LA DITTATURA DELLA COSCIENZA
di Umberto Galimberti (la Repubblica, 26 febbraio 2007)
C’è una parola magica che, quando si è in procinto di fare i disastri o a disastri avvenuti, viene evocata per garantirsi l’impunità, quando non addirittura il rispetto anche da parte di chi non ne condivide le posizioni e soprattutto le conseguenze della azioni. Questa parola magica si chiama “coscienza”. L’abbiamo sentita evocare da Fernando Rossi e da Franco Turigliatto, i due senatori che, con il loro voto, hanno determinato la caduta del governo Prodi. Alla “coscienza” e a quella sua variante che sono i “princìpi” era ricorso anche Clemente Mastella per giustificare la sua opposizione ai Dico. Alla “coscienza” ricorrono infine tutti quei medici che rifiutano l’interruzione di gravidanza anche nei casi consentiti dalla legge o la sospensione delle cure come nel caso Welby e in altri simili.
Ma cos’è questa “coscienza”? E’ la dittatura del principio della soggettività che non si fa carico di alcuna responsabilità collettiva e tanto meno delle conseguenze che ne derivano. Il medico che, in nome dell’ “obbiezione di coscienza”, rifiuta l’interruzione di gravidanza a chi nella miseria genera molti figli nella più assoluta indigenza, a chi resta incinta in età infantile, a chi porta in grembo feti affetti da malattie ereditarie, non si fa carico delle condizioni della madre e dell’infelicità futura dei nascituri, ma solo dell’osservanza dei suoi principi, che consente alla sua coscienza di sentirsi “a posto”, proprio perché rimuove, nega, non vede o non vuol vedere le conseguenze della sua decisione.
Questo tipo di “coscienza” che non assume alcuna responsabilità sociale è una coscienza troppo ristretta, troppo angusta per poter essere eretta a principio della decisione. Se poi, alle sua spalle lavora l’obbedienza a principi che qualche autorità, come ad esempio la chiesa, pone come “vincolanti”, allora si giunge a quell’autolimitazione della responsabilità che abbiamo conosciuto in epoca nazista, dove tutti, dalle più alte gerarchie ai semplici militari, si sentivano responsabili solo di fronte ai superiori (“Ho obbedito agli ordini”) e non responsabili di fronte alle conseguenze delle loro azioni.
Se la dittatura della coscienza soggettiva, che in nome dei propri principi non si piega alla mediazione e non si fa carico delle domande sociali (come possono essere quelle delle coppie di fatto o dei malati terminali che chiedono l’interruzione delle cure) diventa principio inappellabile in politica, che è il luogo dove dovrebbe trovare compensazione il conflitto delle diverse posizioni, allora bisogna dire chiaro e forte che coloro che si attengono alla dittatura della coscienza non devono entrare in politica, perché la loro coscienza non prevede alcuna responsabilità collettiva, ma solo l’osservanza dei propri principi.
E questo vale tanto per i medici, la cui responsabilità oggi non è più solo tecnico- professionale ma anche sociale, quanto per i politici che, per il solo fatto di aver deciso di entrare in politica, non possono esonerarsi, in nome dei loro principi, di ascoltare le domande, le richieste, i desideri di coloro che li hanno eletti. Perché la politica è “mediazione”, non “testimonianza”. Per la testimonianza ci sono altre sedi, come ad esempio la condotta della propria vita.
Se si attiene unicamente ai propri principi, senza farsi carico delle mediazioni e soprattutto delle conseguenze delle proprie azioni, una simile coscienza, che limita a tal punto il “principio di responsabilità collettiva e sociale”, è troppo ristretta e troppo angusta per diventare il punto di riferimento della decisione politica, che per sua natura deve farsi carico della mediazione e delle conseguenze delle sue risoluzioni. Per cui la dittatura della soggettività è in ogni suo aspetto incompatibile con l’agire politico, e non salva neppure l’anima perché, come ci ricorda Kant: “La morale è fatta per l’uomo, non l’uomo per la morale”. E questo monito vale anche, e forse a maggior ragione, per l’ideologia.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
LA COSTITUZIONE E LA REPUBBLICA CHE E’ IN NOI
PERVERSIONI di Sergio Benvenuto. UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO
LA DOPPIA COSCIENZA DEGLI ITALIANI
"Ahi, serva Italia, di dolore ostello, /nave senza nocchiere in gran tempesta, /non donna di provincie, ma bordello!" Dante, Purgatorio Canto VI.
di Umberto Galimberti (“D” - allegato a “la Repubblica” -, 7 luglio 2007)
Volevo farle alcune domande che mi frullano per la testa.
Perché io, iscritto ai Ds, ho tanta fiducia in Prodi e così poca in D’Alema? Perché il Pd nasce già sbilenco? lo ci ripongo (riponevo?) grosse speranze. Perché gli amministratori di sinistra tengono così tanto alle cariche? È sempre stato così?
Perché le ingiustizie non fanno arrabbiare più nessuno?
Perché non vengono valorizzate nuove risorse e potenzialità? Perché i politici fanno quello che conviene e non fanno quello che è giusto? E Infine, perché siamo così ottusi, imbarazzanti, autolesionisti? Eppure siamo migliori della destra, specie quella italiana.
Mi perdoni l’amarezza.
Saluti sinceri.
Antonio Tatulli - Isola del Gran Sasso (Teramo)
1. lo sono un grande estimatore di Prodi, anche se so di appartenere a una sparuta schiera. Le ragioni sono molto semplici. Nel suo primo governo, Prodi, con Ciampi, ha portato l’Italia nell’euro. Senza questo ingresso oggi noi saremmo del tutto fuori dal mercato mondiale. Nel suo secondo governo, con Padoa Schioppa, ha risanato in un anno i conti pubblici come riconoscono gli organismi monetari internazionali e le agenzie di rating che, nel periodo del governo Berlusconi. avevano declassato l’Italia. E siccome le agenzie di rating condizionano investimenti e fiducia nei Paesi che classificano, il loro giudizio, piaccia o non piaccia, va tenuto in gran conto. Ma gli italiani, sempre più televisivi e sempre meno democratici, sempre più tifosi e sempre meno attenti agli assetti strutturali del loro Paese, preferiscono chi li incanta con le battute a chi lavora con dedizione e passione all’emancipazione della coscienza civile in questa nostra Italia che ha tre gravi malattie: la mafia con i suoi trecento miliardi di fatturato, l’evasione fiscale al 25 per cento e i costi elevati della politica che, come una piovra, moltiplica i suoi presidi a livello centrale, regionale, provinciale, commerciale fino all’ultimo comitato di quartiere. Essendo questi problemi strutturali non è possibile risolverli in un anno, e per questo si tenta di non dare lunga vita al governo Prodi.
2. D’Alema ha tolto l’anima alla sinistra e la passione ai suoi militanti. E siccome la politica, oltre al governo dei conflitti e alla conciliazione degli interessi contrapposti è anche gestione delle passioni che alimentano gli ideali e conferiscono identità e appartenenza. azzerare le passioni significa perdere il proprio popolo e farlo rifluire in quel disorientamento che lo rende astensionista in occasione del voto. Anche in politica estera non apprezzo D’Alema a partire dalla guerra del Kosovo. Privo com’è di una cultura storico-antropologica, forse il nostro ministro degli Esteri non sa, e se lo sa è peggio perché cinicamente finge di ignorarlo, che il Kosovo è l’equivalente del Vaticano per la religione ortodossa che, dalla Grecia a Istanbul, dalla Serbia a Mosca, coinvolge milioni di persone che si rifanno alla cultura cristiana fondata e diffusa da Cirillo e Metodio proprio a partire dal Kosovo. Consegnare agli albanesi di religione musulmana questo piccolo territorio dalle quattrocento basiliche bizantine, oggi ridotte a duecento dopo le distruzioni durante la guerra, significa allontanare ancora di più il cristianesimo ortodosso dal dialogo con l’Occidente.
3. Tornando ai problemi di casa nostra, il Partito democratico a mio parere non ha alcuna possibilità di successo. L’utopia di Prodi che l’ha pensato purtroppo non si realizzerà, perché è impossibile fondere l’intransigenza dell’anima cattolica con i valori della laicità che dovrebbero essere tutelati, difesi e affermati dalla componente diessina. Basta che qualche teodem, tipo Binetti o Fioroni, si metta di traverso per difendere, arroccati, le loro posizioni, che la componente diessina si arrende e si consegna a una soluzione democristiana, con la benedizione di Santa Romana Chiesa al cui riconoscimento, da Rutelli a Veltroni, tutti ambiscono.
4. La sinistra, composta da Rifondazione, Comunisti italiani, Verdi e Sinistra democratica di Mussi e Salvi, è divisa tra una cultura di governo e una cultura della testimonianza. Sono due culture inconciliabili, perché per governare occorre mediazione, mentre per testimoniare basta l’intransigenza della fede o dell’ideologia, anche giuste in ciò che rivendicano, ma inefficaci per affrontare i problemi con quella gradualità che ne consenta la soluzione.
5. La destra italiana, purtroppo, non fa la "destra", ma si accontenta di alimentare quel fondo irrazionale che alberga in ciascuno di noi e che, quando trova un leader che con quattro slogan incanta, coagula in quell’antipolitica, non rivoluzionaria, ma semplicemente ribellistica, dove tendono a convergere tutti coloro che non pensano a soluzioni, ma si entusiasmano nel rifiuto dell’esistente e nella difesa dei loro interessi particolari, come bene spiega Freud là dove illustra la psicologia delle masse.
6. È dai tempi di Dante che ci trasciniamo questi vizi e questa inosservanza delle regole comuni e condivise. E ciò è dovuto a quella doppia coscienza a cui il cattolicesimo (e non il protestantesimo) ci ha educati, per cui dal pulpito ascoltiamo i precetti e le regole e nel confessionale ci vengono perdonate le trasgressioni e le deroghe. Finché la politica non si fa carico di queste basi e strutture antropologiche che caratterizzano noi italiani, difficilmente potrà governare con incisività, senza trascurare i problemi fino a quel punto di degrado dove nessuna soluzione apparirà più all’altezza. La sua amarezza, caro Antonio Tatulli, è del tutto giustificata.
il superamento dell’odio e della vendetta nella direzione della giustizia (il terzo) è un cammino ancora da compiere (U. Galimberti)
Due punti di vista, per un obiettivo: trovare soluzioni ai conflitti
Ottenendo l’indipendenza si riconquista la propria identità?quali sono i confini della mente? abbiamo davvero bisogno di un leader? ne parlano Vamik Volkan e Umberto Galimberti. *
Vamik Volkan:
"Nelle aree di conflitto non si può dire che oggi manchi il dialogo. Anzi, c’è una comunicazione costante: ci sono i governi impegnati in questo, ci sono le organizzazioni non governative (ong) e le diverse fondazioni. Sono tutti concentrati a far dialogare tutti con tutti. Io stesso, da psicoanalista, sono stato coinvolto in colloqui con diplomatici e personalità politiche e mi è stato chiesto di capire come mai nei grandi gruppi avvengano certe dinamiche di tensione.
Esistono scambi ufficiali e altri che non lo sono, ma che comunque possono essere determinanti. Durante la guerra tra Israele ed Egitto, un ruolo importante l’ha avuto per esempio un giornalista della CBS news, che ha fatto da vero trait d’union tra i due Paesi, più di quanto forse non abbiano fatto i rispettivi assetti istituzionali. Oggi poi ci sono molte, forse troppe, ong. Sono ovunque: alcune non appartengono a nessuno, altre sono affiliate a gruppi religiosi, altre sono legate all’Onu. E se è vero che queste associazioni smuovono parecchie cose e sono in grado di riunire moltissimi ragazzi, è anche vero che spesso scivolano in errori che stanno diventando sempre più lampanti.
Penso alla gestione dei rapporti tra serbi e croati: è stato un disastro. Alcune ong si sono impegnate ad avvicinare i ragazzini serbi ai croati, facendo fare loro dei viaggi insieme od organizzando partite di pallone in giro per il mondo. Poi però quando ognuno di loro tornava in patria, a casa sua, veniva trattato dagli altri quasi alla stregua di un traditore. Si sono creati non pochi problemi in seguito a queste iniziative alternative. È diventata una moda del XXI secolo: si vogliono creare ponti, accordi, alleanze e amicizie. Ma bisogna saper fare le cose, bisogna avere un approccio sistematico e i diplomatici ufficiali sono stanchi di queste persone che pretendono di dire la loro, con modalità non sempre corrette".
Umberto Galimberti:
"Per dialogare la precondizione è che io riesca a catturare la simbolica dell’altro, i suoi valori di fondo, la cultura che sostiene la sua posizione. Questa simbolica dell’altro è inconscia e si verifica anche nei rapporti duali, d’amore. Per cui due innamorati si comprendono al di là delle parole perché conoscono i valori di riferimento a partire dai quali l’altro parla. È la stessa condizione da cui è nata la filosofia che ha inaugurato il dialogo, il dialogo socratico: per parlare ci deve essere un rapporto di philia, ovvero l’atteggiamento non deve essere quello di superare l’avversario e vincere la partita (euristica), ma di comprendere le ragioni per cui l’altro sostiene le sue tesi. Ne consegue che la comunicazione è un’impresa assolutamente difficile e finché non si perviene alla comprensione di queste ragioni, il dialogo è solo una forma di buona educazione dove ciascuno resta dalla sua parte".
LA CONQUISTA DELL’INDIPENDENZA
Vamik Volkan:
"Molte etnie sono state colonizzate e sono diventate indipendenti. Per alcune è stato un bene e hanno reagito positivamente, per altre è stato un danno, una rovina. Detto questo è vero che ci sono problemi condivisi nel momento in cui si recupera la propria indipendenza. Un popolo che vive sotto un altro popolo, è come se si appropriasse dell’identità del Paese che lo sta colonizzando, si identifica con questo. Allo stesso tempo, però, come nel caso dell’Estonia, della Lettonia e della Lituania, ognuno ha comunque la sua singola identità. Dopo il crollo dell’Impero Ottomano, gli europei fecero delle linee dritte - che si possono notare ancora adesso - per dividere il loro territorio dal Medio Oriente. E in Africa, con queste demarcazioni così nette, sono stati divisi interi gruppi etnici che si sono ritrovati separati da una parte e dall’altra del confine. E questo, di necessità, ha creato un’assoluta disgregazione delle tribù.
Poi può succedere come è accaduto alla Georgia e all’Ossezia. Dopo aver conseguito l’indipendenza, nel 1991, la Georgia ha abolito l’enclave autonoma osseta provocando una migrazione di molta della popolazione dall’Ossezia del Sud (della Georgia) all’Ossezia del Nord (della Russia). Gli abitanti dell’Ossezia del Sud, che si sono trovati in conflitto con la Georgia, hanno pensato di fare fronte comune con gli abitanti dell’Ossezia del Nord, che, sebbene fossero "diversi" perché facevano parte della federazione russa, erano, però, comunque osseti e non georgiani. Un’indipendenza, dunque, che ha messo sul piatto tutto il problema dell’identità.
Un’altra questione è che noi occidentali ci sentiamo così onnipotenti, così forti, che quando decidiamo di aiutare i Paesi in via di sviluppo pretendiamo che questi diventino a nostra immagine e somiglianza. Per queste popolazioni invece ci vogliono decenni per imparare cose che noi diamo per scontate".
Umberto Galimberti:
"Rispetto ai popoli, il singolo è più disposto a cedere la propria indipendenza per ragioni di protezione. È il caso di molte donne che, soprattutto nelle generazioni che ci hanno preceduto, pur di garantirsi la protezione economica rinunciavano alla propria indipendenza. E questo, che era particolarmente evidente un tempo, non è comunque estinto neppure oggi. Jung istituisce come scopo di un percorso analitico il conseguimento della propria individuazione, seguendo il detto di Nietzsche: "diventa ciò che sei". Però, per riuscirci, ci vogliono dei vantaggi sociali, come la ricchezza, la forza di carattere, la capacità di non dipendere dall’altro. L’indipendenza è così un privilegio di chi ha le condizioni oggettive per esserlo. Sarebbero più facili le separazioni coniugali se le condizioni oggettive di indipendenza fossero disponibili come invece non sempre sono. Nel caso dei popoli, invece, l’indipendenza coincide rigorosamente con la propria identità e l’identità affonda le sue radici nel dato antropologico che antecede quello politico e persino quello economico. In un mondo globalizzato noi occidentali, che abbiamo fatto del denaro il generatore simbolico di tutti i valori, possiamo tranquillamente prescindere dal dato antropologico dell’identità a differenza invece dei Paesi poveri dove l’unico dato di riconoscimento è nell’appartenenza alla stessa cultura, la condivisione della stessa tradizione".
CHE COS’È L’APPARTENENZA?
Vamik Volkan:
"Ci sono diversi elementi che creano un’identità di gruppo. Un grande gruppo è fatto da milioni di persone che non si incontreranno mai. E, nonostante le sue divisioni interne, un gruppo è capace velocemente di ricompattarsi. Prendiamo l’Italia per esempio. C’è l’Italia del Nord e l’Italia del Sud, che ci tengono a essere ben distinte. Poi però immaginiamo che gli albanesi vengano in Italia e invadano l’Italia del Sud. Bene, in realtà l’Italia intera si sentirebbe attaccata: non farebbe più differenza se l’attacco è stato al Nord o al Sud. La verità è che quando c’è un trauma, le differenze si annullano e il trauma diventa condiviso. Ogni Paese individua dei simboli, che possono essere degli animali, una montagna, un piatto caratteristico e li identifica come simboli della propria appartenenza. Così, per esempio, per i finlandesi lo è la sauna e per gli italiani i maccheroni o la pizza: sono elementi di coesione, nonostante tutte le altre differenze, magari anche più sostanziali. Guardiamo ai Paesi che io chiamo "sintetici", come può esserlo Israele. Israele ha una forte connessione religiosa, ma è composto da realtà molto disparate: ci sono gli askenazi, i safarditi, le vittime dell’Olocausto e quelli che non hanno vissuto l’Olocausto, ci sono quelli che arrivano dall’Etiopia e i russi. Ma come si fa a creare un’identità israelita e tenere unite tutte queste realtà? In Israele hanno addirittura un ministro che se ne occupa: c’è il cosiddetto ministero dell’assorbimento. Ero ospite al cinquantesimo anniversario dello Stato ebraico e, in quell’occasione, il tema dominante era proprio questo: come mettere tutti insieme? Spesso, infatti, per creare coesione si ha bisogno di focalizzare un nemico comune: il nemico serve a rafforzare la propria identità. E lo stesso vale per i palestinesi, per i musulmani in generale, per gli americani. Se non si capisce questo scoglio, non ci sarà mai una reale soluzione del conflitto".
Umberto Galimberti: "Stabilire identità e appartenenza a partire dall’individuazione di un nemico è la macchina più antica del mondo e siccome anche noi occidentali procediamo secondo questo schema il nostro "progresso" sembra faccia acqua da tutte le parti. Di per sé identità e appartenenza sono tra di loro antitetiche. Nel senso che l’identità è ciò che si individua a scapito dell’appartenenza. L’adolescente che cerca la sua strada è obbligato a sganciarsi dalla famiglia di appartenenza (i genitori ne sanno qualcosa).
Ancora una volta però dobbiamo dire che l’identità è di coloro che si possono permettere di prescindere dall’appartenenza, come ad esempio i ricchi: i deboli sono invece costretti a reperire la loro identità nell’appartenenza. Questa è la ragione per cui noi occidentali, essendo i più ricchi del mondo, e avendo sviluppato per secoli il concetto di individuo, siamo facilitati nel prescindere dall’appartenenza. Un giocatore nero che sia valido sul campo è più legato alla sua identità che al legame con la sua tribù d’origine. I ricchi si intendono al di là delle appartenenze etniche. Per cui potremmo dire che l’appartenenza è il sostegno dei poveri, e invece l’identità che prescinde dall’appartenenza è il privilegio dei ricchi".
TROVARE IL PROPRIO LEADER
Vamik Volkan:
"Quando una società è in crisi, di solito crea un leader con una personalità narcisistica. La gente cerca un salvatore. D’altra parte un buon leader deve essere un narcisista, perché si deve sentire a suo agio nell’essere il numero uno. E un buon leader deve essere anche un po’ paranoico, perché deve avere sempre sotto controllo la propria popolazione. Poi, di certo, è bene che sia intelligente e che abbia sense of humor.
Caratteristiche non facili da avere tutte insieme. La personalità del capo, nelle situazioni difficili, è importante, determinante direi. Se il leader regredisce a livello della società, se arriva a provare le stesse ansie che prova la sua nazione è grave e negativo. Colui che sta al comando deve distinguere i pericoli reali dai pericoli fantasticati ed esagerati: solo così la società può trarne beneficio.
Farò due esempi, per capirci meglio. Un caso positivo è sicuramente quello di Nelson Mandela: lui di certo non si è ridotto a provare le paure e le umiliazioni della sua gente. Racconterò un episodio esplicativo: tre mesi prima che lui prendesse il potere, era a un meeting con il suo futuro governo. Ricevette una telefonata e dovette uscire per un quarto d’ora. Quando tornò, gli altri gli dissero: "Abbiamo preso una decisione mentre tu non c’eri: cambieremo l’inno nazionale. Quello che c’è è pensato per i bianchi...". Mandela si contrariò: "Non potete farlo, umiliereste la nostra gente: l’inno è un simbolo della loro identità". Era riuscito ad avere una visione più ampia. Al contrario George Bush, quando ci fu l’11 settembre, cedette ai timori del suo popolo e contribuì ad incrementarli. All’improvviso questo grande Paese era stato umiliato e per lui si trattò di un’umiliazione personale. Fu lì che perse la sua battaglia da leader".
Umberto Galimberti:
"Confermo che il leader per essere tale deve essere un narcisista e paranoico e ciò in omaggio a quanto ci racconta Jung secondo il quale non tutte le nevrosi devono essere guarite, alcune possono essere utilizzate. Il problema è che il leader crea una società di massa. Il solo fatto che la massa desideri un leader rivela la condizione infantile del bambino che senza il padre non sa sopravvivere. Il leader era particolarmente in auge nella società umanistica che io ritengo conclusa con la Seconda Guerra Mondiale dove si riteneva che un uomo potesse risolvere i problemi di un Paese. Questo spiega perché in Occidente un Hitler, un Mussolini, uno Stalin non possono più affermarsi: nelle società complesse, come quelle di oggi le dinamiche sono troppo complicate perché un singolo uomo possa tenerne il controllo.
Nella stessa America il presidente degli Stati Uniti è un leader costruito. In realtà è un rappresentante della composizione di interessi che stanno alle sue spalle. E così, anche nel campo del lavoro la figura del leader è pressoché sparita: al massimo abbiamo a che fare con dei capoufficio dove la dimensione del mansionario e della procedura prevale sulla personalità di chi comanda.
Troviamo invece dimensioni da leader in quelle forme sociali primitive come la mafia, dove la personalità del singolo è decisiva per l’organizzazione. Il leader infatti è tale se riesce a muovere le paure e le fascinazioni dei suoi subordinati, quindi se opera su fattori irrazionali. Leader ad esempio sono i capi religiosi (di qualsiasi religione), ma si sa che le religioni affondano le loro radici nella parte irrazionale di ciascuno di noi, giocando sulle nostre paure, le nostre ansie, il nostro desiderio di reperire un senso. In ogni caso dove c’è un leader si ha la regressione infantile di un popolo a massa. Consiglio di leggere, in proposito, il bellissimo saggio di Freud sulla psicologia delle masse".
L’ODIO PERPETUO
Vamik Volkan:
"L’odio è necessario per creare un’identità di popolo. E questo odio viene portato avanti per anni e anni. Si è notato come non si riesca a capovolgere la propria umiliazione, né la propria impotenza, né si riesca a elaborare il lutto fino in fondo se si sono avute delle perdite gravi. Così, se le madri e i padri non risolvono questi nodi, li delegano ai propri figli. E se i figli si dovessero trovare nella stessa situazione di crisi, passerebbero la questione alla generazione successiva. Finché queste situazioni di conflitto non diventano croniche, insite nell’essere di quel popolo: ci si sente in diritto di provare odio e di considerare il nemico quasi non umano. I confini fisici diventano confini della mente. Ma, benché tutto ciò sia risaputo è come se mancasse uno sforzo sistematico e globale per risolvere la grande questione del conflitto".
Umberto Galimberti:
"Odio e vendetta sono le grandi macchine che garantiscono identità e appartenenza. Infatti nell’odio e nella vendetta sono in gioco le soggettività dei contendenti. E questo vale nel rapporto tra i vicini di casa fino all’odio dei popoli. Questa situazione è stata pensata e tematizzata dalla cultura greca prima dell’avvento della filosofia, nella grande stagione della tragedia. Le tragedie avevano un andamento triadico, raccontavano la storia dei padri quella successiva dei figli e la terza dei nipoti in cui si perpetuava il rapporto dell’odio e della vendetta.
Il superamento di questa dimensione è stato istituito con l’inaugurazione del dikasterion (tribunale) dove dike, la giustizia, toglieva il conflitto, la carica soggettiva, e giudicava i fatti oggettivamente cosa che non può essere fatta dai due contendenti ma solo da un terzo, che non è soggettivamente coinvolto. Questo il grande lavoro della mediazione che prevede sempre un terzo, che, esonerato dalle cariche soggettive di odio e di vendetta, sia in grado di computare colpe e pene sul piano oggettivo.
I greci l’avevano capito e in questa direzione si è mosso l’Occidente che ha fondato un ordine giuridico laico anche se ancora questo ordine giuridico subisce le pressioni della soggettività di solito politica o affaristica. Per cui il superamento dell’odio e della vendetta nella direzione della giustizia (il terzo) è un cammino ancora da compiere".
* la Repubblica/D, n. 556, 07.07.2007