Civiltà al collasso così fan tutte
Dai Maya a noi. Così crollano le civiltà
Uno studio della Nasa: l’Occidente è destinato a crollare come Roma antica e gli altri grandi imperi del passato per lo squilibrio nella distribuzione delle ricchezze
di Vittorio Sabadin (La Stampa, 20.03.2014)
Tutte le grandi civiltà del passato credevano di durare in eterno e hanno invece subito prima o poi un collasso che le ha distrutte. Gli studiosi della materia cominciano a pensare che il susseguirsi delle civiltà sia ciclico e abbia caratteristiche comuni che si ripetono nella storia: al massimo fulgore, segue inevitabilmente un declino che non viene subito compreso ed è affrontato quando è ormai troppo tardi, spesso con mezzi sbagliati.
Uno studio finanziato dal Goddard Space Flight Center della Nasa è ora arrivato alla conclusione che anche la nostra civiltà industriale presenta sintomi di degrado molto gravi ed è prossima a una fine che, senza interventi adeguati, arriverà molto presto, nel giro di qualche decade.
È strano che un centro di volo spaziale si occupi delle banali cose che accadono sulla Terra, ma lo studio è stato condotto da un insigne matematico, Safa Motesharrei, e da ricercatori di scienze naturali nell’ambito di una nuova disciplina chiamata Handy (Human and Nature Dynamics), che mescola eventi sociali e naturali per trarne presagi sul futuro.
Motesharrei e i suoi collaboratori hanno messo in relazione la situazione attuale del pianeta con quelle dell’impero romano, della civiltà maya, dei regni della Mesopotamia, delle dinastie Han in Cina, dei Maurya e dei Gupta in India. Per secoli, i loro sovrani hanno creduto di poter dominare il mondo che conoscevano, ma poi è accaduto qualcosa del quale non si sono accorti o che hanno sottovalutato, un lento cambiamento degli equilibri che sembrava ininfluente o sopportabile, e che invece ha portato al disastro.
I fattori comuni tra le passate civiltà e la nostra, secondo la Nasa, sono in tutto cinque e bisogna prestare molta attenzione alle loro dinamiche. Sono la popolazione, il clima, l’acqua, l’agricoltura e l’energia. Fino a che stanno in equilibrio, la civiltà prospera. Quando l’equilibrio si spezza senza essere rapidamente ripristinato, comincia il decadimento.
Il collasso avviene se si verificano due condizioni sociali precise, purtroppo già fortemente presenti nella nostra civiltà: l’impoverimento delle risorse disponibili e la stratificazione della società tra un gruppo formato dalle élite e un altro dalla massa di gente comune.
Quando si verifica un impoverimento delle risorse disponibili, la tendenza nelle civiltà degli ultimi 5000 anni è stata quella di interrompere la ridistribuzione del surplus alla società. Con una analisi molto vicina al pensiero marxista, il Goddard Space Center sostiene che, al tempo dei Maya come oggi, il controllo esercitato dalle élite fa in modo che la massa che produce la ricchezza ne riceva indietro solo una piccola parte, a livello di sussistenza o poco sopra. Questo porta al collasso dello strato sociale più debole, al quale però segue inevitabilmente anche il decadimento di quello più forte.
Di fronte a questi eventi, le caste hanno in passato sempre reagito continuando a fare «business as usual», ignorando gli allarmi e procedendo verso la fine senza agire in modo adeguato. Una situazione molto simile a quella attuale della nostra civiltà occidentale, anche se molti scienziati sono convinti che lo sviluppo della tecnologia ci salverà dalla preannunciata carenza di risorse energetiche, di acqua e di cibo per tutti.
Lo studio della Nasa non è però ottimista al riguardo: la tecnologia, afferma, migliora la capacità dell’uomo di trovare risorse, ma ne aumenta anche il consumo pro capite. Gli aumenti di produttività nell’agricoltura e nell’industria hanno generato contemporaneamente un incremento dell’utilizzo di materie prime, invece di diminuirlo.
Secondo Safa Motesharrei e il suo gruppo di studiosi la nostra civiltà ha ancora la possibilità di salvarsi, ma deve agire in fretta in tre direzioni: deve ridurre le diseguaglianze economiche, distribuire meglio le risorse usandone meno e contenere il numero di abitanti del pianeta, se possibile riducendolo. Ma nessuno si fa illusioni che un simile progetto possa davvero essere attuato su scala mondiale.
Di ridurre gli abitanti della Terra proprio non se ne parla, al massimo si può cercare di contenere le nascite in India e in Africa, visto che l’Europa già lo fa. Per risparmiare risorse, bisognerebbe cominciare a modificare in peggio il tenore di vita nel mondo occidentale, cosa che sta in parte avvenendo. Poi sarebbe necessario convincere i cinesi e gli indiani che, ora che è arrivato il loro momento di acquistare automobile, lavatrice e frigorifero, devono rinunciarvi per salvare la civiltà industriale alla quale sono finalmente approdati. Per eliminare le disuguaglianze, bisognerebbe infine convincere la minoranza che detiene la ricchezza a distribuirla maggiormente alla maggioranza di chi ha sempre meno denaro. Con le buone maniere, non ci è mai riuscito nessuno.
“Ma la via d’uscita c’è: puntare sul capitale umano”
di Paolo Mastrolilli (La Stampa, 20.03.2014)
«È sempre la stessa storia: la redistribuzione è la panacea di tutti i mali. Non è così, però, e l’esperienza lo dimostra. L’impero romano, come quello dei Gupta, si sarebbe salvato se avesse puntato sul capitale umano dei propri emarginati, istruendoli e consentendo loro di salire sulla scala sociale».
Il professore della Columbia University Jagdish Bhagwati è al crocevia dei temi toccati dallo studio Nasa sul declino della civiltà moderna. Nato in India, educato in Gran Bretagna e negli Usa, è membro del Council on Foreign Relations e si è sempre occupato dell’intreccio tra sviluppo, commerci e questioni sociali.
Perché lo studio della Nasa non la convince?
«Parla di ambiente, popolazione, clima, risorse, ma quello che intende dire è soprattutto una cosa: lo squilibrio tra ricchi e poveri sta condannando la nostra società al crollo. La diagnosi può anche essere accurata, ma la terapia è come al solito sbagliata. Non è che se mettiamo tutti i ricchi su una nave e l’affondiamo, il giorno dopo i poveri stanno meglio. E il problema non si risolve neppure togliendo tutti i soldi ai ricchi, per ridistribuirli ai poveri, perché comunque non basterebbero».
Lei quale soluzione suggerisce?
«Andiamo alle radici storiche della questione. Tutti i grandi imperi, a partire da quello romano, hanno commesso l’errore di escludere le classi più basse, pensando che le cose sarebbero sempre rimaste uguali. Anche noi lo stiamo ripetendo ora, però la soluzione non è ridistribuire, ma includere. Come? Puntare sul capitale umano. Dobbiamo investire nell’istruzione dei poveri, cosa che non fece nessuno dei grandi imperi falliti, per due ragioni:
primo, per consentire a loro di trovare lavori più soddisfacenti, salire nella scala sociale e superare il risentimento;
secondo, perché il miglioramento e l’allargamento dell’educazione consentirà a tutta l’umanità di trovare soluzioni più efficaci e sostenibili per la crescita, che resta l’unica strada percorribile per far sopravvivere e prosperare la nostra civiltà».
È solo una questione economica?
«No. È sociale, e prima di tutto viene il capitale umano. Se lo metteremo a frutto, potenziando istruzione e tecnologia, troveremo la soluzione non solo per continuare a crescere, ma anche per farlo rispettando l’ambiente e le risorse naturali di cui abbiamo bisogno».
Sul tema, per ampliare la riflessione, si cfr.:
Scheda sul libro di Gordon Rattray Taylor *
***
La Società Suicida - Requiem per un Pianeta Infetto?
Titolo originale: The Doomsday book [The Doomsday Book: Can the World Survive? (1st ed. : 1970 / ed.1972)]
Autore/i: Taylor Gordon Rattray
Editore: Arnoldo Mondadori Editore
terza edizione, traduzione di Angelo Francesco Lucchesi.
pp. 384, Milano [I ed., 1971]
Gordon Rattray Taylor è l’autore di La bomba biologica (Mondadori, 1968), best-seller della saggistica in tutto il mondo. Nato nel 1911, ha studiato scienze naturali al Trinity College di Cambridge. Si è specializzato negli studi degli orientamenti scientifici e delle loro implicazioni sociopsicologiche. Fra le altre sue opere: Economics for Exasperated, Conditions for Happiness, Are Workers Human?, Sex in History.
Pochi batteri in una provetta, con nutrimento e ossigeno, prolificano rapidamente. Raddoppiano di numero ogni venti minuti circa, fino a diventare una massa visibile e solida. La proliferazione si ferma quando i microbi cominciano a venire avvelenati dai loro stessi prodotti di rifiuto: al centro della massa si forma un nucleo di batteri morti o morenti, tagliati fuori dal nutrimento e dall’ossigeno dell’ambiente dalla compatta barriera dei loro vicini. Il numero dei microbi viventi si riduce pressoché a zero se le materie di rifiuto non vengono eliminate.
L’umanità si trova oggi in una situazione simile. Gli abitanti del pianeta Terra, che nel 1850 erano un miliardo, nel 1975 saranno quattro volte tanto e nel 2000 raggiungeranno i sette miliardi. La specie umana aumenta, per ora, alla velocità di 100 individui al minuto. La nuova tecnologia favorisce la moltiplicazione degli esseri umani, ma i suoi residui inquinanti, che avvelenano il suolo, l’aria e l’acqua, minacciano direttamente l’esistenza stessa di tutte le creature viventi.
La società suicida è una documentatissima, allucinante messa a punto dei problemi della sovrappopolazione, dell’inquinamento, dell’alterazione della natura in rapporto con le sempre più diffuse applicazioni della tecnologia.
Gli uomini vanno preparando la morte del pianeta. Il mondo possiede risorse che possono esaurirsi. Molti hanno lanciato messaggi di avvertimento che preannunciano un disastro di proporzioni immani: il pianeta Terra sta raggiungendo il limite delle sue capacità. Gordon Rattray Taylor ha riunito e ordinato in un unico mosaico i dati statistici, le indagini, le opinioni isolate e i rapporti ufficiali sull’argomento. Che fare? Grande numero, inquinamento, radioattività, mutamenti già in atto e a lungo termine che l’uomo provoca su geografia, atmosfera e clima, sono conseguenze di un’irreversibile spinta tecnologica.
L’umanità è giunta a una svolta decisiva della sua storia: l’utopia di una futura e perfetta civiltà delle macchine diventa un pauroso incubo tecnologico che nel giro di trent’anni può rendere inabitabile il mondo: La società suicida è un grido d’allarme contro l’ottimismo dei tecnocrati, un richiamo alla responsabilità dei politici, un invito all’uomo della strada affinché prenda coscienza dei pericoli che lo minacciano.
Sorridere sulle «profezie apocalittiche» è un grosso rischio: il futuro è già cominciato, il mondo desolato in cui la flora e la fauna sono morte per avvelenamento non è una profezia: è la realtà che circonda le nostre metropoli industriali. È già concreta la prospettiva di un pianeta infetto sul quale la vita diventa impossibile per i figli della razza umana d’oggi.
L’uomo, questo microbo
Parole di ammonimento
La «nave spaziale» terra
Inquinamento e super-inquinamento
Il problema demografico
Una vittoria di Pirro
Gli ingegneri planetari
Opere idriche
Gli artefici di terremoti
I bulldozer nucleari
Lo scioglimento delle calotte polari
Risparmiate quell’albero!
Era glaciale o morte da calore?
Acqua sul fuoco
Prospettive nuvolose
Sbalzi di clima
La morte da calore
La natura replica
Esplosioni demografiche
Il controllo dei parassiti delle piante e suoi rischi
Animali in via d’estinzione
Bacini idrici e relativi errori
I grandi cicli
Il nitrato che corrode
I gas tossici
L’ultimo anelito
Corona di spine
Le maree rosse
Il mare, uno scarico che ha i suoi limiti
Una zaffata di nafta
La crisi dell’ossigeno
Sostanze inquinanti all’ultima moda
L’amianto come sostanza inquinante - DDT - DDT, sesso e cancro
Controlli biologici
Che cosa è successo alle aquile?
Limitatevi a espirare
La minaccia del piombo
Il piombo che respiriamo
Il più letale dei metalli
Vita breve e allegra?
Il quinto fattore
Il problema dei rifiuti radioattivi
Cripto e tritio
Esistono i livelli di sicurezza?
La concentrazione biologica
Le dosi accettabili
Il cancro e la dose accettabile
Il rischio di incidenti
Darla a bere o menar per il naso
Conclusione
Il limite della popolazione
L’energia solare in-deficit
Carestia e sovrabbondanza?
È lecito credere alle previsioni di espansione demografica?
Le proteine
L’erosione
I problemi che ci attendono
Lo sfacelo demografico: quando?
La congestione dell’abitato umano
Le condizioni nelle grandi città
Il sovraffollamento negli animali
Natura e sobborghi
L’optimum demografico
Non fate male alla terra!
WEW e GEO?
Sforzi personali
Già si paga
Che cosa si é fatto finora?
Quelli che hanno l’autorità
Punti oscuri
L’incubo tecnologico
Sotterfugi tecnici
La crisi dei comuni
La bancarotta dell’economia
Le schiavitù tecnologiche
I paladini della tecnologia
L’amore per la natura
Triplice crisi
Ringraziamenti
Note bibliografiche
Indice analitico
* FONTE: Libreria Editrice Ossidiane
Ilaria Capua: "Spiragli non solo dal vaccino, ora scongiurare il contagio animale"
La virologa ad Huffpost: "Se Covid 19 diventa panzoozia e colpisce tante specie animali ne perdiamo il controllo"
di Giulia Belardelli (Huffpost, 17/11/2020)
“Contro la pandemic fatigue non ci sono pozioni magiche: ciascuno di noi è chiamato ad alzare il proprio tollerometro. Stiamo vivendo una fase di trasformazione epocale: accanto a tutte le difficoltà, abbiamo l’occasione di abbandonare alcuni percorsi obsoleti e provare nuove mappe mentali. C’è un arcobaleno alla fine della tempesta Covid, tra le nuvole possiamo già intravederne i colori...”. Ilaria Capua, direttrice del One Health Center of Excellence dell’Università della Florida, ha sempre esortato a guardare la pandemia da una prospettiva più ampia, includendo anche l’ambiente e il mondo animale. Perché è in questa trama di relazioni che si intrecciano i rischi e le opportunità di domani.
Dottoressa Capua, il caso visoni in Danimarca ha acceso i riflettori sul rischio che il virus si diffonda incontrollatamente in altre specie animali. Quanto è concreto questo rischio?
“È una prospettiva che il mio gruppo di ricerca aveva già segnalato in tempi non sospetti, prima che scoppiasse il caso in Danimarca e altrove. In un articolo pubblicato a maggio scrivevamo che questo rischia di essere il primo virus pandemico che diventa una panzoozia, cioè che colpisce anche tante specie animali; in un’altra pubblicazione uscita a settembre osservavamo che i mustelidi (la famiglia dei visoni e dei furetti, per intenderci) sono animali che possono diventare serbatoio per questo fenomeno panzootico. Ad oggi sappiamo che i mustelidi sono molto ricettivi - ci sono stati casi anche in Olanda e negli Stati Uniti - e non abbiamo dati sui mustelidi selvatici”.
Quali sono i pericoli per l’uomo di un’ampia circolazione del virus tra altre specie animali?
“È tutto molto complicato. Il rischio che il virus circoli negli animali, e soprattutto negli animali selvatici, è che si perda definitivamente il controllo dell’infezione. È impensabile fare sorveglianza e andare a controllare le donnole o le faine nel loro habitat naturale. Il virus chiaramente potrebbe mutare in un’altra specie animale e questo potrebbe minare le nostre possibilità di controllare la pandemia. Le parole d’ordine non possono che essere flessibilità e attenzione, perché il virus sta facendo esattamente ciò che ci si aspetta da lui: si sta endemizzando in tutte le specie ricettive, compresi i mustelidi”.
In che modo queste mutazioni possono minare le nostre strategie di contenimento del coronavirus? I pericoli maggiori vengono dagli allevamenti intensivi o dagli animali selvatici?
“È un virus completamente nuovo quindi non lo sappiamo. Di certo però gli allevamenti intensivi sono controllati, gli animali selvatici molto meno”.
L’ultima copertina dell’Economist mostra una chiara luce in fondo al tunnel. “Suddenly, hope”, è il titolo. Il riferimento è alle notizie incoraggianti che arrivano sul fronte dei vaccini. È davvero così? Si vede la luce in fondo al tunnel?
“La luce alla fine del tunnel c’è e c’è sempre stata. Da questi fenomeni epocali l’umanità è sempre sopravvissuta, anche quando non c’erano i vaccini, i monoclonali, gli antibiotici. Pensiamo alla Spagnola, cent’anni fa: era un virus influenzale, molto più aggressivo di questo e che colpiva i giovani. Eppure, nonostante tutto, siamo qui. Oggi, a circa un anno dall’emersione di questo virus, sappiamo alcune cose, a cominciare dal fatto che eravamo del tutto impreparati”.
Nell’attesa di un vaccino e cure più efficaci, le misure di contenimento restano l’unico strumento per frenare la corsa del virus. Quella luce in fondo al tunnel però è bene raccontarla. Proviamo?
“Il tasso di letalità oggi è molto più basso rispetto alla scorsa primavera. Questo perché adesso la luce in fondo al tunnel è più chiara e fatta di molti elementi. Non parlo solo del vaccino, ma di una serie di vaccini che avranno caratteristiche diverse e andranno a unirsi a un armamentario di strumenti che abbiamo collezionato in questi mesi: una migliore comprensione della malattia, protocolli di intervento precoce, trattamenti come la sieroterapia, farmaci come gli antivirali e i cortisonici, e poi addirittura una terapia miracolosa come quella basata sugli anticorpi monoclonali”.
Una terapia che però è impensabile usare per tutti, giusto?
“È una terapia efficace se si fa entro un certo periodo: l’anticorpo monoclonale blocca la replicazione del virus, quindi se una persona sta già male e il virus ha fatto i suoi danni, non serve più. Sono delle proteine di sintesi, degli anticorpi fatti in laboratorio che però si producono in volumi bassissimi e dunque hanno un costo molto alto. Non è pensabile che questo sia il farmaco che possa essere dato a tutti per girare liberamente. Magari fosse così! È un trattamento che non si riesce a produrre in grandi quantità, è come la pappa reale, che è l’alimento destinato all’ape regina. Ne abbiamo visto gli effetti su Donald Trump, la cui cura è costata centinaia di migliaia di dollari”.
Questo fatto fa comprensibilmente un po’ rabbia, un sentimento che non aiuta ad assumere un atteggiamento costruttivo...
“I costi, purtroppo, sono pazzeschi anche per un normale ricovero in terapia intensiva. È per questo che ciascuno di noi deve cercare di non ammalarsi. Noi per primi - le persone che non devono essere in prima linea o svolgere lavori ad alto rischio - dobbiamo dimostrare che tenendosi lontani dal virus è possibile non prenderselo. Se proprio ci si deve ammalare, più tardi avviene, meglio è: se oggi, a un anno dalla scoperta, vediamo la luce grazie a 5-6 protocolli che funzionano, tra un mese potremmo averne 20”.
Torniamo ai vaccini, volutamente al plurale. Qual è il vantaggio di averne diversi? Quali le sfide?
“Siamo di fronte a una situazione unica. È per questo che bisogna organizzarsi per avere dei piani di distribuzione che tengano conto delle specificità dei diversi vaccini che verranno approvati. Ce ne potrebbero essere alcuni che funzionano meglio su determinate categorie di persone, altri che danno una protezione più immediata, magari con una sola dose; alcuni andranno conservati a -70, altri a -20... Bisognerà tenere conto non solo delle caratteristiche del prodotto ma anche delle esigenze della distribuzione e della somministrazione. Bisognerà mettere in campo un mix di organizzazione e flessibilità”.
Secondo uno studio dell’Istituto Tumori di Milano, il virus circolava in Italia già a settembre 2019. Cosa ne pensa? La storia dell’epidemia è ancora tutta da scrivere?
“Questo dovrebbe essere un dato confermato da altri studi europei. Non c’è ragione per credere che il virus sia arrivato in Italia mesi prima rispetto ad altri Paesi europei. Se questo dato verrà confermato da studi analoghi fatti in Germania, Francia, Spagna, allora vorrà dire che il virus è circolato per molto tempo sotto traccia: saremmo di fronte a un fallimento clamoroso del meccanismo di sorveglianza, un fatto gravissimo. C’è da augurarsi che si siano sbagliati; nell’attesa di conferme, meglio essere cauti”.
A fine aprile ci raccontava in anteprima del progetto concepito insieme a Fabiola Gianotti del Cern per “battere il Covid con le intelligenze collettive”. A che punto siete?
“Il progetto sta andando avanti, si chiama Circular Health. Abbiamo aggiunto diversi gruppi tra cui la Fondazione ISI di Torino e l’Universita’ Bicocca di Milano. Stiamo lavorando su molte tematiche interdisciplinari, dall’impatto della diversità di sesso e genere sul virus alla comorbidità (quali sono le patologie intercorrenti con le quali si è più a rischio), dalla resilienza della natura a quella urbana. Esattamente un anno fa, prima della pandemia, lanciavamo Beautiful Science, una campagna sul senso d’orgoglio per i propri scienziati: credo che l’Italia debba veramente ricordare quanto è importante avere dei team di ricercatori e ricercatrici che ogni giorno, nonostante tutto, si alzano e vanno a lavorare per proteggere e preservare la nostra salute”.
In questa seconda ondata si parla molto di pandemic fatigue, una sensazione di stanchezza diffusa che può generare meccanismi psicologici anche molto diversi, dalla depressione fino al negazionismo. Come far fronte a questa “fatica”?
“Innanzitutto riconoscerne l’esistenza è già tanto. Bisogna capire che esiste, che ci rende tutti molto più fragili e rende ancora più complessa la gestione di un fenomeno come questo, perché le persone mollano. La pandemic fatigue è proprio questo: quando le persone non ce la fanno più e dicono ‘basta’. È una resa alimentata anche dal fatto che arrivano messaggi contraddittori o segnali di grande speranza, che poi ovviamente vengono subito ridimensionati. Un tale zig zag emozionale - gioia / disastro - provoca per forza questo meccanismo psicologico. Ci si sente disorientati, stanchi, impotenti di fronte a un caos soverchiante. Aumenta il nervosismo, si litiga di più, si inizia a dire: ‘basta, me lo prendo il COVID e succeda quello che deve succedere’. Sta accadendo ovunque nel mondo, a livello delle istituzioni, delle strutture sanitarie, dei ragazzini che devono andare a scuola. Tutti sono stanchi e affaticati. L’unica cosa che posso dire è: alziamo ciascuno il proprio tollerometro perché siamo in una situazione eccezionale, tiriamo fuori il nostro senso di gregge, secondo il quale se un lupo mangia la mamma pecora - gli agnellini li allatta un’altra mamma pecora. Diventiamo comprensivi, troviamo spazio per l’ascolto ma non per gli attacchi e lasciamo cadere le provocazioni. Alzare il tollerometro, mettere la mascherina e dare il buon esempio è tutto ciò che possiamo fare”.
Nel suo libro “Il dopo” spiega come il virus ci ha costretti a cambiare mappa mentale. Mentre le difficoltà sono evidenti a tutti, sulle opportunità si fa più fatica. Qual è la “cornice d’argento” di questo nuvolone in cui ci troviamo immersi?
“Ho addirittura aggiornato la cornice d’argento facendola diventare un arcobaleno. Ho scritto un editoriale che uscirà tra qualche giorno su una rivista del gruppo Lancet intitolato “L’arcobaleno nella tempesta Covid”. Credo che questa sia una grande opportunità: vivevamo lungo percorsi obsoleti che non possiamo più riprendere. Alcuni sistemi sono saltati: i trasporti, così com’erano, per un certo numero di anni non potranno più essere. Dobbiamo trovare il modo di continuare a fare quello che facevamo in epoca pre-Covid aggiornando i nostri sistemi. Dobbiamo confrontarci con un desiderio di mobilità che è completamente cambiato. Alcuni modelli basati sul turismo di massa non erano più sostenibili. L’arcobaleno è la nostra possibilità di ripartire in un modo più sostenibile.
È tempo di occuparci della nostra salute in maniera circolare, cioè capendo che siamo dipendenti da tutto quello che succede dall’altra parte del mondo. In tempi recenti avevamo avuto molte avvisaglie: ci sono stati Ebola, Zika, l’influenza suina, la Sars... sono cose che succedono, le altre sono state fermate, questa no. Su un punto siamo tutti d’accordo: non possiamo permetterci un’altra emergenza come questa. Cambiare non è una scelta: è una necessità”.
La risonanza di teorie complottiste dimostra uno scetticismo diffuso attorno alla cultura scientifica e al pensiero razionale. È un fallimento della scienza? Del mondo della scuola? Come si rimedia?
“Uno dei pezzi dell’arcobaleno è che bisogna partire con un’alfabetizzazione scientifica maggiore. La pandemia è proprio l’occasione giusta perché ora tutti vogliono capire. Il mio invito è: prendiamo quello che di buono la pandemia ci lascia - consapevolezze, abitudini, comportamenti, la speranza di poter andare in una direzione in cui un fenomeno del genere, con questa gravità, non potrà più accadere.
“Ti conosco mascherina”, il libro che ho scritto per spiegare la pandemia ai bambini, contiene le 400 parole di sanità pubblica che spero abbiano più impatto di tutto ciò che ho scritto in questi anni. È un libro che va letto in famiglia: serve per normalizzare questo virus e far partire delle discussioni all’interno della famiglia su come lavorare insieme, come sviluppare insieme queste mappe mentali. Senza queste diventeremo obsoleti personaggi ‘vintage’ che rappresenteranno ai giovani di domani come era la vita prima della Grande Pandemia. Quella del 2020. ”.
Scenari.
La società del virus tra Stato di polizia e isteria della sopravvivenza
In Asia e soprattutto in Cina la lotta al Covid-19 passa per il controllo totale dei singoli attraverso il digitale. Una biopolitica digitale che va di pari passo con una psicopolitica digitale
di Byung-Chul Han (Avvenire, martedì 7 aprile 2020)
.***Nato a Seul e docente di Filosofia e Studi Culturali alla Universität der Künste di Berlino, Byung-Chul Han è considerato uno dei più importanti filosofi contemporanei. Di recente Nottetempo ha pubblicato la nuova edizione di uno dei suioi saggi più noti, Eros in agonia (pagine 96, euro 13,00).
Covid-19 è un test di sistema. Pare che l’Asia stia gestendo l’epidemia molto meglio dell’Europa. A Hong Kong, Taiwan e Singapore ci sono pochissimi contagiati. Taiwan ne dichiara 215, Hong Kong 386, il Giappone 1.193. In Italia invece si sono già infettate oltre centomila persone in un arco di tempo molto inferiore. Anche la Corea del Sud si è lasciata il peggio alle spalle. Idem per il Giappone. Persino il paese da cui si è originata l’epidemia, la Cina, sta tenendo la situazione sotto controllo. Né Taiwan né la Corea hanno vietato di uscire di casa o chiuso negozi e ristoranti.
Nel frattempo è iniziato l’esodo degli asiatici dall’Europa e dagli Stati Uniti. I cinesi e i coreani vogliono tornare in patria perché là si sentono più sicuri. I prezzi dei voli sono schizzati alle stelle. È ormai impossibile trovare un biglietto aereo per la Cina o la Corea del Sud. L’Europa incespica. I numeri dell’infezione aumentano esponenzialmente. Sembra che l’Europa non riesca a controllare l’epidemia. In Italia muoiono ogni giorno centinaia di persone. I pazienti più anziani vengono staccati dai respiratori per aiutare i più giovani. Si osserva inoltre un vuoto azionismo. La chiusura delle frontiere è ormai un’espressione disperata di sovranità. È come essere tornati all’epoca della sovranità. Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione. Sovrano è chi chiude le frontiere.
Si tratta tuttavia di un vacuo spettacolo di sovranità che non risolve nulla. Un’intensa collaborazione all’interno della Ue sarebbe molto più utile della cieca chiusura dei confini. La Ue intanto ha proclamato un divieto d’ingresso per gli stranieri, gesto completamente insensato visto che nessuno, al momento, vuole venire in Europa. Sarebbe più logico, semmai, un divieto di espatrio degli europei per proteggere il mondo dall’Europa, che in questo preciso momento è il fulcro dell’epidemia.
L’Asia sotto stretta sorveglianza
Di quali vantaggi sistemici dispone l’Asia rispetto all’Europa, tali da fare la differenza nella lotta all’epidemia? Contro il virus, i paesi asiatici fanno massiccio ricorso alla sorveglianza digitale. Credono cioè di trovare nei Big Data un enorme potenziale contro l’epidemia. Si potrebbe dire che in Asia le epidemie non vengono combattute solo da virologi o epidemiologi, ma anche e soprattutto da informatici e specialisti di Big Data. Un cambio di paradigma che l’Europa non ha ancora preso in considerazione. I Big Data salvano vite umane, direbbero a gran voce gli apologeti della sorveglianza digitale.
In Asia la coscienza critica nei confronti della sorveglianza digitale è pressoché inesistente. Della protezione dei dati non si parla quasi più, persino in paesi liberali come il Giappone o la Corea del Sud. Nessuno si oppone alla furiosa raccolta dati da parte delle autorità. La Cina nel frattempo ha introdotto un sistema di punteggio sociale impensabile per l’europeo medio, che consente una valutazione a tutto tondo dei cittadini. Ciascun individuo deve essere coerentemente valutato in base al proprio comportamento sociale. In Cina, nessun momento della quotidianità passa inosservato. Si controlla ogni clic, ogni acquisto, ogni contatto, ogni attività sui social. Chi passa col rosso, chi frequenta persone critiche nei confronti del regime o posta commenti critici sui social perde punti. E allora la vita può diventare davvero dura. Chi invece compra cibi sani via internet o legge giornali vicini al partito conquista punti. Chi dispone di un congruo punteggio ottiene un visto di viaggio o mutui a condizioni vantaggiose. Chi invece precipita sotto un certo livello rischia di perdere il lavoro.
In Cina questa sorveglianza sociale è resa possibile da un incessante scambio di dati tra i provider internet e di servizi mobili e le autorità. In pratica non vi è alcuna protezione dei dati personali. Il concetto di privacy non rientra nel vocabolario dei cinesi. In Cina ci sono duecento milioni di videocamere di sorveglianza, a volte dotate di efficientissimi dispositivi di riconoscimento facciale che captano persino i nei. Impossibile sfuggirvi. Queste videocamere animate dall’intelligenza artificiale sono in grado di osservare e valutare ciascun cittadino nei luoghi pubblici, nei negozi, per le strade, nelle stazioni e negli aeroporti. L’intera infrastruttura della sorveglianza digitale si sta ora rivelando molto efficace nell’arginare l’epidemia. Chi arriva alla stazione ferroviaria di Pechino viene automaticamente ripreso da una videocamera che misura la temperatura corporea. E in caso di valori allarmanti vengono informati via cellulare tutti coloro che hanno condiviso il vagone con quella persona. Del resto il sistema sa benissimo chi ha viaggiato insieme a chi.
Sui social si parla addirittura di droni impiegati a fini di sorveglianza della quarantena. Chi esce di nascosto viene intimato da un drone volante di tornare in casa. E magari il robot stampa anche una multa che svolazza sulla testa del malcapitato, chissà. Una situazione distopica per gli europei, che tuttavia in Cina non incontra alcuna resistenza. Non solo in Cina ma anche in altri stati asiatici come la Corea del Sud, Hong Kong, Singapore, Taiwan e il Giappone non vi è alcuna coscienza critica nei confronti della sorveglianza digitale o dei Big Data.
La digitalizzazione è una sorta di ebbrezza collettiva. C’è anche un motivo culturale. In Asia domina il collettivismo. Manca uno spiccato individualismo. E l’individualismo si differenzia dall’egoismo, che ovviamente abbonda anche in Asia. I Big Data sono in tutta evidenza più efficaci nella lotta al virus rispetto alla chiusura delle frontiere, ma in Europa, per via della protezione dei dati personali, un’analoga lotta al virus non è praticabile. I provider cinesi di servizi internet e mobili condividono i dati sensibili dei clienti con le autorità sanitarie e di pubblica sicurezza. Lo stato sa quindi dove mi trovo, chi incontro, cosa faccio e dove mi dirigo. In futuro anche la temperatura corporea, il peso, i valori glicemici ecc. saranno probabilmente controllati dallo stato. Una biopolitica digitale che va di pari passo con una psicopolitica digitale, influenzando emozioni e pensieri.
A Wuhan sono state formate migliaia di squadre di investigazione digitale che si mettono alla ricerca di potenziali contagiati solo sulla base di dati tecnologici. Solo grazie ai Big Data scoprono chi sono i potenziali infetti, chi continuare a osservare e chi va messo in quarantena. Anche in termini epidemiologici, il futuro è nelle mani della digitalizzazione. Forse dovremmo persino ridefinire la sovranità alla luce dell’epidemia. Sovrano è chi dispone dei dati.
L’Europa fa ancora affidamento su vecchi modelli di sovranità quando dichiara lo stato di emergenza o chiude le frontiere. Non solo in Cina, ma anche in altri stati asiatici vi è un impiego massiccio della sorveglianza digitale per arginare l’epidemia. In Taiwan o in Corea del Sud lo stato invia in contemporanea a tutti i cittadini un sms per rintracciare contatti o informare circa i luoghi e gli edifici frequentati da persone infette. Taiwan ha tempestivamente incrociato dati di diversa natura per rintracciare i contagiati sulla base degli spostamenti. In Corea, chi si avvicina a un edificio in cui si è trattenuta una persona contagiata riceve un avvertimento tramite una “corona app” che registra tutti i luoghi visitati dagli infetti.
Si fa poco caso alla protezione dei dati o alla privacy. In Corea del Sud le videocamere di sorveglianza sono installate in ogni edificio, a ogni piano, in ciascun ufficio o negozio. È praticamente impossibile muoversi in pubblico senza essere captati da una videocamera. Questo, insieme ai dati del telefonino, consente la ricostruzione integrale degli spostamenti di una persona contagiata. Dettagli che sono anche resi pubblici - con buona pace delle relazioni clandestine.
La risurrezione del nemico
Il panico nei confronti dell’epidemia di Covid-19 è smisurato. Nemmeno la spagnola, dalla letalità molto superiore, ebbe conseguenze così devastanti sull’economia. Qual è il motivo? Come mai il mondo reagisce così a un virus? Tutti parlano di guerra, di un nemico invisibile da sconfiggere. Abbiamo forse a che fare col RITORNO DEL NEMICO? L’influenza spagnola scoppiò durante la Prima guerra mondiale. A suo tempo erano tutti circondati da nemici. Nessuno avrebbe paragonato l’epidemia a una guerra o a un nemico. Ma oggi viviamo in una società molto diversa. Abbiamo vissuto a lungo senza un nemico. La Guerra Fredda è finita da un pezzo. Anche il terrorismo islamico è grossomodo scomparso all’orizzonte. Esattamente dieci anni fa, col saggio La società della stanchezza, ho sostenuto questa tesi: viviamo in un’epoca in cui non vale più il paradigma immunologico che scaturisce dalla negatività del nemico.
La società organizzata in chiave immunologica è contraddistinta, come ai tempi della Guerra Fredda, da confini e steccati che impediscono però la circolazione accelerata delle merci e del capitale. La globalizzazione abbatte tutte queste soglie immunologiche allo scopo di spianare la strada al capitale. Anche la promiscuità, la permissività generalizzata che oggi investe tutti gli ambiti della vita contribuisce ad abbattere la negatività dell’estraneo o del nemico. Oggigiorno i pericoli non emanano dalla negatività del nemico, bensì dall’eccesso di positività che si esprime in forma di sovrapprestazione, sovrapproduzione e sovracomunicazione. La negatività del nemico non appartiene alla nostra società sconfinatamente permissiva. La repressione perpetrata dagli altri cede il passo alla depressione, lo sfruttamento esterno all’autosfruttamento volontario e all’auto-ottimizzazione. Nella società della prestazione la guerra la si fa prima di tutto a se stessi.
Ora, d’improvviso, il virus irrompe in una società assai indebolita dal capitalismo globale. In reazione allo spavento, ecco che le soglie immunologiche vengono di nuovo alzate e si chiudono le frontiere. Il nemico è di nuovo tra noi. La guerra non la facciamo più con noi stessi, bensì contro un nemico invisibile che viene da fuori. Il panico sconfinato dinanzi al virus è una reazione immunitaria sociale, globale a un nuovo nemico. Una reazione immunitaria di rara intensità poiché abbiamo vissuto molto a lungo in una società senza nemici, in una società della positività. Ora il virus viene percepito come terrore permanente.
Vi è anche un ulteriore motivo per questo panico smodato. E ha di nuovo a che vedere con la digitalizzazione. La digitalizzazione smonta la realtà. La realtà la si esperisce tramite la resistenza, che può anche far male. La digitalizzazione, tutta la cultura del mi piace elimina la negatività della resistenza. E nell’epoca post-fattuale delle fake news o dei deep fake nasce un’apatia nei confronti della realtà. Ora il virus reale, quindi non informatico, scatena uno shock. La realtà, la resistenza, torna a farsi sentire nella forma di un virus ostile. La reazione di panico violenta ed esagerata va ricondotta a questo shock di realtà.
La società della sopravvivenza
Il timor panico dinanzi al virus rispecchia soprattutto la nostra società della sopravvivenza in cui tutte le energie vengono impiegate per allungare la vita. La preoccupazione per il viver bene cede il passo all’isteria della sopravvivenza. La società della sopravvivenza è peraltro avversa al piacere. La salute rappresenta il valore più alto. L’isteria del divieto di fumare è in fin dei conti isteria della sopravvivenza. La reazione di panico di fronte al virus svela questo fondamento esistenziale della nostra società. Se la sopravvivenza è minacciata, ecco che sacrifichiamo volontariamente tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta.
La strenua lotta per la sopravvivenza subisce ora un inasprimento virale. Ci pieghiamo allo stato di eccezione senza opporre resistenza. La limitazione dei diritti fondamentali viene accettata senza colpo ferire. L’intera società si trasforma in una quarantena, variante liberale del lager in cui imperversa la nuda vita. Oggi il campo di lavoro si chiama home office. È solo l’ideologia della salute e della sopravvivenza a distinguerlo dai campi di lavoro del passato.
Nel corso dell’epidemia virale, la società della sopravvivenza mostra un volto inumano. L’Altro è prima di tutto un potenziale portatore di virus da cui bisogna prendere le distanze. Vicinanza e contatto significano contagio. Il virus aggrava la solitudine e la depressione. I coreani chiamano “corona blue” la depressione provocata dall’attuale società della quarantena. Alla lotta per la sopravvivenza va invece contrapposta la preoccupazione per il viver bene. Altrimenti la vita dopo l’epidemia sarà ancora più orientata alla sopravvivenza. E allora finiremo per essere come il virus, questo non morto che si limita a moltiplicarsi, a sopravvivere senza vivere.
La reazione di panico dei mercati finanziari all’epidemia è inoltre espressione di un terrore che cova già dentro di loro. Gli estremi fenomeni di rigetto tipici dell’economia globale la rendono molto vulnerabile. Malgrado il costante aumento degli indici borsistici negli ultimi anni, la rischiosa politica monetaria delle banche ha prodotto una forma di panico represso che attende uno sfogo. Il virus è forse solo la goccia che fa traboccare il vaso. Il panico dei mercati finanziari mette in rilievo, più che la paura del virus, la paura di se stessi. Il crash avrebbe potuto verificarsi anche senza virus. Forse il virus è solo l’avvisaglia di un crash ancora più grande.
Ci sarà una rivoluzione virale?
Žižek sostiene che il virus stia assestando un colpo mortale al capitalismo, ed evoca un oscuro comunismo. Crede persino che il virus condurrà alla caduta del regime cinese. Žižek si sbaglia. Tutto questo non accadrà. Ora la Cina venderà anche il proprio stato di polizia digitale come modello di successo nella lotta all’epidemia. La Cina dimostrerà con rinnovato orgoglio la superiorità del proprio sistema. Dopo l’epidemia, il capitalismo proseguirà con foga ancora maggiore. E i turisti continueranno a calpestare a morte il pianeta.
Il virus non rallenta il capitalismo, lo trattiene soltanto. Ci troviamo in uno stato di sospensione nervosa. Il virus non può sostituire la ragione. Inoltre, è possibile che in occidente finiremo per beccarci anche lo stato di polizia digitale su modello cinese. Come ha sostenuto Naomi Klein, lo shock è un momento propizio per il consolidamento di un nuovo sistema di potere. Dall’installazione del neoliberismo sono spesso scaturite crisi che hanno prodotto degli shock. S’è visto in Corea del Sud e in Grecia. Dopo questo shock virale è auspicabile che l’Europa non metta in piedi un regime di sorveglianza digitale alla cinese. In quel caso lo stato di eccezione, come teme Giorgio Agamben, diventerebbe la norma. Il virus riuscirebbe nella missione che il terrorismo islamico non è riuscito a portare a termine.
Il virus non sconfiggerà il capitalismo. La rivoluzione virale non avrà luogo. Nessun virus può fare una rivoluzione. Il virus ci isola. Non produce nemmeno un forte senso di comunità. Ora ognuno è preoccupato per la propria sopravvivenza. La solidarietà di prendere le distanze gli uni dagli altri non è solidarietà. Non possiamo lasciare la rivoluzione al virus. Speriamo invece che dopo il virus arrivi una rivoluzione umana. Tocca a NOI ESSERI UMANI dotati di BUONSENSO ripensare e limitare drasticamente il capitalismo distruttivo e anche la nostra devastante mobilità senza confini - per salvare noi stessi, il clima e il nostro bellissimo pianeta.
(© Byung-Chul Han - Traduzione di Simone Buttazzi)
Doomsday clock, cento secondi alla fine del mondo. Ma non è colpa del coronavirus
di Filippo Mastroianni (Il Sole-24 Ore, 7 aprile 2020)
L’umanità non è mai stata così vicina alla mezzanotte. Un’ora simbolica che ci mette in guardia sui nostri comportamenti. Ricordandoci quanto siamo vicini a distruggere il mondo che conosciamo con tecnologie pericolose di umana produzione o, semplicemente, con i nostri comportamenti.
Mancano solo 100 secondi alla mezzanotte.
I motivi sono diversi. E no, non è colpa del coronavirus. Bando ai catastrofismi. Prima di raccontare cos’è esattamente il Doomsday clock anticipiamo una fondamentale informazione. Non è scienza esatta. È una metafora, un promemoria dei pericoli che dobbiamo affrontare e prendere sul serio se vogliamo sopravvivere ancora molte ere sull’amato pianeta Terra. Innanzitutto, perché ognuno di noi si informi e prenda coscienza di problematiche che sembrano così lontane dalla nostra esperienza quotidiana o al di fuori dal nostro controllo. Conoscere ma anche condividere discussioni su temi importanti. In terzo luogo, essere tutti partecipi della vita del nostro paese e delle tematiche che i rappresentanti dei governi dovrebbero affrontare.
Il Doomsday Clock è tornato a muoversi a inizio 2020. Ancora il mondo era all’oscuro di quello che sarebbe arrivato. O forse chiudeva gli occhi illudendosi che tutto sarebbe stato contenuto in Cina. A oltre settant’anni dalla sua creazione, da parte degli scienziati del Bulletin of the Atomic Scientists dell’Università di Chicago, le lancette si sono portate altri 20 secondi più vicine alla mezzanotte. Un orario che nelle intenzioni della sua creatrice, l’artista americana Martyl Langsdorf, simboleggiava la fine del mondo. Motivi principali dell’ulteriore spostamento il continuo riarmo nucleare e la mancanza di azione da parte delle grandi potenze nel contrastare i cambiamenti climatici. Un tema che, prima del covid-19, era tornato prepotentemente alla ribalta riassunto nella figura della giovane Greta Thunberg. Quanto quello che sta avvenendo sia legato anche ai nostri comportamenti sarà tutto da dimostrare nei prossimi studi scientifici sulle cause e le origini del virus. Quello che molti studi riportano è che due terzi dei virus umani sono di origine zoonotica. Ecco perché molti ritengono che esista un legame tra la devastazione ambientale e l’emergere di nuove malattie infettive.
Dal 2021, dopo l’evento tragico ed epocale che sta colpendo il mondo nella sua interezza, ci si aspetta un ulteriore spostamento delle lancette verso il Doomsday.
Oggi l’orologio segna le 23, 58 minuti e 40 secondi. Si tratta dell’orario più vicino all’Apocalisse dal 1953, quando lo sviluppo della bomba a idrogeno da parte di Stati Uniti e Russia aveva convinto gli scienziati che il mondo stesse avvicinandosi alla sua fine. Il risultato rappresenta ancora oggi un record. Mai le lancette saranno in seguito così vicine alla mezzanotte.
Le Motivazioni
Tra le principali motivazioni espresse nello Science and Security Board Bulletin of the Atomic Scientists del 2020, compaiono, come anticipato, la questione del riarmo nucleare e i cambiamenti climatici. Aggravati da molteplici altre minacce, tra cui la guerra informatica e la questione della cyber-security che deve tornare al centro del dibattito.
Poi il nucleare. I leader nazionali hanno posto fine o minato diversi importanti trattati e negoziati sul controllo degli armamenti nel corso dell’ultimo anno, creando un ambiente favorevole a una rinnovata corsa agli armamenti nucleari, alla proliferazione delle armi nucleari e alla riduzione degli ostacoli alla guerra nucleare. I conflitti politici inerenti i programmi nucleari in Iran e in Corea del Nord rimangono irrisolti e, semmai, stanno peggiorando. La cooperazione USA-Russia sul controllo degli armamenti e sul disarmo è ormai quasi inesistente.
Il pericolo di un olocausto nucleare è da sempre il motivo principale su cui si basano gli spostamenti delle lancette del Doomsday Clock. Nel 2007, per la prima volta, sono state citate tra le motivazioni non solo i pericoli derivanti dal nucleare, ma anche dai mutamenti climatici in atto nel nostro pianeta.
La consapevolezza dell’opinione pubblica sulla crisi climatica è certamente cresciuta nel corso del 2019. In gran parte grazie alle proteste di massa da parte dei giovani di tutto il mondo. Allo stesso tempo va però registrata un’azione governativa sui cambiamenti climatici non ancora all’altezza della grande sfida da affrontare. Alle riunioni del clima delle Nazioni Unite dello scorso anno, i delegati nazionali hanno tenuto discorsi eccellenti, senza presentare piani concreti per limitare ulteriormente le emissioni di biossido di carbonio che stanno sconvolgendo il clima. Una limitata risposta politica arrivata nell’anno in cui gli effetti dei cambiamenti climatici causati dall’uomo si sono manifestati nella forma di uno degli anni più caldi della storia, con estesi incendi e lo scioglimento più rapido del previsto dei ghiacci.
I dati e la grafica
La grafica riassume schematicamente i cambiamenti registrati dal 1947 ad oggi sul Doomsday Clock. Il quadro generale è fornito dalla radar chart, che mostra i singoli spostamenti, anno per anno. Gli anni in cui è stato più vicino alla mezzanotte, prima del 2020, sono quelli compresi tra il 1953 e il 1960. L’orologio segnava le 23 e 58 minuti, a soli 2 minuti dalla fine del mondo. Sono 17 gli spostamenti negativi, per un totale di 35 minuti e 20 secondi. Solo 8 quelli positivi, per un totale di 30 minuti. Il cambiamento più significativo è quello datato 1991. Un +7 che rappresenta anche il momento in cui le lancette hanno raggiunto la massima distanza dalla mezzanotte. Dopo la firma del trattato per la riduzione delle armi strategiche e la caduta dell’URSS, il Doomsday Clock si è infatti fermato alle 23 e 43 minuti.
L’ultimo spostamento tocca le 23, 58 minuti e 20 secondi per la prima volta dalla nascita dell’orologio. Il 2017 aveva segnato una grossa novità introdotta dagli scienziati del Bullettin. Mai le lancette si erano spostate prima di soli 30 secondi , ma sempre di interi minuti. Oggi altri 20 secondi ci avvicinano alla mezzanotte.
Cosa aspettarsi dal 2021? Certamente ulteriori secondi verso la mezzanotte, che tengano conto della grave pandemia che sta colpendo il mondo intero. Le speranze? Doverne aggiungere solo una manciata. Poter leggere nella relazione 2021 degli scienziati del Bulletin of the Atomic Scientists non solo un aggiornamento che racconti il dramma del coronavirus. Anche la sua soluzione. Una cura, un vaccino.
Il tempo è ora
di Guido Viale (*)
L’Amazzonia brucia, liberando milioni di tonnellate di CO2. La Siberia brucia, emettendo altro CO2 e immense quantità di metano. I ghiacci della Groenlandia si sciolgono a ritmo vertiginoso e così anche la banchisa polare, le calotte glaciali dell’Artico e dell’Antartico e tutti i ghiacciai del mondo. In India, in preda alla siccità, muoiono di sete migliaia di persone e in tutto il mondo, Mediterraneo e Italia compresi, si moltiplicano i fenomeni metereologici estremi: ondate di calore, tempeste tropicali, gelate fuori stagione. Sono tutti effetti della crisi climatica in corso e al tempo stesso cause del suo rapido aggravamento.
Di tutto questo non c’é alcun riflesso nel Parlamento italiano né nelle manovre per formare un nuovo governo. Le istituzioni del nostro paese non si sono solo allontanate dai cittadini (e viceversa). Sono ormai lontane mille miglia dalla realtà (come lo sono i media che si occupano delle loro vicende). Ma è così anche in quasi tutto il resto del mondo.
C’è però in Italia e in tutto il mondo un “popolo” che quei fatti li ha messi al centro dell’attenzione, delle sue preoccupazioni e della sua iniziativa: i giovani di Fridays for future, che è un movimento mondiale la cui crescita non si fermerà più; la rete di Extinction Rebellion; i tanti movimenti contadini che difendono un’agricoltura sostenibile come Via campesina che riunisce 400 milioni di agricoltori; i popoli indigeni in lotta contro la devastazione dei loro habitat, in particolare l’Amazzonia, oggi sotto attacco, ma che sarà al centro di un sinodo voluto da Papa Francesco.
È statisticamente quasi impossibile che tra i mille parlamentari italiani non ce ne sia nemmeno uno che non si renda conto di quanto sia criminale ignorare la crisi climatica. Se anche in pochi, approfittando della visibilità che avrebbero in questo momento, formassero un raggruppamento interpartitico, non per “mettersi alla testa” dei movimenti già attivi in questo campo, magari con mire egemoniche (non ne avrebbero alcun titolo), ma per porre la crisi climatica e ambientale al centro delle loro preoccupazioni, potrebbero gettare un pesante masso nello stagno delle trattative per la formazione del nuovo governo e tutto il quadro politico potrebbe venirne scompaginato anche nel caso di eventuali elezioni.
Si tratterebbe di mettere all’ordine del giorno, non solo del Parlamento, che su questo tema per ora è sordo, ma del pubblico più vasto possibile, non l’inserzione dell’ambiente come una postilla in programmi inconcludenti e di facciata, ma la necessità inderogabile di una svolta radicale: abbandonare al più presto i progetti, le attività e i consumi responsabili delle maggiori emissioni climalteranti per promuovere ovunque impianti, sistemi e consumi a emissioni basse o nulle. Molte misure da assumere sono impopolari e per molti inaccettabili. Ma, di fronte all’evidenza dei fatti, questi atteggiamenti non dureranno a lungo anche perché i movimenti in campo per esigere un cambiamento radicale delle politiche cresceranno mano a mano che la crisi climatica farà sentire i suoi effetti.
Inoltre quei movimenti sono già fortemente intersecati dalle altre correnti di pensiero e di azione impegnate sulla prospettiva di un mondo diverso: il movimento delle donne contro il patriarcato e le sue tante manifestazioni, la solidarietà contro l’abbandono e respingimento dei migranti, le mobilitazioni contro la devastazione di territori e comunità in nome di progetti senza avvenire come NoTav o NoTap, i movimenti contro la guerra e le armi.
Certamente più difficile, nell’immediato, sarà raccogliere adesione e rivendicazioni di chi oggi lotta o vorrebbe lottare per difendere reddito o posto di lavoro, contro disoccupazione e precariato, per la casa, la salute, l’istruzione. C’è ancora da battere una cultura - negata a parole, ma confermata dalle scelte di tutte le forze politiche - che continua a contrapporre tutte queste cose alla difesa dell’ambiente; ma è e sarà sempre più chiaro che quelle rivendicazioni non avranno più alcuna possibilità di realizzarsi nella prospettiva di una generale catastrofe climatica.
Dalla capacità di affrontare qui e ora la questione della crisi climatica, senza aspettare che a muoversi siano altri paesi e altri Governi, ma con la convinzione che l’esempio ha un effetto trascinante e che chi la affronta prima si troverà in vantaggio mano a mano che gli effetti della crisi si faranno più pesanti, dipende alla fine anche la possibilità di ricondurre la politica al suo significato originario, che è quello di autogoverno. Cosa che non potrà mai realizzare una manovra chiusa nel quadro dell’attuale sistema politico, tutto legato al mito fasullo e ormai palesemente devastante della “crescita”. Il tempo per agire è ora. E se non ora, quando?
(*) https://www.guidoviale.it/il-tempo-e-ora/, 27.08.2019.
INCENDI, ESTINTORI, E ... LANCIAFIAMME!!! Amazzonia... *
Incendi ed estintori. Salvare la foresta amazzonica e riconoscere le proprie colpe
di Gianfranco Pellegrino (Le parole e le cose, 27.08.2019)
Le foreste dell’Amazzonia stanno bruciando. Sappiamo molte cose su questi incendi: sappiamo che sono dolosi, sappiamo che chi li appicca è interessato a sfruttare commercialmente il terreno libero che si otterrà dalla distruzione degli alberi, sappiamo che il presidente Bolsonaro si è mostrato, sino a pochissimo tempo fa, acquiescente nei confronti degli speculatori, sappiamo che il venir meno di larghe parti della foreste pluviali avrà effetti pericolosi nel futuro - in termini di aumento del cambiamento climatico, di decremento della produzione di ossigeno, di aumento della quantità di biossido di carbonio nell’atmosfera (qui la catena causale è indiretta: meno foreste significa minore capacità di assorbimento di biossido di carbonio, e quindi maggiore percentuale di biossido di carbonio che rimane nell’atmosfera), di estinzione di specie animali e vegetali e di cancellazione di ecosistemi e nicchie ecologiche. Sappiamo pure che gli incendi sono in aumento. E, sappiamo che, pure se non fossero in aumento, man mano che ci spingiamo lungo la china del cambiamento climatico quel che non causava effetti nocivi o irreversibili prima può diventare un fattore che ci conduce al di là di punti di non ritorno.
A parte pochi negazionisti climatici - alcuni purtroppo piazzati in posti di potere -, nessuno nega (almeno apertamente) fatti del genere. E cominciano an che a diminuire quelli che rimangono indifferenti. Anche per chi disprezza o dileggia l’attivismo di Greta Thunberg o le dottrine della Laudato Si’ l’alzata di spalle o il silenzio diventano sempre più difficili. Il dileggio è una forma d’attenzione, per quanto contorta e involontaria. Sappiamo, infine, che la sparizione delle foreste condanna all’estinzione anche civiltà indigene che di quegli ambienti hanno fatto la propria nicchia culturale.
Ma, paradossalmente, i fatti importanti non sono questi. Proprio perché sulla descrizione di quel che accade ed accadrà non ci sono più dubbi condivisi, è ora di volgerci con maggiore attenzione alla prescrizione, cioè ai principi etici e ai paradigmi di azione politica che dovrebbero guidare le nostre azioni in frangenti del genere.
Il 5 agosto, su Foreign Policy, Stephen Walt di Harvard ha scritto un breve articolo chiedendosi se gli incendi e la deforestazione dell’Amazzonia potrebbero costituire motivo per un intervento - armato o sotto forma di sanzioni - dell’ONU o della comunità internazionale nei confronti del Brasile (vedi qui: https://foreignpolicy.com/2019/08/05/who-will-invade-brazil-to-save-the-amazon/). Walt è un teorico delle relazioni internazionali di orientamento neo-realista, famoso per il suo scetticismo nei confronti dell’interventismo americano e della presunta base morale di tali interventi. Con l’atteggiamento caratteristico di questo genere di studiosi - presunta neutralità assiologica che nasconde scelte morali di fondo (peraltro spesso ovvie e condivisibili) -, Walt mostra che la prospettiva di muovere guerra o comminare sanzioni ai paesi che più sono responsabili dell’aumento delle emissioni di gas serra - paesi come Cina, India, Stati Uniti e Russia - è del tutto assurda, per quanto possa essere una tentazione. Per Walt, peraltro, la sovranità nazionale, per quanto limitata, rimane un limite alle ingerenze della comunità internazionale. E non è chiaro se l’impatto che le condotte interne di uno Stato può avere sui destini di tutti possa giustificare interventi e intromissioni così drastiche. Ciò che è chiaro è che la comunità degli Stati non permetterebbe mai che si stabilisca un precedente simile. Quindi, in un certo senso secondo questo tipo di prospettiva dovremmo lasciare tutto alla forza di persuasione degli attivisti, o alle politiche felpate di alcuni capi di Stato come Macron, all’interno di organismi come il G7.
Questo modo di procedere si basa sull’idea che ci siano solo due possibili punti di vista per considerare un problema come quello della deforestazione dell’Amazzonia. O si ha un paradigma puramente sovranista, per così dire - l’etichetta è volutamente vaga e suggestiva -, in cui la sovranità nazionale implica che chi detiene il potere politico abbia ipso facto potere sulle risorse naturali e di altro genere presenti nel territorio governato. Oppure si ha un paradigma internazionalista, o globalista, in cui c’è un potere politico globale che può porre limiti al controllo sovrano delle risorse. Entrambe le forme di potere sono soggette al gioco democratico, per molti. La scelta è fra la sovranità nazionale, o interna, di singoli elettorati, o un demos globale.
Se ci fossero solo questi due paradigmi, saremmo alle prese con due strade egualmente bloccate. Da un lato, ipotizzare che un ipotetico governo mondiale, o una comunità internazionale, privi gli elettori brasiliani del potere di scegliere come usare le risorse naturali del loro territorio sembra contrario a qualsiasi principio ovvio di autodeterminazione. Anche se ci fosse veramente un governo mondiale, o una comunità internazionale ben più forte di quel che abbiamo, e non esistessero Stati nazionali, e i principi dell’intervento umanitario coprissero anche le catastrofi ecologiche, che una parte del mondo decidesse, a maggioranza, che uso si dovrebbe fare delle risorse naturali che potrebbero favorire lo sviluppo economico di un’altra parte del mondo apparirebbe comunque una forma di tirannia della maggioranza. D’altra parte, l’impatto della progressiva deforestazione dell’Amazzonia ricadrà sul mondo intero, e lasciare del tutto la scelta ai brasiliani, o al loro governo, significherebbe rassegnarsi a una tirannia della minoranza.
Ma forse questo modo di impostare le cose trascura alcuni aspetti normativi che invece sono rilevanti. Il peggior effetto della deforestazione, come già detto, riguarda la percentuale di biossido di carbonio nell’atmosfera. Deforestare fa aumentare questa percentuale, e ciò aumenta, o rende più probabili, i cambiamenti climatici nel futuro. Deforestare aumenta la percentuale di biossido di carbonio perché fa venir meno gli alberi, che hanno la capacità di assorbire questo gas a effetto serra. Bruciare alberi impedisce che una parte del biossido di carbonio in eccesso venga assorbito. L’effetto della deforestazione, quindi, è nocivo non in assoluto, ma relativamente alle condizioni in cui ci troviamo - relativamente al fatto che, in virtù delle passate emissioni, c’è un eccesso di biossido di carbonio, e altri gas simili, nell’atmosfera.
Sostenere che la deforestazione dell’Amazzonia aumenti il cambiamento climatico, e quindi autorizzi interventi o pressioni, è come dire che chi danneggia un estintore causa un incendio, e quindi va punito come il piromane. Chi danneggia un estintore, o lo sottrae, quando ci sia un incendio in corso è certamente colpevole di qualcosa, ma chi ha appiccato l’incendio non può arrogarsi il diritto di punirlo, o nascondere le sue colpe.
L’eccesso di biossido di carbonio nell’atmosfera è responsabilità del mondo occidentale. La deforestazione dell’Amazzonia peggiora una situazione che è stata resa grave dall’industrializzazione del Primo mondo. Si potrebbe dire questo: in molti casi recenti, Stati che hanno invaso altri Stati, e hanno subito per questo interventi armati, venivano da faticosi processi di decolonizzazione e subivano le conseguenze di molte azioni dei governi occidentali. Ciò non ha reso meno necessari e fondati gli interventi. (Qui la materia è delicata, e dipende dalle convinzioni politiche di ognuno - e il giudizio può cambiare se si pensa al Kosovo degli anni Novanta o alla prima o alla seconda guerra del Golfo). E tuttavia il nesso causale nel caso della deforestazione è più stretto ed evidente. Se non fossimo in una condizione di cambiamento climatico antropogenico galoppante è ovvio che la perdita di alcune foreste sarebbe meno grave.
Quindi, imputare tutta la responsabilità a Bolsonaro e ai brasiliani è un atto di arroganza, anche se questo non vuol dire che bisognerebbe assistere inerti agli incendi. Forse bisognerebbe distinguere fra due risorse naturali. Da un lato, ci sono le foreste, dall’altro c’è la capacità del sistema terrestre di assorbire emissioni di biossido di carbonio senza che il clima muti. Nelle condizioni in cui ci troviamo, le due risorse sono direttamente connesse, ma non lo sarebbero in altre condizioni. In un mondo privo di cambiamento climatico antropogenico, le foreste potrebbero diminuire senza che la capacità della Terra di assorbire biossido di carbonio diminuisca a tal punto da far mutare il clima. Si potrebbe pensare che la prima risorsa, le foreste, sia oggetto della sovranità nazionale del Brasile, mentre le seconda sia una specie di patrimonio comune dell’umanità, che non si può lasciare alle decisioni di un solo governo nazionale - e, forse, dati gli impatti nel futuro, non si può lasciare alla decisione delle sole generazioni presenti.
Ma, una volta che si consideri questa risorsa globale, è difficile dimenticarsi delle responsabilità di chi ha sfruttato nei secoli passati gran parte di essa a proprio beneficio - cioè dei paesi che hanno goduto dell’industrializzazione. Alla luce di tutto questo, la reazione nei confronti degli incendi in Brasile non può essere quella di scegliere fra intervento armato o acquiescenza. Il comportamento dei brasiliani, o almeno del governo brasiliano, dovrebbe indurre la comunità internazionale a proporre vie di sviluppo economico alternative rispetto alla deforestazione. Il fatto che Bolsonaro abbia negato la natura antropogenica del cambiamento climatico e gli interessi economici evidenti di chi appacca gli incendi in Amazzonia non sono sufficienti a diminuire le responsabilità dei paesi che hanno una lunga storia di emissioni in eccesso. Questi paesi dovrebbero pagare il loro debito a chi ha lasciato intatto sin qui uno dei principali serbatoi di assorbimento del biossido di carbonio e garantire l’integrità dell’Amazzonia assumendosi ulteriori oneri. La questione principale, in altri termini, non è la democrazia e la sovranità nazionale, ma la giustizia distributiva e le compensazioni dovute a chi non ha tratto beneficio dall’industrializzazione e rischia di subirne solo gli effetti più negativi - paesi in via di sviluppo e generazioni future.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE “EU-ROPEUO”. Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una “memoria” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=901)
Federico La Sala
Abbiamo ancora un futuro?
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 17 gennaio 2019)
Ogni giorno, da più parti, si levano voci autorevoli ad avvertire che siamo giunti a un momento cruciale e unico nella storia del nostro pianeta; il suo futuro è nelle nostre mani, perché l’attività umana può renderlo inabitabile o, nell’ipotesi migliore, desolato. Tutto dipenderà dalle scelte che l’umanità intera, soprattutto i Paesi più ricchi, faranno non domani, ma oggi. Il punto di non ritorno, quello in cui avremo messo in moto una macchina che non potremo più fermare è veramente alle soglie. Sapremo essere all’altezza di una simile responsabilità? Alexis de Tocqueville, parlando della fine delle società aristocratiche, sosteneva che la ragione fondamentale della loro caduta fosse stata il fatto che gli aristocratici non erano più degni di governare. In realtà pensava che questo fosse vero a un livello più generale e che il potere si perde quando non si è più degni - non semplicemente capaci - di esercitarlo. La sua osservazione mi pare molto appropriata a una riflessione sulla situazione odierna, infatti è molto probabile che l’umanità avrà un futuro solo se dimostrerà di meritarselo. Se non agiremo con saggezza, lungimiranza e responsabilità il nostro pianeta non potrà più ospitarci, ci caccerà via, come si fa con quegli ospiti per i quali si è preparata e addobbata una bella dimora e questi, per tutto ringraziamento, la vandalizzano lasciando dietro di sé solo rovine.
In un bel saggio di alcuni anni fa, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere (Einaudi), Jared Diamond s’interrogava sulla scomparsa di alcune società un tempo fiorenti proponendo di guardare alla loro storia come a una «sorta di grande banca dati da cui ... trarre lezioni utili per continuare a far prosperare le nostre società». Perché alcune società sono crollate, si chiedeva, mentre altre, pur avendo affrontato crisi durissime hanno resistito, talvolta tornando a prosperare di nuovo? Dalle loro vicende pensava, giustamente, che anche le nostre società, per quanto ricche e tecnologicamente avanzate, avrebbero potuto imparare qualcosa.
Nessuna società è mai crollata per una sola causa, sostiene Diamond, ma piuttosto per un concatenamento di eventi, spesso provocati in successione l’uno dall’altro con inevitabile consequenzialità.
L’inizio normalmente era imputabile a una crisi del sistema ecologico, per lo più configurabile con questa successione: deforestazione e distruzione dell’habitat, gestione sbagliata del suolo (con conseguente erosione, salinizzazione e perdita di fertilità del terreno), cattiva gestione delle risorse idriche, eccesso di caccia e/o di pesca, introduzione di specie nuove, crescita della popolazione umana, aumento dell’impatto sul territorio di ogni singolo individuo. Per le società contemporanee a questi pericoli se ne aggiungono altri quattro, tipicamente moderni: i cambiamenti climatici dovuti all’intervento umano, l’accumulo di sostanze chimiche tossiche nell’ambiente, la carenza di risorse energetiche e l’esaurimento della capacità fotosintetica della Terra. La prospettiva, laddove non si tenti di far fronte energicamente a questi pericoli, è per Diamond non tanto una distruzione totale del nostro ambiente, ma piuttosto quella di un radicale abbassamento degli standard attuali di vita delle società più avanzate senza che vi sia, per altro, un miglioramento delle condizioni per i paesi più poveri. E, soprattutto, una crisi sostanziale di quelli che, fino ad oggi, consideriamo i valori irrinunciabili dei nostri sistemi, come la libertà, i diritti umani, la democrazia politica, la pace e la giustizia. Lo stesso pericolo lo ha denunciato con chiarezza anche papa Francesco nella sua enciclica Laudato sii, che ha raccolto ampi consensi in tutto il mondo al di là delle confessioni religiose. «Il degrado ambientale e il degrado umano ed etico - affermava - sono intimamente connessi».
Jared Diamond scriveva solo dieci anni fa, e oggi è evidente che stiamo velocemente percorrendo la brutta strada da lui descritta, tanto che adesso la sua prospettiva sembra addirittura ottimista. La possibilità di una vera distruzione di gran parte degli habitat della Terra è diventata ormai una minaccia realistica e incombente, a dispetto dei tentativi, sempre più smaccatamente pretestuosi e disonesti, di chi vuole negare gli effetti distruttivi dell’azione umana sull’ambiente, soprattutto per quanto riguarda i cambiamenti climatici. Nonostante tutto, Diamond si dichiarava cautamente ottimista sulla possibilità che l’umanità avrebbe saputo prendere le decisioni giuste per evitare una catastrofe ambientale, per due motivi sostanzialmente: la sensibilizzazione crescente delle popolazioni mondiali riguardo alle problematiche ambientali e l’altrettanto crescente attenzione che ad esse riservavano i leader delle potenze economiche più avanzate. Riferendosi agli Stati Uniti, che riteneva «il paese più ricco e potente del mondo, con abbondanti risorse ambientali, guidato da leader illuminati, fornito di alleati leali e disturbato solo da pochi nemici deboli e insignificanti», non pensava che avrebbero dovuto temere di trovarsi sull’orlo di un baratro. Per lo meno non per le stesse ragioni che avevano messo in crisi le civiltà antiche da lui analizzate.
Ma le cose possono cambiare in fretta, soprattutto per quanto concerne i leader illuminati, e oggi non potremmo esprimere la stessa fiducia perché la classe politica, a livello mondiale, spesso fa temere di non essere all’altezza dei problemi che deve affrontare. L’ha detto, senza soggezione e con una schiettezza tipicamente giovanile, Greta Thunberg, una ragazzina svedese di quindici anni, nel discorso alla Conferenza delle Parti sul Clima (COP24) tenutasi a Katowice, in Polonia, lo scorso dicembre. Le sue parole hanno fatto il giro del mondo: «Voi parlate... solo di andare avanti con le stesse idee sbagliate che ci hanno messo in questo casino... quando la cosa più sensata da fare sarebbe tirare il freno a mano. Non siete abbastanza maturi da dire le cose come stanno, lasciate persino questo fardello a noi ragazzi... Dobbiamo lasciare i combustibili fossili sotto terra e dobbiamo concentrarci sull’equità. E se le soluzioni sono tanto impossibili da trovare, forse dovremmo cambiare il sistema. Non siamo venuti qui per pregare i leader mondiali di occuparsene. Ci avete ignorati in passato e ci ignorerete ancora. Non ci sono più scuse e non c’è più tempo. Siamo qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no...» Insomma, la Terra brucia e il tempo non è più dalla nostra parte (cfr. M. Mann, T. Toles, La Terra brucia, Hoepli).
La complessità che l’ecologia planetaria, il cambiamento climatico e l’uso delle risorse energetiche mettono in gioco è tale che l’opinione pubblica può essere facilmente male informata e manipolata, soprattutto in momenti in cui la scienza è messa in discussione dall’ignoranza. L’unico possibile rimedio è che, al di là delle prese di posizione ideologiche e strumentali, ognuno cerchi di capire i termini della questione per farsi un’idea realistica del reale impatto delle attività umane sul sistema Terra. A tal fine può essere molto utile la lettura di un saggio, La grande accelerazione. Storia ambientale dell’Antropocene dopo il 1945, scritto a due mani dagli storici J.R McNeill e P. Engelke, il primo docente alla Georgetown Univeristy, il secondo senior fellow dell’Atlantic Council’s Scowcroft Center on Strategy and Security. Essi condividono l’ipotesi di Paul Crutzen, premio Nobel per la chimica nel 1995 per i suoi studi sulla riduzione dello strato di ozono nell’atmosfera, secondo il quale possiamo considerare ormai finito l’Olocene (epoca che comprende più o meno gli ultimi dodicimila anni) e iniziato l’Antropocene, epoca in cui il genere umano esercita «un’influenza decisiva sull’ecologia globale». Questo cosa significa? In pratica, affermano gli autori, vuol dire che le azioni dell’uomo interferiscono con i sistemi fondamentali che governano la vita e l’evoluzione del nostro pianeta. Gli inizi di questo fenomeno possono essere fatti risalire alla fine del XVIII secolo, quando la prima rivoluzione industriale diede inizio a un sempre più massiccio utilizzo dei combustibili fossili e la popolazione umana cominciò a crescere a ritmi senza precedenti. In seguito, a partire dalla metà del Novecento, entrambi i fenomeni hanno assunto dimensioni tali da cambiare radicalmente i «rapporti tra la nostra specie e la biosfera in una storia lunga 200.000 anni». La qual cosa, proseguono, «dovrebbe renderci piuttosto scettici riguardo al fatto che le tendenze attuali siano destinate a durare a lungo». Soprattutto perché il pianeta non è più in grado di sopportarlo. Banalmente, se volete, non c’è più abbastanza materiale da usare: acqua, dolce e salata, foreste, petrolio...
Nonostante una maggiore sensibilità globale e una generale riduzione dei tassi di fertilità, se qualche catastrofe naturale non ci fermerà il dominio dell’uomo e la sua spropositata influenza sull’ambiente continueranno. «Quello che è certo - avvertono gli autori - è che quanto è stato fatto finora dall’uomo, principalmente tra 1945 e oggi, lascerà un segno del nostro passaggio sul pianeta, sul suo clima, sul suo ecosistema, sull’acidificazione degli oceani e altrove ancora, che resterà indelebile nei millenni a venire». E nel considerare la fame d’energia del nostro mondo, è bene ricordare che non deriva solo dal funzionamento delle industrie, dei trasporti e dal mantenimento del confort cui siamo abituati in Occidente, ma anche dalla semplice necessità di alimentare una massa enorme di persone. Gli allevamenti intensivi, i disboscamenti, l’irrigazione e così via contribuiscono in maniera determinante a sconvolgere gli equilibri naturali in una catena di cause e conseguenze dettagliatamente riferita dagli autori. Si tratta, insomma, di una storia economica del mondo negli ultimi sessant’anni raccontata dal punto di vista dell’ambiente, con dati e cifre talvolta veramente impressionanti, come ad esempio il fatto che la popolazione mondiale è triplicata dal 1945 al 2015, che l’uso di combustibili fossili era di 3 milioni di tonnellate nel 1750 e di 9500 milioni di tonnellate nel 2015 o che «una certa percentuale, forse un quarto del totale, dei trecento miliardi di tonnellate di carbonio rilasciati nell’atmosfera tra il 1945 e il 2015, vi rimarrà per alcune centinaia di migliaia di anni».
Eppure c’è ancora speranza, concludono, perché il futuro, se è già scritto lo è solo in parte ed è possibile, seppure lentamente, cambiare leggermente rotta al grande transatlantico del mondo. Oggi, infatti, la discussione sul cambiamento climatico non è più confinata entro le mura della comunità scientifica; l’argomento è entrato nelle agende politiche di vari Paesi e ne sono seguite, pur tra difficoltà e marce avanti e indietro, convenzioni e accordi che potrebbero portare a fondamentali miglioramenti. D’altra parte, le recentissime decisioni di alcune potenze fanno temere che molti ostacoli si frappongano ancora a un uso più corretto e lungimirante delle risorse del pianeta. Sui giornali se ne parla quasi quotidianamente, e ne sono un esempio l’uscita voluta da Trump degli USA dagli accordi di Parigi sul clima stipulati nel 2015 tra quasi 200 paesi del mondo - ma va detto che molti governatori di vari stati dell’unione si sono opposti con decisione alle scelte del presidente americano dichiarando che tali accordi resteranno in vigore nei propri territori (cfr. il documentario della National Geographic, L’America che si ribella a Trump, pubblicato su YouTube) -, la decisione del Giappone di riprendere la caccia alle balene o le dichiarazioni del neo-eletto presidente del Brasile Bolsonaro di volere continuare o addirittura incrementare lo sfruttamento della foresta amazzonica (della quale erano stati già distrutti in soli dodici mesi quasi 8000 kmq).Che fare dunque? Tutti concordano che il problema ineludibile è l’innaturale, eccessivamente rapido cambiamento climatico e che pertanto è prioritario agire in questo ambito riducendo drasticamente l’uso di combustibili fossili e rimpiazzandoli al più presto con energie rinnovabili. Ma, soprattutto, tutti concordano sul fatto che il problema che l’umanità si trova ad affrontare oggi è essenzialmente etico prima e più ancora che economico o politico, e che lo si potrà risolvere soltanto decidendo insieme di ridurre drasticamente i consumi energetici. Dobbiamo chiederci seriamente cosa significhi il comandamento “non uccidere” quando «un venti per cento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da rubare alle nazioni povere e alle future generazioni ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere». Se lo sono chiesti i vescovi della Nuova Zelanda nella loro Conferenza Episcopale, citata nell’enciclica Laudato sii; e papa Bergoglio conclude: «Non ci sarà una nuova relazione con la natura senza un essere umano nuovo. Non c’è ecologia senza un’adeguata antropologia».
E a chi pensa che i costi economici necessari a riconvertire il sistema sarebbero spaventosi, J.R. McNeill e P. Engelke obiettano: «il valore di un pianeta è il suo costo di sostituzione. Dal momento che, attualmente, sappiamo che nessun pianeta è in grado di ospitare la vita, il costo per sostituire la Terra è infinito. Quindi qualsiasi valutazione economica del costo dei danni causati dal cambiamento climatico sarà una stima in difetto». E concludono che «è possibile avere davanti un altro futuro... in cui scegliamo come obiettivo quello di un’esistenza planetaria sostenibile». È questo l’unico futuro possibile, non ce n’è un altro.
Terra: iniziata VI estinzione di massa, l’uomo come i dinosauri
Lo studio di Stanford, Princeton e Berkeley analizza il tasso di scomparsa di specie di vertebrati dai fossili di quelli già persi.
Dal 1900 oltre 400 sono scomparsi. Ma il ritmo sta accelerando. *
La Terra è è entrata in una nuova fase di estinzione, la sesta, in cui l’uomo potrà essere tra le prime vittime e scomparire come fecero i dinosauri, 65 milioni di anni fa. Se non fosse per l’autorevolezza delle tre università statunitensi autrici della ricerca, Stanford, Princeton e Berkeley, si penserebbe al copione di un ennesimo film di fanta-presudoscienza apocalittica.
Ma la cosa è seria. I tre atenei Usa hanno verificato che i vertebrati (famiglia in cui rientriamo anche noi bipedi) stanno scomparendo ad un ritmo che è 114 volte quello normale. "Se non faremo nulla per fermare questo processo per la vita ci vorranno milioni di anni per riprendersi e la nostra specie sarà probabilmente tra le prime a scomparire", ha spiegato alla Bbc il responsabile della ricerca, Gerardo Ceballos.
Lo studio, pubblicato nella rivista Science Advances, ha analizzato il tasso di scomparsa di specie di vertebrati analizzando i fossili di quelli già persi. Dal 1900, si legge nello studio, oltre 400 vertebrati sono scomparsi. Ma il ritmo sta accelerando.
Tra le cause il cambiamento climatico, l’inquinamento e la deforestazione. Per citare un esempio, tra l’altro già noto, i ricercatori ritengono che in appena tre generazioni umane si saranno persi i benefici incalcolabili per l’agricoltura e l’ambiente in generale dell’impollinazione operata dalla api, che stanno scomparendo.
Corsi e ricorsi, lo studio Usa
La nostra civiltà rischia il collasso. Ce lo dice un modello matematico
La storia insegna che lo sfruttamento non sostenibile delle risorse naturali e la concentrazione della ricchezza sono letali
di Marco Vitale (il Fatto, 04.04.2014)
È stato pubblicato il 19 marzo da Human and Nature Dynamics, un rapporto di grande interesse sul collasso delle civiltà, in presenza di elevate differenze economico-sociali e di un uso non sostenibile di risorse naturali.
Parte della stampa attribuisce il rapporto alla Nasa, ma è impreciso. Lo studio è stato, in parte, finanziato dal Goddard Space Flight Center della Nasa e ciò aggiunge credibilità, ma si tratta di uno studio indipendente, di altissimo livello, condotto da un gruppo di studiosi di diverse discipline guidato dall’insigne matematico dell’Università del Maryland Safa Motesharrey.
Lo studio parte dall’esame dei maggiori collassi di civiltà del passato. Apprendiamo così che, contrariamente alla convinzione comune, i collassi di civiltà, negli ultimi 5.000 anni, oltre ai classici collassi che tutti conosciamo, Impero Romano e Maya, sono stati numerosi e distribuiti in tutto il pianeta, dalla Mesopotamia all’Egitto all’India, al continente americano , alle civiltà cinesi.
In generale questi collassi comportano un drammatico impoverimento della popolazione, una fortissima riduzione del numero degli abitanti, un regresso delle conoscenze e delle capacità tecniche e mediamente il ciclo regressivo dura dai 300 ai 500 anni. In alcuni casi ha portato alla scomparsa totale della relativa civiltà.
LO STUDIO cerca di individuare alcune cause comuni di questi collassi e di razionalizzarle in un modello matematico sofisticato formato da un certo numero di equazioni (chiamato modello Handy o Human and Nature Dynamics). Oltre alle varie cause specifiche e contingenti, lo studio ne identifica due che sono presenti nella maggioranza dei casi esaminati: lo stress ecologico dovuto a uno sfruttamento non sostenibile delle risorse naturali e la concentrazione della ricchezza in un numero ristretto di élite (i ricchi) che si contrappongono alla massa impoverita (o commoners, i poveri). L’esasperazione di una di queste due cause può anche da sola portare al collasso ma, di solito, si presentano insieme e l’una alimenta l’altra.
Forte di questa strumentazione storica, concettuale e matematica lo studio applica il modello alla nostra civiltà, sviluppando e arricchendo il modello “predatore, preda” sviluppato nel 1925 e 1926 da due matematici, Alfred Lotka e Vito Volterra.
Le elaborazioni del modello, applicato a diversi scenari, portano alla conclusione che, nella nostra situazione attuale, caratterizzata da un super sfruttamento della natura e una crescente concentrazione della ricchezza, il collasso è difficile da evitare.
Come è successo in passato, le élite non affrontano il problema perché la ricchezza accumulata permette loro di non percepire i pericoli mentre montano: “La protezione della ricchezza accumulata permette alle élite di continuare business as usual nonostante la catastrofe incombente”.
Un meticciato forse ci salverà
di Severino Salvemini (Corriere della Sera, 21.03.2014)
Ovunque si vada, la crisi è diffusa: di rappresentanza, di fiducia, di senso. La gente non sembra contenta e progetta di fuggire altrove. La disponibilità al viaggio e la globalizzazione hanno innalzato la propensione ad emigrare, anche nelle classi intellettuali. Si gira il mondo, nella convinzione che l’erba del vicino sia più verde di quella del proprio cortile.
E ciò non è solo il caso dell’Italia e degli Italiani. «Succede a Roma come al Cairo, a Berlino come a New York» - confessa Domenico De Masi (Mappa Mundi , Rizzoli, pp. 874, e 21). «Si vaga, si sperimenta, ma poi il grado di soddisfazione è simile al luogo da cui si è partiti». È l’epoca del disorientamento: uno stato d’animo che l’umanità ha sempre provato, ma che mai come oggi ha raggiunto una intensità così deprimente. Il percorso è sempre più erratico e insensato. C’è l’esigenza di un mondo nuovo consapevole e solidale, ma non sappiamo come orientare il progresso che è privo di regole e di scopi.
La società postindustriale, denominata a volte «liquida», a volte «a pensiero debole», è senza un modello. Agisce senza appartenenza e riferimenti di pensiero utili al suo cammino. Messa in soffitta la spuntata razionalità e sposata la prassi delle «mezze verità», essa si contorce, incapace di costruire certezze consolidate, alimentando pericolose improvvisazioni.
È la prima volta che abbiamo tutto quello che ci serve, ma ci mancano il porto e la rotta. Manca una guida che diriga, un faro che illumini, saggio e credibile. Non abbiamo un modello di vita, sostiene De Masi. E la colpa di ciò è preminentemente degli intellettuali che si sono appiattiti sulla politica e sul potere e si sono estraniati dai veri contesti, dimenticando il loro ruolo e il loro dovere umano, sociale e soprattutto di pensiero.
Se questa è la diagnosi feroce, quale può essere allora la terapia? Recuperare il meglio dei modelli sociali prodotti dall’uomo nel passato e in altre latitudini (dall’umanesimo spirituale al modello indiano, da quello brasiliano a quello musulmano, passando per quelli cinese, giapponese, classico, ebraico, cattolico, protestante, illuminista, capitalista, socialista, comunista).
Solo prendendo il meglio da questi schemi di vita (ogni capitolo è destinato ad una trattazione pregevole e appassionata di un modello e ogni capitolo termina con un paragrafo dal senso «...non possiamo non dirci cinesi...o giapponesi... o musulmani... e così via) potremo impostare un nuovo sistema che ci indirizzi verso il comune obiettivo della felicità umana. Uno Stato che attenui le condizioni sociali violente, ingiuste, rapaci e negative. Uno Stato che indichi la strada, che abbia il coraggio delle idee, che metta in fila azioni in grado di ribaltare la situazione ossificata.
La fine della cultura europea e il declino dell’Occidente? Qui il sociologo sorride sornione e apre all’ottimismo: come un cuoco che pizzica ingredienti da spezie di lontana provenienza, la ricetta è un sano meticciato. Non possiamo sprecare le esperienze dell’umanità. Un po’ di protestantesimo, una manciata di sensualità brasiliana, una bussola illuministica, una dose di religiosità indù, qualche grammo di estetica classica ed ecco che possiamo uscire dall’attuale nebbia e dalla voglia di vagare altrove, grazie ad un rinnovato riorientamento. Eccoci reindirizzati verso un mondo aperto alle speranze e all’avvenire.
Il saggio è dedicato ai naviganti di prua, quegli emigranti che nella nave che portava verso il nuovo mondo erano attratti dalla parte anteriore del natante, perché da lì si sarebbe scorta la terra promessa, mentre invece gli stanziali di poppa erano orientati verso la nostalgia che cresceva mano mano che l’immagine del paese di origine perdeva i suoi dettagli e i suoi confini.
Economia ecologica | Scienze e ricerca
Per salvarci dobbiamo ridurre diseguaglianza, consumo di risorse e crescita della popolazione
Nasa: la civiltà umana è vicina al collasso economico ed ecologico
Lo studio, finanziato dall’Agenzia spaziale e basato su modelli matematici, ha già mandato in fibrillazione la comunità scientifica e non solo *
Deve ancora essere pubblicato su Ecological Economics ma fa già discutere, divide e molti cercano di piegarlo alla propria ideologia. Lo studio, finanziato dal Goddard Space Flight Center della Nasa, prevede la scomparsa della civiltà umana in breve tempo. Se non limiteremo radicalmente le nascite e se non elimineremo la crescente disuguaglianza nella stratificazione della ricchezza e non useremo meglio le risorse naturali, avvertono dalla Nasa, la specie umana è condannata.
Un team di matematici della Nasa, sostenuto dal National Socio-Environmental Synthesis Center e guidato da Safa Motesharrei dell’US National Science Foundation ha sviluppato, con il contributo di scienziati naturali e sociali, un insieme di quattro equazioni che rappresentano la società umana. È arrivato alla fosca previsione che il crollo della civiltà umana sarà «difficile da evitare». Gli scenari possono essere diversi ma, a causa della mancanza di altruismo e lungimiranza delle sue élite, nei prossimi decenni l’umanità sembra votata al disastro. L’ingordigia dei ricchi darà come risultato, «una fame tra i comuni mortali che potrebbe finire per causare il crollo della società».
Verrebbe da dire che esistono sempre la rivoluzione e/o la politica. Lo pensano anche alla Nasa, perché sono convinti che il mondo sia in qualche modo “bloccato” da un pugno di privilegiati e che lo scenario più probabile sia la fine della civilizzazione così come la conosciamo... a meno che la comunità mondiale non attui due grandiosi cambiamenti politici (e rivoluzionari): vanno fortemente ridotte le ineguaglianze e/o la crescita della popolazione deve essere fermata. Insomma, la destra politica (quella dell’iperliberismo) e culturale (quella anti-abortiste e contro il controllo delle nascite), ci sta portando al disastro in nome dell’ideologia.
A rendere nota questa oscura profezia matematica sul suo blog ospitato da The Guardian è stato lo scrittore Nafeez Ahmed, che è anche direttore dell’Institute for policy research&development, secondo il quale il rapporto Nasa rappresenta un «segnale di avvertimento molto credibile», mentre l’insieme dei cambiamenti politici suggeriti «è immediatamente necessario». Ahmed sottolinea che «gli scienziati naturali e sociali hanno sviluppato un nuovo modello di come la “tempesta perfetta” di crisi potrebbe far crollare il sistema globale».
Notando che le avvisaglie del “collasso” sono state spesso viste come marginali o controverse, lo studio cerca di dare un senso a dati storici convincenti, dimostrando «il processo di ascesa e crollo è in realtà un ciclo ricorrente che si ritrova nel corso della storia». Casi di gravi perturbazione della civiltà a causa di un «crollo precipitoso - spesso durato secoli - sono stati abbastanza comuni». Gli esempi non mancano: «La caduta dell’impero romano e dell’altrettanto (se non più) avanzati imperi Han, Maurya e Gupta, così come tanti imperi mesopotamici progrediti, sono tutte testimonianze del fatto che andando avanti le civiltà sofisticate, complesse e creative, possono essere sia fragili che non permanenti».
Studiando le dinamiche uomo-natura dei collassi delle civiltà del passato, sono stati individuati i fattori salienti che spiegano il declino della civiltà, e che possono contribuire a determinare il rischio di crollo delle nostre società odierne: popolazione, clima, acqua, agricoltura ed energia.
Tutti fattori che possono portare al collasso quando convergono per produrre due funzioni sociali fondamentali: «Il restringersi delle risorse a causa della pressione sulla capacità di carico ecologico» e «la stratificazione economica della società in élite [ricchi] e masse (o “gente comune”) [poveri]». Sono questi i fenomeni sociali hanno svolto «un ruolo centrale nel carattere e nel processo del crollo» di tutte le civiltà e gli imperi umani «degli ultimi 5000 anni».
Ahmed sottolinea che «attualmente, gli alti livelli di stratificazione economica sono direttamente collegati al consumo eccessivo di risorse, con le “élite” basate in gran parte nei Paesi industrializzati che ne sono responsabili». Il rapporto evidenzia che «il surplus accumulato non è distribuito uniformemente in tutta la società, ma piuttosto è controllato da una élite. Mentre la produzione della ricchezza viene allocata solo ad una piccola parte della società, le élite, la massa della popolazione di solito è appena al di sopra dei livelli di sussistenza».
Il National Post fa notare che «lo studio stranamente ricorda gli scritti del XIX secolo dello studioso inglese Thomas Malthus, il quale concluse che senza massicci controlli del tasso di natalità (preferibilmente tramite l’astinenza), l’umanità sarebbe stata condannata a mangiare se stessa, volgendosi a fame e disastri. Duecento anni di progressi tecnologici in agricoltura, tuttavia, hanno reso molte delle previsioni di Malthus alquanto discutibili». Ma i matematici della Nasa e i loro colleghi contestano che, anche aumentando l’efficienza con la tecnologia, possano essere risolti i colossali problemi di oggi: «Il cambiamento tecnologico può aumentare l’efficienza dell’uso delle risorse, ma tende anche ad aumentare sia il consumo di risorse pro-capite che il livello di estrazione delle stesse, in modo che, in assenza di indirizzi politici, gli aumenti dei consumi spesso compensano la maggiore efficienza nell’uso delle risorse». Tutto ciò in economia è d’altronde ben noto da tempo, sotto il nome di paradosso di Jevons.
I ricercatori fanno l’esempio dell’aumento della produttività agricola e industriale negli ultimi due secoli, ed evidenziano che l’impatto sulle risorse è aumentato invece che il contrario, nonostante nello stesso periodo si siano avuti eccezionali incrementi nell’efficienza.
I quattro soggetti in cui lo studio riduce l’ambito della civiltà umana sono: le élites, la gente comune, la natura e la ricchezza. Una divisione conseguente al fatto che, appunto, «gli ostacoli ecologici» e la «stratificazione economica» sono i due principali fattori che hanno provocato sempre il crollo delle società. Ad ogni fattore è stata assegnata un’equazione matematica complessa, riunendo poi il tutto nel modello Human and Nature Dynamical (Handy), configurato per calcolare il destino di ogni tipo di società, compresa la «società ineguale», cioè il sistema nettamente diviso tra ricchi e poveri che secondo i matematici della Nasa «riflette in maniera più giusta la realtà del nostro mondo d’oggi».
Nel primo scenario, la popolazione delle élite raggiunge il suo picco tra 750 anni, causando una «penuria di operai» che farà crollare la civiltà umana entro 1.000 anni. «Sembra di essere su un percorso sostenibile per un periodo piuttosto lungo - si legge nello studio - ma anche con un tasso di esaurimento ottimale e partendo da un piccolo numero di élites, queste alla fine consumano troppo, causando una carestia tra la gente comune, il che alla fine causa il collasso della società. È importante notare che questo tipo collasso è dovuto ad un carestia indotta dalla disuguaglianza che provoca una perdita di lavoratori, piuttosto che da un crollo della natura».
Nel secondo scenario, quello del “crollo totale”, le élites e la gente comune entro 350 anni consumeranno in maniera irreparabile le risorse della Terra, e questo porterà ad un crollo che lentamente distruggerà sia l’umanità che il pianeta entro 500 anni. Il rapporto evidenzia che «con un tasso di esaurimento più grande, il declino della gente comune avviene più velocemente, mentre le élite sono ancora fiorenti. Ma alla fine la gente comune crollerà completamente, seguita dall’élite».
Queste, oggi, sono dinamiche già in corso. «E’ importante notare che nei due scenari, le élites (a causa della loro ricchezza) soffrono degli effetti nefasti e del crollo ambientale ben più tardi dei comuni mortali. Potremmo supporre - afferma Motesharrei - che questa barriera di ricchezza permetta alle élites di continuare a funzionare come da abitudine, malgrado la catastrofe imminente».
Infatti in entrambi gli scenari le élites monopolizzano la ricchezza e quindi possono “tamponare” la maggior parte degli effetti negativi del crollo ambientale per molto più tempo della massa, continuando nel loro “business as usual” nonostante la catastrofe imminente.
Applicando il modello Handy alla nostra situazione contemporanea, lo studio avverte che: «Mentre alcuni membri della società possono dare l’allarme avvertendo che il sistema sta andando verso un collasso imminente e quindi sostengono cambiamenti strutturali della società al fine di evitarlo, le élites e i loro sostenitori che si oppongono ad apportare queste modifiche potrebbero puntare su una strategia “del troppo lontano nel tempo”, al sostegno del non fare nulla».
Tuttavia, gli scienziati sottolineano che gli scenari peggiori non sono affatto inevitabili, e suggeriscono che la politica appropriata e cambiamenti strutturali potrebbero evitare il collasso, se non spianare la strada verso una civiltà più stabile: «Il collasso può essere evitato e la popolazione può raggiungere l’equilibrio se il tasso pro capite di esaurimento della natura viene ridotto ad un livello sostenibile e se le risorse vengono distribuite in modo abbastanza equo».
I soli due scenari che non conducono all’estinzione dell’umanità sono quelli in cui c’è un forte controllo della natalità e/o dove «le risorse sono distribuite in maniera equa e ragionevole», e gli scienziati spiegano che tali scenari non-mortali sono «concepiti per indicare il genere di politiche necessarie a evitare i risultati catastrofici».
Probabilmente gli scienziati della Nasa non hanno mai letto Rosa Luxemburg, ma risuona forte il suo «socialismo o barbarie». Le due soluzioni principali sono ridurre la disuguaglianza economica, in modo da garantire una distribuzione più equa delle risorse, e ridurre drasticamente il loro consumo basandosi meno sulle risorse non rinnovabili e frenando la crescita della popolazione.
Ahmed conclude: «Anche se lo studio è in gran parte teorico, una serie di altri studi più empiricamente focalizzati - del Kpmg e del Government office of science della Gran Bretagna, per esempio - hanno già avvertito che la convergenza delle crisi alimentari, dell’acqua e dell’energia potrebbe creare una “tempesta perfetta” già entro circa 15 anni. Ma queste previsioni “business as usual” potrebbero essere molto prudenziali».
Da quando sono uscite le anticipazioni di Ahmed nei Paesi anglosassoni ambientalisti, sinistra e destra stanno cercando di appropriarsi delle 32 pagine dello studio per dimostrare che hanno ragione loro.
Probabilmente ad aver ragione è Derrick O’Keefe, ex editore di Rabble.ca, che ha scritto su Twitter che «questo studio finanziato dalla Nasa prova che l’avvenire risiede nel socialismo o nell’estinzione». Ma sui siti dell’ultra-destra spopolano commenti come quelli dell’anonimo “M4Carbine”: «Questo è il motivo per cui continuo a comprare munizioni».
Anche Debora MacKenzie, una giornalista canadese che ha scritto sul collasso sociale per New Scientist, è convinta che «quel che sappiamo riguardo ad ogni civiltà crollata - i Maya, i Romani, le dinastie cinesi, i Sumeri - è semplicemente che nessuna ha fatto tutte le scelte giuste ed hanno continuato ad andare avanti così com’erano; sembra sia qualcosa di intrinseco alla civiltà stessa».
Al contrario, alcuni archeologi sostengono che l’intero concetto di collasso sociale è una drammatizzazione. Brendan Burke, preside di studi greci e romani all’università australiana di Victoria, ha detto al National Post che, a prescindere dal rapporto Nasa, «resto scettico all’idea di collasso totale. Penso che i periodi della storia che noi chiamiamo “Età oscura”, ovvero un periodo dopo un grande “collasso”, siano spesso solo un tempo di cui si sa poco, o che è stato indagato poco». Speriamo solo che i nostri posteri di una risorta civiltà non si trovino ad dover indagare sulla nostra di “Età oscura”.