SAGGI
Scritto a ridosso della seconda guerra mondiale
Margaret Mead riflette sull’America
di Valeria Gennero (il manifesto, 05.07.2008)
Chi siano gli americani, quali i desideri e i timori incisi nel loro carattere nazionale e - soprattutto - come possano essere motivati a combattere contro un nemico lontano e sconosciuto sono parte delle domande cui cercava di rispondere Margaret Mead in uno dei suoi studi più noti, America allo specchio. Lo sguardo di un’antropologa (Il Saggiatore, pp. 260, euro 19), pubblicato a pochi mesi dall’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale e scritto in tre settimane sulle ali di un’urgenza politica che traspare in ogni pagina del volume. La volontà di raggiungere un pubblico vasto si traduce in una scrittura limpida, essenziale.
Uno stile «tipicamente americano» si potrebbe dire, parafrasando la stessa Mead che identifica nella prosa di Hemingway la realizzazione più compiuta di una lingua - l’americano appunto - di cui rintraccia la genealogia non tanto nell’inglese elisabettiano dei padri fondatori, quanto nelle fabbriche e negli uffici postali in cui l’hanno imparata in età già adulta generazioni di immigranti: una lingua pubblica, collettiva, la cui ricchezza «deriva dall’evocazione di oggetti che hanno in sé le sfumature, piuttosto che dall’uso di parole che portino con sé un’atmosfera linguistica». L’americano sarebbe dunque ormai estraneo alle sue radici europee: sono diverse le dinamiche intergenerazionali, diversi i modelli educativi e i riti sociali.
Quel che più interessa Margaret Mead è la differenza nel ruolo attribuito all’aggressività, che negli Stati Uniti è legittimata solo nel contesto di una «giusta causa» definita in base a criteri ragionevoli e condivisi dalla collettività.
In virtù dell’enorme prestigio dell’autrice, quando fu pubblicato America allo specchio conferì una nuova legittimità all’idea di carattere nazionale e alla validità scientifica della sua analisi. Questo aspetto lo rese molto popolare presso il grande pubblico. Meno positiva fu invece l’accoglienza della comunità scientifica, che vi riscontrò un eccesso di generalizzazioni e un metodo di indagine poco coerente.
Alle accuse Mead replicò nella «Nota bibliografica» aggiunta nel 1965: «Le difficoltà nascono dalla supposizione generale, esplicita o implicita, che tutte le teorie della personalità che implicano il riconoscimento di alcune caratteristiche costanti nella vita (innate o acquisite attraverso un apprendimento precoce) siano necessariamente di tendenza razzista.»
A più di vent’anni di distanza dalla pubblicazione di America allo specchio la studiosa ribadiva quindi la sua posizione originaria e respingeva la teoria dell’infinita adattabilità della vita umana, in cui individuava invece un ulteriore effetto del carattere nazionale, vale a dire «il persistente rifiuto degli americani a riconoscere che una lunga privazione culturale subita da un qualsiasi gruppo etnico possa essere, in effetti, penalizzante».
Un altro aspetto controverso riguarda la scelta di sottolineare la scarsa rilevanza delle classi sociali negli Stati Uniti. Infatti, secondo Margaret Mead il concetto di classe possiede una staticità che la rende poco adatta a descrivere una società fluida e in continua transizione come quella statunitense. Nel contesto americano la struttura sociale è definita invece nei termini di pecking order, «l’ordine di beccata», in cui l’attribuzione di una funzione predominante non è legata a una gerarchia prestabilita ma piuttosto il risultato di una situazione in costante trasformazione. È per questo che gli americani tendono al raggiungimento di segni visibili del benessere economico, in una lotta per il primato che non consente pause e che si rinnova da una generazione all’altra, e in una coazione al successo originata da una storia nazionale che è segnata dalla presenza di una frontiera in movimento. Sebbene l’idea di un’economia basata sull’ipotesi di espansione permanente sia diventata improponibile nel ’900, l’America sembra incapace di adeguarsi a tale limitazione, ed è questa la sua contraddizione più pericolosa.
La riproposta, oggi, di America allo specchio permette di apprezzare a pieno la lucida lungimiranza con cui Mead aveva ipotizzato l’imminente declino del modello fondato sull’espansionismo permanente, mettendo in guardia dalle conseguenze politiche della progressiva erosione delle premesse puritane che identificano nel successo la ricompensa della virtù e nel fallimento un segno visibile dell’inettitudine.
La percezione di un legame tra sforzo e risultato è infatti fondamentale per rafforzare il senso di appartenenza alla comunità democratica. Se questo legame si indebolisce, aumenterà invece il numero di americani «convinti» che è tutto sia una «questione di protezioni» e che lavorare duro al giorno d’oggi non serve a niente» perché «tutto, comunque, è mafia».
Il rovesciamento dell’ideale puritano potrebbe rivelarsi insidioso, avverte Margaret Mead, perché la negazione della responsabilità morale trasforma il puritanesimo in un cinismo che potrebbe essere la base del fascismo americano, inchinato «davanti a ogni personalità abbastanza forte e abbastanza amorale da farla franca e ottenere ciò che vuole». Mentre illustra i pericoli del virus sociale che aggredisce la democrazia sotto forma di «fascismo per bene», l’antropologa osserva come il Secolo Americano corra il rischio di trasformarsi di un nuovo imperialismo che sostituisce all’ideologia della missione civilizzatrice «nient’altro che la brama di ricchezza, di potere e di conquista».
Per vincere davvero la guerra contro il totalitarismo, spiega Margaret Mead, ci vuole altro: serve la capacità di pensare «un ordine creativo» basato sull’interdipendenza delle civiltà, unito all’impegno per identificare «la grammatica della cultura globale».
AMERICA ALLO SPECCHIO.LO SGUARDO DI UN’ANTROPOLOGA,
IL SAGGIATORE, PP. 260, EURO 19
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA STATUA DELLA LIBERTÀ DEGLI U.S.A. - CON LA SPADA SGUAINATA: "GUAI AI VINTI"!!! LA LEZIONE DI FRANZ KAFKA, IL MAESTRO DELLA LEGGE: RIPENSARE L’AMERICA. E il sogno del "nuovo mondo"!!!
FLS
PIANETA TERRA: MARGARET MEAD E "LA GRAMMATICA DELLA CULTURA GLOBALE"
PRENDERSI CURA...
“Uno studente chiese all’antropologa Margaret Mead quale riteneva fosse il primo segno di civiltà in una cultura. Lo studente si aspettava che Mead parlasse di ami, pentole di terracotta o macine di pietra. Ma non fu così.
Mead disse che il primo segno di civiltà in una cultura antica era un femore rotto e poi guarito. Spiegò che nel regno animale, se ti rompi una gamba, muori. Non puoi scappare dal pericolo, andare al fiume a bere qualcosa o cercare cibo. Sei carne per bestie predatrici che si aggirano intorno a te. Nessun animale sopravvive a una gamba rotta abbastanza a lungo perché l’osso guarisca.
Un femore rotto che è guarito è la prova che qualcuno si è preso il tempo di stare con colui che è caduto, ne ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi.
Mead disse che aiutare qualcun altro nelle difficoltà è il punto preciso in cui la civiltà inizia. Noi esprimiamo il nostro meglio quando serviamo gli altri. Essere civili è questo”.
Il punto esatto del senso di comunità e’ la cura e il rispetto dell’altro.
FONTE (LINKEDIN): KATIA GIRINI
ANTROPOLOGIA E SOCIETA’: L’IMPEGNO DI MARGARET MEAD AD IDENTIFICARE "LA GRAMMATICA DELLA CULTURA GLOBALE".
SE è possibile sostenere con convinzione e determinazione con Margaret Mead "che aiutare qualcun altro nelle difficoltà è il punto preciso in cui la civiltà inizia", è da dire però che questo "qualcun altro nelle difficoltà" non è tanto e anche qualcuno che ha la "gamba rotta", ma ancor di più e sempre e soprattutto quel qualcuno (e, in questo caso, ogni essere umano) che è appena nato... IL BAMBINO. Dall’accogliere e dall’aver "CURA" di questo essere umano debole, debolissimo, indifeso e "malato", inizia la cultura e l’ABC della civiltà. Non è che non sappiamo più aver cura anche di chi cade e sta male perché non si sa ancora (e più) #comenasconoibambini? E neghiamo ogni giorno e momento quale lungo corteo di persone "assi-cura" e ha assi-curato la vita a ogni essere umano che nasce ed è nato fino ad oggi, per non morire appena nato? A cominciare da ognuno e ognuna, da noi stesse e stesse. O no?! A che gioco si sta a giocare, qui e ora, su tutto il Pianeta Terra?!
Federico La Sala (Linkedin)
Charles King, appunti per un futuro antirazzista
Studi etnografici. Attraverso la ricapitolazione delle ricerche di Franz Boas e dei suoi allievi, Charles King coglie gli aspetti più ostinati della società americana:«La riscoperta dell’umanità», Einaudi
di Francesco Remotti (il manifesto, Alias, 22.11.2020)
Charles King, autore di La riscoperta dell’umanità Come un gruppo di antropologi ribelli reinventò le idee di razza, sesso e genere nel XX secolo (Einaudi, traduzione di Dario Ferrari e Sarah Malfatti, pp.480. € 34,00), è un esperto di storia dell’Europa orientale, non un antropologo; eppure ha scritto un libro di grande interesse su un periodo fondamentale della storia dell’antropologia. Grazie ad accurate ricerche d’archivio ed estese consultazioni di documenti privati, libri, articoli specialistici, King non si è affatto limitato a imbastire un profilo biografico di Franz Boas e dei suoi allievi, ma attraverso la ricostruzione delle loro vite e delle loro ricerche è stato in grado di cogliere aspetti sorprendentemente duraturi della società americana.
King interpreta l’antropologia culturale di Boas e della sua scuola come una «rivoluzione» di tipo scientifico, storico, politico, in quanto andava decisamente contro mentalità e istituzioni fondate su presupposti come la supremazia della propria razza e della propria civiltà. La domanda allora è: quella rivoluzione ha avuto successo? È riuscita a bloccare le derive razziste della società americana? Oppure è il caso di constatare come il razzismo sia ancora attivo e alimenti buona parte della politica e dei movimenti della società americana attuale? Da questi interrogativi, oltre che dai suoi meriti intrinseci (scrupolosità della ricerca e ammirevole efficacia narrativa), scaturisce il grande interesse del libro: le battaglie condotte da Boas e dai suoi allievi, e dunque l’antropologia da loro costruita sulla base del concetto di «cultura», sono tuttora fonte di ispirazione.
Diversamente dalle normali storie del pensiero antropologico, King ci fa assistere come in un film a scene e azioni dei suoi protagonisti. Vediamo così il giovane Franz Boas nella Germania dell’Ottocento (era nato a Minden, da una famiglia ebraica, nel 1858), la sua movimentata formazione universitaria (fu protagonista di duelli tra universitari, che gli lasciarono dei segni sul volto), le sue letture appassionate di Johann Herder e di Alexander von Humboldt, e soprattutto - nel 1883 - il viaggio per mare da Amburgo alla Terra di Baffin. Tutto in effetti cominciò da lì, dal lungo soggiorno presso quelli che ben presto Boas si abituò a chiamare «i miei eschimesi».
Tra gli Inuit
«Più osservo i loro costumi» - scriveva - «più mi rendo conto che non ho alcun diritto di considerarli con disprezzo, dall’alto in basso. Dove, nel nostro mondo, è possibile trovare una simile ospitalità?». Tra gli Inuit imparò, sulla propria pelle, «la relatività di ogni cultura». Nonostante tutto il sapere acquisito nelle Università tedesche, Boas si rendeva conto della sua inesperienza e misurava la sua impotenza, come quando il vento sibilava furiosamente fuori dalla capanna e quando la sua sopravvivenza dipendeva dagli accorgimenti che soltanto i suoi amici Inuit gli potevano insegnare.
Alla difficoltosa introduzione di Boas nella società degli Stati Uniti d’America il libro dedica pagine istruttive: gli innumerevoli ostacoli incontrati fanno capire in concreto la distanza tra Boas e le istituzioni americane sorde alle sue idee innovative. Quando nel 1897 perviene alla Columbia University di New York, può finalmente dedicarsi all’insegnamento dell’antropologia, intesa non come teoria delle leggi generali del progresso dell’umanità, ma come studio delle singole culture locali, tutte meritevoli di essere indagate nelle loro peculiarità.
Da questo punto in avanti, il libro di King si allarga alle figure di antropologi che si formarono attraverso l’insegnamento di Boas. Curiosamente, però, egli dedica poche righe a figure di primo piano, quali Alfred Kroeber, Edward Sapir, Robert Lowie, Alexander Goldenweiser, Paul Radin, Melville Herskovits. Del tutto assente è Ashley Montagu, che pure si era addottorato con Boas nel 1937, e a cui si deve uno dei contributi critici più significativi elaborati dall’antropologia culturale a proposito del «mito della razza» (Man’s Most Dangerous Myth: The Fallacy of Race, 1942).
Nonostante la loro importanza sul piano istituzionale, queste figure maschili vengono sacrificate, nel libro di King, a favore di quattro figure femminili, come se certe implicazioni della «rivoluzione» boasiana potessero essere meglio colte attraverso il percorso, senza dubbio più difficile, delle antropologhe: «Tutti i miei migliori allievi sono donne» aveva dichiarato Boas.
Le prime due - Ruth Benedict e Margaret Mead - sono molto note, mentre le altre due risultano più marginali. Di tutte apprendiamo nel dettaglio la formazione, le ricerche sul campo, le passioni intellettuali, gli amori, mentre negli Stati Uniti nel frattempo si adottavano misure restrittive contro gli immigrati, si assisteva al persistente interesse per l’eugenetica da parte dei politici e di buona parte della comunità scientifica, si sollevava la questione dell’entrata in guerra, del rapporto con la Germania hitleriana, fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Non è difficile immaginare cosa abbia significato per il vecchio Boas vedere come «il razzismo avesse completamente trionfato nella sua terra d’origine» e come il nazismo - che aveva messo al rogo i suoi libri - perseguisse chiaramente lo sterminio degli Ebrei in Europa. Nel mese di dicembre 1942, gli alleati si decisero finalmente a denunciare questo crimine. Il 21 di quello stesso mese si concluse la vita di Boas: morì durante un pranzo ufficiale in onore di Paul Rivet, fondatore del Musée de l’Homme di Parigi, costretto a emigrare in America a seguito dell’occupazione tedesca.
Se durante tutta la lunga vita di Boas (descrivibile come un arco dall’Illuminismo tedesco al nazismo) il rapporto con la Germania fu inevitabilmente intenso, per le americane Benedict e Mead il problema non si poneva in quei termini. Tuttavia, le ricerche etnografiche cui si dedicarono sotto la guida di Boas (Benedict presso gli Zuni del Nuovo Messico, Mead a Samoa, Bali e diversi gruppi della Nuova Guinea) le portarono a intrattenere un rapporto altrettanto critico e instabile con la propria società.
Dettagli biografici
Non meno tormentato di quello di Boas, il destino delle sue allieve ruota intorno all’antropologia come dimostrazione vivida di «possibilità», non soltanto teoriche, ma anche esistenziali, come sperimentazione di modi diversi di intendere le relazioni sociali e personali. Tensione e conflitti con la collettività di appartenenza fanno parte della vita di Benedict e di Mead, i cui dettagli biografici King dispensa copiosamente, senza mai cadere nel pettegolezzo, nemmeno quando si sofferma sulle relazioni amorose tra Mead e Benedict, tra Mead, Reo Fortune e Gregory Bateson in Nuova Guinea.
Non per niente, Margaret Mead ebbe a dire che chi ha problemi con sé stesso si dà alla psicologia, chi ha problemi con la società si rivolge alla sociologia, chi ha problemi con sé stesso e con la propria società rischia di divenire antropologo.
Merito di Charles King è poi quello di fare conoscere due antropologhe meno note, ma non per questo meno significative: Zora Neale Hurston, un’afroamericana approdata al Barnard College, e Ella Cara Deloria, di origine dakota per parte di padre.
Hurston, la cui vita di antropologa sul campo - prima in Florida, poi ad Haiti - fu completamente dedicata a recuperare e rivitalizzare come “cultura” il folklore degli afroamericani, scoprì nell’antropologia di Boas la chiave per «mettere in discussione il dio delle etichette», a cominciare da quelle razziali.
Deloria si addentrò negli aspetti più minuti delle culture indiane, così da partecipare al grandioso progetto di Boas per il recupero e lo studio delle lingue degli Indiani del Nord America, tutto un mondo che esigeva di essere salvato «con la sua logica, le sue regole, la sua bellezza»: ne è testimonianza il suo Dakota Grammar, pubblicato nel 1941 con la prefazione di Boas.
Quando nel settembre del 1948 morì Ruth Benedict, assistita giorno e notte da Margaret Mead, Hurston e Deloria erano ormai lontane da New York: la prima in Florida, dove la sua vita si perse tra mille difficoltà, mille progetti, mille inediti; la seconda nel South Dakota, dove era impegnata a tenere in piedi la scuola della riserva indiana di Standing Rock.
Toccò quindi a Margaret Mead, pur non avendo mai avuto un ruolo strutturato nel dipartimento alla Columbia (lavorò invece per tutta la vita al Museum of Natural History), continuare la battaglia per l’antropologia iniziata dal suo maestro a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, una battaglia i cui punti fondamentali rimasero la relatività delle culture, la pluralità incomprimibile dei modelli in cui prende forma l’umanità e dunque l’invito a «rinunciare all’idea che tutta la storia conduca inesorabilmente fino a noi». Mead morì nel novembre 1978: la sua battaglia - ci fa capire il saggio di Charles King - è tutt’altro che conclusa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
NATURA, CULTURA E FAMIGLIA. FRANCESCO REMOTTI SCRIVE "UNA LETTERA AL PAPA" E RILANCIA UN DIBATTITO TRA "CIECHI".
FLS
Lo sguardo di un’antropologa /
Margaret Mead. America allo specchio
di Daniela Gross (Doppiozero, 02.10.2019)
Chi sono gli americani? A porsi la domanda, alla vigilia dell’ingresso in guerra degli Stati Uniti, è Margaret Mead. Siamo nel 1942 e un “inventario preciso” del carattere nazionale le appare necessario e urgente quanto la conta delle forze materiali in campo. Il risultato è America allo specchio - Lo sguardo di un’antropologa (pp. 264, trad. Lina Franchetti e Ada Arduini), uno dei suoi testi più noti appena riproposto da il Saggiatore, dove, spaziando dalla famiglia al mito del successo, s’inoltra nell’identità e nella cultura degli Stati Uniti per ritrarne i punti di forza e le debolezze.
Scritto nell’arco di poche settimane, il libro nasce dall’esperienza maturata nelle ricerche in Oceania ed è figlio di un’urgenza politica che si dichiara a ogni pagina. Vincere la guerra contro i totalitarismi è fondamentale, ripete Mead, al tempo impegnata nello sforzo bellico per conto di diverse agenzie governative. E nulla meglio del “carattere americano”, con il suo “miscuglio di praticità e di fede nel potere di Dio”, può riuscire in quest’impresa che è “preludio a un compito più grande - la ricostruzione della civiltà del mondo”.
And Keep your Powder Dry, come più bellicosamente il libro s’intitola in inglese dalla celebre esortazione di Cromwell “Abbiate fede in Dio, ragazzi miei, e tenete asciutte le polveri”, indica come si possa “combattere e vincere alla maniera americana”. Per dirla con Mead, è ciò “che l’antropologia come scienza può offrire per aiutare questa guerra, per dire a ogni americano: ‘Ecco uno strumento che potete usare, per sentirvi forti, non deboli, per sentirvi sicuri e orgogliosi del futuro’”.
È uno spostamento di prospettiva che conquista il pubblico. Scritto in un linguaggio semplice e diretto, America allo specchio sfonda i confini specialistici e diventa subito un classico che entra come libro di testo nelle università. Se alla luce di quel ritratto sia ancora possibile ottant’anni dopo leggere il Paese, è però un altro discorso.
Da quando vivo negli Stati Uniti, l’interrogativo di Mead mi tormenta ogni giorno. Chi sono gli americani? Perché fanno, pensano, ridono così? Sarà perché abito nel Deep South, lontana da New York o San Francisco che mi sembrano più familiari, ma la percezione di uno stacco fra me e loro non mi lascia e ogni tanto finisco a sbatterci la faccia.
È un mondo altro, ha le sue regole e i suoi codici. Ho smesso di chiedermi se è meglio o peggio. È così. È un’altra lingua da imparare. Ho dunque letto America allo specchio con la curiosità pressante di chi ha bisogno di capire. Più che impadronirmi di un pugno di risposte, mi sono ritrovata però a moltiplicare le domande.
Lo strumento messo a punto da Mead risente del mutare dei tempi, come lei stessa nota nell’introduzione all’edizione del 1965. La vibrante fiducia nel futuro che ha accompagnato l’uscita del libro lascia qui il posto a un disincanto alimentato da temi ancora di stringente attualità: la disparità crescente fra ricchi e poveri, le tentazioni isolazioniste e la reviviscenza dell’estremismo di destra. “Non è che gli americani siano cambiati poi molto”, conclude. “Ciò che è cambiato è il mondo e la nostra capacità di comprendere e agire in base alla nostra comprensione di questo mondo diverso”.
Da allora il mondo non ha smesso di cambiare e così l’America. Non solo i 130 milioni di americani di cui parla Mead sono diventati quasi 330, ma il loro profilo demografico si sta rovesciando come allora non si poteva immaginare. Entro il 2050, dicono le proiezioni, negli Stati Uniti i bianchi sono destinati a diventare minoranza e avviarsi a un lento declino. Le minoranze continueranno invece la loro rincorsa - al primo posto gli ispanici, seguiti dagli afroamericani, dagli asiatici e dalle sempre più numerose famiglie multietniche.
L’America di Mead è un’altra cosa. “Tutti siamo della terza generazione”, s’intitola il capitolo che celebra il mito fondativo del melting pot. E questa generazione, “sempre occupata a spostarsi, sempre occupata a sistemarsi”, abbandona le enclave dove i nonni e i padri si erano stretti ai conterranei (“le Piccole Italie”, “il Quartiere ceco”, la “Chiesa polacca”), cerca altre opportunità e lungo la via costruisce una nuova società, con nuove norme e nuovi rituali. “Ogni americano ha seguito una via lunga e tortuosa: se le vie sono cominciate nello stesso posto in Europa, meglio dimenticarlo - questo legame conduce addietro nel passato che è meglio lasciarsi alle spalle”.
Il paese che si riflette in questo specchio è bianco. E quel bianco si sfoca ad accomunare in una medesima identità tedeschi e irlandesi, polacchi e italiani. Come se la whiteness non si fosse articolata nel tempo in una gerarchia razzista portatrice di odio e discriminazioni - basti ricordare com’erano considerati allora gli italiani del Meridione, per non parlare degli ebrei. Quanto agli afroamericani, sono evocati ma non si vedono come le altre minoranze. Per la cronaca, nel 1940 le statistiche registrano come Non Hispanic White l’88.3 per cento della popolazione e Mead comunque esclude dalla sua analisi il Sud, dove la popolazione afroamericana si concentra.
La sua descrizione finisce così per prescindere dal colore, il genere o la classe, ignorando il retaggio di violenza razziale e sociale con cui peraltro l’antropologa si confronterà in altri scritti. È un ritratto d’epoca che, forse per l’imminenza della guerra, forse per la volontà di parlare a un ampio pubblico, tende a sfumare nell’idealità del mito. È un filtro che va aggiustato con cura per guardare all’America di oggi.
Se gli Stati Uniti non sono più quelli, il sistema di valori che Mead delinea in pagine memorabili resiste nel discorso pubblico e nell’intenzione dei buoni propositi. Non per caso il titolo inglese, perfetto per il tempo di guerra, rimanda a Cromwell. Nel motto puritano Mead rintraccia la formula che ha fatto grande l’America - quel misto di fede, buon senso e duro lavoro che crea e alimenta il successo perché in esso riconosce il favore di Dio e il premio alla virtù.
Non per caso al tempo del New Deal, ricorda Mead, la drammatica catena di fallimenti e il programma di sussidi pubblici hanno fatto vacillare “l’edificio morale dell’universo” agli occhi degli americani. Se non erano più il lavoro e il timor di Dio a portare con sé la loro ricompensa, il fondamento puritano su cui il Paese poggiava finiva per sgretolarsi.
Pur in uno scenario economico e sociale radicalmente mutato, quell’edificio per quanto traballante è ancora in piedi. Il successo rimane valore e desta ammirazione, come la ricchezza che ne deriva (basti pensare alla trionfale mitologia che circonda gli eroi della Silicon Valley o alla traiettoria del presidente Trump).
La competizione per riuscire non conosce sosta o reti di salvataggio. Si comincia da piccoli e si va avanti fino all’ultimo respiro. “L’orgoglio è possibile nei termini della distanza da cui [siamo] venuti”, scrive Mead. In altre parole, per riuscire si deve fare meglio dei nostri genitori e un giorno i figli dovranno fare meglio di noi. Ogni estate il rituale isterico della corsa al college più prestigioso ci rammenta questa verità. Chi non migliora, si vergogna. Fermarsi è un’alternativa da perdenti.
È il volto buio dell’American dream, la condanna morale di chi resta indietro. L’insuccesso è colpa di chi fallisce, spiega Mead. Il povero è tale perché non s’impegna. Ridotta a una questione di buona volontà del singolo, svincolata da ogni determinante storico-sociale, la povertà finisce per essere associata alla colpa. Non ce la fai perché non vuoi, è il leit motiv che ancora segna il discorso pubblico e affossa i tentativi di migliorare il sistema di supporto sociale o avviare un sistema sanitario universale.
È un tessuto morale che ogni giorno la realtà s’incarica di smentire. La fluidità sociale immaginata da Mead si spegne nel divario sempre più profondo fra ricchi e poveri, nel razzismo pervasivo, nella violenza delle armi da fuoco, nell’epidemia di overdose, nella crisi della classe media, nelle crudeltà della stretta sull’immigrazione. E i millennial che accorrono al richiamo di Bernie Sanders sono la testimonianza vivente del fatto che il sogno ha eluso perfino loro, la generazione più istruita di tutti i tempi.
Le pagine di America allo specchio non forniscono facili ricette per decifrare questa realtà così complessa e in costante evoluzione, ma senz’altro indicano la strada. Non per caso l’epigrafe del libro rimanda a Archibald Mac Leish - “Abbiamo imparato le risposte, tutte le risposte: è la domanda che non conosciamo”.
Spiega Margaret Mead, “Soltanto di recente abbiamo smesso di formulare risposte e abbiamo cominciato a fare domande; fare domande accurate, utili e adeguatamente elaborate, ponendoci dei problemi invece che sottometterci al disastro o trovare nuovi modi di sottometterci ai vecchi disastri”. Ottant’anni dopo, servono nuove domande. I disastri ormai li conosciamo bene.
Margaret Mead, quando i ruoli sessuali erano complementari
«Maschio e femmina» della antropologa americana, maestra per successive generazioni di studiosi. Un classico di riferimento per la futura antropologia di genere
di Valeria Ribeiro Corossacz (il manifesto, 11.10.2016)
Pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1949, Maschio e Femmina dell’antropologa Margaret Mead è ora riedito per i tipi de Il Saggiatore (pp. 410, euro 28), che lo aveva pubblicato nel 1966 nell’attuale traduzione. Si tratta di un classico dell’antropologia, che ebbe un grande successo di pubblico, e in particolare di un testo di riferimento per quella che sarà la futura antropologia di genere, sviluppatasi proprio dalla ricezione del lavoro di Mead.
Il volume, che può essere utilmente affiancato al testo divulgativo Margaret Mead. Quando l’antropologa è donna, a cura di Silvia Lelli (2016), presenta materiali e riflessioni basati su diverse campagne etnografiche, condotte tra il 1925 e il 1939 presso sette popolazioni del Pacifico meridionale e occidentale: i samoani (Polinesia), i manus, gli arapesh, i mundugumor, i ciambuli (Nuova Guinea), gli iatmul (Papua Nuova Guinea) e i balinesi. L’oggetto di queste ricerche sul campo sono quelli che l’autrice stessa definisce i problemi su cui ha meditato tutta la sua vita professionale, ovvero cosa siano mascolinità e femminilità.
Oggi potremmo dire che Mead studiava, in diverse società, i processi culturali della costruzione del maschile e del femminile, quelli che definiva ruoli sessuali, una tappa fondamentale nella formazione della nozione di genere. Il libro si contraddistingue per proporre un messaggio ottimista, basato sulla sua fiducia nelle capacità delle scienze sociali di poter trasformare in meglio le relazioni tra uomini e donne e così l’intera società americana.
In Maschio e Femmina Mead dimostra come, sin dalla primissima infanzia, uomini e donne sono socializzati in base a un modello maschile e femminile previsto dalla propria società, a cui gli individui si devono adeguare. Quello che in una società può essere considerato un comportamento tipicamente femminile (passività), in un’altra può essere ritenuto maschile. A volte però le caratteristiche individuali non trovano spazio nei modelli sessuali promossi e approvati socialmente.
I ruoli sessuali sono dunque appresi, sono delle «parti da recitare», ma secondo l’antropologa hanno comunque un fondamento naturale e sono complementari. Mead non mette in discussione la divisione sociale tra maschile e femminile, ma afferma che ci sono delle variazioni culturali nei comportamenti maschili e femminili.
Il libro si caratterizza per il suo impianto comparativo, basato sull’idea che l’antropologia compara società diverse trovandovi un «filo conduttore», che permise a Mead di avvicinare i comportamenti di bambini e adolescenti statunitensi a quelli delle popolazioni da lei studiate insinuando in un vasto pubblico il dubbio che non tutto era «naturale» nei giochi, nelle preferenze dei vestiti delle bambine e nelle scelte professionali delle donne.
Inoltre Mead sviluppa la lezione di Boas, di cui fu allieva, sulla plasticità dell’essere umano, osservando come sessualità, matrimonio e riproduzione siano condizionati dal contesto culturale. Mead era estremamente consapevole della forza dei condizionamenti culturali, per esempio di quanto fosse difficile per una donna fare l’antropologa, osservando come le antropologhe siano più sensibili dei colleghi a quanto succede nella propria famiglia quando sono sul campo e come questo influenzi l’esperienza stessa del campo.
Tuttavia, leggendo il testo ci rendiamo conto come anche Mead rimanesse immersa nella cultura della sua epoca, come quando afferma che lo stupro non è un «atto riconosciuto socialmente», ma piuttosto che esso «può svilupparsi come una deviazione di speciali situazioni sociali», ovvero quando ci sono delle diversità di educazione o di classe. Sappiamo quanto sia difficile ancora oggi riconoscere la violenza sessuale contro le donne.
Maschio e femmina può apparire scritto in un linguaggio datato, lontano dall’attuale letteratura degli studi di genere, ma ci è quanto mai utile per comprendere la complessità dell’impresa iniziata dall’antropologa americana. Il lavoro di Mead ha rappresentato, infatti, il punto di partenza delle riflessioni che identificano sesso (natura) e genere (cultura) come separati, ma anche di quelle che riconoscono come il genere venga prima del sesso, poiché gli esseri umani investono gli attributi naturali di significati prodotti nelle relazioni sociali. Mead ha contribuito ad avviare questi sviluppi, che lei non avrebbe affatto condiviso, attraverso le sue ricerche sul campo in cui osservava come i modelli educativi di bambine e bambini possono variare in modo considerevole da una società all’altra.
La prospettiva comparativa e l’insistenza sulla plasticità delle esperienze umane hanno reso il suo lavoro la base da cui si svilupperà poi l’antropologia femminista. Mead prese sempre le distanze dalle rivendicazioni femministe dei suoi tempi.
Eppure la sua opera è stata un ponte per le lotte contro l’oppressione delle donne, poiché in essa l’antropologa dimostra che non esistono basi biologiche per la discriminazione sociale delle donne e denuncia quelle visioni che «sopravvalutano il ruolo delle diversità fra i sessi e le estendono arbitrariamente ad altri aspetti della vita».
Come ricorda la figlia Mary Catherine Bateson, il cambiamento era uno dei temi principali del lavoro di Mead, ovvero l’idea che la cultura non è un destino innato, ma un artefatto umano che può essere modellato. Seguendo proprio questa strada, l’antropologia femminista ha scardinato l’idea che in ultima istanza le donne siano determinate dalla loro capacità riproduttiva, dalla loro specifica natura.
Ci auguriamo che la riedizione di questo classico indichi la strada per la pubblicazione di altri testi antropologici che ormai da anni studiano l’organizzazione sociale dei rapporti tra uomini e donne, l’eterosessualità come una delle molteplici opzioni a disposizione degli esseri umani per vivere la sessualità, gli affetti e la famiglia, e come essa si fondi, nella maggior parte delle società umane, sullo sfruttamento maschile delle donne.
Quel censimento etnico di settanta anni fa
di Gad Lerner (la Repubblica, 5 luglio 2008)
Cominciò con un inaspettato censimento etnico, nel mezzo dell’estate di settant’anni fa, la vergognosa storia delle leggi razziali italiane. Alle prefetture fu diramata una circolare, in data 11 agosto 1938, disponendo una «esatta rilevazione degli ebrei residenti nelle provincie del regno», da compiersi «con celerità, precisione e massimo riserbo». La schedatura fu completata in una decina di giorni.
Furono 47.825 gli ebrei censiti sul territorio del regno, di cui 8.713 stranieri (nei confronti dei quali fu immediatamente decretata l’espulsione). Per la verità si trattava di cifre già note al Viminale. «Il censimento quindi fu destinato più a sottomettere che a conoscere, più a dimostrare che a valutare», scrive la storica francese Marie-Anne Matard-Bonucci ne L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei (il Mulino). Naturalmente, di fronte alle proteste dei malcapitati cittadini fatti oggetto di quella schedature etnica fu risposto che essa non aveva carattere persecutorio, anzi, sarebbe servita a proteggerli.
Nelle diversissime condizioni storiche, politiche e sociali di oggi, torna questo argomento beffardo e peloso: la rilevazione delle impronte ai bambini rom? Ma è una misura disposta nel loro interesse, contro la piaga dello sfruttamento minorile!
Si tratta di un artifizio retorico adoperato più volte nella storia da parte dei fautori di misure discriminatorie: «Lo facciamo per il loro bene». A sostenere la raccolta delle impronte sono gli stessi che inneggiano allo sgombero delle baracche anche là dove si lasciano in mezzo alla strada donne incinte e bambini. Ma che importa, se il popolo è con noi? Lo so che proporre un’analogia fra l’Italia 1938 e l’Italia 2008 non solo è arduo, ma stride con la sensibilità dei più. L’esperienza sollecita a distinguere fra l’innocenza degli ebrei e la colpevolezza dei rom. La percentuale di devianza riscontrabile fra gli zingari non è paragonabile allo stile di vita dei cittadini israeliti, settant’anni fa.
Eppure dovrebbero suonare familiari alle nostre orecchie contemporanee certi argomenti escogitati allora dalla propaganda razzista, circa le "tendenze del carattere ebraico". Li elenco così come riportati nel libro già citato: nomadismo e «repulsione congenita dell’idea di Stato»; assenza di scrupoli e avidità; intellettualismo esasperato; grande capacità ad adattarsi per mimetismo; sensualismo e immoralità; concezione tragica della vita e quindi aspirazioni rivoluzionarie, diffidenza, vittimismo, spirito polemico e così via.
Guarda caso, per primo veniva sempre il nomadismo. Seguito da quella che Gianfranco Fini, in un impeto lombrosiano, ha stigmatizzato come «non integrabilità» di «certe etnie»; propense - per natura? per cultura? per commercio? - al ratto dei bambini. Il che ci impone di ricordare per l’ennesima volta che negli ultimi vent’anni non è stato mai dimostrato il sequestro di un bambino ad opera degli zingari.
Un’opinione pubblica aizzata a temere i rom più della camorra, si trova così desensibilizzata di fronte al sopruso e all’ingiustizia quando essi si abbattono su una minoranza in cui si registrano percentuali di devianza superiori alla media. Tale è l’abitudine a considerare gli zingari nel loro insieme come popolo criminale, da giustificare ben più che la nomina di "Commissari per l’emergenza nomadi", incaricati del nuovo censimento etnico. Un giornalista come Magdi Allam è giunto a mostrare stupore per la facilità con cui si è concesso il passaporto italiano a settantamila rom. Ignorando forse che si tratta di comunità residenti nella penisola da oltre cinquecento anni: troppo pochi per concedere loro la cittadinanza? Eppure sono cristiani come lui...
Il censimento etnico del 1938, «destinato più a sottomettere che a conoscere, più a dimostrare che a valutare», come ci ricorda Marie-Anne Matard-Bonucci, in ciò non è molto dissimile dal censimento dei non meglio precisati "campi nomadi" del 2008. In conversazioni private lo confidano gli stessi funzionari prefettizi incaricati di eseguirlo: quasi dappertutto le schedature necessarie erano già state effettuate da tempo.
L’iniziativa in corso riveste dunque un carattere dimostrativo. E i responsabili delle forze dell’ordine procedono senza fretta, disobbedendo il più possibile alla richiesta di prendere le impronte digitali anche ai minori non punibili, nella speranza di dilazionare così le misure che in teoria dovrebbero immediatamente conseguirne: evacuazione totale dei campi abusivi e di quelli autorizzati ma fuori norma; espulsione immediata dei nomadi extracomunitari e, dopo un soggiorno di tre mesi, anche dei nomadi comunitari. Si tratta di promesse elettorali che per essere rispettate implicherebbero un salto di qualità organizzativo e politico difficilmente sostenibile. Dove mandare gli abitanti delle baraccopoli italiane - pochissime delle quali "in regola" - se venissero davvero smantellate tutte in pochi mesi? Chi lo predica può anche ipocritamente menare scandalo per il fatto che tanta povera gente, non tutti rom, non tutti stranieri, vivano fra i topi e l’immondizia. Ma sa benissimo di alludere a una "eliminazione del problema" che in altri tempi storici è sfociata nella deportazione e nello sterminio.
Un’insinuazione offensiva, la mia? Lo riconosco. Nessun leader politico italiano si dice favorevole alla "soluzione finale". Ma la deroga governativa al principio universalistico dei diritti di cittadinanza, sostenuta da giornali che esibiscono un linguaggio degno de "La Difesa della razza", aprono un varco all’inciviltà futura.
Negli anni scorsi fu purtroppo facile preconizzare la deriva razzista in atto. Per questo sarebbe miope illudersi di posticipare la denuncia, magari nell’attesa che si plachi l’allarmismo e venga ridimensionata la piaga della microcriminalità. Gli operatori sociali ci spiegano che sarebbe sbagliato manifestare indulgenza nei confronti dell’illegalità e dei comportamenti brutali contro le donne e i bambini, diffusi nelle comunità rom. Ma altrettanto pericoloso sarebbe manifestare indulgenza riguardo alla codificazione di norme palesemente discriminatorie, che incoraggiano l’odio e la guerra fra poveri.
Non si può sommare abuso ad abuso di fronte ai maltrattamenti subiti dai bambini rom. Quando i figli degli italiani poveri venivano venduti per fare i mendicanti nelle strade di Londra, l’esule Giuseppe Mazzini si dedicò alla loro istruzione, non a raccogliere le loro impronte digitali. L’ipocrisia di schedarli "per il loro bene" serve solo a rivendicare come prassi sistematica, e non eccezionale, la revoca della patria potestà. Dopo le impronte, è la prossima tappa simbolica della "linea dura". Siccome i rom non sono come noi, l’unico modo di salvare i loro figli è portarglieli via: così si ragiona nel paese che liquida l’"integrazione" come utopia buonista.
A proposito del sempre più diffuso impiego dispregiativo della parola "buonismo", vale infine la pena di evocare un’altra reminescenza dell’estate 1938. Chi ebbe il coraggio di criticare le leggi razziali fu allora tacciato di "pietismo". Con questa accusa furono espulsi circa mille tesserati dal Partito nazionale fascista. E allora viva il buonismo, viva il pietismo.
LE IMPRONTE AI ROM
Il valzer della paura
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 6/7/2008
Anche se il silenzio è vasto, sulle misure di sicurezza adottate in fretta da Berlusconi, c’è stato chi ha provato sgomento grande, apprendendo che il ministro dell’Interno Maroni aveva messo all’ordine del giorno, come provvedimento risolutivo, le impronte digitali imposte ai bambini Rom: hanno protestato insegnanti impegnati in difficili tentativi di inserzione, e pensatori, storici, politici d’opposizione. Ma le parole più nette, più indipendenti, meno nebbiose son venute dall’interno della Chiesa. Aveva cominciato l’arcivescovo di Milano Tettamanzi, denunciando gli sgomberi dei campi Rom in aprile («Si è scesi sotto il rispetto dei diritti umani»). Poi hanno parlato sacerdoti, vescovi, la Fondazione Migrantes. Infine è giunto l’editoriale di Famiglia Cristiana: un periodico che vende più copie di tutti i giornali (3 milioni di lettori) ed è presente in ogni chiesa.
L’editoriale del direttore, Antonio Sciortino, non usa eufemismi. Parla di «misure indecenti», di un governo per cui «la dignità dell’uomo vale zero». Enumera verità giuridiche elementari: l’accattonaggio non è reato, la patria potestà tolta quando i genitori Rom sono poveri o in condizioni difficili viola la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, firmata dall’Italia. Ma soprattutto, ricorda il male scuro dell’Italia, tra i più scuri in Europa. L’Italia porta nel proprio bagaglio il fascismo con le leggi razziali e tuttavia questa «tragica responsabilità» finge di non averla: «Non ce ne siamo vergognati abbastanza». Anche questo crea sgomento: questo passato che non solo non passa, ma sembra dissolto in un acido, come se le revisioni di Fini a Fiuggi non si fossero limitate ad affrancare Alleanza nazionale ma fossero andate oltre, consegnando al nulla tutto un brano di storia nazionale. Il periodico obbedisce al motto del fondatore, Giacomo Alberione: «Famiglia Cristiana non dovrà parlare di religione cristiana, ma di tutto cristianamente».
Tuttavia l’ossessione dello straniero sospetto sin dalla nascita non è solo italiana. In questi giorni si discute di schedatura dell’infanzia in Francia («progetto Edvige»), anche se l’elaborazione di identikit - il profiling - non riguarda le etnie. Ma anche qui si pensa agli stranieri, e il significato è lo stesso: si predispongono liste di sospetti, in nome di uno stato d’emergenza infinita. Il modello d’integrazione del dopoguerra, chiamato in Francia protezionista, viene sostituito da un modello repressivo, dal populismo penale, da un inarrestabile proliferare di reati, dal profiling del diverso. Muta il mondo che abitiamo sempre meno generosamente, meno umanamente: una sorta di catastrofismo antropologico s’insedia negli spiriti e nei governi, che giudica l’uomo malvagio, incendiario. Che abolisce la fiducia: quest’apertura all’altro che scommette sul mutare della persona e non sugli immoti dati del suo corpo e della sua genetica.
Questa politica della sfiducia è iniziata prima dell’11 settembre, ma dopo il 2001 ha impastato sicurezza interna e antiterrorismo, importando dalla guerra le parole, le pratiche, le norme d’eccezione. Un libro uscito quest’anno in Francia, a cura di Laurent Mucchielli, descrive la frenesia della sicurezza impadronitasi dei governanti come dei giornali e spiega bene, in un saggio di Mathieu Rigouste, la militarizzazione delle menti. Anche qui riaffiorano automatismi, si son disperse vergogne o memorie. Rigouste, in un libro d’imminente uscita (L’ennemi intérieur, La Découverte) ricorda che linguaggio e azioni sono radicati nelle repressioni coloniali. Si parla di «contro-insurrezione», di «zone grigie dove s’annidano minacce di guerriglia», di «guerre di bassa intensità permanente» nelle banlieue. Ci sono consiglieri governativi (il colonnello de Richoufftz, il generale Henry Paris) che si fanno forti delle esperienze in Bosnia, Kosovo, perfino in Algeria.
A forza d’impastare il civile e il militare sono tanti i confini che sbiadiscono: tra ordine e emergenza, pace e guerra, e anche tra l’età maggiorenne (in cui diveniamo imputabili, incarcerabili) e quella minorenne, da tutelare e correggere con l’integrazione. Il bambino e l’adolescente diventano incubo, primo anello di catene devianti. Il XX secolo fu marchiato dalla foto del bambino con le braccia alzate, nel ghetto di Varsavia sopraffatto. Quell’immagine rivive: a Guantanamo, in Palestina, in Europa stessa. Chi ha contemplato il tremendo nel prodigioso film di Ari Folman (Waltz With Bachir), ricorderà la scena in cui l’autore, ebreo israeliano, racconta i palestinesi massacrati a Sabra e Chatila e vacilla perché quel che ha visto e quel di cui s’è reso complice gli fa venire in mente il bambino di Varsavia.
Chi difende le leggi Berlusconi difende cause apparentemente buone, e accusa i cristiani dissidenti di cecità: «Voi non andate nelle terre di desolazione e ignorate l’angoscia di tanti italiani», lamentano. Dicono che la legge è fatta per dare ai bambini un’identità che non hanno, per verificare se vanno a scuola, hanno case decenti, son sfruttati. Ma i bambini sfruttati e non scolarizzati in Italia sono ben più numerosi dei Rom, e questo conferma la discriminazione negativa di un’etnia (sono selettivi anche alcuni termini: commissario per la questione Rom, emergenza-Rom). Conferma una visione del male che non insorge perché società e istituzioni barcollano, o l’integrazione fallisce. Il male comincia nel genetico, nel corpo del bambino. Tanto più se diverso: Rom, musulmano, povero.
Sono anni che la delinquenza minorenne ossessiona, e un primo bilancio può esser fatto delle risposte date fin qui in Europa. I più repressivi sono stati i governi inglesi, poi il francese e l’italiano; mentre a Nord è sopravvissuto il modello integrativo. I risultati non confortano i fautori di ghetti. Con le repressioni inglesi, la delinquenza minorile è spettacolarmente aumentata: la sua parte nel crimine globale raggiunge percentuali senza eguali in Europa (20 per cento). Mentre in Norvegia, dove son preservate istituzioni solidali, i minorenni sono meno del 5 per cento della criminalità globale. Molte misure tecnologiche presentate come miracoli sono inefficaci. E in nome delle vittime o delle paure singole, è l’idea di una società coesa che si sfalda, è la sfiducia nelle istituzioni collettive che si attizza. Le impronte digitali, infine, accendono risentimento. Pierre Piazza, autore in Francia di una storia della carta d’identità, evoca afghani in cerca d’asilo che si son bruciati le dita, per protestare contro la schedatura.
I tempi d’azione affrettati e concitati, il rifiuto dei vecchi modi - più lenti - di curare le radici del male anziché estirparle: tutto questo mostra che insicurezza e paura sono spesso considerate una soluzione, più che un problema. Son usate e alimentate come uno strumento utile al potere. Sono la fuga nella politica delle emozioni, dell’annuncio declamatorio, del culto totemico di cifre continuamente contraffatte. A partire dal momento in cui, se un bambino ruba una bici, conta più la bici che la storia del bambino, il salto qualitativo è fatto: il salto nei nuovi reati (di accattonaggio o clandestinità); il salto nel sequestro del corpo, tramite biometria. L’habeas corpus, che è la facoltà di disporre del proprio corpo senza che esso sia manomesso o derubato, si perde.
I cittadini alle prese con lo spavento sono comprensibili. Ma la civiltà ha sue ragioni, che l’individuo impaurito non conosce o sottovaluta. Sono ragioni che riguardano anche lui. Il pastore Martin Niemoeller lo rammenta, in una poesia scritta a Sachsenhausen e Dachau, oggi esposta in un manifesto nelle vie di Roma. All’inizio deportano gli zingari, e tu taci. Poi gli ebrei, i sindacalisti, e sempre taci. Alla fine vengono per prender te. Non c’è più nessuno per protestare.