di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 21.09.2008)
Il baratro di cui ha parlato Berlusconi, giovedì quando s’è rotto il negoziato Alitalia e la cordata Colaninno ha ritirato la propria offerta, è la condizione in cui ci si trova ogni qual volta la realtà si vendica sull’illusione, che più o meno lungamente aveva abbagliato e confuso le menti. Ogni disincanto genera baratri. La grande illusione esiste anche nel mondo della finanza ed è chiamata bolla: proprio in questi giorni, anch’essa sta scoppiando nelle mani di chi per decenni l’aveva dilatata, fino a scambiarla col reale. Il motore dell’illusione è la distorsione della realtà, ed è il motivo per cui si può parlare di bolla della menzogna per Alitalia e di bolla delle false credenze per la finanza. Come quando è fatta di sapone, la bolla ti avvolge con una membrana trasparente, che ti sconnette dal reale.
Più enormi le illusioni, più durevole la bolla e più brutale lo scoppio. Per questo è importante esplorare il passato, anche se presente e futuro sono prioritari. L’anamnesi della bolla aiuta a capire il momento in cui l’illusione non solo cancella il principio di realtà, ma crea realtà affatto nuove che pesano ancora: una tentazione che non è di ieri ma di sempre, essendo le false credenze loro ingrediente essenziale. La bolla Alitalia s’è palesata non solo alla fine del governo Prodi, ma anche quando ha preso corpo la cordata Colaninno. L’alternativa berlusconiana poteva riuscire, ma essendo nata come bolla aveva bisogno di menzogne e queste non sono state ininfluenti sul negoziato. Ogni volta che il premier parlava (l’ultima a Porta a Porta, il 15 settembre), le contro-verità per forza riaffioravano facendo riemergere il passato ineluttabilmente. Le contro-verità sono almeno sei.
Primo, non è vero che le promesse elettorali sono state mantenute: Berlusconi aveva garantito soluzioni migliori rispetto a Air France, e la Cai è certo un rimedio ma non migliore.
Secondo, i costi erano ben più alti: sia per i licenziamenti; sia per il futuro mondiale della compagnia (l’italianità era garantita, non una compagnia competitiva nel mondo); sia per il prezzo pagato dai contribuenti.
L’economista Carlo Scarpa ha calcolato, sul sito La Voce, che lo Stato - i contribuenti - devono pagare nel piano CAI 2,9 miliardi di euro.
Terzo, non è vero che non ci sarebbero stati stipendi diminuiti ma solo aumenti di produttività, come detto dal premier: altrimenti il negoziato non si sarebbe bloccato su questo.
Quarto, non è vero che Berlusconi non avrebbe impedito l’accordo Air France: il premier disse pubblicamente che l’avrebbe revocato, se vittorioso alle urne.
Quinto, Air France non prevedeva 7000 licenziati ma 2150.
Sesto, non è Berlusconi a poter lamentare l’uso politico spinto del caso Alitalia.
Rammentare illusioni e contro-verità non è vano perché mostra la stoffa di cui son fatte le bolle: in economia, in politica, nell’individuo. La bolla infatti crea una realtà in cui si finisce per credere, e che diventa realtà: magari virtuale - un’ombra, un’ideologia - ma che incide sulla vita. Chi la dilata comincia a ignorare la membrana e influenza gli attori circostanti. Ogni metafora naturalmente ha difetti, anch’essa deve fare i conti con il reale. Ma l’euforia di illusioni e false credenze è il tessuto della bolla, e se è vero quello che dice Erasmo - la menzogna ha cento volte più presa sull’uomo della verità - la sua potenza non va sottovalutata.
La crisi finanziaria è bolla specialmente deleteria: perché ha ramificazioni più vaste e antiche, legate a illusioni sul potere unilaterale Usa e sulla sua pretesa di poter fare da sé. È il morbo descritto nell’ultimo libro di George Soros, il finanziere che s’ispira alla teoria della fallibilità di Popper (The New Paradigm for Financial Markets, 2008). La bolla è centrale nella sua analisi, ed egli la scorge nella crisi dei mutui, dell’economia, della politica estera Usa. All’origine un peccato originale: il doppio fondamentalismo del libero mercato e della superpotenza unica.
Nella finanza la grande illusione è stata la seguente: i prezzi di vari prodotti (alta tecnologia, case) sarebbero cresciuti indefinitamente, e l’aspettativa di tale crescita li avrebbe ancor più aumentati. Niente li frenava, visto che i tassi restavano bassi e si moltiplicavano mutui a prezzi attraenti anche se irrealistici. Tale deformazione del mercato, Soros la chiama self-fulfilling prophecy (profezia che si autorealizza) del pensiero manipolatore. Esso pesa sulla realtà sino a stravolgere insidiosamente il rapporto tra domanda e offerta: il finanziere parla di interferenza «riflessiva» tra percezioni distorcenti e fatti reali (questi riflettono la manipolazione e ne vengono trasformati).
La profezia che si autorealizza avviene quando la narrazione del reale schiaccia il reale: il vero è sostituito dal racconto. Il postmoderno ha molte affinità con quest’illusione, così simile alle ideologie che affogano il reale nella sua narrativa. Soros denuncia la complicità tra postmoderno e Bush, ma la complicità vale anche per Berlusconi e Alitalia. Un episodio lo comprova, raccontato anni fa dal giornalista Ron Suskind. Già nel 2002, prima della guerra irachena, un consigliere di Bush gli disse: «Il mondo funziona ormai in modo completamente diverso da come immaginano illuministi e empiristi. Noi siamo ormai un impero, e quando agiamo creiamo una nostra realtà. Una realtà che voi osservatori studiate, e sulla quale poi ne creiamo altre che voi studierete ancora» (New York Times, 17-10-2004. Il consigliere sarebbe Karl Rove).
Chi non s’adegua è accusato d’appartenere alla reality-based community: comunità antiquata perché interessata alla realtà anziché alla credenza. La comunità realista s’inquieta per le conseguenze della bolla: Iraq, caos afghano, Iran in ascesa, crollo della borsa, declino del dollaro, debolezza mondiale Usa. Chi vive nella bolla non bada a conseguenze, fino a quando la realtà si vendica. Le bugie possono avere gambe molto più lunghe del proverbio: ma non infinitamente lunghe. Chi vive in una bolla è come stregato. Pensa che la profezia si autorealizzi, nel male o nel bene. In Italia abitano il sogno Berlusconi ma anche Cgil e parte dei dipendenti Alitalia. In America il sogno non è meno forte: sia all’inizio, quando milioni di cittadini credettero nella bugia di mutui troppo facili, sia dopo l’infrangersi dell’illusione col piano di salvataggio che trasforma lo Stato in infermiere.
Chi vive nella bolla pensa che il mercato prima o poi riequilibrerà domanda e offerta, non si cura degli effetti della bolla né di quelli della bolla scoppiata. L’illusione permane, quando le perdite (di Alitalia o delle compagnie Usa) son convogliate verso bad companies magari salvifiche, e però finanziate dal contribuente.
Chi vive nella bolla ha infine e soprattutto l’impressione di poter correre ogni sorta di rischio: in particolare quello che nell’assicurazione si chiama moral hazard, azzardo morale. Si può dar fuoco alla propria casa, tanto siamo coperti. Si può fumare a letto se siamo assicurati dall’incendio, anche se magari nelle fiamme moriremo.
Il moral hazard diventa un pericolo nazionale, quando un governo gioca con l’inaffondabilità di un’impresa - l’Alitalia - fidando sul fatto che alla fine pagherà il cittadino. Diventa un pericolo mondiale, quando a correrlo è una superpotenza convinta di dominare il mondo incontrastata, anche se ormai domina poco. Tutto è permesso: tanto siamo i più forti, simili a dèi; o siamo assicurati, il che consente impunità e irresponsabilità. Dicono che il mercato vero deve riprendere il sopravvento. Non so se sia il mercato, visto che il fondamentalismo ne ha fatto uno stendardo. Sono la realtà e la cittadinanza e l’informazione attenta ai fatti (la reality-based community) che devono sgonfiare le bolle, una dopo l’altra.
Le trappole del pensiero positivo
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 28/9/2008)
La vera questione dell’infermità americana, che in questi giorni s’accampa davanti ai nostri occhi, è stata affrontata solo in parte dai due candidati alla presidenza che venerdì si sono scontrati in un primo duello televisivo a Oxford nel Mississippi. È un’infermità che ormai va oltre incompetenze e misfatti di Bush. Che mette in forse il potere globale dell’America, militare e non militare. Che svela i mali della sua economia, scossa alle radici dallo squasso finanziario. Che colpisce il dollaro, moneta ancor oggi potente nel mondo ma senza responsabilità. Sono inferme anche le sue guerre, che stentano a finire e non erano tutte necessarie. Il risultato è una potenza che ha sempre meno potere, ed è come cieca a questa perdita di prestigio, di influenza, e di faccia.
Si è parlato molto di bolle, a proposito delle catastrofi a Wall Street. Le bolle si creano quando l’azione di un individuo o una banca o una nazione poggia su illusioni invece che sulla realtà, e tutto oggi negli Usa richiama l’immagine della bolla in via d’esplosione: perfino la campagna di Barack Obama e John McCain. Nel prossimi giorni sapremo l’effetto del loro dibattito sugli elettori.
Ma sin d’ora appare chiaro che ambedue stanno fischiettando nel buio, senza dire che fa veramente buio: hanno parole appropriate e presidenziali sulla crisi finanziaria, ma nulla li induce a rivedere programmi che per forza dovranno cambiare. La bolla del sogno ti dà il senso di avere un potere che non hai, ti risparmia il dire vero. La bolla ti fa pensare-positivo quando non c’è niente di positivo in giro. Obama è più severo sugli anni di Bush, ma anch’egli è contagiato dall’illusionismo perché non dice quanto i contribuenti pagheranno il salvataggio di Wall Street. McCain, sprezzante, l’ha ripetutamente accusato d’essere un neofita che «non capisce nulla» - ripetersi è efficace - ma il massimo illusionista è lui. Ambedue danno l’impressione di non misurare il maelstrom in cui l’America si trova.
La più grande bolla nel dibattito è la guerra in Iraq, iniziata da Bush dopo l’11 settembre. McCain l’ha abilmente usata, mettendola al centro e isolandola da quel che accade attorno a Baghdad - ogni bolla per natura s’imbozzola - e per questa via è sembrato confermare una verità antica: in economia i repubblicani non saranno più i primi, ma sulla sicurezza sono ancora considerati superiori, specie in tempi di crisi e panico. McCain ha tentato di mantener viva questa credenza negando che la guerra sia un disastro, e affermando anzi che l’America dopo tanto errare sta addirittura vincendola, grazie all’aumento di truppe e al cambio di strategia decisi all’inizio del 2007. Il generale Petraeus è incensato come deus ex machina che ha permesso la clamorosa svolta, e Obama viene accusato non solo di disfattismo ma di incompetenza e scarsa conoscenza.
È il momento in cui il candidato repubblicano è apparso forte, e quello democratico più che ragionevole ma come intimorito: più volte Obama ha sostenuto che il rivale aveva «assolutamente ragione», non sull’origine della guerra ma sui suoi presenti progressi. Chi ha ascoltato McCain avrà forse pensato: «Ecco un candidato che pensa positivo», che non rivanga il passato e ha un tono presidenziale che intimidisce. La realtà non sta così, la guerra in Iraq è un successo solo se si resta nel bozzolo dell’immaginazione. Ma come scrive Samantha Power sul New York Review of Books citando Clinton: «Gli americani preferiscono chi appare forte pur sbagliando, a chi appare debole pur avendo ragione». Il pensare-positivo, come quella che vien chiamata cultura del fare, spesso seduce l’elettore anche se col reale ha un rapporto ben diafano. Seduce con la potenza della parola, del carattere, di un’esaltazione del fare a scapito del pensare il presente come il passato. In Italia non è diverso.
Obama ha replicato con intelligenza al trionfalismo di McCain sull’Iraq, ma era sulla difensiva, e non ha trovato la formula che descrivesse il declino mondiale dell’America. Ha giustamente ricordato gli enormi costi di una guerra che non solo è stata inutile e mortifera, ma ha ostacolato la lotta al terrorismo, lasciando sguarnito l’Afghanistan. Ha giustamente denunciato l’assenza di una diplomazia che dissuada l’avversario tramite negoziati anche duri, e non solo tramite rotture belliche. Ha giustamente rammentato che la guerra irachena è cominciata con faciloneria euforica nel 2003, e non nel 2007 con Petraeus che ripara o limita i danni. Ma si è guardato dal denunciare le derive dell’eccezionalismo (l’America ha un destino manifesto quasi messianico, è faro di luce nel mondo) e dall’individuare nell’eccezionalismo i germi di un nazionalismo imperiale oggi in frantumi. L’aprioristico pensare-positivo presuppone un’opinione positiva su se stessi di cui i politici americani si liberano con difficoltà.
Eppure proprio questo aprioristico pensare-positivo alimenta le tante bolle di illusioni che stanno esplodendo: lo spiega bene Barbara Ehrenreich sul New York Times del 24 settembre. Il pensare positivo sul mercato che spontaneamente si riequilibra. Il pensare positivo sulla diminuzione della violenza in Iraq, che occulta disastri: strategicamente la guerra è perdente, perché ha creato insicurezza mondiale, ha permesso l’ascesa iraniana, ha creato un pantano in Afghanistan, ha consumato l’influenza Usa, ha dato a Putin il senso di poter agire impunemente perché l’America oggi ha solo la forza del grido. Ed ha aumentato gli attentati nel mondo: del 600 per cento se si includono Afghanistan e Iraq, del 35 senza Afghanistan e Iraq.
Il pensare-positivo è un vantaggio, in politica. Ma spesso non s’accompagna a un pensiero su se stessi egualmente tenace. Abbiamo così in America una strana miscela: ottimista nell’immediato, selettivamente pessimista sul passato, ma non realista. L’ottimismo cieco si nutre di immaginazione: basta volere fortemente una cosa, e la cosa anche se finta è. Il pessimismo strumentalizza la storia, manipolandone le lezioni. La grande disputa contro chi negozia col nemico (l’appeasement degli Anni 30) è basata su una visione singolare del ’900: un secolo tutt’altro che uniforme, che ha coronato di successo la guerra totale contro Hitler ma anche il negoziato con l’Urss e il contenimento. È il containment che infine ha vinto, non il rollback di repubblicani come John Foster Dulles che volevano «scacciare indietro» Mosca.
Oggi siamo di nuovo a quel punto, come se il ’900 avesse insegnato poco. Tutto il pensiero neo-conservatore si fonda su una sorta di espiazione del containment, di riscoperta del rollback di Dulles. Con l’avversario si negozierà, ma non prima di aver ottenuto tutto da esso: cosa ragionevolmente contestata da Obama. McCain vive nella bolla ma è un leader e anche un anticonformista (ad esempio su tortura e Guantanamo). Obama ha buoni argomenti, ma non osa infilare spilli troppo aguzzi nella bolla e si porta dietro le debolezze dei democratici, spesso tentati di cambiar tema quando si parla di sicurezza. Entrambi sono alle prese con l’infermità americana e i suoi mostri: la paura, il bisogno esistenziale del nemico. Eppure la storia americana non è fatta di mostri: «L’unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura», diceva Roosevelt. Non bisogna aver «paure disordinate», raccomandava Carter a proposito dell’Urss. E di recente Richard Armitage, ex vicesegretario di Stato di Bush: «Dopo l’11 settembre, la sola cosa che abbiamo esportato nel mondo è stata la nostra paura».
Difficile dire se gli americani soccomberanno o resisteranno alla politica della paura. Se riscopriranno il principio di realtà, che è poi quello che fa dire a Petraeus: la mia azione è al di là del pessimismo e ottimismo. Se cominceranno a vedere se stessi, e solo dopo aver guardato se stessi il mondo.
Alitalia, il commissario Fantozzi apre a una gara internazionale
Epifani: fatto positivo, a pari condizioni
Gli esponenti del governo e della maggioranza, compreso Umberto Bossi, insistono: per Alitalia c’è un’unica via, che i sindacati accettino di mettersi da parte e che la Cai, la Compagnia Aerea Italiana torni in pista. Secondo il ministro dei Trasporti Altero Matteoli in una intervista sul Sole24ore il tempo è stretto, una decina di giorni al massimo prima del fallimento. Ma il commissario straordinario Augusto Fantozzi domenica lancia una sua iniziativa che somiglia a un "piano B". Si tratta dell’annuncio di una offerta pubblica, a livello internazionale, per trovare nuovi soggetti interessati all’acquisto dell’Alitalia. La ricerca di nuovi partner sarebbe lanciata con un avviso su giornali nazionali e internazionali martedì prossimo.
L’iniziativa del Commissario Fantozzi vede «assolutamente favorevole» l’ Unione piloti. Anche gli assistenti di volo dell’Anpac si dichiarano d’accordo.
E il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani intervistato da Lucia Annunziata su RaiTre nel programma "In Mezz’ora" dopo il tg, saluta l’iniziativa di Fantozzi come «un fatto nuovo importante», oltre che un «atto dovuto» sollecitato in questi giorni da vari esperti economici. Secondo Epifani la trattativa si può rimettere in moto anche sul nodo che resta più intricato: quello del destino dei piloti. «Così come non si può far funzionare i treni senza macchinisti - dice Epifani - non si può pensare di far volare gli aerei senza i piloti». Il giudizio di Epifani è su una gestione «discutibile fin dall’inizio» della trattativa da parte del governo, con «ultimatum prendere o lasciare fin dal primo giorno». Epifani salva il ruolo di Gianni Letta «più disponibile ad ascoltare» e anche è disposto ad riconoscere la linearità del comportamento del ministro Matteoli, ma non quello di altri esponenti del governo.
Epifani si rifiuta di accettare il ruolo di "signor no" e ricorda come i sindacati confederali abbiano accettato sacrifici molto onerosi: 7mila esuberi, di cui 3mila precari Alitalia a tempo determinato. La vertenza Alitalia - secondo il segretario della Cgil - si è ammantata fin dall’inizio di una eccessiva connotazione politica. Tanto che il presidente di Air France Spinetta chiese assicurazioni tanto al governo in carica che all’allora capo dell’opposizione Berlusconi che all’epoca da premier entrante sconfessava l’accordo con i francesi parlando di cordata italiana pronta a subentrare.
Il problema secondo Epifani è un problema di democrazia e di relazioni industriali. Che ha alla base la concezione delle regole e del principio della rappresentanza. «Il problema è come affrontare i nuovi contratti e chi li può firmare. Così come non posso firmare un accordo quando la maggioranza dei lavoratori del volo». C’è quindi un problema che riguarda la verifica della rappresentanza, un problema di trasparenza «che - dice - abbiamo posto anche a Confindustria e che invece Confindustria invece per ora non si pone».
Il leader della Cgil è convinto che alcuni operatori internazionali come Lufthansa e Air France potrebbero essere ancora interessati a Alitalia, «con gli interessi italiani tutelati». «Non sono contro la Cai - chiarisce - ma non sono d’accordo su una trattativa esclusiva prendere o lasciare». Per Epifani il ricorso a una gara internazionale trasparente, a parità di condizioni, potrebbe dare un futuro maggiore che affidarsi a una cordata finanziaria con scarsi interessi industriali per il futuro della compagnia italiana.
* l’Unità, Pubblicato il: 21.09.08, Modificato il: 21.09.08 alle ore 20.47
Requiem al mercato azionario *
Con questo rialzo artificiale, il più grande di tutti i tempi (a nostra memoria), è stato messo l’ultimo chiodo alla bara di un mercato zoppicante che ancora, in qualche maniera, nonostante gli interventi istituzionali sempre più massicci e pesanti, riusciva a preservare una sua qualche minima funzione vitale.
Oggi, 19 settembre, hanno ucciso il mercato lì dove si pensava che fosse il più efficiente. Nella patria di un capitalismo oramai agonizzante da tempo. Non poteva essere altrimenti dopo che il nuovo socialismo americano aveva trionfato in quella funesta data del 7 settembre con il salvataggio delle due F.
E’ senza dubbio l’inizio di una nuova era. Il primo giorno di un qualcosa che nessuno aveva mai visto prima d’ora. Si è ufficialmente deciso, senza mezzi termini, nell’ultimo disperatissimo tentativo di risanare un meccanismo oramai rotto, che il mercato non può e non deve riaggiustare i propri parametri secondo l’azione spontanea dei suoi partecipanti.
E’ stata negata con questa azione disperata delle autorità quella funzione del mercato che premia le aziende di successo e punisce le aziende che sbagliano. E’ stato impedito che banche, assicurazioni, finanziarie, un sistema quasi criminale che stava pagando i propri errori con il fallimento, ricevesse la sua giusta punizione dal mercato. In questo mondo, possono fallire gli imprenditori di qualunque industria, non i banchieri. Da oggi è finalmente chiaro.
Un privilegio speciale concesso dallo stato. Non bastava quello di stampare moneta dal nulla grazie al moltiplicatore monetario. Adesso viene concesso un privilegio ancora più speciale. Godere della protezione dallo stato per gli errori commessi. Protezione che paghiamo noi taxpayers. I tartassati. Con il nostro lavoro e i nostri sudati risparmi.
Non bastava farci pagare una burocrazia sempre più inefficiente e dilagante, e praticamente del tutto inutile. Adesso dobbiamo anche pagare i banchieri e le loro bische di affari. Vengono assolti dai loro errori con un premio speciale e rimangono tutti al loro posto. Onesti e farabutti. Senza distinzione. La distinzione la stava facendo il mercato. Non andava bene.
Prima si vendeva spazzatura alla gente direttamente dagli sportelli. Adesso che la gente quella spazzatura non la compra più, non la vuole più, ha scoperto che non valeva quasi nulla, si consente a chi ha prodotto e accumulato troppa spazzatura di smaltire i rifiuti tossici direttamente in un gran bel superbidone finanziato guarda un po’ sempre dai soldi del popolo che indirettamente torna a comprali contro la propria volontà, dietro la vacua promessa che tutto viene fatto per il loro bene!!
Non solo, grazie all’aiuto di oggi, i banchieri potranno anche vendere nuove azioni delle loro società a un prezzo più alto di quello che ieri aveva stabilito il mercato. Le banche avevano bisogno di ricapitalizzarsi. Ma il prezzo del mercato era troppo basso e sarebbe stato penalizzante. Grazie all’aiuto di stato, potranno farlo a un prezzo per loro più remunerativo. Pagano ancora i risparmiatori, direttamente o indirettamente.
E’ defunta poi del tutto la funzione di price discovery. La più importante. Il mercato cerca di continuo il prezzo più equo possibile di un asset. Che remuneri ragionevolmente nel tempo l’investitore tramite il reddito che quell’asset che produce. Costituisce la sua funzione principale. Il prezzo di mercato è pertanto la guida fondamentale per le decisioni di allocazione dei capitali, perchè esse avvengano nella maniera più efficiente possibile (non perfetta, la perfezione non è di questo pianeta).
Non bastava controllare e determinare artificialmente i tassi di interesse tramite le decisioni arbitrarie delle banche centrali. Oggi è stato impedito anche al mercato azionario di cercare in maniera autonoma quel prezzo più ragionevole possibile che dia un senso e orienti le decisioni degli agenti economici nella maniera più razionale possibile. Salta per aria pertanto ogni sistema di riferimento per un calcolo economico razionale. Siamo in pura economia di piano. Come nella russia di 20 anni fa.
Da oggi le autorità hanno deciso definitivamente di impedire al mercato di scendere. Le azioni possono e devono solo salire. Finchè salgono infatti va tutto bene. Anzi quando il trend è al rialzo si cerca di pompare le borse il più possibile perchè un mercato azionario che sale da illusione di prosperità alle masse. Sono felici e possono essere rimbecillite più facilmente. Le bolle azionarie quindi non si impediscono mai.
Si impedisce sempre e solo il ritorno dei prezzi a valori razionali. Una volta c’era la greenspan put che impediva al mercato di scendere. La sicurezza che prima o poi sarebbe intervenuto il banchiere centrale a salvare i mercati dal crollo. Oggi non ci sono più put di un banchiere centrale.
Ci sono Bernanke - Paulson - SEC - FSA che cambiano le carte del gioco dalla mattina alla sera e stabiliscono che i numeri sul tabellone decisi dagli attori economici non vanno bene. Bisogna cambiarli dalla mattina alla sera. 1000 punti di dow jones, 140 di S&P, 350 di eurostoxx nel giro di 24 ore. Nell’illusione vana che domani possa cambiare d’improvviso anche l’economia reale.
Puro delirio e pura follia. Ma per loro l’importante è sostituire dei numeri che mantengano la confidenza del popolo nel loro sempre più gigantesco truffone. E comprare ancora tempo per tenere le loro poltrone sotto il culo. Tu avevi un poker d’assi in mano, avevi fatto la tua puntata. Arrivano loro a dire che l’asso vale meno del sette e la doppia coppia più del poker. Calano la loro doppia coppia di 7 e di 8 e raccolgono tutto quanto messo in gioco. E se lo spartiscono con i loro compagni di merende.
Da oggi quindi è vietato vendere allo scoperto. Forse fino al 3 ottobre, forse a data indeterminata. Qualora il mercato tornasse giù ancora una volta a causa di vendite naturali, di gente stufa e sfiduciata che vuole liquidare quello che ha, ringraziando anche per il prezzo speciale, non resterà che impedire del tutto le vendite e magari obbligare la gente per legge a comprare azioni. Il 20% dello stipendio tutti i mesi, altrimenti vi arrestiamo.
La mossa di vietare le vendite allo scoperto ha inoltre due conseguenze da non sottostimare. Toglie liquidità al mercato, e toglie una futura domanda di sostegno al mercato.
Toglie liquidità perchè innazitutto si tolgono di mezzo coloro che vendevano azioni prese a prestito. E in secondo luogo perchè così facendo si interrompe anche il naturale funzionamento del mercato delle opzioni dove il market maker ha la necessità, per poter operare, di andare "corto". La liquidità è importante per un mercato più efficiente. Con la mossa di oggi si sono eliminati dal casinò (oramai non è altro) quei partecipanti "cattivi" che tra l’altro agivano per punire le aziende che hanno sbagliato. Rimangono quelli buoni che possono solo comprare.
Praticamente adesso che è diventata scomoda si getta sulla strada quella finanza che invece espletava a suo modo una funzione importante del mercato. Finchè quella industria dell’hedge funding serviva a tirare su le borse nell’onda speculativa rialzista tutto bene, la si faceva lavorare in pace. Anzi, diciamolo chiaramente, è solo grazie a tutta quella liquidità iniettata in questi anni che quella industria ha potuto svilupparsi in maniera abnorme. Prima li si è fatti proliferare. Poi li si è uccisi dalla mattina alla sera. Cosa faranno domani non si sa. Scatolone anche per loro come per quelli della lehman. E non sono pochi. Attenzione ai prossimi numeri della disoccupazione!
Impedendo le vendite allo scoperto si toglie anche futura domanda di sostegno al mercato, perchè un domani quei venditori allo scoperto, che presto o tardi devono riacquistare i titoli "sani", ma anche quelli più marci, non saranno più presenti ad assorbire le vendite naturali. A questo punto se il piano di salvataggio fallisse (come dovrebbe ragionevolmente fallire se solo la gente riuscisse a ragionare cinque minuti con la propria testa) e arrivasse quella valanga di vendite che sarebbe naturale lecito aspettarsi di fronte all’assassinio del mercato azionario perpetrato oggi, sarebbe per le autorità un gran bel problema. Come già detto non rimarrà che obbligare i cittadini a comprare titoli, pena l’arresto.
Il capitalismo agonizzante quindi è morto. E con se si porta la più grande scommessa fatta da uno stato oramai complice di quei colpevoli che hanno creato questa situazione. Se vincono, il prezzo sarà pagato dai tartassati, e da un mercato dei capitali che non sarà mai più quello di prima. Con conseguenze gravissime per l’economia reale. Se perdono la grande depressione del XXI secolo sarà cosa inevitabile. Una lose-lose situation. Il mondo ha da rimetterci in ogni caso. Perlomeno, questa volta e a differenza del 1929, il responsabile sarà ben chiaro. Impossibile sbagliarsi.
* Scritto da Francesco
Friday 19 September 2008 - Associazione Usemlab.
Meno di Zero
di Furio Colombo *
Un viaggio mi è rimasto in mente fra i tanti della mia vita. Con l’Avvocato Agnelli stavo andando a dire al presidente degli Stati Uniti (in quel momento si trovava in California) che il colonnello Gheddafi non era più azionista della Fiat. L’Azienda aveva ricomprato la sua quota, decuplicata di valore nel tempo. Ma erano i giorni dell’assassinio di Klingofer, il vecchio ebreo in sedia a rotelle buttato in mare dal ponte dell’Achille Lauro per mano dei terroristi che avevano sequestrato la nave italiana. Erano i giorni in cui Gheddafi, quasi nelle stesse ore, alternava il gesto del mediatore alla funzione di complice. Consideravo quel giorno un evento importante, che valeva anni di lavoro in America: avere separato l’immagine di Gheddafi da quella del lavoro italiano, per quanto la presenza dei capitali libici fosse disponibile, conveniente e sempre alla ricerca di rispettabili opportunità di accasarsi.
Ma era già evidente allora l’andamento infido e ondivago di quelli accostamenti ai paesi democratici mentre continuava e continua la parte non visibile e non decifrabile (mai in tempo reale) di azioni, motivazioni e vere intenzioni politiche. Come non pensarci nei giorni in cui un presidente del Consiglio italiano trascorre con Gheddafi ore di festa, si scambia doni e vestiti, e tutto il mondo giornalistico, il mondo politico, l’opinione pubblica italiana sanno solo di questa festa e di un presunto impegno di Gheddafi a fermare la gran parte dell’immigrazione africana che parte dalla sue coste per arrivare in Italia. E tutto ciò in cambio di una immensa cifra che l’Italia pagherà per «danni di guerra», ma senza mettere in alcun conto, ad esempio, i ricorrenti e sanguinosi progrom contro gli ebrei italiani (si noti bene: nel dopoguerra) che sono accaduti in Libia contro persone e famiglie appena scampate alla persecuzione fascista. E senza spiegare che cosa faceva Tarik Ben Ammar, socio in affari dell’imprenditore Berlusconi ma non consigliere del primo ministro Berlusconi, in quella festa e nella foto di quella festa pubblicata da "Dagospia". C’erano altre cose da sapere dello storico incontro Berlusconi-Gheddafi in Libia. Non le abbiamo sapute né dal presidente del Consiglio né dal ministro degli Esteri. Una l’ha benevolmente condivisa con gli italiani il colonnello Gheddafi facendo sapere che il nuovo rapporto Italia-Libia firmato da Berlusconi sospende i trattati internazionali dell’Italia se e quando quei trattati fossero sfavorevoli alla Libia. Uno è stato comunicato senza troppa enfasi da alcuni giornali. Il presidente del Consiglio, nel consueto «angolo degli affari» che lo statista riserva sempre ai suoi colloqui internazionali (vedi i quaranta minuti di conversazione con Putin, mentre c’era la guerra in Georgia e di cui né i cittadini, né i politici, né gli specialisti, fuori e dentro il Parlamento, sanno nulla) ha trattato con Gheddafi la presenza di una quota di capitale libico nell’azienda Telecom italiana. In questo modo la nostra storia si rovescia: tornano i grembiulini, tornano le case chiuse e torna Gheddafi, come in un film bizzarro e privo di senso. Un’altra cosa ancora sappiamo, dei festosi e segreti accordi Italia-Libia. Lo ha spiegato Sergio D’Elia ("Nessuno tocchi Caino") in una interpellanza parlamentare e a Radio Radicale, mentre ancora duravano le celebrazioni per lo storico incontro. Come farà Gheddafi a fermare il fiume di immigrazione dal Sud del mondo verso l’Europa? Non ci riuscirà, naturalmente. Ma è una buona occasione per attivare la sua polizia e allargare i campi di morte in cui vengono rinchiusi i più sfortunati tra i profughi che cercano di scampare alla fame e alla guerra, quando cadono nelle retate, nei rastrellamenti, o vengono venduti dagli stessi mercanti di uomini. Vengono ingabbiati e lasciati morire dove la Croce Rossa o l’Onu non arriveranno mai, dove si perde (purtroppo non solo in Libia, ma questa volta con un complice italiano) ogni traccia di umanità.
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L’accordo, presentato come una soluzione e una vittoria, oltre che come un giorno di spettacolo dell’unico protagonista italiano, non è un evento isolato per la nuova immagine dell’Italia nel mondo. In Europa, nella settimana appena conclusa, l’Italia ha ottenuto fischi e «buuu» in occasione della presentazione del moderno progetto italiano di incursioni notturne con obbligo di impronte digitali - bambini inclusi - nel campi rom. È stata anche l’occasione per permettere ai deputati europei più attenti di scoprire l’imbroglio Maroni. In linea con il ministro degli Esteri che (sia pure per precisa direttiva di Berlusconi) alla Russia dice una cosa e agli Stati Uniti ne dice un’altra, Maroni ha mandato in Europa un piano sforbiciato dal peggio. Ma, come hanno detto e ripetuto anche al Senato italiano deputati europei che sanno e hanno visto, il peggio resta riservato ai rom e ai raid nei campi italiani. Intanto l’On Cota capo gruppo della Lega Nord-Indipendenza della Padania, prende la parola alla Camera per chiedere «test di accesso per gli studenti stranieri nelle scuole dell’obbligo» e «in caso di bocciatura, la frequenza in una classe ponte» (leggi: "ghetto"). «In questi classi - dice il noto pedagogista Roberto Cota - si svolgeranno corsi per diversità morale e cultura religiosa del Paese accogliente e ci saranno lezioni al rispetto delle tradizioni territoriali e regionali». Le parole suonano ovviamente ridicole, dato anche l’orizzonte minimo della vita a cui si affaccia Cota. Suonano tragiche se si tiene conto della crudeltà nel Paese di Gentilini, di Borghezio dell’orina di maiale versata sulla terra in cui deve sorgere una Moschea, dell’accanito susseguirsi dei divieti di luoghi in cui pregare per gli islamici sventuratamente approdati in Italia. Ma quelle parole hanno un suono sinistro a pochi giorni dalla morte a Milano del diciannovenne Abdul Salam Guibre, cittadino italiano di origini africane, abbattuto a sprangate da una buona e unita famiglia italiana (padre e figlio, ciascuno con la sua mazza per colpire lo "sporco negro") a causa del furto di due biscotti. E tutto ciò nel silenzio del sindaco di Milano. Ma sono anche i giorni in cui l’onorevole Borghezio, capogruppo al Parlamento europeo del partito italiano di governo "Lega Nord per l’indipendenza della Padania", annuncia con orgoglio la sua partecipazione, insieme con bande dichiaratamente naziste a una serie di manifestazioni contro gli immigrati a Colonia. Ogni volta che qualcuno si fa avanti a ripetere con invidia che «la Lega è radicata nel territorio», sarà bene ricordare che anche il fascismo e il nazismo lo erano, che il radicamento in sé non è una ragione di ammirazione e di applauso. Può essere una disgrazia da combattere. Del resto, chi era più radicato nel territorio del Ku Klux Klan prima del sacrificio di Martin Luther King?
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Ma questi sono anche i giorni in cui il ministro della Difesa italiano dichiara, alla presenza del Capo dello Stato, e in un giorno sacro alla Resistenza, che si devono ricordare e celebrare i soldati della repubblica fascista di Salò che hanno combattuto a fianco dei tedeschi occupanti contro gli angloamericani che, insieme ai soldati italiani del legittimo governo, insieme alla Brigata ebraica, stavano liberando l’Italia dal nazismo, dal fascismo, dal razzismo. Il ministro La Russa ha tentato, dunque, il giorno 8 settembre a Roma di esaltare come normali e rispettabili combattenti italiani coloro che stavano difendendo Auschwitz. Il presidente Napolitano ha risposto subito e con fermezza. E ha ripetuto varie volte anche dopo: «La Costituzione italiana sbarra il passo alla falsificazione della storia». Ma quella falsificazione c’è stata. L’ha fatta il ministro della Difesa, in un Paese che, da settimane, è presidiato da unità delle Forze armate. Per fortuna è stata immensamente più autorevole la risposta del Capo dello Stato. Ma il fatto, inaudito e impossibile in ogni altro Paese europeo, è accaduto in Italia in modo solenne e pubblico. Pochi giorni dopo i giovani di An hanno detto forte e chiaro, ripudiando prontamente le parole di invito alla democrazia appena ascoltate da Gianfranco Fini: «Non saremo mai antifascisti».
Mi rendo conto che tutto ciò non è che una parte del dramma italiano provocato da un legittimo e riconosciuto voto popolare. Ma il breve elenco di fatti che avete letto non è che un accenno al rischio evidente e grave a cui è esposta, con questo governo, la Costituzione italiana. Dunque la democrazia. E tutto ciò, compreso lo sdegno che l’Italia di questa destra sta suscitando in Europa (e che ha fatto dire all’imprenditore ed editore Carlo De Benedetti, nell’ultimo incontro dello Aspen Institute: «Noi, l’Italia, non siamo più nulla, siamo irrilevanti nel mondo») è solo una parte, il mezzo cerchio della asfissia che sta stringendo il Paese. L’altra metà degli eventi è economica e personale. Riguarda il presidente del Consiglio e la sua ricchezza. Una parte delle infaticabili iniziative per lo sviluppo di quella ricchezza ci è ignota. Ne possiamo solo constatare la continua crescita, come di un pane miracoloso che continua a lievitare, governando. Una parte è pubblica, sbandierata. È di questi giorni la notizia che la famiglia Berlusconi - con la figlia del premier vice presidente e tre uomini dell’uomo di Arcore nel Consiglio di amministrazione - controlla Mediobanca, la più importante e la più potente Banca d’affari, a cui fanno capo tutti i nodi, tutti gli accordi, tutte le alleanze e gli incroci del potere economico in ogni campo e settore in Italia. Questo Paese, come tutti sanno, è economicamente a zero. Le notizie ci dicono che, moralmente, questo Paese è meno di zero.
La domanda è: di fronte a una così clamorosa emergenza in cui sono in gioco l’immagine politica, l’identità storica, la natura morale, la difesa costituzionale di un Paese che sta per essere sottoposto al violento shock di frantumazione del federalismo leghista, e dove tutto il potere politico, tutto il potere mediatico e - da adesso - tutto il potere economico sono nelle stesse mani (con l’infinita possibilità di guidare qualsiasi gioco, incrociando questi poteri) in Italia si può continuare a fare opposizione di normale andatura parlamentare, come se il Parlamento non fosse stato neutralizzato e disattivato persino nella sua componente di maggioranza? Si può fare una opposizione all’ombra di un governo ombra, che vuole dire corrispondenza simmetrica e valori condivisi, quando, in realtà, alla simmetria si contrappone il segreto, e i valori condivisi sono rappresentanti solo dal Capo dello Stato? Si può fare opposizione parlamentare senza separarsi nettamente dalla finzione di un gioco impossibile, che comprende persino la celebrazione del fascismo?
Chiariamo. È il governo Berlusconi che è uscito dal Parlamento per andarsene in incontri segreti o nella cancellazione della storia italiana o nelle banche. È l’opposizione che resta al suo posto nelle Camere a nome degli italiani che vogliono sapere chi li rappresenta. Ma non possiamo fare opposizione con lampi stroboscopici che alternano sprazzi di luce a una disorientante penombra. Qui si tratta di testimoniare ogni giorno, ogni ora, in ogni atto della nostra vita pubblica che il loro voto è legittimo, il loro modo di governare no.
* l’Unità, Pubblicato il: 21.09.08, Modificato il: 21.09.08 alle ore 12.46
La vendano all’estero o se la prenda lo stato
di EUGENIO SCALFARI *
È VERO che la crisi dell’Alitalia è un bruscolino rispetto a quanto sta accadendo sui mercati mondiali, ma è pur sempre un fatto che ci riguarda molto da vicino, mette in gioco il trasporto aereo d’una nazione, il prestigio d’un governo che è il nostro governo, la rappresentatività d’un movimento sindacale che discute e firma contratti in nome di milioni di lavoratori.
Quindi ci occuperemo anzitutto di quella crisi al punto in cui ora è giunta e di quanto potrà accadere nei prossimi giorni, fin quando la flotta di bandiera potrà ancora volare.
La cordata tricolore e il piano industriale redatto da Banca Intesa si fondavano sul concetto della discontinuità. Al di fuori di esso il tentativo di Colaninno e di Passera non sarebbe mai nato e nessun altro tentativo analogo avrebbe mai potuto nascere. Discontinuità a 360 gradi: nell’organizzazione delle rotte aeree, degli aeroporti, dei velivoli, dei debiti, del personale di terra e di volo e dei rispettivi contratti.
Discontinuità sommamente sgradita ai creditori di Alitalia, ai suoi azionisti privati, ai suoi dipendenti, cioè a tutti coloro che avrebbero dovuto pagare il conto di un dissesto annunciato da molti anni.
Non starò qui a ripetere quali siano state le responsabilità di quel dissesto, ma debbo ancora una volta ricordare che gli anni terribili sono stati soprattutto gli ultimi cinque dal 2003 al 2008, dalla gestione Mengozzi all’affondamento del piano Air France. Un disastro che porta ben chiari i nomi dei responsabili: in testa l’associazione dei piloti e Silvio Berlusconi. Anche Prodi ebbe le sue colpe: incertezza, indecisione; ma senza l’opposizione aggressiva dei piloti e di Berlusconi la via della soluzione era stata finalmente trovata e si sarebbe realizzata.
Un progetto basato sulla discontinuità dipende in gran parte dalle modalità del negoziato e dalle capacità del negoziatore. Colaninno questa capacità l’ha dimostrata in precedenti occasioni ma in questo caso la sua presenza al tavolo è stata minima. È entrato in scena il penultimo giorno e ne è uscito subito.
Anche il ruolo di Gianni Letta è stato molto modesto. Berlusconi praticamente non s’è mai visto salvo per pochi minuti. Tremonti, diretto azionista dell’Alitalia, assente anche lui. L’unico negoziatore al tavolo è stato il ministro Sacconi. Una frana.
Sacconi ha impostato l’intera trattativa sugli ultimatum e su una scelta discriminatoria degli interlocutori. Sapeva fin dall’inizio che il nocciolo duro da convincere sarebbe stato il personale di volo e le associazioni autonome che lo rappresentano. Sapeva anche che il tempo utile a disposizione era breve a causa della pessima situazione patrimoniale e finanziaria della società.
Sacconi trattava cioè sull’orlo del baratro ma era evidentemente convinto che spingere il dramma verso il suo punto culminante avrebbe facilitato l’accordo. Perciò perse volutamente tempo. Si contentò di ottenere il beneplacito di Bonanni, Angeletti, Polverini che non contavano niente in questa vertenza; tenne fuori dalla porta i piloti dell’Anpac e le altre associazioni autonome; scelse come bersaglio la Cgil che accusò fin dall’inizio di ideologismo politico e di una strategia del "tanto peggio".
I piloti dell’Anpac hanno molte responsabilità come abbiamo già ricordato, ma ci sono anche alcuni punti fermi che vanno tenuti ben presenti e cioè:
1. Guadagnano meno dei loro colleghi di Air France, British, Lufthansa. Guadagnano invece di più dei piloti di Air One.
2. Hanno una produttività più bassa dei colleghi di quelle tre società a causa della cattiva organizzazione dei voli e degli equipaggi; tuttavia su questo punto avevano dato subito la loro positiva disponibilità.
3. Sia Sacconi sia il commissario Fantozzi hanno posto il negoziato sotto scadenze ultimative di 48 in 48 ore pena la messa immediata in mobilità di tutto il personale e, ovviamente, la sospensione dei voli. Ma poiché le 48 ore passavano e gli aerei continuavano regolarmente a volare l’effetto è stata la perdita di credibilità sia del ministro sia del commissario.
Ma l’errore di fondo è stato un altro e porta il nome di Silvio Berlusconi. Il "premier" aveva assunto in campagna elettorale l’impegno di favorire una cordata tricolore e questo ha determinato la strategia del governo producendo però un gravissimo vizio di forma nella procedura: ha vincolato il commissario Fantozzi a privilegiare come controparte la cordata Colaninno.
È vero che la legge Marzano, appositamente riscritta per l’occasione, prevede la trattativa privata, ma non prevede l’esclusiva. Fantozzi è stato tuttavia insediato con la condizione di preferire almeno in prima battuta la cordata Colaninno la quale a sua volta, forte di questo privilegio, ha fissato le condizioni pensando che su di esse sarebbe stato relativamente facile acquisire il consenso dei sindacati confederali.
Il tema del contratto col personale di volo è stato completamente sottovalutato sia da Colaninno sia da Sacconi. E quando Epifani ha fatto presente la verità e cioè che la rappresentatività dei sindacati confederali era pressoché nulla per quanto riguarda il personale di volo questa onesta ammissione è stata ritenuta segno di tradimento e di irresponsabilità sia da parte del governo sia da parte della Cisl e sia dalla quasi totalità dei "media" giornalistici e televisivi.
* * *
Ancora ieri il presidente del Consiglio ha ribadito che le soluzioni sul tappeto sono soltanto due: accettare il piano industriale di Colaninno o il fallimento. Ma non è così. La procedura impone a Fantozzi di sollecitare altre offerte di acquisto per l’Alitalia, in blocco senza discontinuità oppure soltanto per una parte degli asset. Se il commissario di Alitalia si sottraesse a questo suo urgente e inderogabile compito verrebbe meno ai doveri del suo ufficio e sarebbe passibile d’esser messo sotto accusa da parte della Corte dei conti per aver causato grave danno erariale alle casse dello Stato.
È ben comprensibile che una soluzione di questo genere, l’arrivo d’un cavaliere bianco che a questo punto non potrebbe essere altri che uno dei grandi vettori stranieri, sarebbe una penosa sconfitta d’immagine per il "premier", ma non è comunque in sua facoltà bloccare una procedura prevista dalla legge. Salvo di nazionalizzare l’Alitalia, magari temporaneamente, seguendo le procedure imposte in analoghi casi dalla Commissione di Bruxelles. Gli esempi che proprio in queste ore vengono dagli Usa ci dicono che in casi estremi la politica, in mancanza di alternative e per evitare guai peggiori, può e anzi deve ricorrere a estremi rimedi.
* * *
Il rimedio adottato - tardivamente - da George W. Bush è chiaro ed è stato già ampiamente descritto ieri dai giornali di tutto il mondo: creare un apposito veicolo federale che si assuma l’onere di acquistare tutti i titoli-spazzatura che ingombrano i portafogli del sistema bancario americano, pagabili al 65 per cento del loro prezzo nominale. Il costo dell’intera operazione è di 700 miliardi di dollari, cifra iperbolica alla quale il Tesoro farà fronte emettendo titoli propri e/o addirittura stampando carta moneta.
Un provvedimento analogo fu preso nel 1932 in piena depressione americana e mondiale con la creazione della Reconstruction Finance Corporation. Come si vede le analogie con la crisi iniziata nel 1929, che raggiunse il suo culmine anche in Europa a tre anni di distanza, sono molto forti con la situazione attuale pur nelle ovvie differenze.
In sostanza si tratta d’un salvataggio senza limiti di cifra dell’intero sistema bancario americano e mondiale perché non solo americano ma anche mondiale è stato l’inquinamento provocato sui mercati finanziari dai titoli-spazzatura.
Sarà sufficiente quest’intervento colossale a ridare fiducia e stabilità ai mercati? Probabilmente sì, ma ci saranno altri effetti che sono fin d’ora prevedibili. Stabilizzare il sistema e salvarlo da un crac totale è un risultato non solo utile ma necessario. Pensare che sia indolore e privo di conseguenze sgradevoli sarebbe però illusorio e sbagliato.
* * *
Il costo di questa gigantesca operazione si scaricherà inevitabilmente sul bilancio federale Usa, già oberato da un antico e ampio disavanzo. Le previsioni più attendibili (riportate da Federico Rampini nel suo articolo di ieri) calcolano che il costo dell’intervento sarà del 7 per cento del Pil degli Stati Uniti. L’inondazione di liquidità avrà effetti cospicui sul tasso d’inflazione americana.
Più difficile è prevedere quale sarà il comportamento del dollaro sul mercato dei cambi. La ripresa in grande stile dei valori delle Borse potrà provocare un afflusso di capitali esteri e quindi un rialzo del tasso di cambio della moneta Usa, ma la prospettiva di inasprimenti fiscali e le dimensioni del disavanzo di bilancio potranno a loro volta provocare uno spostamento di capitali dal dollaro ad altre monete. Non dimentichiamo che il sistema finanziario Usa ha vissuto e vive sul paradosso d’esser finanziato non già dal risparmio interno ma dal risparmio internazionale. La crisi in atto può attirare capitali speculativi a breve ma può anche indirizzare altrove il risparmio internazionale. Del resto il vero e proprio crollo delle riserve della Fed avvenuto in questi mesi è un segnale in questa direzione.
Complessivamente ci sembra di poter dire che le forze di stagnazione economica siano maggiori delle forze di sviluppo per la semplice constatazione che lo sforzo di stabilizzare da parte del Tesoro serve a ripianare i debiti e non a rilanciare gli investimenti e la domanda. Se questi effetti si produrranno sarà difficile scommettere sulla locomotiva americana e sui suoi effetti tonici verso il resto del mondo.
Post Scriptum. Ha fatto sensazione leggere il nome di Marina Berlusconi nel nuovo consiglio di amministrazione di Mediobanca, nella sua qualità di rappresentante di Fininvest, presente con l’uno per cento nel patto di sindacato di Piazzetta Cuccia. La presenza di Marina Berlusconi è pienamente legittimata dalla presenza della Fininvest nel capitale di Mediobanca; non toglie che rappresenti un’altra anomalia del sistema Italia. Fininvest ha amici potenti e collaudati nel cda di Piazzetta Cuccia: Mediolanum, i francesi di Tarak Ben Ammar, Ligresti, Tronchetti Provera, Geronzi. Per quel tanto che conta in Mediobanca, c’è anche Banca Intesa.
La famiglia Berlusconi si muove da tempo per stabilire rapporti intrinseci con le banche e l’establishment assicurativo e finanziario italiano oltre che con quello industriale. Sono passati i tempi del Berlusconi che sparava sulla grande impresa e sulla grande finanza sostenendo gli interessi e le aspettative delle partite Iva e delle piccole imprese.
È finita la caccia alle allodole ed è cominciata quella al cinghiale. La stessa operazione Alitalia mira a questo risultato. Dietro la bandiera tricolore c’è sempre un sottofondo di interessi politici ed economici, ma questo lo sappiamo da un pezzo e accade in tutto il mondo.
* la Repubblica, 21 settembre 2008.
INTERVISTA
"La finanza deve riscoprire l’etica"
La figlia del premier: e il conflitto di interessi va regolamentato
di LUCA UBALDESCHI (La Stampa, 21/9/2008)
MILANO. «Oggi il ricorso all’etica sembra essere la strada migliore che molti economisti e società percorrono per cercare di trovare una soluzione alla dilagante crisi economica. Credo che sia opportuno affidare un ruolo più forte all’etica, ma al tempo stesso temo che questa soluzione evidenzi anche le attuali difficoltà del diritto societario e della costituzione economica della grande impresa. Servono più regole che garantiscano la correttezza dei comportamenti, ma servono anche istituzioni forti che facciano in modo che le norme vigenti vengano realmente rispettate».
Di fronte alla crisi che colpisce i mercati, a colossi che fanno bancarotta e bruciano soldi e posti di lavoro, Barbara Berlusconi mette subito in chiaro una cosa: «Espongo il mio punto di vista, ma non ho la presunzione di dare consigli o di stupire con soluzioni». Ma è evidente che il tema dell’etica negli affari le sta a cuore. Discute di tutela degli investitori e senso di responsabilità sociale che un’azienda deve dimostrare, in un ragionamento che spazia tra le tesi di Guido Rossi e il ruolo del padre come imprenditore, tra la necessità di regolare il conflitto di interessi e il suo futuro di manager.
La sensazione è che questi argomenti segnino un punto di svolta nella vita della primogenita di Silvio e Veronica Berlusconi, 24 anni, consigliere d’amministrazione della Fininvest, madre da undici mesi. Non a caso l’etica nei sistemi economici è al centro della tesi che sta preparando per la laurea in Filosofia all’Università del San Raffaele ed è il tema del dibattito che organizza l’associazione di cui fa parte - Milano Young - con la Bocconi il 2 ottobre.
Al convegno ci sarà una sua relazione?
«No, mi limiterò a spiegare le ragioni per cui l’abbiamo organizzato. Vede, finora con Milano Young ci siamo dedicati alla beneficenza. Ma oggi non siamo gli stessi di quattro anni fa. Come noi anche la onlus dove operiamo compie un percorso di crescita. Cambiano i nostri interessi e le proposte che Milano Young offre alla sua città. Con questo nuovo percorso di incontri desideriamo proporre ai nostri coetanei tematiche che sentiamo urgenti e attuali, come il valore dell’etica nei sistemi economici».
Il punto di partenza del dibattito?
«La società sta riscoprendo l’etica economica perché sembra suscitare nuovi interessi, collettivi e diffusi. Sempre più governanti, giuristi, economisti, imprenditori, sindacalisti, impiegati, consumatori sentono l’esigenza che le società e i mercati siano regolati da valori comuni che contrastino atteggiamenti illegittimamente consentiti e pericolosamente individualisti. Quello che però non si riesce ancora a capire, e su cui verterà la discussione, è se l’etica ha un effettivo potere "curativo" verso quei comportamenti economici che sempre più di frequente accettano e adottano la fisionomia di un’illegalità diffusa».
Bel tempismo, considerato quanto sta accadendo nella finanza mondiale.
«Il crac di Lehman Brothers è sconcertante. Parliamo di 27 mila dipendenti che da un giorno all’altro si ritrovano senza lavoro. Per non parlare degli investitori e dei mercati. Questo dimostra quanto sia attuale l’argomento che abbiamo scelto. Interrogarsi sull’efficacia che l’etica assume nella gestione di società, di imprese e nei sistemi economici non è un tema astratto. E proporlo agli studenti della Bocconi non è un caso. Loro studiano per essere la classe dirigente di domani e non possono eludere queste riflessioni».
Lei invoca una gestione più etica e responsabile delle aziende?
«L’economia di oggi ha sempre più bisogno di indicazioni e limiti, soprattutto per quanto riguarda i problemi della disuguaglianza delle condizioni economiche, della protezione dell’ambiente, della tutela di chi agisce correttamente sui mercati. Trovo giusto che negli affari le persone prendano ispirazione dai principi e dai valori etici, anche se è chiaro che l’etica non si possa sostituire alle norme e alle sanzioni giuridiche, come spesso si vuol far credere. Mi spiego. Ci sono una serie di comportamenti, ritenuti scorretti e sprovvisti di sanzione, che si spera possano essere risolti e controllati attraverso i codici di comportamento societari. Questo è come pensare che l’etica si possa sovrapporre alla giustizia e che in qualche modo possa sostituirla».
A che cosa pensa, in particolare?
«Il punto cruciale è che i codici di condotta aziendale e gli strumenti etici (bilancio sociale, ambientale, ecc) sono in molti casi autoimposti e quindi possono essere violati. Pensiamo a una qualsiasi azienda, che promette di essere corretta e trasparente con i propri dipendenti, i propri azionisti e i consumatori. Prima o poi, però, la ricerca del profitto si scontrerà con le norme etiche e imporrà di scegliere tra l’una e le altre. A quel punto starà alla sensibilità, alla coscienza, alla moralità dell’imprenditore decidere cosa fare».
Che cosa propone, allora?
«Che vengano definiti in maniera oggettiva i criteri etici cui bisogna attenersi e che il rispetto ad essi non sia autogestito, ma imposto, affinché la comunità economica possa giudicare gli effettivi comportamenti dei propri operatori. Però l’etica da sola non basta. La crisi del mondo degli affari non è dilagata solo per mancanza di principi etici, ma perché mancano le leggi e spesso quelle che ci sono non vengono applicate. Il professor Guido Rossi ha ben spiegato, ad esempio nel libro “Il conflitto epidemico”, la necessità di maggiori controlli e sanzioni».
Ha parlato di questi temi con suo padre?
«Non ne abbiamo ancora avuto il tempo, ma illustrerò per primo a lui la mia tesi».
Crede che potrebbe considerare un’ingerenza negativa l’idea di un codice etico imposto per legge alle imprese?
«Sinceramente, non saprei dire. Per immaginare la risposta bisogna collocare una persona nella fase storica in cui ha formato la propria esperienza. E queste sono problematiche che solo in questi ultimi tempi conoscono un’ampia diffusione».
Teme che possa giudicarla...
«Antiliberale?».
O di sinistra.
«Non si può parlare di destra o sinistra. Oggi fa parte del governo il ministro Sacconi che è un grande esperto di etica di impresa. Non credo che sia una questione che faccia a pugni con il libero mercato, se è questo che intende».
E’ una questione etica anche risolvere il conflitto di interessi, non crede?
«Il caso di mio padre è altra storia rispetto a ciò di cui abbiamo parlato finora. Sono convinta che il tema del conflitto di interessi abbia bisogno di una regolamentazione, ma il voto ha dimostrato che gli italiani non lo vivono come una necessità. Diciamo che esiste l’esigenza, non la richiesta».
Che voto dà all’etica imprenditoriale di suo padre?
«Apprezzo il rispetto per le altre persone e la disponibilità ad ascoltare».
Nel suo futuro c’è una carriera da manager, vero?
«E’ il mio obiettivo».
Sarà impegnata alla Mondadori?
«Studio per questo, amo i libri, l’editoria, le dinamiche della comunicazione. Ed è anche quello che mi ha sempre chiesto e proposto mio padre».
Niente Mediaset e televisione?
«La tv mi interessa meno».
Però la guarda?
«Amo guardare Sky, canali come Discovery o National Geographic. Apprezzo Matrix e Mentana, è bello Report, mi piacciono la Bignardi e le Invasioni barbariche. Comunque mi creda, rispetto a quanto si vede all’estero, il nostro servizio televisivo è di buona qualità. Che si parli di Mediaset, Rai o La 7».
Un’ultima domanda: sarà un’imprenditrice eticamente responsabile?
«Quando mi troverò di fronte a una scelta cruciale mi auguro di saperla compiere conformemente ai miei principi morali».