L’idea che i bambini che hanno difficoltà nella lingua italiana vadano segregati e rinchiusi tra loro è una delle più assurde non solo in termini di pedagogia ma di buon senso. Non parlano, non ascoltano, non imparano
Il giorno dell’Apartheid
Non posso condividere - e come me altri deputati della maggioranza - il contenuto della mozione presentata dalla Lega Nord. Per cui abbandono l’aula e insieme a me alcuni altri deputati
di Furio Colombo (l’Unità, 19.10.2008)
Un evento triste e squallido è avvenuto nella Camera dei Deputati nei giorni 8 e 9 ottobre quando la maggioranza di governo, guidata dalla Lega, ha proposto e fatto approvare una odiosa mozione che chiede la separazione e segregazione dei bambini immigrati nelle scuole italiane. È giusto che ci sia memoria di questo tragico evento e perciò trascrivo qui alcune parti dei verbali d’Aula di quelle sedute.
On. Niccolò Cristaldi (Pdl-An): «Signor Presidente, onorevoli colleghi, io non parteciperò a questa votazione (mozione Cota, Lega nord, sulla segregazione dei bambini immigrati nelle scuole italiane, ndr) perché non ne condivido le ragioni politiche. Non condivido il contenuto della mozione della maggioranza perché sono nato e cresciuto in una città, Mazara del Vallo, nella quale il venti per cento della popolazione è musulmana».
«La mia è una città dove l’integrazione non si è decisa con una legge né con mozioni come questa. Si è decisa attraverso il rispetto delle diverse culture, attraverso l’amicizia tra i popoli, che si è instaurata partendo da situazioni drammatiche che hanno visto tanta gente venire nella mia città per cercare lavoro. Abbiamo scambiato attività culturali, insegnando molte cose della nostra cultura occidentale, imparando a inginocchiarci davanti ai grandi musei che ci sono in Tunisia, in Marocco, nei Paesi del Maghreb e in tutto quel mondo. Non posso condividere - e come me altri deputati della maggioranza - il contenuto della mozione presentata dalla Lega Nord. Per cui abbandono l’aula e insieme a me alcuni altri deputati». (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 19.05, applausi dei deputati del Partito democratico).
On. Mario Pepe (Pdl): «Signor Presidente, vorrei ricordare agli amici della Lega che il Duca d’Aosta, quando era Governatore della Somalia emise un editto che impediva ai bambini indigeni di frequentare le scuole italiane, se prima non avevano imparato l’italiano. Oggi il popolo somalo si divide in due categorie: quelli che hanno un fucile e quelli che non ce l’hanno. Mi auguro che questo non sia il futuro dell’Italia. Per questo io voterò contro questa mozione». (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 19.09, applausi dei deputati del Partito democratico).
Emanuele Fiano, (Pd): «Signor Presidente, nella mia famiglia abbiamo saputo sessant’anni fa che cosa significa essere scacciati dalle classi delle scuole del regno, in quanto ebrei. Non userò questo argomento per rispondere agli argomenti della Lega Nord Padania. (Urla dei deputati della Lega Nord Padania). Parlo di oggi, di voi. Penso che sia profondamente sbagliato proporre una separazione dei bambini per risolvere il problema della integrazione, spezzare una comunità che vive e cresce insieme. Le «classi differenziate» sono la risposta sbagliata. L’integrazione si fa insieme. (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 19.15, applausi dei deputati del Partito democratico, grida e urla della Lega Nord e del Pdl).
On. Piero Fassino (Pd): «Signor presidente, mi rivolgo all’onorevole Cota (capogruppo Lega Nord Padania alla Camera dei deputati, ndr) e a tutti i colleghi. Vi voglio raccontare un episodio vero che ci può illuminare. Un mio amico ha un bambino di sette anni che frequenta una seconda elementare per metà costituita da bambini extracomunitari. Il suo compagno di banco è il suo amico del cuore. A casa racconta ai genitori che «con Emanuel abbiamo fatto questo, abbiamo fatto quello, siamo andati qui e siamo andati là». Un giorno il padre del bambino italiano lo va a prendere a scuola e quando i bambini escono chiede per curiosità al figlio: chi è Emanuel? Il figlio si volta e indica: “eccolo là, quello col maglione rosso”. Non gli viene in mente di dire: «Quello con la pelle scura».
«Con il provvedimento che vi apprestate a farci votare voi state producendo una regressione culturale che mette in discussione i principi di uguaglianza tra gli uomini. E fate una cosa ancora più grave: introducete la discriminazione, quella moralmente più abbietta: discriminate tra i bambini, tra i più piccoli». (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 19.20, prolungati applausi dei deputati del Partito democratico, di Italia dei Valori, del gruppo di Unione di Centro).
On Gianluca Galletti (Udc): «Signor presidente, devo dire che chi ha redatto la mozione, ne ha dato l’interpretazione autentica (si riferisce al deputato Cota, capogruppo Lega Nord Padania, che ha illustrato la mozione in aula, ndr). Dopo averlo ascoltato, noi siamo certi di non voler avere nelle nostre scuole, allievi di serie A e allievi di serie B. Ci sembra, invece, che l’obiettivo della mozione in esame sia proprio questo. Per tale ragione, dichiaro il voto contrario del nostro gruppo». (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 19.30, applausi dei deputati dei gruppi Unione di Centro e Partito democratico).
On. Valentina Aprea (Pdl): «Signor presidente, vi assicuro che questa mozione è attesa dai docenti della scuola italiana, da quei docenti, onorevole Fassino, dove l’inserimento degli alunni stranieri avviene in modo selvaggio. (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 20.00, proteste del Partito democratico, applausi dei deputati del gruppi Pdl, ovazioni dei deputati Lega Nord Padania).
«No, no, no!» (Furio Colombo, Pd, Camera dei deputati, 9 ottobre ore 20.05 grida e urla dei deputati del gruppo Lega Nord Padania).
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Testo della mozione per la apartheid nelle scuole italiane presentato dalla Lega Nord alla Camera dei Deputati con l’assenso e il sostegno della maggioranza di governo:
«La Lega Nord Padania impegna il governo:
a rivedere il sistema di accesso degli studenti stranieri alla scuola di ogni ordine e grado, autorizzando il loro ingresso previo superamento di test e di specifiche prove di valutazione.
istituire classi ponte (classi separate, ndr) che consentano agli studenti stranieri che non superano le prove e i test sopra menzionati di frequentare cori di apprendimento della lingua italiana, propedeutiche (obbligatorie e separate, ndr) all’ingresso degli studenti nelle classi permanenti.
a non consentire in ogni caso l’ingresso nelle classi ordinarie oltre il 31 dicembre di ciascun anno, al fine di un razionale (traduzione: limitato o impedito, ndr) inserimento degli studenti stranieri nelle nostre scuole, e a provvedere a una distribuzione degli stessi in proporzione al numero complessivo degli alunni per classe.
a favorire l’elaborazione di un curricolo che tenga conto di lealtà e rispetto alla legge del paese accogliente, del rispetto di tradizioni territoriali e regionali del paese accogliente, del rispetto per la diversità morale e culturale (traduzione: superiorità, ndr) del Paese accogliente (prime firme: Cota, Goisis, Grimoldi, Rivolta, Aprea, Carlucci, Farina, Mazzucca, Garagnani, Rampelli)».
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Furio Colombo: «Signor presidente, devo dirle a nome dei miei colleghi (spero di parlare a nome di tanti miei colleghi) che sono contento di intervenire in questo momento, in quest’aula vuota. Evito agli altri deputati di provare l’umiliazione che provo io ascoltando la presentazione di questa mozione della Lega Nord Padania che intende istituire scuole segregate per bambini immigrati, le scuole contro cui si è battuto Martin Luther King in Mississippi e Alabama 45 anni fa. Si è battuto, e ha vinto. Ma i miei colleghi si sono risparmiati l’angoscia di guardare verso i banchi della Lega e di domandarsi, dopo aver ascoltato l’elogio della scuola segregata: «Ma questi sono i miei colleghi? Facciamo lo stesso lavoro? Condividiamo lo stesso Parlamento? Siamo stati eletti dallo stesso popolo?».
Presidente: «Onorevole Colombo, in questa Camera tutti sono altrettanto onorevoli».
Colombo: «No, presidente. Devo esprimere il mio sentimento di umiliazione».
Presidente: «A termini di regolamento lei non può offendere un suo collega».
Colombo: «Mi dica, presidente, qual è l’espressione offensiva?».
Presidente: «L’espressione offensiva è quando lei dice che si vergogna di...».
Colombo: «Ho detto che mi sento umiliato nel giorno della apartheid della scuola italiana e ho diritto di dirlo perché è il mio sentimento».
Presidente: «Mi pare che tale espressione sia l’equivalente di “mi vergogno”».
Colombo: «Signor presidente, Matteotti si è sentito umiliato di fronte a ciò che aveva ascoltato in quest’aula. Ripensi per un momento al dibattito al quale oggi in questa Camera abbiamo assistito. Viviamo in un mondo in cui sta per essere eletto presidente degli Stati Uniti un nero, figlio di un immigrato di origine kenyota, educato nelle scuole americane dove nessuno lo ha separato (non più, dopo il movimento per i diritti civili di Martin Luther King) dagli altri bambini. Ed è diventato uno dei più brillanti giuristi, poi uno dei più importanti senatori, poi uno dei più carismatici candidati alla presidenza degli Stati Uniti che quel paese abbia mai avuto.
Ma lei pensi - presidente - ad un altro Paese, il nostro, nelle mani della cultura di Borghezio e di Gentilini e mi dica: quale sarebbe oggi, qui, da noi, in questa Italia occupata dalla Lega, il destino di un piccolo Obama? Forse lo aspetterebbero le sprangate e la morte in una strada di Milano dove - ci assicura il ministro dell’Interno Maroni - le sprangate che hanno ucciso il diciannovenne Abdul erano la punizione per un furto, non lo sfogo di un sentimento razzista. L’idea che i bambini che hanno difficoltà nella lingua italiana vadano prontamente segregati e rinchiusi tra loro è una delle più assurde non solo in termini di pedagogia e di psicologia ma di comune buon senso. Non parlano, non ascoltano, non imparano. L’ottusa idea leghista è il 41 bis dei bambini immigrati. Ad essi per giunta, viene imposto di imparare «le tradizioni», “l’identità”, la religione del paese ospitante. Il concetto è bene espresso dalle alte parole del pro-sindaco leghista di Treviso: “Che vadano a pisciare nelle loro moschee”. Sono parole memorabili per la loro qualità morale, umana, politica che la Lega da oggi dovrebbe scrivere sulle proprie bandiere.
Alexander Hamilton, uno dei padri della Costituzione americana, ha detto ai coloni immigrati che si accingevano a fondare la nuova Repubblica degli Stati Uniti: “C’è qualcosa di unico nel nostro destino. Noi, che veniamo dai quattro angoli del mondo e fino a questo momento non abbiamo niente in comune, d’ora in poi avremo in comune il nostro futuro. Questo è il nostro destino eccezionale. Siamo i soli al mondo ad avere questo privilegio”. Era il 1788. Qui, oggi, nell’anno 2008, si propone di isolare i bambini immigrati in corridoi chiusi come se fossero portatori di malattie infettive. Prevedo e temo che questa ignobile mozione non sarà respinta. Perciò mi unisco alla umiliazione di molti colleghi di Alleanza nazionale e di ciò che resta di Forza Italia che dovranno votare questa mozione fondata su separazione, apartheid, xenofobia, razzismo» (Camera dei deputati, 8 ottobre 2008, ore 22; presiedeva il vice presidente della Camera Buttiglione).
Nota.
La mozione di apartheid per i bambini immigrati è stata votata la sera del 9 ottobre 2008 e ha ottenuto l’approvazione della Camera dei Deputati con soli venti voti in più per la maggioranza. Il margine di differenza fra maggioranza e opposizione alla Camera è di settanta voti.
È utile ricordare che una mozione non è una legge ma un «indirizzo» o suggerimento al governo. La sua votazione non significa automaticamente accettazione ed esecuzione da parte del governo. Perciò è necessario che l’opposizione contro l’apartheid continui in tutte le occasioni, in tutte le sedi, a tutti i livelli. Le manifestazioni di protesta nella scuola in questi giorni sono il luogo e il momento giusto: studenti e docenti contro l’apartheid di Bossi-Cota-Borghezio-Maroni. Tutta la scuola italiana in difesa dei bambini immigrati.
furiocolombo@unita.it
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’attacco nell’editoriale del numero in edicola questa settimana
Famiglia cristiana: ’’Classi ponte sono classi ghetto’’
Per il settimanale cattolico ’’siamo di fronte alla prima mozione razziale approvata dal governo’’. E poi: ’’La ’fantasia padana’ non ha più limiti, né pudore. Prima le impronte ai rom, poi il permesso a punti e i 200 euro per il rinnovo, poi l’impedimento dei ricongiungimenti familiari, e ora questo’’
Roma, 21 ott. (Adnkronos) - "Si dice ’classi ponte’, ma si legge ’classi ghetto’". Lo scrive ’Famiglia cristiana’ nell’editoriale pubblicato sul numero in edicola questa settimana. "La Lega -sottolinea il settimanale cattolico- cavalca l’onda e va all’arrembaggio dell’immigrato. La ’fantasia padana’ non ha più limiti, né pudore. Prima le impronte ai rom, poi il permesso a punti e i 200 euro per il rinnovo, poi l’impedimento dei ricongiungimenti familiari, e ora una mozione, avanzata a sera tardi in Parlamento, per le classi differenziali, col pretesto di insegnare l’italiano agli stranieri. Il problema dell’inserimento degli stranieri a scuola è reale, ma le risposte sono ’criptorazziste’, non di integrazione". "Chi pensa a uno ’sviluppo separato’ in Italia, sappia - prosegue il giornale dei paolini - che quel concetto in altra lingua si chiama ’apartheid’, andata in scena in Sudafrica per molti anni: autobus, cinema e scuole separati. La questione dell’italiano è solo una scusa. Tutti sanno che le cosiddette ’classi di inserimento’ non sono efficaci. I risultati migliori si ottengono con classi ordinarie e con ore settimanali di insegnamento della lingua. In Italia questo, in parte, avviene. Lo prevedono le ’Linee guida’ (2006) dell’allora ministro Moratti per l’accoglienza degli alunni immigrati, approvate anche dalla Lega.
C’è un progetto che prevede un finanziamento di 5 milioni di euro per insegnare tre diversi livelli di lingua italiana. Il Governo potrebbe rispolverarlo e far cadere (per amor di patria) la prima ’mozione razziale’ approvata dal Parlamento italiano".
"La mozione, poi, va letta fino in fondo. Prevede -ricorda ancora il settimanale cattolico- che i bambini immigrati, oltre alla lingua italiana, debbano apprendere il ’rispetto di tradizioni territoriali e regionali’, della ’diversità’ morale e della cultura religiosa del Paese accogliente’, il ’sostegno alla vita democratica’ e la ’comprensione dei diritti e dei doveri’. Qualcuno sa dire come spiegarlo a un bambino di 5-6 anni, che deve ancora apprendere l’italiano? Se l’integrazione è un bene (tutti la vogliono), dev’essere interattiva. E allora, perché non insegniamo agli alunni italiani il rispetto delle ’tradizioni territoriali e regionali’ degli immigrati? "Si dice ’classi ponte’, ma si legge ’classi ghetto’. Negli anni Sessanta, quando bambini napoletani, calabresi o siciliani andavano a scuola a Novara, nessuno s’è sognato di metterli in una ’classe differenziale’ perché imparassero italiano, usi e tradizioni del Nord, né di far loro dei test d’ingresso. Perché ora -conclude ’Famiglia cristiana’- ci pensa il novarese Cota?"
Obama, il razzismo e l’italia
di Barbara Spinelli (La Stampa, 19.10.2008)
Non è la prima volta che gli italiani s’interrogano su propri difetti e chiusure, pur credendo d’essere un popolo per natura buono, aperto al forestiero e innocente. L’innocente spesso è attratto dal male - specie dai vizi contrari alle proprie virtù - perché certi mali li ha magari patiti, ma non vedendoli in sé non li conosce. È quel che succede oggi, con il moltiplicarsi di xenofobie e violenze. Dopo la caduta di Prodi i vizi si sono dilatati, e non solo a causa di dispositivi come le impronte digitali ai bambini rom o il reato di clandestinità, ma perché in concomitanza con quella caduta son svaniti d’un tratto un gran numero di tabù e inibizioni.
La volontà di creare classi separate per i bambini immigrati che non padroneggiano l’italiano, manifestata dalla Lega, nasce in questo clima, già torbido. Sul New York Times del 12 ottobre, Rachel Donadio osserva che la xenofobia è particolarmente forte in Italia, «trasformatasi solo di recente in Paese d’immigrazione». Ragionare sull’integrazione è difficile quando il multiculturalismo cessa di essere una possibilità diventando un fatto, e dai cieli dell’ideologia tocca atterrare sul pavimento del reale. Il razzismo è bestia strana: a volte esiste prescindendo dalle razze (l’antisemitismo senza ebrei in Est Europa o Asia), altre volte è diffuso pur essendo condiviso da pochi (il razzismo senza razzisti in America).
Tanto più importante è quello che accadrà negli Stati Uniti, il 4 novembre. Se Barack Obama dovesse vincere, molte cose cambierebbero nei Paesi europei tentati dalla chiusura allo straniero, non solo nella politica ma nel costume e nella conversazione cittadina. Per forza il ragionamento sulla mescolanza di culture incorporerebbe le scosse d’Oltreoceano.
Come nella finanza mondiale, anche queste scosse hanno le caratteristiche della tempesta perfetta, del perfect storm raccontato dallo scrittore Sebastian Junger. Così son chiamate le tempeste i cui effetti sono massimizzati dal concorrere imprevisto di circostanze diverse, che mutano non solo l’agire ma il pensare. Analoga tempesta potrebbe scompaginare le nostre società, qualora Obama vincesse.
Sono decenni che intellettuali e politici s’ingegnano a denunciare il politicamente corretto, che negli Anni 70 impedì di analizzare seriamente le differenze fra culture o generi, e addirittura negò tali differenze. Questa idealizzazione produsse un’ideologia contraria non meno astratta, fautrice del politicamente scorretto, che senza speciali patemi condona la xenofobia. Anche nel rapporto col diverso, come nella finanza, i paradigmi dominanti sono inciampati sulla realtà, fallendo.
Naturalmente il razzismo - come il fascismo - non è lo stesso di ieri. Mutano le parole, gli atti. Ma se un politico consapevole come Fini comincia ad allarmarsi, c’è da stare attenti. Il fondatore di An conosce bene il lato buio dell’innocenza italiana. Se dice, come giovedì alla sinagoga romana, che «razzismo e xenofobia sono una sorta di mostro che può risorgere in forme e modalità diverse»; se aggiunge che «in Italia ci sono troppe, troppe dimostrazioni di ignoranza, paura, avversione», e che questi fenomeni, «se non affrontati nei modi dovuti, possono diventare razzismo», vuol dire che qualcosa di marcio c’è.
Meglio chiamarlo xenofobia, perché il razzismo si concentra sulla natura genetica del diverso. Ma all’origine è sempre la diversità che incollerisce, e nascondersi dietro distinguo linguistici non aiuta. Perfino la religione può divenire un diversivo: il giornalista Nicholas Kristof sostiene che le voci su Obama musulmano sono in realtà surrogati della calunnia razziale (New York Times, 21 settembre). Non sarà razzismo quello che abbiamo davanti, ma di certo è il sentimento che l’antropologo Claude Lévi-Strauss descrisse nel ’52 e nel ’71 (Razza e Storia. Razza e cultura, Einaudi 2002): è paura dell’ibrido culturale. Questo sentimento, unito a ingredienti come l’ignoranza citata da Fini e alla diseguaglianza mondiale che accentua le migrazioni di popoli, sfocia in razzismi moderni spesso sottovalutati anche dai liberali.
Proprio perché sta trasformandosi, l’Italia deve fabbricarsi con urgenza un pensiero e una politica lungimiranti sulla società multiculturale. Isolare dalle classi i bambini stranieri, schedare i rom: sono mosse emotive non solo pericolose ma sterili, come la storia di molti Paesi europei insegna. Lo ricorda il linguista Tullio De Mauro: «Più le classi sono eterogenee, migliori sono i risultati degli alunni. Dei più bravi e dei peggiori» (Corriere della Sera, 17 ottobre). Chi lascia passare simili idee accetta che l’integrazione avvenga in tali modi: sbrigativi, brutali, e infruttuosi. Lévi-Strauss descrive le trappole di un’integrazione che accorpa il diverso odiando la varietà: «è in pericolo la civiltà», la sua capacità di preservarsi mutando. Il progresso avviene solo «quando si creano coalizioni di culture»: solo in tal caso, scrive, non si ha storia stazionaria, solitaria, ma storia cumulativa come nel Rinascimento o nel Neolitico. L’avversione al meticciato espressa da Marcello Pera, il 21 agosto 2005, fu un contributo non minore alla tempesta odierna: sinonimo di bastardo, il meticcio era sospettato di aprire le porte «all’immigrazione incontrollata», al declino demografico, «e così via, di allarme in allarme».
Il discorso sulla razza che Obama ha tenuto a Filadelfia il 18 marzo è decisivo anche per l’Italia che sta divenendo melting pot, crogiolo dove varie culture formano la nazione. L’editore Rizzoli ha avuto l’ottima idea di pubblicarlo, con una prefazione di Giancarlo Bosetti (Sulla razza, 2008). Conviene leggerlo, perché aiuterà a capire meglio presente e futuro. Ci si renderà conto che molto resta da fare, per eliminare non solo i pregiudizi dei bianchi ma anche dei neri. Ambedue sono chiamati a una rivoluzione mentale, da Obama. I bianchi devono scoprire che esiste ormai un razzismo senza razzisti, come spiegato da importanti sociologi (Eduardo Bonilla-Silva, Racism without Racists, 2003; Michael Brown, Whitewashing Race, 2005). Ma anche le minoranze nere, accecate da pregiudizi, devono trasformarsi.
Il fatto è che dal dopoguerra esiste una sorta di consenso progressista, a proposito delle minoranze, modellato sulla storia israeliana e sull’idea che ogni minoranza oppressa o discriminata, cominciando dai neri americani, ha da compiere un Esodo dalla schiavitù. L’Esodo è il nuovo mito planetario, e in genere si combina con il rigetto dell’assimilazione avvenuto nell’ebraismo europeo. Ambedue - mito e rigetto - vanno oggi rimeditati: la frammentazione identitaria non può divenire il modello d’ogni minoranza, pena l’impossibilità di quella coalizione delle culture cui accenna Lévi-Strauss quando invoca una storia cumulativa, non statica. L’assimilazione va rinominata, ma da essa occorrerà ripartire.
È come se Obama avesse appreso da Lévi-Strauss le insidie delle solitudini storiche che fossilizzano. Quando dice che l’Unione creata dai fondatori americani non è compiuta ma da compiere, quando ricorda al reverendo Wright della Chiesa Nera che «la società non ha nulla di statico» ma può cambiare, migliorare, smaschera gli stereotipi bianchi e anche la fuga dei neri nell’identità chiusa e nella disperazione. L’audacia della speranza è possibile perché le società vive non sono immobili. Vale anche per l’Italia.
L’uomo xenofobo ha le passioni tristi descritte da Spinoza: risentimento, paura che svuota il futuro, incapacità di sperare e perfino desiderare. Acchiappa salvagenti con gesti di naufrago, pensando che la vita sia un gioco a somma zero, in cui guadagniamo se l’altro perde. Una vittoria di Obama farebbe bene non solo all’America, e non perché sia un candidato nero o di sinistra. Perché confuterebbe la storia stazionaria in cui ogni civiltà stagna e perisce. ______________________________________________________________
Nel sito, si cfr. anche ELEZIONI USA. LA DEMOCRAZIA, LO SPIRITO DI FILADELFIA DI OBAMA, E L’INTEGRALISMO DELLE CHIESE INVISIBILI
l’Unità 19.10.2008
INTERVISTA con Angelique Kidjo: musicista di fama e ambasciatrice Unicef, ha creato la fondazione «Batonga» per garantire un’istruzione alle ragazze africane altrimenti costrette a lavorare: «È la chiave di volta per cambiare il nostro futuro»
Angelique Kidjo: «La scuola salverà il mondo»
«La scuola è il seme del cambiamento»
«Oggi, con la crisi è vitale che ribaltiamo il concetto che non è il denaro a creare l’uomo, ma è l’uomo che crea la ricchezza»
di Enrico Rotelli
Il suo logo è una farfalla, nella cui livrea vive il profilo del continente africano. Un logo che dalle classifiche musicali internazionali è volato sulla Fondazione da lei creata, «Batonga» (www.batongafoundation.org), per dare un’istruzione secondaria o universitaria alle giovani donne di Camerun, Benin, Etiopia, Sierra Leone, perché possano diventare, «le madri del cambiamento» in Africa. Il logo di Angelique Kidjo. Musicista beninese di origine, ma la sua vita si divide tra Parigi e New York, alterna alla musica delle sue radici ai ritmi afroamericani e al jazz, seguendo un filo conduttore: l’impegno per colmare le distanze, attraverso le note, tra sud e nord del mondo, tra donne e uomini del suo continente. Contaminazioni, molte in questo suo viaggio che sembra ripercorrere le rotte degli schiavi, dalla nativa Cotonou ai suoni dei luoghi degli approdi della tratta, affiancata da musicisti come Peter Gabriel, Carlos Santana, Branford Marsalis. Sia nella sua produzione discografica sia nei numerosi eventi concertistici che costellano l’impegno sociale nell’ultimo decennio: Cape Town nel 2003, per la Nelson Mandela Foundation, We are the Future, Roma 2004 al Circo Massimo, il Cd Instant Karma di Amnesty International per il Darfur, nel 2007.
È scesa a Rimini, per le Giornate internazionali del centro Pio Manzù, dove è stata premiata con la Medaglia d’oro del Presidente della Repubblica italiana, per il suo impegno, come Ambasciatrice Unicef (incarico attribuitole nel 2002), al quale ha affiancato la propria fondazione non governativa. Batonga, è una parola che ha inventato lei stessa, molto prima che diventasse il titolo di una delle sue canzoni più note, con le quali è arrivata a ottenere il Grammy Award. I ragazzi del suo Paese non potevano comprenderne il significato, ma per lei simboleggiava il diritto delle donne ad un’educazione. La chiave di volta per innescare un cambiamento profondo nella propria società, il seme di una tradizione che le donne, poi madri, avrebbero «trasferito e fatto crescere da famiglia a famiglia, da generazione a generazione, una tradizione che va a cambiare il futuro per l’Africa».
Lei ha trovato una propria via per sfidare le differenze tra Nord e Sud, per aiutare a crescere il suo Paese. Ce ne parla?
«Ho vissuto in una famiglia povera, dieci figli e papà era l’unico a lavorare. Ho vissuto circondata da persone ancora più povere di noi, ma ricche di saggezza. Con loro ho imparato che si può essere poveri ma ricchi di dignità. E che non è detto che si possa essere poveri e non aiutare gli altri. Questa infanzia e questa educazione mi ha trasformato in quella che sono oggi. Mia madre mi ha donato questa visione del mondo, che no penso sia mia. Non esistono il terzo o il quarto mondo, ne esiste uno solo, e la razza umana è una. Non ho inventato io questo ma le persone che vivevano con me. I musicisti tradizionali facevano da ponte tra la società rurale e il mondo politico. Grazie a loro ho capito che potevo fare qualcosa senza avere paura delle conseguenze. E mamma e papà sono esempi perfetti: nonostante 10 figli non so quanti bambini hanno aiutato e mantenuto agli studi. È la musica il collegamento e il legame tra tutto questo».
Quando ha presentato la Fondazione Batonga e i progetti educativi alle ragazze per un’istruzione secondaria e universitaria che sviluppa in diversi paesi africani, ha detto che «educare le ragazze in Africa dà loro la forza e gli strumenti che servono ad essere madri del cambiamento». Ci può spiegare cosa intendeva?
«Mio padre e mia madre hanno sempre insistito perché fossi istruita. Ma a un certo punto con la musica ho cominciato a fare soldi. E sono andata da mio padre dicendogli che avrei proseguito con la musica, lasciando la scuola. Non esiste mi disse: tu non canti più e vai a scuola.
Una madre istruita si batte fino alla morte perché i figli vadano a scuola. Eravamo tre figlie a studiare e i parenti di papà venivano in continuazione a dire “perché le mandi a scuola?, è uno spreco di soldi. Daccele a noi e le faremo guadagnare”. E mia madre controbatteva: “Assolutamente no, se togli le ragazze dalla scuola non avrai più nulla, non avrai più famiglia”.
Ecco perché diventano la madre del cambiamento. Un africano tende a considerare di più il bestiame che la donna. È fondamentale che le donne capiscano l’importanza dell’istruzione, perché domani le madri potranno poi insegnare ai figli e alle figlie, e fare in modo che la cultura diventi merce di scambio.
Anche la mortalità infantile è molto legata all’istruzione. Ho visto madri che per colpa dell’ignoranza restavano impotenti di fronte al figlio malato. Una madre istruita invece può aiutare il suo bambino, è in grado di conoscere le medicine, leggere i foglietti e usarle nel modo giusto, informarsi. L’ignoranza può esser pericolosa».
Con la sua musica, hanno detto, lei getta un’ancora ai più deboli...
«Questo fatto di essere circondata da persone comuni mi ha dato la necessità di credere nell’uomo. Perché non ci sono alternative. Da quando ho cominciato a fare musica i miei ispiratori sono stati uomini, donne e bambini. Ci troviamo in un periodo di totale destabilizzazione. Perché? Perché ci siamo allontanati gli uni dagli altri. Noi stessi abbiamo infilato il lupo nell’ovile. Noi abbiamo creato i soldi per poter scambiare le merci, per mangiare. E questo lupo, il denaro, lo abbiamo fatto crescere fino a distruggerci. Madri, padri e figli. Finché non sarà nella giusta prospettiva l’idolo denaro non troveremo soluzione e sacrificheremo molte generazioni. Oggi, con la crisi, se non riusciamo a capovolgere il concetto che non è il denaro che crea l’uomo, ma è l’uomo che crea la ricchezza, non avremo nessuna chances. Per decenni i paesi ricchi hanno destabilizzato i paesi poveri. Difficilmente con questo passato è possibile cambiare. E abbiamo destabilizzato su false credenze: che i poveri restassero a casa loro. Ma purtroppo per loro, il povero si muove.
Quando le persone venivano ridotte in schiavitù, con un lavaggio del cervello si cancellavano i ricordi delle origini. Ma la musica opera come un’impronta genetica, la musica è uno specchio fedele del Dna, perché i ricordi non si cancellano. Sta a noi prendere in mano la sfida e i problemi dell’umanità, della quale siamo causa e soluzione. La soluzione per salvarci è dentro di noi».
Per questo la sua ricerca artistica l’ha portata nei paesi mete della rotta degli schiavi, per contaminarla con ritmi afroamericani?
«Esatto. I vecchi musicisti tradizionali mi hanno insegnato che la musica non ha colori, non ha lingua, perché il cuore dell’uomo non ha colore. Lo vedo ogni volta, mi vengono a vedere gruppi sociali diversi, con background diversi. Ma con la musica si riesce ad affratellare persone così diverse. La musica non uccide ma riunisce, salva e può far arrivare a liberare qualcuno come Nelson Mandela. Sono questi i motivi della bellezza della musica. E per questo l’amerò fino alla fine dei miei giorni».
Lei ha dichiarato che «i Paesi forti devono rispettare i popoli. Altrimenti la globalizzazione diventerà la più forte alleata del terrorismo». E ha aggiunto che la musica serve anche a chiedersi come possiamo fermarla, tutta questa violenza. Quella dei ricchi verso i poveri e quella di chi ha fame e vuole cibo. In che modo?
«Questo è già vero: non si vincerà la guerra al terrorismo se non si accorcerà il gap tra ricchi e poveri. Chi ha le fonti di reddito che permettono di fare delle cose non vorrà mai che qualcuno gliele tolga. Mentre qualcuno che cerca di riuscire nella vita, e non ci riesce, pensa che la risposta sia nella violenza, nel terrorismo. I paesi ricchi non si chiedono perché certa gente lascia il proprio paese per andare all’estero? Se avessero potuto non l’avrebbero lasciato mai. Se fossi stato uomo, avrei potuto magari avere un mercato nel mio paese, ma essendo donna non ho potuto, sono dovuta andare via. In Africa tanti ragazzi sono così, maschi e femmine, che vogliono studiare, farsi una cultura e non se ne andrebbero mai. E quando faccio sessioni musicali, e gli dico che c’è la miseria anche in Europa, e non mi credono. Guardano la tv e pensano a un mondo diverso. Inutile porre i problemi, vedono solo l’aspetto positivo. La risposta sta dentro di noi. Se prendiamo in mano questa risposta, possiamo cambiare. Appena ho cominciato a fare musica, i musicisti tradizionali mi dicevano sempre che dovevo amare me stessa, e rispettarmi, e potevo così fare questo agli altri, perché tutti hanno bisogno di amore e rispetto. Amore e rispetto. Con cultura ed educazione servono a cambiare la propria vita e la vita degli altri. E a risolvere i problemi».