Ma chi è Dylan, Babbo Natale?
di Roberto Brunelli *
C’era una volta il Dylan profeta. Beh, c’erano stati anche il Dylan menestrello, il Dylan biblista, il Dylan elettrico, il Dylan rivoluzionario, il Dylan «giuda», il Dylan apocalittico, il Dylan evangelico, quello che cantò dal Papa, quello che fa le pubblicità per reggiseno, l’attore, il conduttore radiofonico, lo scrittore, quello che se ne va a giro in bicicletta vestito da donna, il pittore, il plurimo candidato al Nobel. Ora, dopo aver riconquistato il vertice delle classifiche mondiali con due album formidabili (Modern Times, 2006, e Together Through Life, 2009), se ne esce con un incredibile disco natalizio.
Avete capito bene: natalizio. Campanellini, slitte che corrono sulla neve e babbi natale a sfare. Prim’ancora dell’uscita di questo Christmas in the Heart, in rete i dylaniati e dylanologhi hanno scrutato questi brani con incredulità: questa volta è impazzito davvero, scrive uno. È andato oltre, osserva l’altro. E non è certo la prima volta: sono passati quasi quattro decenni da quando un autorevolissimo critico accolse un suo disco ululando «cos’è questa merda?».
Comunque la si veda, l’album numero quarantotto di mr Zimmerman - i cui proventi, peraltro, andranno in beneficenza per una campagna contro la fame - è una nuova sfida. Una sfida colorata di dolce sarcasmo, condita di profonda conoscenza delle più varie tradizioni musicali del suo paese, una specie di provocazione kitsch di cui l’unica vera protagonista è la voce del vecchio Bob: perché i campanellini e le chitarre slide, l’accordeon suonato dall’amico David Hidalgo dei Los Lobos, i coretti femminili tirati fuori direttamente dalle radio anni quaranta, l’incredibile Adeste fidelis cantata mezzo in latino mezzo in inglese, non significano nulla finché con compare quel rauco, profondo, inquietante gorgoglìo che è diventata, da qualche anno a questa parte, la strepitosa voce di Bob Dylan.
In effetti, Christmas in the Heart è un disco assai sofisticato: prodotto da Jack Frost (ossia Dylan medesimo), è un tuffo vintage dentro un sognante paesaggio pre-rock’n’roll, un sogno proprio grazie a quella voce sembra segnato dai divertiti incubi colorati alla Tim Burton. Dice tutto la pin-up vestita da Babbo Natale della controcopertina del cd, tutta rossa e con reggicalze ammiccante, che pare presa direttamente dalle cartoline natalizie da inviare ai soldati in Europa durante la seconda guerra mondiale. È una loro immaginaria colonna sonora, questo album: Must be Santa è una marcetta di paese, Silver bells una ballata da locanda di campagna affondata nella neve, laddove non mancano il dolente di The Christmas Blues né classici assoluti del genere come Little Drummer Boy o il coro a cappella femminile di First Noel.
Qualcuno ha scritto che Christmas in the Heart pare suonato da una banda di ubriachi. Forse è pure un po’ vero, ma il suo segreto è altrove. È che Dylan è un ebreo errante della musica che si tiene stretto il regalo più bello che ha ricevuto in dono: la libertà.
Bob Dylan, la scaletta di Christmas In The Heart
Il secondo album del 2009 di Bob Dylan si intitola Christmas In The Heart ed è un lavoro di quindici "tracce classiche" per il Natale. Il disco sarà distribuito il 13 ottobre. Di seguito la tracklist: *
1. Here Comes Santa Claus
2. Do You Hear What I Hear?
3. Winter Wonderland
4. Hark The Herald Angels Sing
5. I’ll Be Home For Christmas
6. Little Drummer Boy
7. The Christmas Blues
8. O’ Come All Ye Faithful (Adeste Fideles)
9. Have Yourself A Merry Little Christmas
10. Must Be Santa
11. Silver Bells
12. The First Noel
13. Christmas Island
14. The Christmas Song
15. O’ Little Town Of Bethlehem
* FONTE: Del Rock
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
BIBBIA, INTERPRETAZIONE, E "LATINORUM" CATTOLICO-ROMANO.
FLS
Bob Dylan. Murder Most Foul
di Alessandro Carrera *
Con un messaggio sul suo sito www.bobdylan.com e poi su vari social media, Bob Dylan ha annunciato l’uscita di questa sua canzone,Murder Most Foul, dedicata all’uccisione del presidente John Fitzgerald Kennedy a Dallas, Texas il 22 novembre 1963.
La canzone, postata su youtube e ripresa da vari siti, è la prima in otto anni firmata da Dylan (dall’uscita di Tempest, 2012) e stando alla voce e dall’arrangiamento sembra registrata non più di cinque anni fa. “Murder most foul”, il delitto più efferato, è una citazione dall’Amleto di Shakespeare (Atto I, Scena 5; lo spettro del padre descrive la sua morte ad Amleto) e tutta la canzone, come è nello stile di Dylan, contiene moltissime citazioni da canzoni e film, riferimenti letterari e storici, in particolare relativi all’assassinio di Kennedy il riferimento alla “collinetta erbosa” o grassy knoll verrà immediatamente compreso da chi è convinto che proprio dietro quella collinetta della Dealey Plaza di Dallas si celasse un tiratore scelto) ma non solo.
L’ultima parte è una vera e propria litania, in cui Dylan invoca il disc jockey Wolfman Jack (Robert Preston Smith, 1938-1995) perché suoni, come lamento funebre per il presidente ucciso e per l’America tutta, una selezione di brani musicali (ma anche film) che copre l’intera storia della popular music americana e inglese del Novecento.
La prima volta che Dylan aveva affrontato il tema risale alle ultime settimane del 1963, in una serie di poesie intitolate Kennedy Poems e ufficialmente ancora inedite. Come già Tempest, la canzone dell’album omonimo dedicata all’affondamento del Titanic, Murder Most Foul è una finestra aperta sul tempo, ma non è legata nessun anniversario particolare e la sua uscita nei tempi della pandemia può risuonare come una meditazione sulle speranze tradite dell’America e allo stesso tempo una celebrazione del potere dell’arte di dare senso a eventi la cui verità sembra destinata a sfuggire per sempre (vari accenni fanno capire che Dylan non sembra avere molta fiducia nelle conclusioni ufficiali raggiunte dalla Commissione Warren, ma d’altra parte qui Kennedy è celebrato più per il suo mito che per la sua eredità storica).
La musica può ricordare a tratti Not Dark Yet dall’album Time Out of Mind del 1997, ma è più semplice, appena accennata, e fa di Murder Most Foul quasi un poema intonato con accompagnamento musicale di pianoforte, viola, contrabbasso e batteria. Di sedici minuti e cinquantasei secondi, è il brano più lungo registrato da Dylan.
Il testo merita una lunga e dettagliata analisi che non è questa la sede per affrontare. Ne offro una traduzione basata su una trascrizione trovata in internet, da me rivista e corretta sulla base dell’ascolto del brano.
Alessandro Carrera
Un delitto efferato
Fu un giorno nero a Dallas, novembre ’63,
giorno d’infamia per l’eternità
il Presidente Kennedy era sulla cresta dell’onda,
un bel giorno per vivere, un bel giorno per morire.
Condotto al macello come un agnello da sacrificio,
dice un momento ragazzi, voi sapete chi sono?
Sicuro che lo sappiamo, sappiamo bene chi sei tu.
Era ancora in macchina quando la testa gliela fecero saltare.
Ammazzato come un cane alla luce del sole,
questione di tempo, e il tempismo era perfetto.
Hai dei debiti in sospeso, siamo qui per ritirare,
ti uccideremo con odio, senza il minimo rispetto.
Ne rideremo, ti stordiremo, te lo butteremo in faccia,
abbiamo già qualcuno qui per prendere il tuo posto.
Il giorno che al re fecero saltare le cervella
migliaia guardavano, nessuno vide niente,
avvenne così in fretta, così in fretta di sorpresa,
proprio lì davanti agli occhi di ciascuno,
la più grande magia mai compiuta sotto il sole,
perfetta esecuzione, un tocco da maestro,
Uomo lupo, oh uomo lupo, oh uomo lupo manda il tuo ululato,
è il gioco del cucù, è un delitto efferato.
Zitti bambini, che poi lo capirete,
stanno arrivando i Beatles, per la mano vi terrete.
Una scivolata giù per la ringhiera, andate a prendere la giacca,
attraversate il Mersey e afferrate il mondo per la gola.
Ecco tre barboni, vestiti da far pena,
raccattate i pezzi e a mezz’asta le bandiere.
Io vado a Woodstock, è l’Era dell’Acquario,
poi andrò ad Altamont e starò vicino al palco.
Sporgiti dal finestrino, goditi la vita,
c’è un party proprio dietro quella collinetta erbosa.
Impila i mattoni, versa il cemento,
non dica che Dallas non la ama, Signor Presidente.
Pigia sull’acceleratore, infila il piede fin nel serbatoio
cerca di arrivare al triplo sottopassaggio.
Tu cantante al nerofumo, tu pagliaccio con la biacca,
non fatevi vedere dopo il calar del sole.
Nel quartiere a luci rosse come un poliziotto in caccia
a vivere nell’incubo di Elm Street.
Se ti trovi a Deep Ellum metti i soldi in una scarpa,
non chiedere che cosa il tuo paese farà mai per te,
qui non si fa credito, soldi da bruciare,
A Dealey Plaza a sinistra devi svoltare.
Vado all’incrocio, farò l’autostop,
fede, speranza e carità, è lì che sono morte.
Sparategli che corre, ragazzi, sparategli finché potete,
Vediamo se l’uomo invisibile lo colpirete.
Addio Charlie, addio Zio Sam,
francamente, Miss Scarlett, non me ne frega niente.
Qual è la verità? Dove se n’è andata?
Chiedi a Oswald e Ruby, dovrebbero saperlo.
Civetta saggia dice, risparmia pure il fiato,
Gli affari sono affari, è un delitto efferato.
Tommy, mi senti? Sono la Regina dell’Acido,
viaggio in una Lincoln limousine, lunga e nera,
sul sedile posteriore di fianco a mia moglie
e per destinazione l’aldilà.
Mi chino a sinistra, ho la testa sul suo grembo,
oh Dio, sono finito in una trappola.
Bene, non chiediamo tregua e tregua non ne diamo,
siamo qui sulla strada vicino a quella dove stai.
Gli hanno mutilato il corpo, gli hanno preso le cervella,
che altro hanno fatto, accanirsi sulla pena,
ma la sua anima non c’era, dove mai poteva stare,
per cinquant’anni non han fatto altro che cercare.
Libertà, oh libertà, libertà dal bisogno,
mi spiace dirglielo, signore, ma solo I morti sono liberi.
Dammi un po’ d’amore, non dirmi una bugia,
getta l’arma nello scolo e vattene via.
Svegliati piccola Suzie, andiamo a fare un giro,
oltre il Trinity River, teniamo gli occhi aperti.
Accendi la radio, non toccare i comandi,
da qui a Heartland Hospital sono solo sei miglia.
Mi fai girare la testa Ms. Lizzy, mi riempi di piombo,
quella tua magica pallottola viene avanti come niente.
Sono solo un allocco, un patsy come Patsy Cline,
non ho mai sparato a nessuno né davanti né dietro,
ho sangue in un occhio, sangue in un orecchio,
alla nuova frontiera non ci arriverò mai
Il film di Zapruder l’ho visto ieri notte,
trentatré volte almeno, forse anche di più.
È orrendo, un inganno, è crudele, è cattivo,
la cosa più brutta che si possa vedere.
L’hanno ucciso una volta, l’hanno ucciso una seconda
l’hanno ucciso come in un sacrificio umano.
Il giorno che l’hanno ucciso qualcuno mi ha detto ragazzo mio,
l’età dell’Anticristo è appena cominciata.
L’Air Force One è arrivato all’imbarco
Johnson ha giurato alle 2.38.
Fammelo sapere quando la spugna avrai gettato,
È quello che è, un delitto efferato.
Gattina mia, qual è la novità, che cosa c’è da dire?
Ho detto che l’anima della nazione è stata lacerata,
la sua lunga decadenza ormai è cominciata,
e che siamo a trentasei ore dopo il giorno del giudizio
Wolfman Jack parla in lingua,
a pieni polmoni e non la smette più.
Metti su una canzone, Mr. Wolfman Jack
suonala per me nella mia lunga Cadillac.
Suonami Only the Good Die Young,
portami là dove hanno impiccato Tom Dooley.
La Saint James Infirmary alla corte di King James,
se vuoi ricordare è meglio che ti scrivi i nomi.
Suonami anche Etta James, suonami I’d Rather Go Blind,
suonala per l’uomo con la mente telepatica.
Suona John Lee Hooker, suona Scratch My Back,
per quello che teneva lo strip club e di nome aveva Jack.
Guitar Slim, Goin’ Down Slow,
Suonala per me e per Marilyn Monroe.
Suona Please, Don’t Let Me Be Misunderstood.
Suonala per la first lady che non si sente niente bene.
Suona Don Henley, suona Glenn Frey,
porta tutto all’estremo e poi mollalo lì.
Suonala pure per Carl Wilson
che guarda da lontano alla Gower Avenue,
suona la tragedia, suona Twilight Time,
riportami a Tulsa, alla scena del delitto.
Suonane un’altra e Another One Bites the Dust,
suona The Old Rugged Cross e In God We Trust.
Monta su quel cavallo dal pelo rosa, prendi la strada deserta,
sta’ lì e aspetta che gli esploda la testa.
Suona Mystery Train per Mr. Mystery,
l’uomo che cadde morto come un albero senza radici.
Suonala per il reverendo, suonala per il parroco,
suonala per il cane che non ha un padrone.
Suona Oscar Peterson, suona Stan Getz,
suona Blue Skies, suona Dickey Betts,
suona Art Pepper, Thelonious Monk,
Charlie Parker e tutta quella roba,
tutta quella roba e tutto quel jazz,
suona qualcosa per L’uomo di Alcatraz.
Suona Buster Keaton, suona Harold Lloyd,
suona Bugsy Siegel, suona Pretty Boy Floyd,
gioca i numeri del lotto, calcola le quote,
suona Cry Me a River per il signore degli dei
suona Number Nine e suona il numero sei,
suona per Lindsey e per Stevie Nicks,
suona Nat King Cole, suona Nature Boy,
suona Down in the Boondocks per Terry Malloy,
suona Accadde una notte e One Night of Sin
ti stanno ascoltando in dodici milioni.
Suona il Mercante di Venezia, suona i mercanti di morte,
suona Stella by Starlight da Lady Macbeth.
Non tema Presidente, c’è aiuto in arrivo,
saranno qui i suoi fratelli, gliela faranno pagare.
Fratelli, che fratelli? Che cosa faranno pagare?
Ditegli che li aspettiamo, vengano pure, sistemeremo anche loro.
Love Field è dove l’aeroplano è atterrato,
ma poi non è più ripartito.
Impossibile stargli alla pari, secondo a nessuno.
l’hanno ucciso sull’altare del sole nascente.
Suona Play Misty for Me e That Old Devil Moon,
suona Anything Goes e Memphis in June,
suona Lonely at the Top e Lonely Are the Brave,
suona per Houdini che si rivolta nella tomba,
suona Jelly Roll Morton, suona Lucille,
suona Deep in a Dream e suona Driving Wheel,
Suona la Sonata al Chiaro di Luna in fa diesis
e Key to the Highway eseguita dal re dell’armonica.
Suona Marching through Georgia e Dumbarton Drums,
suona Darkness and Death che verrà quando verrà,
suona Love Me or Leave Me del grande Bud Powell,
suona lo stendardo insanguinato, suona il delitto efferato.
* Doppiozero, 02.04.2020 (ripresa parziale).
FLS
All’improvviso torna Bob Dylan con un brano su JFK di 17 minuti. E un appello: "State a casa e che Dio sia con voi"
Il cantautore pubblica ’Murder Most Foul’, la canzone più lunga della sua carriera, a distanza di otto anni dall’ultimo album di inediti, ’Tempest’. Un brano "composto qualche tempo fa" sull’assassinio dell’amato presidente. Dove, cantando il passato, ci ricorda la fragilità del presente
di VALERIA RUSCONI (la Repubblica, 27 marzo 2020)
"Saluti ai miei fan e follower con gratitudine per tutto il vostro supporto e lealtà nel corso degli anni. Questa è una canzone inedita che abbiamo registrato qualche tempo fa che potreste trovare interessante. State al sicuro, state attenti e che Dio sia con voi. Bob Dylan". Il messaggio arriva all’improvviso con un post su Twitter, inatteso probabilmente anche dal management di Dylan: impossibile gestire fino in fondo un uomo e un artista come lui, sorprendente, in ogni cosa che ha fatto e continua a fare, sempre pronto a scombinare le carte, da quasi sessant’anni a questa parte. Isolato eppure una presenza costante. Incapace di stare fermo, di venire a patti persino con se stesso.
bobdylan.com
✔
@bobdylan
Greetings to my fans and followers with gratitude for all your support and loyalty across the years.
This is an unreleased song we recorded a while back that you might find interesting.
Stay safe, stay observant and may God be with you.
Bob Dylan https://bobdylan.lnk.to/MurderMostFoulTA ...
Così, come un fulmine nel cielo più buio che l’umanità abbia scrutato da molto tempo a questa parte, appare Murder Most Foul, ’L’assassinio più disgustoso’, una monumentale storia musicata lunga quasi 17 minuti - 16 minuti e 56 secondi per la precisione - che racconta dell’uccisione, il 22 novembre 1963, di uno dei presidenti americani più amati, John Fitzgerald Kennedy.
È un pezzo inedito che arriva a otto anni da Tempest, l’ultimo disco di brani originali di Dylan del 2012, ed è, per quanto si sappia, la canzone più lunga di sempre del suo repertorio: Highlands, da Time Out of Mind del 1997, il capolavoro prodotto da Daniel Lanois, durava 16 minuti e 31 secondi.
Tempest era un disco bellissimo e potente, con un Dylan - ancora una volta a rimescolare le carte - che si mostrava prima ironico e spavaldo (guardate il video della traccia di apertura, Duquesne Whistle) per poi chiudere con Roll on John, racconto crudo degli ultimi istanti di vita di John Lennon. Curioso come, anche in questo nuovo brano, Murder Most Foul, una sorta di opera shakespeariana musicata in cui la musica è solo un accompagnamento o un mezzo - ci sono un piano delicato, un violino, i piatti della batteria appena carezzati - si citino anche i Beatles.
La voce di Dylan è roca ma non ancora al punto in cui la conosciamo oggi: temporalmente, questo pezzo potrebbe avere anche più di qualche anno, come con disarmante sincerità ha ammesso, in una nota, un rappresentante dell’artista spiegando che "un po’ di tempo fa" per uno come Dylan potrebbe voler dire mesi fa o addirittura anni addietro.
"Era un giorno buio a Dallas, novembre del ’63, un giorno che vivrà nell’infamia, il presidente Kennedy andava a gonfie vele, era un bel giorno per vivere e un bel giorno per morire": così si apre la maestosa traccia che, nella struttura del testo, rimanda ai pezzi più complessi della produzione di Dylan, come Highway 61 Revisited, e musicalmente può ricordare le atmosfere dolcemente sospese nella loro tragicità create da Nick Cave più recentemente.
Il pezzo è calato profondamente negli anni Sessanta, con le sue innumerevoli citazioni: non solo i Fab Four che "stanno arrivando" (la ’presa’ degli Usa di Paul McCartney e compagni risale al 1964) ma anche "l’era dell’Acquario" menzionata nel musical Hair o l’imminente festival di Woodstock, il sogno spezzato dell’Estate dell’Amore con il dramma di Altamont e poi di nuovo dentro al dolore con la Grassy knoll, la collinetta a Dealey Plaza, Dallas, da dove presumibilmente il cecchino sparò a Kennedy. Kennedy nel "giorno in cui fecero saltare le cervella al re", lo dice così Dylan, su quella musica forte e fragile al tempo stesso, tanto da creare un contrappasso lacerante in chi è all’ascolto. Si arriva alla fine degli anni Sessanta - è il 1969 - con l’altro incubo musicale scritto dagli Who, l’opera rock Tommy, quando Dylan cita Tommy, Can You Hear Me?, una traccia del disco, e canta "Tommy, mi puoi sentire? Sono la Regina dell’Acido" per poi sussurrare "cavalco in una lunga, nera limousine, cavalco sul sedile posteriore accanto a mia moglie, andando dritto verso l’aldilà, mi chino a sinistra e ho la testa sul suo grembo".
I riferimenti si affollano, compaiono come lampi - ci sono anche Marilyn Monroe, Buster Keaton e Houdini - poi arriva l’inizio della fine: un finale che è come un mantra, in cui Dylan ripete titoli di canzoni e intona "suona Etta James", "suona John Lee Hooker", "suona Don Henley", "suona Glenn Frey", "suona Thelonious Monk, Charlie Parker e tutta quella spazzatura", "suona Stevie Nicks", "suona Nat King Cole". È una coda lunghissima, un elenco di visioni, tasselli di storia, ricordi.
Cosa vorrà dirci Bob Dylan con questa traccia tirata fuori solo oggi, in cui la morte che per sessant’anni lui ha cantato in modo così vivo, è una presenza costante?
Questa volta non serve chiederselo, non serve il rumore degli interrogativi nella tua testa. Questa volta bisogna solo fare silenzio. E ascoltare.
Il testo completo di Murder Most Foul
Twas a dark day in Dallas, November ’63
A day that will live on in infamy
President Kennedy was a-ridin’ high
Good day to be livin’ and a good day to die
Being led to the slaughter like a sacrificial lamb
He said, "Wait a minute, boys, you know who I am?"
"Of course we do. We know who you are."
Then they blew off his head while he was still in the car
Shot down like a dog in broad daylight
Was a matter of timing and the timing was right
You got unpaid debts; we’ve come to collect
We’re gonna kill you with hatred; without any respect
We’ll mock you and shock you and we’ll put it in your face
We’ve already got someone here to take your place
The day they blew out the brains of the king
Thousands were watching; no one saw a thing
It happened so quickly, so quick, by surprise
Right there in front of everyone’s eyes
Greatest magic trick ever under the sun
Perfectly executed, skillfully done
Wolfman, oh wolfman, oh wolfman howl
Rub-a-dub-dub, it’s a murder most foul
Hush, little children. You’ll understand
The Beatles are comin’; they’re gonna hold your hand
Slide down the banister, go get your coat
Ferry ’cross the Mersey and go for the throat
There’s three bums comin’ all dressed in rags
Pick up the pieces and lower the flags
I’m going to Woodstock; it’s the Aquarian Age
Then I’ll go to Altamont and sit near the stage
Put your head out the window; let the good times roll
There’s a party going on behind the Grassy Knoll
Stack up the bricks, pour the cement
Don’t say Dallas don’t love you, Mr. President
Put your foot in the tank and step on the gas
Try to make it to the triple underpass
Blackface singer, whiteface clown
Better not show your faces after the sun goes down
Up in the red light district, they’ve got cop on the beat
Living in a nightmare on Elm Street
When you’re down in Deep Ellum, put your money in your shoe
Don’t ask what your country can do for you
Cash on the ballot, money to burn
Dealey Plaza, make left-hand turn
I’m going down to the crossroads; gonna flag a ride
The place where faith, hope, and charity died
Shoot him while he runs, boy. Shoot him while you can
See if you can shoot the invisible man
Goodbye, Charlie. Goodbye, Uncle Sam
Frankly, my Scarlet, I don’t give a damn
What is the truth, and where did it go?
Ask Oswald and Ruby; they oughta know
"Shut your mouth," said the wise old owl
Business is business, and it’s a murder most foul
Tommy, can you hear me? I’m the Acid Queen
I’m riding in a long, black limousine
Riding in the backseat next to my wife
Heading straight on in to the afterlife
I’m leaning to the left; got my head in her lap
Hold on, I’ve been led into some kind of a trap
Where we ask no quarter, and no quarter do we give
We’re right down the street from the street where you live
They mutilated his body, and they took out his brain
What more could they do? They piled on the pain
But his soul’s not there where it was supposed to be at
For the last fifty years they’ve been searchin’ for that
Freedom, oh freedom. Freedom from need
I hate to tell you, mister, but only dead men are free
Send me some lovin’; tell me no lies
Throw the gun in the gutter and walk on by
Wake up, little Suzie; let’s go for a drive
Cross the Trinity River; let’s keep hope alive
Turn the radio on; don’t touch the dials
Parkland hospital, only six more miles
You got me dizzy, Miss Lizzy. You filled me with lead
That magic bullet of yours has gone to my head
I’m just a patsy like Patsy Cline
Never shot anyone from in front or behind
I’ve blood in my eye, got blood in my ear
I’m never gonna make it to the new frontier
Zapruder’s film I seen night before
Seen it 33 times, maybe more
It’s vile and deceitful. It’s cruel and it’s mean
Ugliest thing that you ever have seen
They killed him once and they killed him twice
Killed him like a human sacrifice
The day that they killed him, someone said to me, "Son
The age of the Antichrist has only begun."
Air Force One coming in through the gate
Johnson sworn in at 2:38
Let me know when you decide to thrown in the towel
It is what it is, and it’s murder most foul
What’s new, pussycat? What’d I say?
I said the soul of a nation been torn away
And it’s beginning to go into a slow decay
And that it’s 36 hours past Judgment Day
Wolfman Jack, speaking in tongues
He’s going on and on at the top of his lungs
Play me a song, Mr. Wolfman Jack
Play it for me in my long Cadillac
Play me that "Only the Good Die Young"
Take me to the place Tom Dooley was hung
St. James Infirmary and the Port of King James
If you want to remember, you better write down the names
Play Etta James, too. Play "I’d Rather Go Blind"
Play it for the man with the telepathic mind
Play John Lee Hooker. Play "Scratch My Back."
Play it for that strip club owner named Jack
Guitar Slim going down slow
Play it for me and for Marilyn Monroe
Play "Please Don’t Let Me Be Misunderstood"
Play it for the First Lady, she ain’t feeling any good
Play Don Henley, play Glenn Frey
Take it to the limit and let it go by
Play it for Karl Wirsum, too
Looking far, far away at Down Gallow Avenue
Play tragedy, play "Twilight Time"
Take me back to Tulsa to the scene of the crime
Play another one and "Another One Bites the Dust"
Play "The Old Rugged Cross" and "In God We Trust"
Ride the pink horse down the long, lonesome road
Stand there and wait for his head to explode
Play "Mystery Train" for Mr. Mystery
The man who fell down dead like a rootless tree
Play it for the Reverend; play it for the Pastor
Play it for the dog that got no master
Play Oscar Peterson. Play Stan Getz
Play "Blue Sky"; play Dickey Betts
Play Hot Pepper, Thelonious Monk
Charlie Parker and all that junk
All that junk and "All That Jazz"
Play something for the Birdman of Alcatraz
Play Buster Keaton, play Harold Lloyd
Play Bugsy Siegel, play Pretty Boy Floyd
Play the numbers, play the odds
Play "Cry Me A River" for the Lord of the gods
Play Number 9, play Number 6
Play it for Lindsey and Stevie Nicks
Play Nat King Cole, play "Nature Boy"
Play "Down In The Boondocks" for Terry Malloy
Play "It Happened One Night" and "One Night of Sin"
There’s 12 Million souls that are listening in
Play "Merchant to Venice", play "Merchants of Death"
Play "Stella by Starlight" for Lady Macbeth
Don’t worry, Mr. President. Help’s on the way
Your brothers are coming; there’ll be hell to pay
Brothers? What brothers? What’s this about hell?
Tell them, "We’re waiting. Keep coming." We’ll get them as well
The field is where his plane touched down
But it never did get back up off the ground
Was a hard act to follow, second to none
They killed him on the altar of the rising sun
Play "Misty" for me and "That Old Devil Moon"
Play "Anything Goes" and "Memphis in June"
Play "Lonely At the Top" and "Lonely Are the Brave"
Play it for Houdini spinning around his grave
Play Jelly Roll Morton, play "Lucille"
Play "Deep In a Dream", and play "Driving Wheel"
Play "Moonlight Sonata" in F-sharp
And "A Key to the Highway" for the king on the harp
Play "Marching Through Georgia" and "Dumbaroton’s Drums"
Play darkness and death will come when it comes
Play "Love Me Or Leave Me" by the great Bud Powell
Play "The Blood-stained Banner", play "Murder Most Foul".
FLS
Il Nobel all’Accademia: grazie per aver dato voi una risposta meravigliosa
di Serena Danna (Corriere della Sera, 11.12.2016)
E alla fine Bob Dylan parlò. Dopo mesi di illazioni, giudizi, scontri sul conferimento del premio Nobel per la Letteratura al cantautore americano, Dylan si riappropria del palcoscenico dell’Accademia svedese. Doveva essere il grande assente della cerimonia di premiazione, rappresentato dall’amica di sempre Patti Smith che, emozionatissima, ha cantato A Hard Rain’s A-Gonna Fall.
E invece, dopo le lacrime e le medaglie, Dylan ricompare attraverso un testo - letto durante il banchetto dall’ambasciatrice americana in Svezia Azita Raji - in cui finalmente restituisce la sua versione, a partire dai ringraziamenti: «Essere premiato con il Nobel per la Letteratura è una cosa che non avrei mai immagino nella mia vita», scrive. Anche perché, fin da piccolo, si è confrontato con i «giganti della letteratura» - cita Rudyard Kipling, George Bernard Shaw, Thomas Mann, Pearl Buck, Albert Camus ed Ernest Hemingway -, dunque essere tra loro «è qualcosa che va davvero oltre le parole».
È un discorso pieno di empatia verso i maestri: «Io non so se questi uomini e donne abbiano davvero mai pensato di poter essere onorati con il Nobel un giorno, tuttavia credo che chiunque scriva un libro, una poesia o un’opera teatrale, ovunque nel mondo, custodisca dentro di sé quel segreto, probabilmente così sotterrato da non sapere neanche se c’è davvero».
Dylan - classe 1941 - dichiara di aver paragonata l’eventualità di vittoria del Nobel a quelle di andare sulla Luna: «Nell’anno in cui sono nato e in quelli successivi non c’era praticamente nessuno nel mondo considerato bravo abbastanza da vincere un Nobel. Così riconosco di essere davvero in una compagnia scarna».
Il paragone con gli astronauti non è l’unico del discorso di Dylan e, probabilmente, neanche il più visionario, visto che per spiegare la sua reazione al premio (e quello che rappresenta) ricorre a William Shakespeare. Tutto è cominciato il giorno dell’annuncio: dopo la notizia - «ci ho messo qualche minuto per realizzare quello che era successo» - l’artista ha iniziato a pensare al grande autore inglese: «Suppongo che lui si considerasse un drammaturgo. Probabilmente il pensiero che con il suo lavoro stesse producendo letteratura non l’ha neanche mai sfiorato. Le sue parole erano scritte per il palcoscenico. Per essere recitate, non lette. Mentre scriveva l’ Amleto sono sicuro che pensava a tantissime cose diverse.“Chi è l’attore giusto per questo ruolo?”, “Come andrò in scena?” “Voglio davvero ambientarlo in Danimarca?”». Non solo. Di sicuro - ipotizza Dylan - c’erano anche questioni molto meno nobili: «Ci sono abbastanza posti a sedere per i miei finanziatori? Come posso recuperare un teschio umano?».
In definitiva, scommette il cantautore, «la cosa più lontana dalle mente di Shakespeare era domandarsi se stesse facendo letteratura». Lo sa perché, in fondo, si rispecchia in lui: «Come Shakespeare, anche io sono spesso occupato nel perseguimento delle mie imprese creative e alle prese con gli aspetti pratici: “Quali sono i musicisti migliori per questa canzone?”,“Sto registrando nello studio giusto?”, “La tonalità è corretta? Queste cose non cambiano mai, neanche in 400 anni. Mai ho avuto il tempo di chiedermi “le mie canzoni sono letteratura?”».
Il cantautore - che ringrazia l’Accademia per aver preso in considerazione seriamente quella domanda e «fornito una meravigliosa risposta» - ricorda le sue aspirazioni da adolescente: «Pensavo che magari un giorno le mie canzoni sarebbero passate nei caffè o nei bar, e più avanti magari in luoghi come il Carnegie Hall o il London Palladium». E continua: «Se poi mi fossi messo a sognare in grande, allora forse avrei immaginato di registrarle e quindi di ascoltarle alla radio. Quello era il grande premio nella mia testa».
Al di là dei sogni, quello che resta cruciale nel Dylan-pensiero sono le canzoni, «il centro vitale di ogni cosa che faccio: sembrano aver trovato un posto nella vita di molte persone attraverso differenti culture e ne sono grato».
Dylan chiude con una confessione: «Come performer, ho suonato per 50 mila persone e per 50 e posso dirvi che è più difficile suonare per 50. 50 mila persone formano un’entità unica, ma non 50. Ogni persona ha un’identità separata, individuale, un mondo dentro di sé. Possono percepire le cose più chiaramente: la tua onestà e come si relazione alla profondità del tuo talento. Il fatto che il Comitato del Nobel sia così piccolo mi fa un certo effetto».
Dal canto suo, il Comitato ha ribadito, attraverso l’accademico Horace Engdahl, la convinzione nella scelta di Dylan, spazzando via qualsiasi dubbio: «Aver riconosciuto la rivoluzione attribuendo a Dylan il Nobel - ha detto Engdahl - sembrava al momento audace: ora sembra già ovvio». Perché, quando lui è arrivato «all’improvviso tutta la poesia del mondo è sembrata anemica, mentre le parole delle canzoni che i suoi colleghi continuavano a scrivere sembravano come la vecchia polvere da sparo dopo l’invenzione della dinamite».
A parte il presidente colombiano Manuel Santos, Nobel per la Pace, che ha definito l’onoreficenza «un regalo caduto dal cielo» , restano sullo sfondo gli altri premiati: il biologo Yoshinori Ohsumi; i fisici David Thouless, Duncan Haldane e Michael Kosterlitz; i chimici Jean-Pierre Sauvage, Sir J. Fraser Stoddart e Bernard L. Feringa; gli economisti Oliver Hart e Bengt Holmström. Orgogliosi e discreti nei loro tight scuri con camicia bianca, come richiesto dal dress code , rigidissimo, hanno pronunciato la «Nobel Lecture», il discorso di accettazione, e sono tornati al posto con la medaglia. Ieri sera la scena era tutta per il menestrello assente.
Nobel, due parole a Baricco sul premio a Dylan
di Andrea Scanzi *
Sono in treno. Ho messo adesso Visions Of Johanna, tratto da quella smisurata epifania artistica chiamata Blonde on Blonde. E ho avuto ulteriore conferma che Alessandro Baricco, e con lui gli esegeti dell’accademismo fighetto-polveroso-stizzito, sul Nobel a Bob Dylan ha detto una cazzata che bastava la metà.
Alessandro, ho letto ogni tuo libro e non apparterrò mai ai tuoi detrattori per professione. Sai scrivere e hai firmato bei libri. Soprattutto quando, oltre a specchiarti, avevi anche una passione reale. Chi ti odia non ti ha mai letto e si è comprensibilmente fermato alla tua antipatia, che coltivi da sempre con misteriosa civetteria. Quando parli di politica hai la lucidità di un Gennaro Migliore alla moda, ma chi se ne frega. Ognuno è libero di prendere le cantonate che vuole, o quelle che più gli convengono.
Ciò detto, e vale per quasi tutti (quindi prendila con filosofia), c’è più letteratura in quel pezzo - o in altri 117 brani di Dylan - che in tutte le tue pagine. Per una volta, e lasciatelo dire da un narciso come te, guarda oltre il tuo ombelico ferito e impara dalla reazione di Don DeLillo: “Dylan lo merita. È un grande artista e ha raccontato il suo tempo come pochi altri”. Game, set and match. E lo ha detto De Lillo, mica il primo Scanzi che passa. Con affetto.
* IL FATTO QUOTIDIANO, Blog di Andrea Scanzi | 14 ottobre 2016
Il riconoscimento dell’Accademia di Svezia ’per aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione musicale americana’
di Redazione ANSA *
Bob Dylan è il vincitore del Premio Nobel 2016 della Letteratura. Il riconoscimento dell’Accademia di Svezia ’per aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione musicale americana’. Bob Dylan, alias Robert Allen Zimmerman, è forse il più enigmatico tra i geni della musica popolare. Nessuno come lui si e’ accanito contro il suo mito, divertendosi a spiazzare pubblico e critica con scelte sorprendenti che vanno dalla svolta elettrica degli anni ’60 alla conversione al credo dei Cristiani rinati fino al recente approdo agli spot pubblicitari, Victoria’s Secret compreso (ma per gli investitori rappresenta un testimonial formidabile). Per non parlare del rapporto che ha con il suo repertorio, che rende spesso indecifrabile al pubblico dei suoi concerti. Menestrello di Duluth, 24 maggio 1941, è un gigante della cultura degli ultimi 50 anni.
*
Bob Dylan premio Nobel per la Letteratura 2016
La motivazione del Comitato di Stoccolma: «Ha creato una nuova poetica espressiva all’interno della grande tradizione canora americana». Il boato dopo l’annucio
di IDA BOZZI (Corriere della Sera, 13.10.2016)
Sono la poesia e la tradizione degli «hobo» americani ad essere state premiate insieme, nella figura di Bob Dylan. Nato Robert Allen Zimmerman (Duluth, Minnesota, 24 maggio 1941), è infatti non solo uno dei più importanti cantautori e compositori della seconda metà del Novecento americana, ma anche una figura di riferimento per la controcultura di tutto il mondo. Anche scrittore e poeta, attore, pittore, scultore, Dylan è senza dubbio una delle più importanti figure del pop folk e della cultura di massa degli ultimi cinquant’anni .
Canzoni come Blowing in the wind e The times they’re a-Changin’ hanno dato voce alla protesta del movement, il «movimento» americano degli anni Sessanta sfociato nella protesta anti Vietnam, infondendo alla canzone popolare una connotazione fortemente politica negli anni dei «figli dei fiori» e di Woodstock. Alle origini della ricchissima storia di autore di Dylan, vi è sicuramente il legame con la grande tradizione americana delle ballate popolari e di protesta degli hobo come Guthrie e dei cantori folk come Burnett. Con un primo disco di cover folk inizia infatti la sua discografia (Bob Dylan, 1962).
Ma già con il secondo disco, The Freewheelin’ Bob Dylan («Bob Dylan a ruota libera») del 1963, il cantautore cambia radicalmente la scena del folk statunitense: la prima canzone, Blowin’ in the Wind, fu una canzone storica, che divenne il manifesto di quegli anni di ribellione hippie e di guerra in Vietnam. Il disco contiene non solo canzoni diventate classici come quella d’apertura (che significa «La risposta sta soffiando nel vento» e si interroga sull’ingiustizia sociale sul pianeta), ma anche Girl from the North Country, la canzone anti-guerra Masters of War, la durissima A Hard Rain’s A-Gonna Fall e una canzone d’amore e di abbandono indimenticabile come Don’t Think Twice, It’s All Right.
Fedele alla tradizione degli «hobo», cioè i cantanti di strada folk americani, come Woody Guthrie, di cui si considerava un erede, Bob Dylan ha dato vita a una lunghissima serie di concerti dal vivo in tutto il mondo, una serie che continua tuttora. Dal Concerto per il Bangladesh di George Harrison del 1971 (ne venne il triplo album The Concert for Bangla Desh) fino al The Rolling Thunder Revue del 1975 e 1976, cui intervennero anche figure chiave della controcultura come Joan Baez, T-Bone Burnett, Allen Ginsberg, fino ai concerti di oggi, nel 2010 alla Casa Bianca invitato da Obama per i diritti civili,e al concerto del 6 aprile 2011, quando Bob Dylan, per la prima volta in Cina, al Gymnasium del Gongren Tiyuchang, lo storico Stadio dei Lavoratori di Pechino, si è esibito in un concerto che ha eprò avuto una cosa polemica: il cantautore non ha suonato The Times They Are A-Changin, Hurricane e Blowin in the wind, tre delle sue canzoni dal più forte messaggio politico.
Per la potenza e la bellezza dei suoi testi, Dylan ha già ottenuto riconoscimenti «extra-musicali» in tuttoil mondo: ad esempio, nel 2008 vinse il Premio Pulitzer alla carriera per «il profondo impatto sulla musica e la cultura popolare d’America, grazie a composizioni liriche dallo straordinario potere poetico».
Bob Dylan torna all’impegno e parla soltanto agli homeless
di Roberto Brunelli *
Un misterioso labirinto bizzarramente profumato di Natale. Il vecchio Bob proprio non ce la fa a togliersi la maschera beffarda di dosso. Come sempre, si nasconde, racconta soprattutto quel che non pensa e quello che non è, eppure piccoli squarci di verità vengono fuori, talvolta. Plotoni di critici non gli hanno perdonato la sua ultima sortita: un album natalizio, Christmas at Heart , pieno zeppo di vecchi standard anni ‘40, più un’incredibile versione di Adeste fideles e un vecchio Christmas Blues preso da Dean Martin, il più mellifluo di tutti i crooner.
Il fatto è che lo squarcio di verità sta dietro le pieghe di quel disco ed è, abbastanza clamorosamente, il ritorno di Dylan all’impegno: non solo (e questo si sapeva) i proventi dalle vendite vengono destinati integralmente ad associazione che combattono la fame, come Feeling America negli Stati Uniti, Crisis Uk in Gran Bretagna e il World Food Program in tutto il mondo.
La vera novità consiste nella strategia di promozione, del tutto inedita: un’intervista esclusiva diffusa solo ed esclusivamente attraverso riviste per homeless. Ora, voi sapete che le interviste di mr. Robert Zimmerman si contano sulla punta delle dita. Tramite la sua casa discografica, la Columbia, Dylan si è affidato a Bill Flanagan (noto critico rock, saggista e produttore per Mtv), uno dei pochi a cui Bobby usa (comunque di rado) affidare il suo pensiero. Che rimane misterioso eppure folgorante, diabolicamente ironico eppure distante anni luce dal plastico nulla cui solitamente si gonfiano le star della musica. Motivo per cui Dylan - quello di Masters of War e The Times They are a-Changin’ , quello che un tempo fu il profeta della controcultura e del movimento di protesta dell’America dei primi anni Sessanta, quello che non scendeva direttamente nell’agone almeno dai tempi di Hurricane (quando difese il pugile Rubin «Hurricane» Carter da un’ingiusta accusa di omicidio) - ecco, quello, non dirà mai «eccomi, sono tornato all’impegno».
MENÙ NATALIZI
E infatti, nella lunghissima intervista uscita su riviste di homeless come la britannica The Big Issue , l’americana Street News Service , la svedese Situation Sthlm , la tedesca Der Freie Buerger e l’elvetica Surprise Strassenmagazine , non lo dice mai. Però, tra confessioni quasi spirituali, menù di pranzi natalizi e digressioni musicologiche, la verità viene fuori: «Ho deciso di devolvere le vendite di Christmas at Heart a enti come Feeling America perché danno il cibo direttamente alla gente. Nessuna organizzazione militare, niente burocrazia, nessun governo con cui dover trattare». Fine.
Il resto è il solito Dylan: sorprendente, come sempre. Un Dylan a cui piacciono le rappresentazioni sacre del New Mexico, «dove Giuseppe e Maria cercano un posto dove stare», a cui piacciono «i campanellini da slitta» ed il verseggiare fine a se stesso del rap (che lui non ascolta mai). Domanda: «La tua versione della canzone O’ Little Town of Bethlehem sembra quasi un pezzo da ribelle irlandese: c’è qualcosa di audace nel modo in cui canti “le speranze e le paure di tutti questi anni si ritrovano in te stasera”... esponi la canzone come un vero credente». Risposta: «Beh, io sono un vero credente».
CRITICI SCIOCCATI
Ad un certo punto Flanagan riferisce che alcuni critici hanno paragonato lo «shock» di quest’album natalizio allo shock della famigerata «svolta elettrica» del ’65. Bob non fa una piega: «Chiedilo a loro. Dicono che io avrei dovuto essere più irriverenti nei confronti di queste canzoni natalizie. È un’affermazione irresponsabile. Non c’è già abbastanza irriverenza nel mondo? Chi potrebbe averne bisogno ancora, soprattutto a Natale»?
La risposta a quelli che sono rimasti «sconvolti» dall’album natalizio di Dylan è lapidaria. «Nessuna ironia», dice Bob. «Critici come quelli guardano dentro standosene fuori (...). Ancora oggi non sanno cosa farsene di me».
Il labirinto-Dylan non finisce qui. Si scopre, per esempio, che il piccolo ebreo errante Dylan ama «i dischi natalizi in latino. Quelli che cantavo da bambino». Domanda: «Un sacco di gente preferisce quelli non religiosi». Risposta: «La religione non è cosa per tutti».
Mmmm. Il vecchio cantore vagheggia pure di lussuriosi pranzi natalizi, di tacchini farciti, di patate arrosto e della grandezza di una canzone come White Christmas (ricordate il luminescente Bing Crosby?). Qualche riga oltre scopriamo che in passato il vecchio Bob ha cantato canzoni in italiano, oltreché in francese e spagnolo. «Negli anni spesso la Columbia mi ha chiesto di fare dischi in quelle lingue, e così ho registrato un po’ di materiale, che però finora non è mai stato pubblicato» (Scoop!). Segue confessione: «Avrei voluto cantare qualche pezzo di Edith Piaf». «La Vie en Rose ?». Ebbene sì, La Vie en Rose.
Il labirinto si chiude, il mistero rimane.
* l’Unità, 08 dicembre 2009
Rapporto Fao e Pam, superata la soglia: +9% nell’anno in corso Aumento del 15,4% nei Paesi ricchi. Ma in testa resta l’Asia-Pacifico
Oltre un miliardo soffre la fame
è il livello più alto dal 1970 *
ROMA - La crisi economica fa crescere anche la fame nel modo. Per effetto della tempesta finanziaria che non ha risparmiato nessun mercato, le persone che soffrono la fame sono aumentate del 9% nell’anno in corso, arrivando alla vetta di 1,02 miliardi. E’ quanto si legge nel rapporto pubblicato oggi dalla Fao, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’agricoltura e l’alimentazione e dal Pam, il Programma alimentare mondiale. E’ la prima volta che accade dal 1970. Nel vertice per la sicurezza alimentare di due anni fa, i capi di Stato e di governo avevano confermato l’obiettivo assunto con la Dichiarazione del Millennio di dimezzare il numero di chi ha fame entro il 2015. Oggi l’obiettivo è definitivamente archiviato.
In difficoltà i Paesi ricchi. E’ nei nei Paesi ricchi che si registra un aumento degli affamati del 15,4% rispetto allo scorso anno. E’ il principale risultato contenuto nell’edizione 2009 dello Stato dell’insicurezza alimentare nel mondo (Sofi 2009), diffuso oggi alla vigilia della Giornata mondiale dell’alimentazione. Il rapporto evidenzia che, in percentuale, è nei Paesi ricchi che aumenta di più la percentuale delle persone sottoalimentate: un aumento del 15,4%. E’ di 15 milioni la quota assoluta di persone che hanno fame.
Le aree geografiche. Il record negativo di insicurezza alimentare lo mantiene la regione Asia-Pacifico, con 642 milioni di persone (+10,5%), seguita dall’Africa Subsahariana con 265 milioni (+11,8%), dall’America Latina con 53 milioni (+12,8%) e infine dal Nord ed est Africa con 42 milioni (+13,5%).
"100 milioni di persone in più". "Rispetto allo scorso anno oltre 100 milioni di donne, uomini e bambini in più, un sesto di tutta l’umanità hanno fame nel 2009 - scrivono nell’introduzione del rapporto il direttore generale della Fao, Jacques Diouf e la direttrice esecutiva del Pam Josette Sheeran - la crisi del 2006-2008 nei prezzi delle materie prime alimentari ha escluso dalla portata del reddito di queste persone tutti gli alimenti di base, e alla fine del 2008 i ribassi erano in media ancora del 17% più alti di due anni prima della crisi. Questo ha costretto molte famiglie povere a scegliere tra cure sanitarie, scuola o cibo".
Il crollo degli aiuti nei Paesi più poveri. La Fao, su dati elaborati dal Fondo monetario internazionale, stima che nel 2009 i 71 Paesi più poveri del mondo sperimenteranno una caduta degli aiuti assoluta del 25% rispetto al 2008, che terrà i fondi sempre al di sopra del livello del 2007 ma costituirà comunque un problema per gli interventi sul campo.
L’appello al prossimo vertice. Il nuovo vertice per la sicurezza alimentare è previsto a Roma dal 16 al 18 novembre prossimi. Chiaro il messaggio lanciato a capi di Stato e di governo. Serve un intervento d’emergenza, con voucher alimentari, aiuti e reti di sicurezza e welfare immediato e, a medio termine, un vero programma di sostegno all’agricoltura contadina. "In passato, nei periodi di crisi, si è sempre assistito a una riduzione degli interventi pubblici a sostegno dell’agricoltura. Ma l’unico strumento efficace per vincere la povertà - avvertono i due responsabili delle Nazioni Unite - è un settore agricolo in piena salute". Il richiamo che Diouf lancia nell’introduzione del rapporto è al Joint Statement on Global Food Security (’’L’Aquila Food Security Initiative’’) lanciato dal G8 della scorsa estate, come testimonianza di un impegno istituzionale a sostenere lo sviluppo agricolo che sulla carta è stato rinnovato. Le preoccupazioni tra impegni ed erogazioni, però, rimangono evidentemente tutte sul tappeto.
* la Repubblica, 14 ottobre 2009
AGOSTINO E LA CHIESA CATTOLICO-RATZINGERIANA. Alcuni appunti in premessa:
Federico La Sala
di Gianfranco Ravasi (Il Sole-24 Ore, 10 aprile 2011
Settant’anni fa, il 24 maggio 1941, a Duluth, porto fluviale che s’affaccia sul lago Superiore, il secondo al mondo dopo il Caspio, nel Minnesota, nasceva Bob Dylan (all’anagrafe Robert Zimmermann). Questo cantautore divenuto uno dei miti dell’epopea beat degli anni Sessanta, vagabondo e inquieto fino a ripiegare, nell’ultima fase, all’interno del panorama segreto della sua interiorità attraverso esplorazioni dai contorni ora psichedelici ora mistici, trasformatosi persino in scrittore col non memorabile romanzo Tarantula del 1971, noi ora lo dirottiamo nelle nostre righe per una ragione che sorprenderà molti. Sì, lo coinvolgiamo nientemeno che in una recensione riguardante uno dei massimi Padri della Chiesa, quel sant’Agostino a cui Dylan nell’album John Wesley Harding dedicò nel 1968 una canzone.
Non è che i temi spirituali siano stati alieni a questo personaggio che aveva respirato non solo folk, rock e blues ma anche echi degli spirituals afro-americani: lo ricordo ancora col suo inseparabile cappello mentre cantava e suonava davanti a un (forse perplesso) attento e incuriosito Giovanni Paolo II durante una serata per i giovani in occasione del Congresso Eucaristico Nazionale il 27 settembre 1997, a Bologna, invitato coraggiosamente dall’allora arcivescovo, il cardinale Giacomo Biffi. Ma ritorniamo alla canzone che inizia così: I dreamed I saw saint Augustine e che ha il suo apice nella ripresa successiva: I dreamed I saw saint Augustine alive with fiery breath! Dunque, Bob aveva sognato di vedere sant’Agostino «in carne e ossa che correva nei nostri quartieri in estrema povertà... e cercava anime che già erano state vendute, gridando forte: Alzatevi, alzatevi! Venite fuori e ascoltate...».
E alla fine, ecco Dylan confessare ancora: «Ho sognato di vedere sant’Agostino, vivo di un respiro di fuoco» per aggiungere in conclusione un apocrifo martirio del santo, in realtà solo un incubo onirico: «Ho sognato di essere tra coloro che lo misero a morte! Oh, mi sono svegliato adirato, solo e terrorizzato..., ho abbassato la testa e ho pianto». Ebbene, proprio questa canzone l’ho ritrovata in apertura a una curiosa e un po’ provocatoria biografia di Agostino di Ippona... per chi non ha tempo, tracciata da un professore di scienze religiose di Lancaster in Pennsylvania, tale Stephen A. Cooper, che si è fatto accompagnare dal cartoonist Ron Hill di Cleveland. Un’americanata, direte. Era un po’ il sospetto che avevo anch’io quando ho sfogliato queste pagine a prima vista irriverenti.
In verità, andando avanti, di capitolo in capitolo, mi sono riconciliato con Cooper e il suo vignettista un po’ esagitato: il ritratto del grande santo e genio dell’umanità è ben abbozzato per un lettore ignaro di temi teologici, anzi, mi è venuto il dubbio che fosse fin troppo impegnativo per «chi non ha tempo» da dedicare a simili argomenti. Certo, l’autore non si inoltra più di tanto nell’oceano testuale agostiniano, ma preferisce attestarsi sulla filigrana delle Confessioni, vera e propria odissea di una conversione e storia di un’anima (giustamente Cooper amerebbe intitolare quell’opera Conversazioni perché, come è noto, il testo è un interrotto dialogo con Dio).
Eppure, il lettore frettoloso - ma non troppo - del volume scopre il profilo intimo di una ricerca che intreccia fede e ragione, Bibbia e Plotino, mistica e autocoscienza, conversione esistenziale e riflessione metafisica. In ultima analisi, aveva ragione Dylan, nel vescovo di Ippona, si incrocia un fiery breath, un ardente respiro di amore, con un alito fresco che proviene dai cieli cristallini della teologia, nella ferma convinzione che «la natura umana manca di unitarietà e la può trovare solo alla luce dell’unitarietà di Dio e questa dote divina è resa a noi disponibile in una forma umana, prima in Cristo e poi nella Chiesa, poiché la Chiesa è la dimensione sociale dell’esistenza cristiana».
Ma a chi ha tempo e vuole inoltrarsi in quel mare di pensieri, di riflessioni, di invocazioni che sostanziano le pagine agostiniane che cosa possiamo suggerire? Arduo è dare un’indicazione perché statisticamente si dice che ogni giorno appare almeno una pubblicazione su o di Agostino. Scegliamo, allora, uno dei suoi gioielli teologici e letterari, quel Commento al Vangelo di Giovanni che la mai a sufficienza lodata collana «Il pensiero occidentale» di Bompiani ci squaderna davanti sia nell’originale latino coi suoi 124 tractatus, sia nella versione italiana accompagnata da un’ampia esegesi di Giovanni Reale. Siamo in presenza di una serie di discorsi distribuiti in tre fasi storiche differenti (nel 406-407, nel 414 e infine degli anni 419-421) e composti con modalità diverse, alcuni in forma orale trascritta dai tachigrafi, altri dettati dal santo stesso; eppure questa eterogeneità non mina la compattezza dell’opera.
Essa, come suggerisce il curatore, rivela nelle sue pagine non solo un anelito straordinario di spiritualità, di comunicazione e di cultura - tant’è vero che è giusto lamentare che l’opera sia nota soltanto ai teologi e ignota agli uomini di cultura -, ma anche una particolare tessitura "a tarsia" allestita attraverso una fitta trama di citazioni ed evocazioni o ammiccamenti biblici. Centrale, ovviamente, è il tema del l’agápe cristiana che trascende e fin capovolge la concezione platonica dell’eros. Un amore che ha la sua sorgente nell’Incarnazione: Deus homo factus est; quid futurus est homo, propter quem Deus factus est homo? («Dio si è fatto uomo, che cosa dovrà diventare l’uomo, se per lui Dio si è fatto uomo?»). E che dire, poi, della "terza navigazione" agostiniana, condotta sul naviglio del lignum crucis, che travalica la celebre "seconda navigazione" (déuteros plous) del Fedone platonico. Lasciamo, allora, al lettore che ama le profondità abissali o i vertici di luce di imbarcarsi in questa avventura della mente e dell’anima.
Gli 80 anni del papa
Papa Francesco che cammina sulle tracce di Agostino
di EUGENIO SCALFARI (la Repubblica, 17 dicembre 2016)
COMPIE ottant’anni papa Francesco e li porta molto bene, sia fisicamente e sia spiritualmente. Viaggia continuamente nel mondo intero e nelle parrocchie romane. Di Roma è vescovo e questa qualifica la rivendica spesso perché gli consente di definirsi come “primus inter pares” e lui è consapevole di quanto sia utile a quella Chiesa missionaria da lui realizzata.
Personalmente ho avuto la fortuna di diventargli amico ancorché io non sia un credente. Papa Francesco aveva bisogno di un non credente che approvasse la predicazione di quello che lui chiama Gesù Cristo ed io chiamo Gesù di Nazareth figlio di Maria e di Giuseppe della tribù di David, cioè era figlio dell’uomo e non di Dio. Ma su questo modo di considerare Cristo papa Francesco è d’accordo: il Figlio di Dio quando decide di incarnarsi diventa realmente un uomo con tutte le passioni, le debolezze, le virtù d’un uomo. Francesco racconta spesso la settimana della Passione che ha il suo inizio con l’ingresso quasi trionfale di Gesù a Gerusalemme, seguito da molti dei suoi fedeli e naturalmente dei suoi apostoli. Ma a Gerusalemme trova anche quelli che lo temono e lo odiano. Soprattutto la gerarchia ebraica del Tempio che si sente minacciata nei suoi privilegi.
A quell’epoca Israele era sotto la "protezione" dell’impero di Roma e l’imperatore era Tiberio che nulla sapeva di quanto avvenisse in province assai lontane. Papa Francesco ricorda gli ultimi giorni di quella che poi fu chiamata la "Via Crucis", l’ultima cena e poi quel che avvenne nell’orto di Getsemani. Gli apostoli a quella cena erano tredici ma uno di loro, Giuda Iscariota, lo aveva già tradito e quando Gesù cominciò a parlare abbandonò quel tavolo e andò via. Restarono in dodici e fu lì che Gesù condivise il pane e il vino identificandoli con il suo corpo e il suo sangue. Il Signore era già stato battezzato da Giovanni nelle acque del Giordano e battesimo ed eucarestia furono i soli due Sacramenti; gli altri vennero dopo. La natura umana del Cristo si ha nei racconti dei Vangeli, nel Getsemani e poi sulla Croce. Nell’orto, dove sarà poi arrestato dai soldati romani guidati dall’Iscariota, Gesù entra in contatto con il Padre e dice: «Se tu puoi allontana da me questo amaro calice ma se non vuoi lo berrò fino in fondo». Sulla Croce, negli ultimi istanti prima della morte dice: «Padre, perché mi hai abbandonato?». Quindi era un uomo, l’incarnazione era stata reale.
Papa Francesco è affascinato da questi racconti. Mi sono chiesto e gli ho chiesto il perché del fascino che esercitano su di lui e la risposta è stata che nel mistero trinitario Cristo rappresenta l’amore in tutte le sue manifestazioni. L’amore verso Dio che si trasforma in amore verso il prossimo. «Ama il prossimo tuo come te stesso» è una legittimazione dell’amore all’individuo e alla comunità, in cerchi concentrici: la famiglia, il luogo dove vive e soprattutto la specie cui appartiene.
Francesco indica i poveri, i bisognosi, gli ammalati, i migranti. Francesco sa bene quello che dice la Bibbia: «I ricchi e i potenti debbono passare per la cruna d’un ago per guadagnare il Paradiso». Occorre dunque che i popoli si integrino con gli altri popoli. Si va verso un meticciato universale che sarà un beneficio, avvicinerà i costumi, le religioni. Il Dio unico sarà finalmente una realtà. È questo che Francesco auspica. «È ovvio che sia unico, ma finora non è stato così. Ciascuno ha il suo Dio e questo alimenta il fondamentalismo, le guerre, il terrorismo. Perfino i cristiani si sono differenziati, gli Ortodossi sono diversi dai Luterani, i protestanti si dividono in migliaia di diverse confessioni, gli scismi hanno accresciuto queste divisioni. Del resto noi cattolici siamo stati invasi dal temporalismo, a cominciare dalle Crociate e dalle guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa e l’America del Nord e del Sud. Il fenomeno della schiavitù e la tratta degli schiavi, la loro vendita alle aste. Questa è stata la realtà che ha deturpato la storia del mondo».
Quando papa Francesco ha partecipato alla celebrazione di Martin Lutero e della sua Riforma ha colto l’essenza delle tesi luterane: l’identificazione dei fedeli con Dio non ha bisogno dell’intermediazione del clero ma avviene direttamente. Questo ci conduce al Dio unico e assegna al sacerdozio un ruolo secondario. Così avveniva nei primi secoli del cristianesimo, quando i Sacramenti erano direttamente celebrati dai fedeli e i presbiteri facevano soltanto il servizio. Francesco è d’accordo su queste tesi luterane che coincidono con quanto avvenne nei primi secoli.
Ma quali sono i Santi che il nostro Papa predilige? Gliel’ho chiesto e lui mi ha risposto così: «Il primo è naturalmente Paolo. È lui ad aver costruito la nostra religione. La Comunità di Gerusalemme guidata da Pietro si definiva ebraico-cristiana, ma Paolo consigliò che bisognava abbandonare l’ebraismo e dedicarsi alla diffusione del cristianesimo tra i Gentili, cioè ai pagani. Pietro lo seguì in questa sua concezione anche se Paolo non aveva mai visto Gesù. Non era un apostolo, eppure si considerò tale e Pietro lo riconobbe. Il secondo è San Giovanni Evangelista, che scrisse il quarto Vangelo, il più bello di tutti. Il terzo è Gregorio, l’esponente della Patristica e della liturgia.
Il quarto è Agostino, vescovo di Ippona, educato adeguatamente da Ambrogio vescovo di Milano. Agostino parlò della Grazia, che tocca tutte le anime e le predispone al bene compatibilmente con il libero arbitrio. La libertà accresce il valore del bene e condiziona il suo eventuale abbandono.
Ebbene, sembrerà che io esageri ma ne sono fermamente convinto: dopo Agostino viene papa Francesco. L’intervallo temporale è enorme, ma la sostanza è quella. L’ho definito, quando l’ho conosciuto, rivoluzionario e profetico ma anche modernissimo.
In uno dei nostri incontri gli chiesi se pensava di convocare un nuovo Concilio e lui rispose: «Un Concilio no: il Vaticano II, avvenuto cinquant’anni fa, ha lasciato una precettistica che in buona parte è stata applicata da Giovanni Paolo II, da Paolo VI e da Benedetto XVI. Ma c’è un punto che non ha fatto passi avanti ed è quello che riguarda il confronto con la modernità. Spetta a me colmare questa lacuna. La Chiesa deve modernizzarsi profondamente nelle sue strutture ed anche nella sua cultura».
Santità - ho obiettato io - la modernità non crede nell’Assoluto. Non esiste la verità assoluta. Lei dovrà dunque confrontarsi con il relativismo. «Infatti. Per me esiste l’Assoluto, la nostra fede ci porta a credere nel Dio trascendente, creatore dell’Universo. Tuttavia ciascuno di noi ha un relativismo personale, i cloni non esistono. Ognuno di noi ha una propria visione dell’Assoluto da questo punto di vista il relativismo c’è e si colloca a fianco della nostra fede».
Buoni ottant’anni, caro Francesco. Continuo a pensare che dopo Agostino viene Lei. È una ricchezza spirituale per tutti, credenti o non credenti che siano.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala