Il vero volto del Cavaliere
di Ezio Mauro (la Repubblica,17.06.2008)
Nel mezzo della luna di miele che la maggioranza degli italiani credeva di vivere con il nuovo governo, la vera natura del berlusconismo emerge prepotente, uguale a se stessa, dominata da uno stato personale di necessità e da un’emergenza privata che spazzano via in un pomeriggio ogni camuffamento istituzionale e ogni travestimento da uomo di Stato del Cavaliere. No. Berlusconi resta Berlusconi, pronto a deformare lo Stato di diritto per salvaguardia personale, a limitare la libertà di stampa per sfuggire alla pubblicazione di dialoghi telefonici imbarazzanti, a colpire il diritto dell’opinione pubblica a essere informata sulle grandi inchieste e sui reati commessi, pur di fermare le indagini della magistratura. La Repubblica vive un’altra grave umiliazione, con le leggi ad personam che ritornano, il governo del Paese ridotto a scudo privato del premier, la maggioranza parlamentare trasformata in avvocato difensore di un cittadino indagato che vuole sfuggire al suo legittimo giudice, deformando le norme.
In un solo giorno - dopo la strategia del sorriso, il dialogo, l’ambizione del Quirinale - Silvio Berlusconi ha chiamato a raccolta i suoi uomini per operare una doppia azione di sfondamento alla normalità democratica del nostro sistema costituzionale. Sotto attacco, la libertà di informazione da un lato, e l’obbligatorietà dell’azione penale dall’altro. Per la prima volta nella storia repubblicana, il governo e la sua maggioranza entrano nel campo dell’azione penale per stravolgerne le regole e stabilire una gerarchia tra i reati da perseguire. Uno stravolgimento formale delle norme sulla fissazione dei ruoli d’udienza, che tuttavia si traduce in un’alterazione sostanziale del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Principio istituito a garanzia dell’effettiva imparzialità dei magistrati e dell’uguaglianza dei cittadini.
La nuova norma berlusconiana (presentata come un emendamento al decreto-sicurezza, firmato direttamente dai Presidenti della I e II commissione di Palazzo Madama) obbliga i giudici a dare «precedenza assoluta» ai procedimenti relativi ad alcuni reati, ma questa precedenza serve soprattutto a mascherare il vero obiettivo dell’intervento: la sospensione «immediata e per la durata di un anno» di tutti i processi penali relativi ai fatti commessi fino al 31 dicembre 2001 che si trovino «in uno stato compreso tra la fissazione dell’udienza preliminare e la chiusura del dibattimento di primo grado».
È esattamente la situazione in cui si trova Silvio Berlusconi nel processo in corso davanti al Tribunale di Milano per corruzione in atti giudiziari: con l’accusa di aver spinto l’avvocato londinese Mills a dichiarare il falso sui fondi neri della galassia Fininvest all’estero. Quel processo è arrivato al passo finale, mancano due udienze alla sentenza. Si capisce la fretta, il conflitto d’interessi, l’urgenza privata, l’emergenza nazionale che ne deriva, la vergogna di una nuova legge ad personam. Bisogna ad ogni costo bloccare quei giudici, anche se operano "in nome del popolo italiano", anche se il caso non riguarda affatto la politica, anche se il discredito internazionale sarà massimo. Bisogna con ogni mezzo evitare quella sentenza, guadagnare un anno, per dar tempo all’avvocato Ghedini (difensore privato del Cavaliere e vero Guardasigilli-ombra del suo governo) di ripresentare quel lodo Schifani che rende il premier non punibile, e che la Consulta ha già giudicato incostituzionale, perché viola l’uguaglianza dei cittadini: un peccato mortale, in democrazia, qualcosa che un leader politico non dovrebbe nemmeno permettersi di pensare, e che invece in Italia verrà presentato in Parlamento per la seconda volta in pochi anni, a tutela della stessa persona, dalla stessa moderna destra che gli italiani hanno scelto per governare il Paese.
Con ogni evidenza, per l’uomo che guida il governo non è sufficiente vincere le elezioni, e nemmeno stravincerle: non gli basta avere una grande maggioranza alle Camere, parlamentari tutti scelti di persona e imposti agli elettori, una forte legittimazione popolare, mano libera nel dispiegare legittimamente la sua politica. No. Ancora una volta a Berlusconi serve qualcosa di illegittimo, che trasformi la politica in puro strumento di potere, il Parlamento in dotazione personale, le istituzioni in materia deformabile, come le leggi, come i poteri della magistratura. È una coazione a ripetere, rivelatrice di una cultura politica spaventata, di una leadership fuggiasca anche quando è sul trono, di un sentimento istituzionale che abita la Repubblica da estraneo, come se fosse un usurpatore, e non riesce a farsi Stato, vivendo il suo stesso trionfo come abusivo. Col risultato di vedere il Capo dell’esecutivo chiedere aiuto al potere legislativo per bloccare il giudiziario. Qualcosa a cui l’Occidente non è abituato, un abuso di potere che soltanto in Italia non scandalizza, e che soltanto l’establishment italiano può accettare banalizzandolo, per la nota e redditizia complicità dei dominati con l’ordine dominante, che è a fondamento di ogni autoritarismo popolare e di ogni democrazia demagogica, come ci avviamo purtroppo a diventare.
Questo uso esclusivo delle istituzioni e della norma, porta fatalmente il Premier ad un conflitto con il Capo dello Stato, garante della Costituzione. Napolitano era già intervenuto, nelle forme proprie del suo ruolo, contro il tentativo di introdurre la norma anti-prostitute nel decreto sicurezza, spiegando che non si vedeva una ragione d’urgenza. Poi aveva preso posizione per la stessa ragione contro l’ingresso nel decreto della norma che porta i soldati in strada a svolgere compiti di polizia. Oggi si trova di fronte un emendamento che addirittura sospende per un anno i processi penali e ordina ai magistrati come devono muoversi di fronte ai reati, una norma straordinaria inserita come "correzione" in un decreto che parla di tutt’altro. Che c’entra la sospensione dei processi con la sicurezza? Qual è il carattere di urgenza, davanti ai cittadini? L’unica urgenza - come l’unica sicurezza - è quella privatissima e inconfessabile del premier. Una stortura che diventa un abuso, e anche una sfida al Capo dello Stato, che non potrà accettarla. Come non può accettarla il Partito Democratico, che ieri con Veltroni ha accolto la proposta di Scalfari: il dialogo sulle riforme non può continuare davanti a questi "strappi" della destra, perché non si può parlare di regole con chi le calpesta.
Nello stesso momento, mentre blocca i magistrati e ferma il suo processo, Berlusconi interviene anche sulla libertà di cronaca. Il disegno di legge sulle intercettazioni presentato ieri dal governo, infatti, non impedisce solo la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche, con pene fino a 3 anni (e sospensione dalla professione) per il cronista autore dell’articolo e fino a 400 mila euro per l’editore. Le nuove norme vietano all’articolo 2 la pubblicazione "anche parziale o per riassunto" degli atti delle indagini preliminari "anche se non sussiste più il segreto", fino all’inizio del dibattimento. Questo significa il silenzio su qualsiasi notizia di inchiesta giudiziaria, arresto, interrogatorio, dichiarazione di parte offesa, argomenti delle difese, conclusioni delle indagini preliminari, richiesta di rinvio a giudizio. Tutto l’iter investigativo e istruttorio che precede l’ordinanza del giudice dell’udienza preliminare è ora coperto dal silenzio, anche se è un iter che nella lentezza giudiziaria italiana può durare quattro-sei anni, in qualche caso dieci. In questo spazio muto e segreto, c’è ora l’obbligo (articolo 12) di "informare l’autorità ecclesiastica" quando l’indagato è un religioso cattolico, mentre se è un Vescovo si informerà direttamente il Cardinale Segretario di Stato del Vaticano, con un inedito privilegio per il Capo del governo di uno Stato straniero, e per i cittadini-sacerdoti, più cittadini degli altri.
Se il diritto di cronaca è mutilato, il diritto del cittadino a sapere e a conoscere è fortemente limitato. Con questa norma, non avremmo saputo niente dello spionaggio Telecom, del sequestro di Abu Omar, della scalata all’Antonveneta, della scalata Unipol alla Bnl, del default Parmalat, della vicenda Moggi, della subalternità di Saccà a Berlusconi, dei "pizzini" di Provenzano, della disinformazione organizzata da Pollari e Pompa, e infine degli orrori della clinica Santa Rita di Milano. Ma non c’è solo l’ossessione privata di Berlusconi contro i magistrati e i giornalisti (alcuni). C’è anche il tentativo scientifico di impedire la formazione di quel soggetto cruciale di ogni moderna democrazia che è la pubblica opinione, un’opinione consapevole proprio in quanto informata, e influente perché organizzata come attore cosciente della moderna agorà. No alla pubblica opinione (che non sappia, che non conosca) a favore di opinioni private, meglio se disorientate e spaventate, chiuse in orizzonti biografici e in paure separate, convinte che non esista più un’azione pubblica efficace, una risposta collettiva a problemi individuali.
A questo insieme di individui -di cui certo fanno parte anche gli sconfitti della globalizzazione, la nuova plebe della modernità - il populismo berlusconiano chiede solo una vibrazione di consenso, un’adesione a politiche simboliche, una partecipazione di stati d’animo, che si risolve nella delega. La cifra che lega il tutto è l’emergenza, intesa come orizzonte delle paure e fine del conformismo, del politicamente corretto, delle regole e degli equilibri istituzionali. Conta decidere (non importa come), agire (non conta con che efficacia), trasformare l’eccezione in norma. Il governo, a ben guardare, non sta militarizzando le strade o le discariche, ma le sue decisioni e la sua politica. Meglio, sta militarizzando il senso comune degli italiani, forzandolo in un contesto emergenziale continuo, con l’esecutivo trasformato per conseguenza da organo ordinario in straordinario, che opera in uno stato d’eccezione perenne. Così Silvio Berlusconi può permettersi di venire allo scoperto in serata, scrivendo in una lettera a Schifani che la norma blocca-processi «è a favore di tutta la collettività», anche se si applica «a uno tra i molti fantasiosi processi che magistrati di estrema sinistra hanno intentato contro di me per fini di lotta politica». È il preannuncio di una ricusazione, in una giornata come questa, vergognosa per la democrazia, con il premier imputato che rifiuta il suo giudice mentre ne blocca l’azione. A dimostrazione che Berlusconi è pronto a tutto. Dovremmo prepararci al peggio: se non fosse che il peggio, probabilmente, lo stiamo già vivendo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI.
di Carlo Galli (la Repubblica, 24.01.2011)
Perché "vergogna" è la prima reazione al nuovo scandalo Berlusconi? Vergogna di chi, di che cosa? Provare a rispondere a queste domande - tentativo doveroso, perché interpellano radicalmente la nostra coscienza civile e morale - ci porta alla radice dell’apparato categoriale della moderna politica democratica. In questo caso vergogna è il sentimento di umiliazione che nasce nei cittadini per alcuni comportamenti - non necessariamente per i reati, che devono ancora esser provati - del capo del governo.
I cittadini (alcuni, forse non tutti: ma questo è un diverso lato della questione) si sentono umiliati per fatti che non li riguardano direttamente e che nondimeno li toccano da vicino, intimamente. Quei comportamenti hanno a che fare con l’umiliazione di donne giovani e avvenenti (anche in questo caso, lasciamo impregiudicata la questione del reato specifico che si configurerebbe se fra di esse fosse stata coinvolta una minorenne), sistematicamente utilizzate, col loro consenso, come figuranti lascive in quadretti erotici, in tableaux vivants da Antico regime o da belle époque per quanto riguarda i riferimenti storici, ma soprattutto a favolosi e remoti (almeno si supponeva) sultanati orientali. E hanno a che fare anche con l’umiliazione di chi le umilia, di chi utilizzandole come giocattoli animati ne nega la qualità di persone, di chi abbassandole si abbassa.
Nell’umiliazione di quelle donne, e simultaneamente del loro padrone, vediamo in realtà umiliati i due beni più preziosi che la modernità politica - quella che ancora ci parla attraverso la Costituzione - ci ha consegnato: l’uguale dignità delle persone, di tutte; e la configurazione e la destinazione umanistica del potere, di ogni potere. Come il potere giudiziario non può comminare punizioni crudeli e inusuali, come il potere economico non può ridurre in schiavitù i più deboli, così il potere politico non può utilizzare le persone, divertirsi a consumarne corpi e anime.
Si dirà - è stato detto - che la prostituzione è sempre esistita, e che un po’ d’allegria non guasta; che, soprattutto atti sessuali fra adulti consenzienti, consumati nel privato - a prescindere da eventuali reati -, non devono interessare nessuno. E che il potere politico non c’entra nulla.
E invece - una volta resi pubblici perché la magistratura ha legittimamente indagato a partire da notizie di reato - quegli atti interessano e umiliano, non tanto per umana empatia, né per fame di gossip, ma perché sono intrinsecamente politici. Perché coinvolgono tutti e ciascuno; perché ferendo alcuni feriscono la dignità uguale e comune dei cittadini; perché trascinano tutti nella stessa vergogna; perché quello spettacolo ha noi tutti come destinatari, parla a noi e parla di noi - e anche perché si riflette, come un gioco di specchi, in mille stanze del potere, in mille alcove, al centro e alla periferia del Paese - . Ciò è tanto più vero nel caso di Berlusconi - che ha fatto di sé, del proprio corpo e della propria ricchezza personale, l’icona e il simbolo della politica, facendo coincidere il Tutto, l’Italia, con se stesso e con la propria privata dismisura -; ma sarebbe vero in generale per ogni primo ministro, presidente di partito e parlamentare (che rappresenta tutta la nazione) che si comportasse allo stesso modo.
È l’immagine universale dell’uomo (e della donna) a essere in gioco; e, insieme, l’immagine del potere politico, della forza che regola il nostro vivere civile. Se il portatore di quella forza è capace di umiliare, di non vedere l’umanità delle persone, di non relazionarsi agli altri con il doveroso rispetto - non importa se nel pubblico o nel privato, orizzonti e dimensioni che in determinate posizioni di potere sfumano l’uno nell’altro -, siamo umiliati tutti. Siamo in pericolo tutti.
La coscienza letteraria potrebbe vedere nell’intera vicenda la topica del Drago e delle fanciulle; la coscienza religiosa potrebbe scorgervi il volto benevolo e il potere corruttore dell’Anticristo; la coscienza di classe potrebbe individuarvi la potenza onnivora - veramente biopolitica - del capitale su corpi e menti reificate; la coscienza femminile potrebbe riconoscervi la quintessenza del potere maschile diffuso in tutta la società, che si concentra in una sola persona e nelle sue pratiche di dominio; la coscienza cinica potrebbe leggervi l’eterna storia del sesso e del potere, e chiedersi chi sottomette chi, se l’uomo le donne o le donne l’uomo - e concludere che non vi è nulla di straordinario o di allarmante nell’intera vicenda -. La coscienza civile, la coscienza moderna, si avvede - dopo lo sbalordimento iniziale - che una soglia è stata superata, e paventa in quella servitù volontaria, e in chi la incoraggia e la sollecita (e in chi, servizievole, la organizza), la negazione stessa, in radice, della democrazia. E spera che l’Italia si interroghi presto su se stessa e sulla propria sorte.
IL COLLOQUIO
Ciampi: "La notte del ’92
con la paura del golpe"
Parla l’ex presidente della Repubblica: "Alle quattro di notte parlai con Scalfaro al Quirinale e gli dissi ’dobbiamo reagire’. Grasso dice cose giuste"
di MASSIMO GIANNINI *
ROMA - "Non c’è democrazia senza verità. Questo è il tempo della verità. Chi c’è dietro le stragi del ’92 e ’93? Chi c’è dietro le bombe contro il mio governo di allora? Il Paese ha il diritto di saperlo, per evitare che quella stagione si ripeta...". Dopo la denuncia di Piero Grasso, dopo l’appello di Walter Veltroni, ora anche Carlo Azeglio Ciampi chiede al governo e al presidente del Consiglio di rompere il muro del silenzio, di chiarire in Parlamento cosa accadde tra lo Stato e la mafia in uno dei passaggi più oscuri della nostra Repubblica.
L’ex presidente, a Santa Severa per un weekend di riposo, è rimasto molto colpito dalle parole del procuratore nazionale antimafia, amplificate dall’ex leader del Pd. E non si sottrae a una riflessione e, prima ancora, a un ricordo di quei terribili giorni di quasi vent’anni fa. "Proprio la scorsa settimana ho parlato a lungo con Veltroni, che è venuto a trovarmi, di quelle angosciose vicende. E ora mi ritrovo al 100 per cento nei contenuti dell’intervista che ha rilasciato a "Repubblica". Quelle domande inevase, quel bisogno di sapere e di capire, riflettono pienamente i miei pensieri. Tuttora noi non sappiamo nulla di quei tragici attentati. Chi armò la mano degli attentatori? Fu solo la mafia, o dietro Cosa Nostra si mossero anche pezzi deviati dell’apparato statale, anzi dell’anti-Stato annidato dentro e contro lo Stato, come dice Veltroni? E perché, soprattutto, partì questo attacco allo Stato? Tuttora io stesso non so capire... ".
Il ricordo di Ciampi è vivissimo. E il presidente emerito, all’epoca dei fatti presidente del Consiglio di un esecutivo di emergenza, che prese in mano un Paese sull’orlo del collasso politico (dopo Tangentopoli) e finanziario (dopo la maxi-svalutazione della lira) non esita ad azzardare l’ipotesi più inquietante: l’Italia, in quel frangente, rischiò il colpo di Stato, anche se è ignoto il profilo di chi ordì quella trama. "Il mio governo fu contrassegnato dalle bombe. Ricordo come fosse adesso quel 27 luglio, avevo appena terminato una giornata durissima che si era conclusa positivamente con lo sblocco della vertenza degli autotrasportatori. Ero tutto contento, e me ne andavo a Santa Severa per qualche ora di riposo. Arrivai a tarda sera, e a mezzanotte mi informarono della bomba a Milano. Chiamai subito Palazzo Chigi, per parlare con Andrea Manzella che era il mio segretario generale. Mentre parlavamo al telefono, udimmo un boato fortissimo, in diretta: era l’esplosione della bomba di San Giorgio al Velabro. Andrea mi disse "Carlo, non capisco cosa sta succedendo...", ma non fece in tempo a finire, perché cadde la linea. Io richiamai subito, ma non ci fu verso: le comunicazioni erano misteriosamente interrotte. Non esito a dirlo, oggi: ebbi paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Lo pensai allora, e mi creda, lo penso ancora oggi... ".
Resta da capire per mano di chi. Su questo Ciampi allarga le braccia. "Non so dare risposte. So che allora corsi come un pazzo in macchina, e mi precipitai a Roma. Arrivai a Palazzo Chigi all’una e un quarto di notte, convocai un Consiglio supremo di difesa alle 3, perché ero convinto che lo Stato dovesse dare subito una risposta forte, immediata, visibile. Alle 4 parlai con Scalfaro al Quirinale, e gli dissi "presidente, dobbiamo reagire". Alle 8 del mattino riunii il Consiglio dei ministri, e subito dopo partii per Milano. Il golpe non ci fu, grazie a dio. Ma certo, su quella notte, sui giorni che la precedettero e la seguirono, resta un velo di mistero che è giunto il momento di squarciare, una volta per tutte". La certezza che esponeva ieri Veltroni è la stessa che ripete Ciampi: non furono solo stragi di mafia, ed anzi, sulla base delle inchieste si dovrebbe smettere di definirle così. Furono stragi di un "anti-Stato", ancora tutto da scoprire. E come Veltroni anche Ciampi aggiunge un dubbio: perché a un certo punto, poco dopo la nascita del suo governo, le stragi cominciano? E perché, a un certo punto, dopo gli eccidi di Falcone e Borsellino, le stragi finiscono? Perché la mafia comincia a mettere le bombe? Perché la mafia smette di mettere le bombe?
È lo scenario ipotizzato dal procuratore Grasso: gli attentati servirono forse a preparare il terreno alla nascita di una nuova "entità politica", che doveva irrompere sulla scena tra le macerie di Mani Pulite. Un "aggregato imprenditoriale e politico" che doveva conservare la situazione esistente. Quell’entità, quell’aggregato, secondo questo scenario, potrebbe essere Forza Italia. Nel momento in cui quel partito si prepara a nascere, e siamo al ’94, Cosa Nostra interrompe la strategia stragista. È uno scenario credibile? Ciampi non si avventura in supposizioni: "Non sta a me parlare di tutto questo. Parlano gli avvenimenti di quel periodo. Parlano i fatti di allora, che sono quelli richiamati da Grasso. Il procuratore antimafia dice la verità, e io condivido pienamente le sue parole".
Per questo, in nome di quella verità troppo a lungo negata, l’ex capo dello Stato oggi rilancia l’appello: è sacrosanto che chi sa parli. Ed è sacrosanto, come chiede Veltroni, che "Berlusconi e il governo non tacciano", perché la lotta alla mafia non è questione di parte, "ma è il tema bipartisan per eccellenza". Si apra dunque una sessione parlamentare, dedicata a far luce su quegli avvenimenti. Perché il clima che si respira oggi, a tratti, sembra pericolosamente rievocare quello del ’92-’93. Ciampi stesso ne parlerà, in un libro autobiografico scritto insieme ad Arrigo Levi, che uscirà per "il Mulino" tra pochi giorni. "Lì è tutto scritto, ciò che accadde e ciò che penso. Così come lo riportai, ora per ora, sulle mie agende dell’epoca... ". Deve restare memoria, di tutto questo. Ma insieme alla memoria deve venir fuori anche la verità. "Perché senza verità - conclude l’ex presidente della Repubblica - non c’è democrazia".
Sia l’"Independent" che il "Times" tornano sulla vicenda del premier
"Segnali di pericolo sul suo futuro politico". E fanno il nome di Draghi per la successione
"Ultimi giorni alla corte di re Silvio"
I giornali inglesi ipotizzano le dimissioni
Intervista a Barbara Montereale che parla di "aria quasi competitiva"
tra le ragazze alle feste del Cavaliere. E conferma il regalo da diecimila euro
dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI *
LONDRA - "Gli ultimi giorni della corte di re Silvio" s’intitola il paginone dell’Independent di oggi. E il Times ricostruisce su due pagine la vicenda con un grafico della "ragnatela di connessioni nel mondo di Silvio", ipotizzando che le pressioni per costringere il premier a dimettersi continueranno e indicando nel governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, un possibile primo ministro ad interim che ne prenda il posto.
Il caso Berlusconi continua dunque a rimanere al centro dell’attenzione dei media e dell’opinione pubblica mondiale, in particolare in Gran Bretagna, dove la stampa nazionale sembra particolarmente colpita da una vicenda a base di "sesso, bugie e videotape", per parafrasare un noto film di alcuni anni or sono.
"Berlusconi sembrava immune dagli scandali, ma le sensazionali notizie di caroselli sessuali a base di feste, modelle e denaro stanno facendo sentire il loro peso sul premier", scrive l’Independent. L’inchiesta dell’ex-corrispondente da Roma Peter Popham ricostruisce gli ultimi sviluppi della faccenda, notando in particolare le crescenti critiche della Chiesa cattolica, "che sta cominciando quietamente a tenere Berlusconi a distanza" e "l’accumularsi di segnali di pericolo" per il suo futuro politico. L’articolo sottolinea che perfino uno dei suoi più fidati consiglieri, Giuliano Ferrara, direttore de Il Foglio, ha recentemente tracciato "un’analogia tra l’attuale situazione di Berlusconi e quella di Mussolini il 24 luglio 1943", il giorno prima che il duce fu destituito dal re. "La defezione di Ferrara", nel fronte dei critici di Berlusconi, scrive Popham, "fa parte degli effetti collaterali del divorzio chiesto da Veronica Lario", poiché Il Foglio è parzialmente di proprietà della (ancora per poco, a quanto pare) moglie del leader del Pdl.
Anche il Times pubblica un paginone sul caso. Un articolo di Lucy Bannerman, inviata a Bari, ricostruisce la rete di amicizie dichiarate e sotterranee che portano dal capoluogo pugliese fino alla residenza romana di Berlusconi e alla sua villa di Porto Rotondo in Sardegna. L’articolo contiene tra l’altro una nuova intervista a una delle giovani donne che hanno fatto visita al premier in più occasioni, Barbara Montereale, la cui automobili è bruciata nei giorni scorsi per un misterioso incendio doloso, la quale dice al Times che quando fu invitata in Sardegna a metà gennaio "c’erano un sacco di ragazze che non si conoscevano tra loro" e parla di un’atmosfera "quasi competitiva".
La Montereale conferma quando affermato in precedenti occasioni, cioè che per la sua presenza in Sardegna ricevette 11 mila euro, mille dall’uomo d’affari pugliese Giampaolo Tarantini, che l’aveva accompagnata, e 10 mila come "regalo" da Berlusconi.
Un secondo articolo, un commento del corrispondente da Roma Richard Owen, nota che, due mesi dopo l’inizio dello scandalo con la partecipazione al compleanno per i 18 anni di Noemi Letizia, Berlusconi cerca di mettere insieme una strategia, "mantenere la calma e andare avanti come niente fosse". Ma è "troppo tardi", la mancanza di una reazione convincente fino a questo momento hanno lasciato "la sua squadra in uno stato d’assedio". Per di più, scrive Owen, l’economia continua a declinare, con Mario Draghi, il governatore della Banca d’Italia, "indicato da alcuni come possibile premier a interim" se Berlusconi dovesse dimettersi, che questa settimana ha accusato il governo di "non avere una credibile via d’uscita" dalla recessione. L’articolo sottolinea che Berlusconi ha dovuto posticipare la discussione di una legge che dovrebbe multare severamente i clienti delle prostitute a causa dell’imbarazzo che provocherebbe un dibattito sul tema in parlamento alla luce degli incontri tra il premier e le escort e per la definizione che di lui ha dato il suo avvocato come "utilizzatore finale" di tali servigi.
Il Times rileva che Berlusconi affida sempre più spesso il compito di apparire in pubblico in sua vece al "fidato luogotenente Gianni Letta", dando la colpa all’artrite che lo affligge, per cui riceve iniezioni di cortisone. L’articolo si conclude ipotizzando che la salute "potrebbe essere una scusa" per rassegnare le dimissioni e prevede che le pressioni per dimettersi continueranno anche in autunno.
Il paginone del Times è illustrato da un ampio grafico che ricostruisce "la ragnatela" dei rapporti fra tutti i personaggi che ruotano attorno a Berlusconi e che sono coinvolti in qualche modo nello scandalo, da Veronica Lario alla cosiddetta "ape regina" Sabine Began, da Noemi Letizia alla escort Patrizia D’Addario; e un riquadro a parte cerca di spiegare ai lettori inglesi il significato di termini come "velina", "meteorina" e "valletta", il nuovo vocabolario della politica italiana al tempo di re Silvio.
* la Repubblica, 27 giugno 2009
Minacce e disperazione
di EZIO MAURO *
Con un passo in più verso il suo personale abisso politico, ieri Silvio Berlusconi si è collocato all’opposizione rispetto all’establishment internazionale di cui dovrebbe far parte come imprenditore e come capo del governo italiano. Sentendosi assediato dall’imbarazzo che lo circonda fuori dal paesaggio protetto del suo mondo televisivo, il premier ha attaccato tutto il sistema libero e autonomo che non accetta di farsi strumento del suo dominio: Banca d’Italia, organismi di analisi e di controllo internazionale, Europa, e naturalmente "giornali eversivi", vale a dire Repubblica.
Questa volta la minaccia è esplicita e addirittura sguaiata nella sua prepotenza, se non fosse un segno chiaro di disperazione. Il Cavaliere annuncia infatti che "chiuderà la bocca" a "tutti quei signori che parlano di crisi", alle organizzazioni che "continuano a diffondere dati di calo dell’economia anche di 5 punti", come ha appena fatto nel doveroso esercizio della sua responsabilità il governatore Draghi e come fanno regolarmente istituzioni neutre, libere e autorevoli nel rispetto generale dei leader democratici di tutto l’Occidente.
Nello stesso tempo Berlusconi rilancia la sua personale turbativa di mercato, invitando esplicitamente gli investitori a "minacciare" il ritiro della pubblicità ai giornali che a suo giudizio diffondono la paura della crisi.
Davanti a un premier imprenditore ed editore che chiede agli industriali di "minacciare" i giornali, con l’eco puntuale e ridicola del ministro Bondi che replica l’accusa di eversione a Repubblica, ci sarebbe poco da aggiungere. Se non notare una cosa: è la prima volta che Berlusconi esplicita la sua vera intenzione verso chi sfugge alla pretesa impossibile di narrazione unica della realtà.
Tecnicamente, si chiama pulsione totalitaria: anche se la deriva evidente del Cavaliere consiglia di considerarla soprattutto velleitaria, e a termine.
* la Repubblica, 27 giugno 2009
Per il Colle si è consumato uno strappo
di Vincenzo Vasile *
Che ha detto Berlusconi a Napolitano nel chiuso di quella sala del Quirinale? «È venuto per chiarire le sue posizioni», (insomma: la lettera a Schifani con cui ha dichiarato guerra ai magistrati e motivato i suoi emendamenti surgela-processi). E Napolitano che cosa ha risposto? «Ha riproposto le sue note posizioni, recenti e passate: l’aver presentato da parte del governo emendamenti ai decreti legge in corso di discussione parlamentare, significa far venire meno i poteri di controllo costituzionale da parte del Quirinale e insieme rischia di aprire un conflitto con l’opposizione». Due posizioni antitetiche. Che non si sa quale raffinata diplomazia istituzionale potrà prevedibilmente sciogliere e smussare.
La giornata del «vis-a-vis» tra i due presidenti ha avuto un andamento frenetico e contraddittorio. Un rimbombante tam tam da palazzo Chigi avvertiva sin dal primo pomeriggio: Berlusconi sta salendo al Colle, e ora «si spiegherà» con Napolitano (si intende: non solo sugli emendamenti, ma sulla sempre più evidente intenzione dello stesso premier di improntare in chiave muscolare i suoi rapporti non solo con l’opposizione e i magistrati, ma con la presidenza della Repubblica). Dagli uffici del Quirinale, pressati dai cronisti, si confermava in un primo tempo semmai una prossima visita, a orario imprecisato, del ministro Giulio Tremonti, sui temi dell’economia. Passavano le ore, e in effetti «il presidente del Consiglio, con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, on. Giulio Tremonti, e il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, dott. Gianni Letta», informava un freddo comunicato.
Solo la visita di Tremonti, vale a dire, era calendarizzata, e Berlusconi si è presentato un po’ a sorpresa nell’ufficio di Napolitano, con un brevissimo preavviso, e per allentare la tensione le fonti del Quirinale preferiscono cogliere anziché le modalità irritali dell’incontro, l’atto di riguardo di Berlusconi nei confronti del presidente. Staranno lì fino al tramonto - pressappoco due ore, dalle 17 fino a quasi le 19 - e in tutto quel tempo - anche se viene riferito che gran parte del tempo si è discusso di economia e di finanza - ci sarà stato evidentemente modo di diffondersi sui temi caldi dello scontro politico e sui risvolti istituzionali del blitz di Berlusconi.
Ma il comunicato della presidenza gela qualsiasi curiosità e illazione, con un’improbabile delimitazione dell’ordine del giorno della riunione all’illustrazione da parte degli esponenti del governo delle «linee dell’imminente manovra economica e finanziaria», che saranno importantissime, ma che allo stato dei fatti non sembrano costituire il cuore del problema. Non una parola di più dell’ufficialità, dunque. Napolitano non vuole interferire sulla discussione parlamentare.
Il motto «quando il Parlamento discute, il presidente tace», lo aveva coniato a metà del suo settennato Carlo Azeglio Ciampi. Ma presto era stato costretto dall’aggressività politica e mediatica dello stesso Berlusconi ad aprire le maglie delle sue esternazioni per non rimanere sommerso dalle indiscrezioni di parte governativa, tese ad alimentare lo scontro con il Colle.
Il copione si ripropone ora con Napolitano, che chiude a riccio la comunicazione. E dal Colle si lascia intendere che la presentazione degli emendamenti congela-processi ha costituito un fatto destinato a pesare. Il governo ha fatto venire meno, aggirandola, e su materie così delicate e senza le rituali e informali preconsultazioni la prerogativa presidenziale di valutazione di legittimità dei provvedimenti del governo. Che in questo caso, infatti, è rimasta ristretta nei confini del testo del decreto originario, che come si sa è stato firmato da Napolitano. In linea teorica, entro sessanta giorni in sede di eventuale conversione del decreto legge, la palla tornerebbe, però, al Quirinale. Che dovrebbe, anche, valutare gli effetti di una eventuale sua bocciatura (integrale o parziale).
Il testo e la prassi costituzionale consentono, infatti, al capo dello Stato di rinviare alle Camere per una nuova deliberazione quelle norme che palesemente violino la carta fondamentale; ma pure impongono di valutare effetti e opportunità di un simile gesto. Si tratterebbe di un atto estremo e foriero di una situazione di braccio di ferro istituzionale, che proprio durante la presidenza del predecessore di Napolitano vide il centrodestra impegnarsi in un furbesco ping pong con il Colle, ripresentando le leggi contestate dal presidente - non solo sull’informazione televisiva ma anche, per l’appunto, sulla giustizia - con l’espediente del barocco abbellimento di un restyling formale e illusorio. E se c’è una cosa certa è che Napolitano non si rassegnerà a certificare un progressivo irrimediabile e definitivo strappo della tela del dialogo tra maggioranza e opposizione, e tanto meno tra i poteri dello Stato che controcorrente e cocciutamente non si stanca di auspicare. Da palazzo Chigi sinora si avvertono solo timidissimi segnali di resipiscenza. E i due presidenti si sono freddamente «chiariti», ieri nel senso che la pensano - in senso formale e sostanziale - in maniera radicalmente opposta. Da ora in poi, dunque, stando così le cose dalle parti di Palazzo Chigi niente più preconsultazioni con il Colle sulle procedure. Napolitano si riserva di valutare le leggi dopo l’approvazione parlamentare.
* l’Unità, Pubblicato il: 18.06.08, Modificato il: 18.06.08 alle ore 12.58
Regime leggero, parole pesanti
di Ida Dominijanni (il manifesto, 17.06.2008)
«Regime leggero», democrazia non più antifascista ma a-fascista nonché a-politica, aveva disgnosticato giovedì scorso Fausto Bertinotti nella sua analisi delle «ragioni della sconfitta». Un fine settimana e il tema si è arroventato, complici da un lato un’uscita di Giulio Tremonti sull’impoverimento dei ceti medi che comporterebbe un rischio di fascismo, dall’altro le decisioni del governo su intercettazioni, esercito a guardia della sicurezza, emendamento salva-Berlusconi.
Per Eugenio Scalfari (Repubblica), queste ultime sono la prova che «non sarà fascismo, ma è un allarmante incipit verso una dittatura che si fa strada in tutti i settori sensibili della vita democratica, complici la debolezza dei contropoteri, la passività dell’opinione pubblica e la sonnolenta fragilità delle istituzioni»; ragion per cui il Pd farebbe bene a decidere che non c’è più alcuna possibilità di dialogo con il governo.
Per Piero Sansonetti (Liberazione) Tremonti ha ragione oltre le sue intenzioni: il rischio-fascismo s’è già inverato in una «svolta illiberale e autoritaria», che comprende l’interruzione della curva di crescita delle libertà collettive e individuali, alcune rotture dello stato di diritto, la semplificazione del sistema politico a spese del pluralismo e della rappresentanza, il ritorno del classismo, la sostituzione dei valori di solidarietà e giustizia sociale con principi gerarchici e d’ordine. Giudizi che le cautele di tre storici (Piero Melograni, Emilio Gentile, Lucio Villari) intervistati dal Corsera, convinti che il fascismo sia un fenomeno novecentesco non riproducibile oggi, non bastano a controbilanciare. Non chiamiamolo fascismo, ma il problema di una frattura fascistoide della democrazia costituzionale, di un salto di forma della Repubblica (che non coincide con il gioco della sua numerazione in prima, seconda e terza), c’è ed è sotto la vista di chiunque non guardi, per dirla alla Kubrik, «a occhi completamente chiusi».
Il problema, però, non è solo di nome e nemmeno solo di diagnosi, ma di analisi, e ha ragione Paolo Franchi, sul Corsera di ieri, a farlo presente. Gli appelli al risveglio delle opposizioni, scrive Franchi, suonano tanto drammatici quanto poco convincenti, «forse perché sono poco convincenti le analisi che li sorreggono», e anche perché di un rischio-regime si parla dal ’94 in poi a ogni governo Berlusconi, senza che fin qui - e per fortuna - questo rischio si sia effettivamente inverato. «Denunciare con parole di fuoco il rischio che quello che non è capitato finora stia per succedere adesso è sicuramente più facile, ma altrettanto sicuramente meno produttivo, che guardare impietosamente dentro questo quindicennio e dentro se stessi per provare a essere oggi sul serio opposizione, domani governo. Era davvero inevitabile che la transizione italiana avesse un esito di destra?». Domanda ineludibile, eppure a tutt’oggi quasi improponibile, come se per rispondere mancasse la profondità storica - ma 15 anni a far data da Tangentopoli, quasi 20 a far data dall’89, cominciano a essere tanti - o la coerenza di un’ipotesi di interpretazione politica.
Eppure senza porsela e senza tentare di rispondere, è difficile se non impossibile sia la valutazione della deriva di regime, sia l’indicazione di una prospettiva di opposizione o di alternativa. Perché è vero - e Franchi forse lo sottovaluta - che il quadro di oggi è per certi versi peggiore di quello del ’94: per la scomparsa della sinistra (non solo radicale) dalla scena, per la tendenza alla stabilizzazione, e non come nel ’94 alla destabilizzazione, del sistema che il voto del 13 aprile ha espresso. Ma è altrettanto vero - e questo invece lo sottovaluta Scalfari - che le derive di regime che oggi hanno libero corso nell’attività di un governo privo di opposizione erano già tutte, ma proprio tutte presenti nella vittoria berlusconiana del ’94. E che dal ’94 a oggi, non c’è stata nell’opposizione a Berlusconi né chiarezza né costanza su quanto e come andassero avversate e contrastate.
Per scomporre in altre domande la domanda sull’esito della transizione: era inevitabile affidarsi a una soluzione giudiziaria della fine della «prima Repubblica» all’inizio degli anni ’90? Era inevitabile partecipare alla delegittimazione della Costituzione giocherellando con riforme che di fatto servivano solo a disfare lo stato sociale e a rafforzare i poteri dell’esecutivo? O derubricare l’importanza di alcune libertà (si vedano le vicende della legge 40 e dei Pacs) per tenersi buone le gerarchie vaticane? O credere fino in fondo alle metamorfosi democratiche di Fini, o alle buone ragioni settentrionaliste di Bossi? O accettare e incoraggiare forma e vocazione dell’attuale Pd?
Era inevitabile (già dalle leggi d’emergenza di fine anni 70) considerare opzionali i vincoli dello stato di diritto? Soprattutto: era inevitabile sacrificare alla «normalità» della democrazia maggioritaria lo svuotamento della democrazia costituzionale? Sono solo alcuni esempi di domande possibili e obbligate. Non spetta alla destra rispondere.
La mossa del premier legata alle "manifestazioni di inimicizia di Nicoletta Gandus"
La reazione del procuratore della Repubblica Manlio Minale: "Sono solo illazioni"
Mills, Berlusconi ricusa il giudice
Scontro tra il Cavaliere e i magistrati
La reazione dell’Anm: "Chi governa non può denigrare le toghe" *
ROMA - Torna lo scontro sulla giustizia. Tornano gli attacchi ai giudici "di sinistra" lanciati da Silvio Berlusconi. Torna la teoria del "complotto" contro il premier ad opera delle toghe. Tornano i magistrati che si vedono attaccati da "invettive tanto veementi quanto ingiustificate".
L’aveva annunciato nella lettera che ieri aveva spedito al presidente del Senato, Renato Schifani e oggi l’ha fatto. Berlusconi ha ricusato il giudice Nicoletta Gandus chiamata a decidere del processo in cui il Cavaliere e il legale inglese David Mills, sono accusati di concorso in corruzione in atti giudiziari. Una mossa, si legge nell’istanza presenta dai legali del premier, legata alla "reiterate manifestazioni di pensiero che appalesano una inimicizia grave" nei confronti di Berlusconi. E nell’istanza si sottolinea anche come il giudice Gandus "appaia tra i soggetti potenzialmente danneggiati nel processo collegato, da cui nasce il presente processo, avendo posseduto azioni Mediaset ed essendo quindi fra quei soggetti che potenzialmente avrebbero potuto costituirsi parte civile".
A ben vedere l’istanza è basata, fondamentalmente, su alcune prese di posizione del giudice su alcuni siti internet contro leggi varate dal precedente governo guidato da Berlusconi. In particolare la Gandus, insieme a uno dei due pm del processo, Sergio Spadaro, "è stata firmataria di un appello contro la decisione del governo Berlusconi di prorogare il procuratore nazionale antimafia".
Un attacco durissimo quello del premier, che non resta senza conseguenze. Per primo reagisce il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, Manlio Minale: "Respingo con forza queste illazioni, le indagini sono state condotte nel più assoluto rispetto delle garanzie della difesa e nell’esclusiva ottica dell’accertamento della verità". Poi è la volta dell’Anm che solo pochi giorni fa aveva salutato un "miglioramento" del clima dei rapporti tra politica e magistratura: "Chi governa il paese non può denigrare e delegittimare i giudici e l’istituzione giudiziaria quando è in discussione la sua posizione personale" dicono il presidente del sindacato delle toghe Luca Palamara e il segretario Giuseppe Cascini esprimono.
In attesa della prossima udienza prevista per venerdì prossimo, Minale taglia corto: "All’esito di un dibattimento iniziato in data 13 marzo 2007 e prossimo alla conclusione, il tribunale deciderà in ordine alla fondatezza o meno delle accuse". Fatti dunque e non illazioni.
* la Repubblica, , 17 giugno 2008.
Lo Stato ad personam
di Nicola Tranfaglia *
La delibera unanime della Federazione europea dei giornalisti che, l’altro ieri a Berlino, ha condannato, per palese incostituzionalità e violazione di molti trattati internazionali il disegno di legge Berlusconi-Ghedini-Alfano che limita di fatto le intercettazioni telefoniche ad alcuni reati (per i sacerdoti è previsto in più il consenso dei vescovi) e prevede per i giornalisti che pubblichino le relative notizie il carcere da uno a tre anni e l’ammenda da 500 a oltre mille euro, sta suscitando crescenti proteste nell’opinione pubblica italiana e internazionale.
Storici e giornalisti (a cominciare da Eugenio Scalfari) si chiedono il significato della svolta (ammesso che lo sia) del nuovo governo di destra verso un ottuso autoritarismo di cui sembrano segni concomitanti l’emendamento al Senato per ripristinare una sorta di lodo Schifani e l’impiego dell’esercito nelle città. A chi scrive pare, piuttosto, che l’azione del presidente del Consiglio e del suo governo rifletta il riprodursi (come era già avvenuto nel quinquennio 2001-2006) di una visione naturalmente antidemocratica e l’impossibità di un cedimento al dialogo istituzionale da parte dell’opposizione parlamentare del Pd e dell’Udc. A proposito delle intercettazioni telefoniche, vale la pena ribadirlo, entrano in gioco tre principi costituzionali: l’interesse alla giustizia, quello alla libertà di informazione e quello alla riservatezza dei cittadini.
Il disegno di legge (in 17 articoli) Berlusconi-Ghedini-Alfano sembra di fatto tener conto in maniera prevalente del diritto alla privacy e poco o nulla degli altri due principi. Si limita drasticamente il ricorso alle intercettazioni come strumenti di indagine giudiziaria nel caso di tutti i reati che comportano pene edittali inferiori ai dieci anni e l’elenco dei casi di divieto prevede lo scippo, il furto, il furto in appartamento, la truffa, la ricettazione, l’incendio, la calunnia, le false informazioni al pubblico ministero, le rivelazioni del segreto di ufficio, la calunnia, la falsa testimonianza, la ricettazione e persino l’associazione a delinquere. Basta scorrere l’elenco per rendersi conto che ci sono ipotesi gravi di reati ma anche fattispecie che possono rivelare, se si usano le intercettazioni, vicende oscure che è dovere indubbio dei pubblici ministeri perseguire non soltanto per l’obbligo costituzionale di procedere all’azione penale ma anche perché sono vicine ad altre e più gravi fattispecie.
Possiamo dire per questo primo aspetto che si tolgono ai Pm armi essenziali che in altri paesi sono date addirittura ai corpi di polizia (come in Francia, Germania e Stati Uniti) per esercitare il necessario controllo sociale contro l’azione della criminalità individuale e organizzata. I meccanismi ipotizzati per superare questi divieti sono ancora peggiori perché tolgono al singolo magistrato inquirente l’autonomia che gli dà la Costituzione e trasferiscono a un collegio di tre giudici la possibilità di decidere eccezioni rispetto alla norma generale autorizzando singole indagini. Qui si vede con chiarezza come ci sia da parte del governo l’incomprensione profonda dell’autonomia della magistratura e della divisione dei poteri che sono proprie del testo approvato nel 1948.
Il secondo aspetto che va sottolineato riguarda un altro controllo necessario rispetto all’azione della criminalità ed è quello della pubblica opinione e, dunque, dei mezzi informazione giornalistici e televisivi.
Prevedere, in generale, una sanzione penale da uno a tre anni per giornali e tv che pubblichino intercettazioni prima del dibattimento processuale (a quel punto siamo di fronte a documenti pubblici in quanto forniti alle parti processuali) è assai grave. In parte per ragioni di fatto. La lentezza e la lunghezza dell’iter processuale nel nostro paese che dura più anni e, in più del cinquanta per cento dei casi non arriva al processo, concludendosi con un patteggiamento tra le parti fanno sì che una simile norma porterebbe, nella maggior parte dei casi, al silenzio dell’informazione su vicende clamorose e significative o alla pubblicazione di particolari dopo che sono passati molti anni dagli avvenimenti e, quindi, con un’efficacia pedagogica minore o nulla rispetto proprio all’opinione bombardata da continui messaggi.
Al di là delle assurde sanzioni contro giornalisti che cercano di fare il proprio lavoro sulla base dell’articolo 21 della Costituzione, ci troveremmo di fronte a una forte lesione del diritto fondamentale dei cittadini a essere informati che è un principio essenziale del nostro vivere civile.
Il sospetto sui i veri obbiettivi della legge come sulla tattica manipolativa che usa il governo Berlusconi in questi casi è inevitabile. I veri obbiettivi hanno al centro il pericolo che le indagini giudiziarie possano toccare proprio Berlusconi e il suo governo. Di qui la forte limitazione dei reati intercettabili, la ripresa del lodo Schifani e l’urgenza del provvedimento. Ed è significativo il modo di procedere. In un primo tempo il capo del governo in una grande occasione mediatica lancia in termini generali (ed esagerati) l’editto e si parla addirittura di cinque anni di carcere per tutti, poi interviene la Lega Nord che chiede e ottiene un’estensione dei reati intercettabili insistendo su corruzione e concussione amministrativa che fanno pensare a una lotta che non esclude le classi dirigenti. Berlusconi, a questo punto, accetta le correzioni e in Consiglio dei ministri arriva a una soluzione solo in apparenza mediana ma che conserva tutti gli errori e la violazione ai principi costituzionali ma con un abbassamento delle pene e un certo strizzare l’occhio verso i giornalisti che, se incensurati,forse non andrebbero in carcere.
Bisogna dire che si tratta di una strategia abile, capace probabilmente di darla a bere a cittadini distratti o poco interessati. Ma il disegno di legge, se resta nei termini descritti, porta a una forte diminuzione della possibilità per i magistrati di indagare con le intercettazioni, per i giornalisti di far esercitare il controllo sociale sulla criminalità, per i cittadini di essere informati su quel che succede in questa Italia.
* l’Unità, Pubblicato il: 17.06.08. Modificato il: 17.06.08 alle ore 8.20