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DOMANDA: John Rawls è uno dei pensatori più importanti e originali della teoria politica contemporanea. Quali sono i principi ispiratori della sua famosa teoria della giustizia? E in che senso questa teoria è una teoria contrattualistica?
E’ stata spesso chiamata una prospettiva del "neocontrattualismo": non credo che questa espressione sia molto felice. In realtà Rawls ha in mente questo: l’utilitarismo è basato sull’idea che sia giusto ciò che massimizza il bene. La teoria contrattualistica pone invece l’accento sul fatto che per dire che cosa è giusto bisogna che noi ci accordiamo, in qualche modo, non ricorrendo ad un singolo principio, ma convergendo noi stessi mediante una procedura, condividendo non un principio ma un metodo, fino a un punto di accordo, che nella tradizione classica è il "pactum" o il "contratto", il contratto sociale, e che nella "teoria della giustizia" si traduce in un accordo sui principi di giustizia che devono regolare la nostra società.
Il primo principio riguarda le istituzioni politiche ed è un principio di massimizzazione della libertà: "a ciascuno il massimo sistema delle libertà compatibile con il massimo sistema delle libertà di ciascun altro" - se vogliamo possiamo chiamarlo il principio John Stuart Mill.
Vi è un secondo principio, che è destinato a modellare il mondo delle ineguaglianze nell’ambito delle risorse e dell’accesso alle risorse. Possiamo chiamarlo il mondo delle differenze, differenze che possono rendere maggiore o minore il valore dell’eguale libertà per noi. Questo principio riguarda le istituzioni che modellano - come avrebbe detto Rousseau nel Secondo Discorso - "l’ordine delle ineguaglianze economiche e sociali". Questo viene definito come un principio di differenza e la cosa in realtà è molto semplice: l’idea è che ciascun vantaggio o bene sociale primario di cittadinanza deve essere distribuito egualmente - quindi è un principio egualitario moderato sostanzialmente -, a meno che una qualche ineguaglianza nella sua distribuzione non vada a vantaggio di chi è più svantaggiato.
Si usa dire che in questo modo la teoria della giustizia come equità cerca di arrangiare insieme i due grandi termini del vocabolario politico della tradizione democratica o liberale-democratica, vale a dire libertà e uguaglianza, cioè cerchi di arrivare, come si usa dire, al "trade off" migliore, all’equilibrio migliore fra quanto richiesto dalla libertà e quanto richiesto dalla eguaglianza.
L’argomento è semplicemente un argomento in termini di incentivo: se noi, scostando dalla distribuzione egualitaria stretta, facciamo sì che qualcuno che sta meglio sia incentivato alla cooperazione sociale, tale da produrre di più, e questo consente una redistribuzione o una serie di incentivi per chi sta peggio, perché non sceglier la seconda? Questa è la differenza con la posizione egualitaria stretta, è la differenza tra l’idea di eguaglianza delle quote e l’idea di equità nelle quote stesse.
La nozione di equità è molto vaga, come è noto. Nella traduzione italiana io ho proposto il termine "equità" per ciò che Rawls chiama "fairness": tale traduzione non cattura tutto dell’idea originaria, connessa all’idea di "lealtà", come nel senso del "fair play": ma diciamo che la differenza tra "eguaglianza" ed "equità" consiste nel fatto che l’equità prevede delle ineguaglianze se queste lavorano a vantaggio di tutti - a partire da chi sta peggio -, a differenza di una tesi egualitaria "stretta", che io chiamo "alla Babeuf", che non ammette diseguaglianze.
John Rawls, filosofo della politica e del diritto, nasce a Baltimora nel 1921, insegna all’Harvard University dal 1962, ottiene la fama internazionale con la pubblicazione di Una teoria della giustizia(1971), cui fa seguito Liberalismo politico (1993).
Salvatore Veca, professore ordinario di Filosofia della politica all’Università di Pavia.
Un inedito di John Rawls sull’Almanacco di Micromega
Così i popoli diversi possono vivere in pace
Negli Stati Uniti, a differenza che in Europa, esiste un linguaggio politico unico e una completa disponibilità dei cittadini verso lo Stato federale
di John Rawls (la Repubblica, 30.04.2012)
Dunque, il liberalismo politico così come interpretato nella mia opera Il diritto dei popoli lascia agli elettori ed alle loro argomentazioni filosofiche la possibilità di selezionare quale concezione liberale debba essere adottata per la loro unione. Ci troviamo qui dinanzi alla presenza di una divisione del lavoro tra Il diritto dei popoli, da una parte, che fornisce uno schema di formulazione delle norme di diritto internazionale e della prassi politica e, dall’altra, delle decisioni di cittadini liberi ed eguali in società liberali.
Personalmente non ritengo che questa divisione dei compiti, una volta compresa correttamente, risulti poco generosa. È vero che non favorisce alcuna particolare concezione liberale, poiché non ha i caratteri di una dottrina filosofica completa; il suo scopo è tuttavia quello di fornire norme internazionali di condotta per una società dei popoli ragionevole nella quale siano sempre presenti considerevoli differenze di opinione religiosa e filosofica.
Per un popolo liberale il requisito del possesso di un’unica lingua, storia e cultura comune, nonché di una consapevolezza storica condivisa, rappresenta una circostanza rara, se mai pienamente realizzata.
Le conquiste e l’immigrazione hanno causato la mescolanza di gruppi culturalmente diversi e caratterizzati da una memoria storica differenziata, oggi inseriti all’interno del territorio della maggior parte dei governi liberal-democratici contemporanei.
Nonostante ciò, Il diritto dei popoli ha inizio con un caso standard - ovvero con quelle nazioni che J.S. Mill ha descritto adoperando il concetto di nazionalità in senso stretto. Forse, se prendiamo le mosse da questo caso standard, saremo poi in grado di elaborare princìpi politici per contesti più difficili. Ad ogni modo, una semplice presentazione che consideri restrittivamente come nazioni soltanto i popoli liberali non merita di essere liquidata in modo sommario. In una materia così complessa come quella di Il diritto dei popoli dobbiamo iniziare con modelli abbastanza semplici e vedere quanto lontano ci conducono.
Un elemento che c’incoraggia a procedere in questa direzione consiste nell’osservare che all’interno di un sistema liberale ragionevolmente giusto è possibile, a mio avviso, far convergere altrettanto ragionevoli interessi e bisogni culturali collettivi con la diversità di background etnici e nazionali.
Procederemo in base all’assunzione secondo cui i princìpi politici propri di un regime costituzionale ragionevolmente giusto ci permettono di affrontare, se non tutti, almeno un ampio numero di casi. Vi saranno senz’altro eccezioni e tenteremo di affrontarle ogni qual volta queste emergeranno.
Un punto sul quale gli europei dovrebbero interrogarsi riguarda, se mi si concede di azzardare un suggerimento, quanto lontano vogliono che si proceda con la loro unificazione. Mi sembra che molto sarebbe perduto se l’Unione europea diventasse un’unione federale come quella degli Stati Uniti. In quest’ultimo caso, infatti, esiste un linguaggio condiviso del discorso politico e una completa disponibilità a passare da una all’altra forma di Stato. Inoltre, non sussiste un conflitto tra un ampio e libero mercato comprendente tutta l’Europa, da una parte, e dall’altra i singoli Stati-nazione, ciascuno con le proprie istituzioni, memorie storiche, e forme e tradizioni di politica sociale.
Sicuramente questi elementi sono di grande valore per i cittadini di tali paesi, poiché danno senso alle loro vite. Un ampio mercato aperto che includa tutta Europa rappresenta l’obiettivo delle grandi banche e della classe capitalista, il cui principale obiettivo è semplicemente quello di realizzare il più alto profitto. L’idea di crescita economica progressiva e indeterminata caratterizza perfettamente questa classe. Quando parlano di redistribuzione, lo fanno di solito in termini di redistribuzione a gocciolamento.
Il risultato a lungo termine di questa politica economica - già in atto negli Stati Uniti - conduce a una società civile travolta da un consumismo senza senso. Non posso credere che ciò è quanto desiderate. Come vedi non mi piace la globalizzazione che le banche e i capitalisti stanno affermando. Accetto l’idea di Mill sullo Stato stazionario così come viene descritto nel la sua opera Principi di Economia Politica (1848). Non m’illudo che questo un giorno accadrà ma che sia - anche se non subito - almeno possibile, e che perciò trovi posto nella mia definizione di utopia realistica.
Conversando con Amartya Sen
«La crisi economica globale? Colpa di liberismo e finanza
È tempo di giustizia e libertà»
di Oreste Pivetta (l’Unità, 25.05.2010)
Amartya Sen è in Italia: vi trascorrerà alcuni giorni, per il riposo e per alcune conferenze. Il premio Nobel per l’economia gli venne attribuito nel 1998, per una «economia» pensata e ripensata alla luce di una necessità etica che dovrebbe coinvolgere gli uomini, il mondo intero, collocando l’indagine economica all’interno di una riflessione che fa perno su una nozione di diseguaglianza, analizzata a partire dalla eterogeneità degli esseri umani e dalla molteplicità dei parametri in base a cui può essere definita. Per questo, ragionando di sviluppo e di mercato, ma anche di libertà, democrazia, giustizia, di diritti (di diritti anche della «terra» e quindi in una dimensione ecologica), è diventato una bandiera, un beniamino, un riferimento di quanti hanno immaginato una alternativa al liberismo imperante, alla globalizzazione selvaggia, al depauperamento delle risorse, all’arricchimento di pochi e alla fame di molti. Una sintesi, anche di grande valore simbolico, della sua battaglia sta nell’invenzione (insieme con il collega pakistano Mahbub ul Haq e per conto delle Nazioni Unite) di un Pil (prodotto interno lordo) che rivoluziona quello tradizionale e che calcola la «ricchezza delle nazioni» non secondo riferimenti monetari o industriali, ma secondo altri parametri, come tasso di alfabetizzazione, grado di democrazia, possibilità di scolarizzazione, libertà di accesso ai media, qualità dell’assistenza sanitaria, attesa di vita, diffusione del benessere: si dice Hdi, indicatore di sviluppo umano (che non tutti però, mi precisa Sen, li include).
Il tema del suo ultimo libro, pubblicato da Mondadori, è la giustizia. Lo dice il titolo: «L’Idea di Giustizia». Ma lei è un economista e noi viviamo da tempo una pesante crisi economica. Come se ne esce? Imboccando un’altra strada rispetto a quella seguita fin qui? Abbandonando un modello di sviluppo, che è poi il modello capitalista?
«La crisi economica è grave. Le ragioni stanno certo nella cattiva politica, nella mano libera consentita alla speculazione finanziaria, nell’eccesso di fiducia nella forza regolatrice del mercato, comprimendo o addirittura osteggiando il ruolo delle pubbliche istituzioni. Diciamo che la prima responsabilità è stata degli Stati Uniti, con la complicità ovviamente di tutti gli altri paesi più ricchi. A questo punto per rimediare non c’è che una strada: incentivi e interventi pubblici, con le riforme istituzionali che possono favorirla. Pensando globalmente. Questo è un punto fermo. L’altro riguarda ancora il tema del mio libro: Giustizia e ingiustizie. Non possiamo ignorarlo, anche mentre la finanza va a rotoli, le borse crollano, la disoccupazione sale: non possiamo accettare soluzioni che per motivi di bilancio, per salvare il vecchio ordine, impongano nuove ingiustizie. Ad esempio, se è giusto tagliare il superfluo, si dovrebbe sempre considerare che politiche di estremo rigore rischiano di essere controproducenti laddove non assicurino i servizi pubblici essenziali ai cittadini. Ma soprattutto dobbiamo batterci contro quelle ingiustizie che già conosciamo, contro la povertà, contro le limitazioni della libertà, contro le censure alla democrazia, ovunque nel mondo, in Asia o in Africa, ma anche nei paesi industrializzati. Il benessere dell’universo mondo resta una questione di giustizia e le politiche economiche a sostegno della ripresa devono essere giudicate per quanto riescono a rafforzare quelle condizioni di libertà e di democrazia che sono autentica misura della qualità della vita per tutti e allo stesso tempo premessa del cammino che verrà».
Vediamo allora questo suo libro, che si apre con una dedica a John Rawls, il filosofo statunitense morto otto anni fa. Basterebbe il suo primo saggio, del 1958, «Giustizia come equità». “La giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali”, ha scritto Rawls. Mi pare, professor Amartya Sen, che lei affronti il tema della giustizia da un altro punto di vista, cioè in funzione delle condizioni dell’esistenza umana, di una qualità della vita che a tutti dovrebbe essere garantita. Perché quel riferimento a Rawls?
«Il mio punto di vista sulla giustizia non è sempre esattamente compatibile con le conclusioni cui è giunto Rawls che ha comunque influenzato lo sviluppo del mio pensiero. Leggendolo, senza condividere molte delle sue affermazioni, mi ha stimolato a una ricerca personale. Per riassumere il lungo rapporto intellettuale che mi ha unito a Rawls, userei l’espressione ‘dialettica’. Credo che voi del l’Unità di dialettica ne capiate. Partendo dalle ragioni di disaccordo, sono riuscito a individuare il mio cammino per tentare di rispondere alla domanda fondamentale: che fare per contare su una giustizia migliore?».
E come le pare si possa rispondere a questa domanda. Esiste una misura della giustizia?
«Scrivendo questo libro, a proposito di un’idea di giustizia, mi sono innanzitutto preoccupato delle ingiustizie, perché solo risalendo dalle ingiustizie, dalla loro cancellazione, si può pensare a un passo verso una condizione più stabile e più equa dell’umanità».
Cioè, a una immagine teorica, direi ideale, della Giustizia, antepone una pratica di «ascolto» delle mille ingiustizie?
«Certo. Come infatti una società si può evolvere nel segno della giustizia? Può provarci, a condizione prima di tutto di una diagnosi delle ingiustizie. Su questo insisto: il primo compito è diagnosticare. Poi sulla base della conoscenza, di un consenso ragionato, di un esercizio intellettuale, attraverso cambiamenti politici, istituzionali, attraverso pure un cambiamento della mentalità diffusa, si può agire perché spariscano le situazioni di ingiustizia».
Però le miserie del mondo, la fame, le morti sono lì a parlarci immediatamente. E in modo scandaloso ...
«Le manifestazioni eclatanti, clamorose di ingiustizia sono infinite. Però mi interessava particolarmente stigmatizzare le forme più sottili dell’ingiustizia, ad esempio le tante forme di diseguaglianza tra gli uomini, lo squilibrio dei redditi piuttosto che la diversità delle opportunità. Sono questioni che toccano la sfera personale. Ciononostante condizionano il mondo. Certo: ingiustizia è morir di fame, è dover affrontare una carestia. Sono capitoli estremi dell’esistenza umana. Mentre si apre davanti ai nostri occhi un arcobaleno di situazioni, alcune delle quali non riusciamo a vedere nitidamente, come le tante forme di violenza, di limitazione delle libertà, di condizionamento fino alla tortura. Se vogliamo dare una risposta ad una domanda di giustizia, se vogliamo che quindi il genere umano, tutto, possa vivere bene, senza soffrire la fame, senza patire violenze, dobbiamo imparare a considerare le situazioni più manifeste (e morir di fame è tra le più gravi), ma anche quelle più occulte, che colpiscono comunque l’esistenza degli individui».
Mi pare che lei, trattando di giustizia, si riferisca molto spesso a concetti di libertà e di eguaglianza. Potremmo aggiungere «fraternità», come ‘legante’ comunitario, e siamo ai tre principi della rivoluzione francese. Quale dei tre metterebbe in primo piano?
«Mi sembrano tre principi importanti allo stesso modo. La libertà consente all’uomo di agire alla luce della ragione che a ciascuno è data. L’uguaglianza, se siamo esseri umani, è garantire a tutti le medesime opportunità. La fraternità permette di stabilire di continuare relazioni reciproche che non siano fondate sull’ostilità, che ci consentano quindi di sentirci vicendevolmente a nostro agio, di vivere vicini senza danneggiarci, di essere rispettati dai propri simili, di partecipare alla vita della comunità. Cercare di stabilire tra questi principi una classifica, mi sembra come tentare di dire che cosa sia preferibile tra i sensi, l’udito, la vista, il gusto. Valgono tutti e tre allo stesso modo e di nessuno dei tre vorrei privarmi. Finchè non sei posto davanti al bivio, cioè a una scelta, non potrai mai immaginare la graduatoria».