolici conciliari di maturare la consapevolezza che non è sufficiente la critica, opportuna e necessaria, ma è necessaria anche l’assunzione di responsabilità nella gestione della Comunità ecclesiale esercitando fino in fondo ruoli e funzioni che il Concilio ha affidato al Popolo di Dio».
Prima di questa affermazione le comunità di base, mentre esprimono «vicinanza e condivisione» verso le espressioni di «disagio divenuto disgusto» di parti notevoli del mondo cattolico, affermano di sentirsi chiamate «a riflettere sullo stato della chiesa italiana». E invitano «questo ’cattolicesimo del disagio’ ad una seria riflessione sulla qualità dell’impegno intraecclesiale che non può limitarsi a elevare qualche critica occasionale verso scelte inopportune o errate delle autorità ecclesiastiche cattoliche».
Per evidenziare la necessità di «prendere finalmente coscienza che, se siamo a questo punto, è perché sono arrivate al pettine le inevitabili e logiche conseguenze di una strategia pastorale orientata, scelta dopo scelta, a svuotare la Chiesa dello spirito conciliare. Non è servito impegnarsi nel sociale senza toccare se non marginalmente la struttura ecclesiastica, mentre nel dopoconcilio veniva fatto il vuoto intorno alle esperienze conciliari più vive, che spesso venivano lasciate sole a subire, una dopo l’altra, la repressione e dalle quali si prendevano le distanze». Tutto l’impegno che riusciamo a esprimere per uscire dal pantano ritengo che vada sempre misurato con questo tema della crescita culturale della società come esigenza primaria.
Auguri padre Nogaro.
di Giovanni Sarubbi
Caserta, 30 giugno 2009. Nell’aula magna della Università si tiene un’affollata assemblea per salutare il vescovo di Caserta, Padre Raffaele Nogaro, che, dal prossimo 5 luglio va in pensione. Nonostante il caldo nessuno si muove e l’aula rimane piena fino alla fine. Tre ore di interventi, di saluti, di ringraziamenti e riconoscimenti per un uomo che lascia a Caserta un profondo segno del suo ministero episcopale durato 19 anni. Tre ore di interventi per ricordare le strade che Nogaro ha aperto e su cui si intende continuare a lavorare senza tentennamenti: l’accoglienza degli immigrati, la questione ambientale, le cave, il Macricro,...
Anche io ho ricordato e ringraziato per la sua adesione spontanea alla iniziativa del dialogo cristiano-islamico del novembre del 2001. Tutto è stato ricordato da chi quelle esperienze continua a vivere in prima persona, cristiani, musulmani, bahai, ebrei ma anche atei, agnostici e marxisti che Nogaro ha accolto senza alcuna discriminazione.
“Ho preferito amare l’uomo e non Dio”, dirà Nogaro nel suo intervento conclusivo. Un intervento con al centro i poveri e l’amore che si deve avere per loro, perché l’unico modo per amare Dio è amare i poveri.
Ha ricordato quando, giovane parroco della cattedrale di Udine, sua città di origine, difese la “messa per i poveri”, che il suo vescovo voleva abolire, durante la quale venivano accolti tutti i poveri della città a cui dopo la messa veniva distribuito il ricavato delle offerte. Nogaro ha ricordato la gioia di quelle messe e degli incontri successivi con i poveri e il dispetto della gente “perbene” che considerava i poveri rumorosi, sporchi, maleducati e li voleva cacciare dalla chiesa. E gli sono brillati gli occhi quando ha ricordato che al momento della sua nomina a vescovo, gli unici che andarono a salutarlo quando partì per la sua destinazione, furono proprio i poveri che non volevano che lui partisse e che lo salutarono dicendogli che loro sarebbero stati sempre con lui anche in punto di morte. “Se non ci sarà nessuno con te in punto di morte noi ci saremo”, queste le parole che Nogaro porta nel cuore e che ha considerato come il più bel regalo che ebbe per la sua nomina a vescovo e che ancora lo emozionano. Emozione che è passata tutta intera nell’assemblea che lo ha ascoltato con grande commozione.
Le sue parole mi hanno ricordato il vescovo del libro “I Miserabili” di Victor Hugo, che accoglie in casa sua un ladro sapendo che era un ladro, che non solo lo difende quando i gendarmi glielo riportano in catene con la refurtiva, ma gli da anche altri ori dicendo che se li era dimenticati. Quel gesto cambiò la vita di quell’uomo. Così Nogaro che è stato un vescovo, come hanno testimoniato molti dei presenti, che per anni ha dato tutto quello che era suo ai poveri senza clamore, senza esibire i suoi gesti di amore, amando in silenzio, come solo un padre può fare.
Ed il suo intervento conclusivo è stato anche di netto distacco da chi gestisce la cosa pubblica senza amore. “Non si può fare politica - ha detto Nogaro - senza amare la gente” e ha concluso il suo intervento con quello che è un vero e proprio lascito spirituale: “Fate la rivoluzione della legalità e della giustizia”. Forse per questo i rappresentanti ufficiali delle istituzioni non erano presenti e hanno rifiutato di conferirgli la Cittadinanza emerita di Caserta che pero gli è stata offerta dalla “Civitas Casertana”, dalle associazioni e da tutti quelli che lo hanno conosciuto e apprezzato nei 19 anni di suo impegno come vescovo. Padre Nogaro rimarrà a Caserta, non tornerà nella sua città natale. Ci auguriamo che i casertani e i seguaci di Gesù di Nazareth possano averlo con loro ancora a lungo. Lui certo non starà zitto, ma soprattutto non staranno zitti quelli che ieri lo hanno riconosciuto, credenti e non credenti, come loro padre. E fra padri e figli c’è un legame che nessuna vicissitudine potrà mai rompere.
Auguri padre Nogaro.
Giovanni Sarubbi
Vedi la sezione Testimoni del nostro tempo (www.ildialogo.org/testimoni) per un’ampia documentazione su Padre Raffaele Nogaro, fra cui le motivazioni per il conferimento della cittadinanza emerita di Caserta.