GOLPISMO ’IN PROGRESS’. UN CITTADINO HA RUBATO IL NOME DI TUTTO UN POPOLO E NE HA FATTO LA BANDIERA DEL PROPRIO PARTITO PERSONALE E REALIZZATO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA POLITICA ITALIANA...

LA MAGISTRATURA IN UNA DEMOCRAZIA MORIBONDA, SUICIDATA DA UN POPOLO CHE HA PERSO IL SUO NOME E IL SUO ONORE AL GRIDO DI "FORZA ITALIA"!!! Alcune amare riflessioni di Giancarlo De Cataldo

sabato 10 gennaio 2009.
 

[...] In fondo, mentre l’idea di giustizia, nella sua astratta formulazione, è immanente nell’uomo, i sistemi concreti per la sua attuazione sono storicamente dati, e dunque transeunti. Qualcuno dovrà pur sempre giudicare, s’intende: ma perché un giudice? In fondo, un funzionario dotato di un bagaglio di competenze tecniche è facilmente fungibile: con un amministratore pubblico, un giornalista, un esperto di mass-media, un hacker, quisque de populo estratto a sorte da un sofisticato grande fratello oppure, perché no, un’intelligenza artificiale opportunamente programmata.

E i giudici? Quelli che "non ci stanno" tutti a Siena: a contemplare, mescolati a milioni di altri esseri umani antropologicamente consonanti, le Allegorie del Buono e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti (XIV secolo). La prima opera civile dell’arte italiana, secondo Argan. Dove per Buon Governo s’intende nient’altro che la separazione dei poteri, e cattivo è il governo nel quale il Tiranno cerchi di attrarre nella propria sfera di controllo, dominandola, la Giustizia. A contemplare, con nostalgia quell’antica saggezza in via di liquidazione. Chiedendosi per quale scherzo del destino siano nati nel tempo, e forse nel paese, sbagliati [...]


-  Toghe e politici
-  In un sistema democratico un magistrato libero è un magistrato scomodo

Finché i giudici sedevano alla mensa dei potenti nessuno li accusava di tentazioni golpiste

di Giancarlo De Cataldo (l’Unità, 10.1.2009)

Ciò che definiamo crisi della giustizia non è altro che la conseguenza inevitabile della combinazione di alcuni principi fondamentali del nostro sistema costituzionale a proposito del potere giudiziario». Così, a metà degli anni Ottanta, Giovanni Tarello, compianto studioso liberale. Una crisi strutturale tra i poteri dello Stato è fisiologica, se il giudice è soggetto alla legge e il PM non dipende dall’esecutivo; se la Corte Costituzionale può essere attivata da un singolo magistrato nel corso di un singolo processo; se il CSM è il garante irresponsabile (verso il Parlamento) dell’indipendenza dell’ordine giudiziario. Poteva quindi ben concludere Tarello che esiste «una crisi, o disfunzione, endemica, perché indotta da strutture che determinano comunque tensioni tra i poteri». I giudici, insomma, sono politicizzati e inaffidabili per qualunque maggioranza politica perché i meccanismi costituzionali possono di per sé determinare uno stato di attrito permanente tra i poteri politico e giudiziario.

Si potrebbe obbiettare che la Costituzione risale al ’48, e tutto ha funzionato perfettamente sino a metà degli anni Sessanta: o, se si vuole, che sino a questa data i giudici erano ancora sani di mente e antropologicamente compatibili con il sistema. Obiezione respinta. Il sistema, pur contenendo in sé il germe della crisi, ha retto finché tra i poteri è esistita un’armonia «culturale» che ne mascherava il difetto di fabbricazione. Finché i giudici - tutti i giudici - sedevano, gai commensali o convitati di pietra, alla mensa dei potenti, nessuno si sognava di accusarli di tentazioni golpiste. È stato il dinamismo indotto dalle trasformazioni sociali degli anni Sessanta a mettere in moto la macchina costituzionale. La liberalizzazione degli accessi ha promosso un diffuso interclassismo in carriere un tempo riservate ai gruppi dirigenti.

L’ingresso delle donne in magistratura (metà anni ’60) ha portato alla ribalta temi prima negletti. Parte della corporazione ha mostrato una forte ricettività verso i fermenti in atto nella società civile. Alcuni dei tradizionali sistemi interni di controllo (l’autorità dei capi, la funzione uniformatrice della Cassazione) sono stati ridimensionati, altri (promozioni e avanzamenti di carriera) pretermessi del tutto. Un complesso di fattori ha dunque reso i giudici, non tutti, ma buona parte di essi - non più malleabili, non più governabili come un tempo: in una parola, culturalmente distonici, e, dunque, antropologicamente diversi.

Per certi strati della società siamo dei «traditori di classe»; per altri resteremo sempre, qualunque sia la nostra evoluzione, il braccio secolare della repressione, i tradizionali alleati del Potere. Della forte dialettica interna che attraversa la Magistratura filtra, all’esterno, poco o niente. Alcuni vorrebbero proprio fare a meno di noi; altri si rifugiano nel rimpianto di una figura idealizzata, e non so quanto autentica, di alto, nobile, ieratico magistrato d’antan. Il custode della proprietà privata e della rispettabilità borghese.

Da vent’anni a questa parte si fanno, o si annunciano, riforme che si basano tutte su due cardini: da un lato, rimodellare la Costituzione, in modo da dirimere, una volta per tutte, l’endemico conflitto tra i poteri; dall’altro, ridefinire il ruolo e la figura «sociali» del magistrato. Il sistema ne risulta squilibrato, stressato da un continuo «stop-and-go» nel quale si inseriscono furberie, espedienti, regolamenti di conti, improvvise «illuminazioni» che mutano accaniti «giustizialisti» in angelici garantisti (prassi molto diffusa, di recente, a sinistra).

Ma poiché, per un’elementare legge fisica, nessun sistema può sopravvivere a lungo in condizione di crisi, presto si dovrà raggiungere il sospirato punto di equilibrio. Separazione delle carriere; controllo del PM da parte dell’Esecutivo; azione penale discrezionale; mutazione genetica del CSM; ripristino della funzione «nomofilattica» della Cassazione; modifica dei meccanismi di selezione professionale; reclutamento degli avvocati anziani; recupero dell’autorità dei capi; meritocrazia reddituale: queste le ulteriori riforme che si rendono necessaria al completamento dell’opera. Tutte sono già da tempo nell’agenda politica, e prima o poi, in tutto o in parte, verranno varate.

Intendiamoci: in una democrazia rappresentativa, sono gli elettori, in ultima analisi, a scegliersi il proprio modello di magistrato. Ma sarebbe quanto meno corretto informare i cittadini delle conseguenze. Alcuni dei modelli proposti sono già stati sperimentati altrove, e con esiti ben noti: il giudice eletto dal popolo, per esempio, piuttosto che all’osservanza delle leggi punterà - fatto umanamente comprensibile e politicamente previsto dagli architetti del sistema - alla sua rielezione. O a fare comunque carriera in politica.

Il primato della legge sarà inesorabilmente sostituito da quello del sondaggio. Qualcuno, magari un ricco imprenditore, sovvenzionerà generosamente la sua campagna elettorale. Il giudice eletto gliene sarà grato. Idem per quanto riguarda il Pubblico Ministero, legato alla maggioranza di governo, sia esso regionale, federale o nazionale, nonché esecutore incaricato di un «programma di politica criminale» che poi, alla scadenza del mandato, viene sottoposto al giudizio degli elettori.

Facile, in una siffatta strutturazione, un cursus honorum all’insegna della piena osmosi fra politica e giustizia: chiamatelo, se vi piace, do ut des istituzionale. Potrebbero persino, in una simile prospettiva, essere riesumate antiche leggi nazionali, come la nr. 2300 del 24.12.1925, norma grazie alla quale Mussolini dispose la dispensa dal servizio dei magistrati che «per ragioni di manifestazioni compiute in ufficio o fuori ufficio non dessero piena garanzia di un fedele adempimento dei loro doveri o si ponessero in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del governo». Eletto o nominato dal Governatore, e non più vincitore di concorso; soggetto alle leggi, ma previa autorizzazione governativa; dipendente dalla maggioranza all’esterno e pesantemente responsabile verso gli anziani capi negli interna corporis, il nuovo giudice sarà laborioso, fedele, silenzioso, felicemente ignorante. Potrà lavorare in santa pace, finalmente, questo nuovo giudice, così simile, per tanti versi, al modello tradizionale impresso nel DNA della collettività?

In altri termini: cambiare la Costituzione e modificare i giudici servirà a far tornare la pace nel mondo della giustizia? Quando penso alle tensioni che in tutti i Paesi a noi più vicini, dalla Spagna, alla Francia, al Belgio agli stessi USA, attraversano il rapporto tra politica e giustizia; quando penso che in tre quarti del globo i diritti umani sono sistematicamente ignorati; quando penso che in Sudafrica, per superare la guerra civile, hanno semplicemente fatto a meno dei processi contro i torturatori, non posso fare a meno di chiedermi se anche la rivoluzione che stiamo vivendo non sia che una tappa di avvicinamento a qualcosa di ancora più radicale, di quasi definitivo.

In fondo, mentre l’idea di giustizia, nella sua astratta formulazione, è immanente nell’uomo, i sistemi concreti per la sua attuazione sono storicamente dati, e dunque transeunti. Qualcuno dovrà pur sempre giudicare, s’intende: ma perché un giudice? In fondo, un funzionario dotato di un bagaglio di competenze tecniche è facilmente fungibile: con un amministratore pubblico, un giornalista, un esperto di mass-media, un hacker, quisque de populo estratto a sorte da un sofisticato grande fratello oppure, perché no, un’intelligenza artificiale opportunamente programmata.

E i giudici? Quelli che "non ci stanno" tutti a Siena: a contemplare, mescolati a milioni di altri esseri umani antropologicamente consonanti, le Allegorie del Buono e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti (XIV secolo). La prima opera civile dell’arte italiana, secondo Argan. Dove per Buon Governo s’intende nient’altro che la separazione dei poteri, e cattivo è il governo nel quale il Tiranno cerchi di attrarre nella propria sfera di controllo, dominandola, la Giustizia. A contemplare, con nostalgia quell’antica saggezza in via di liquidazione. Chiedendosi per quale scherzo del destino siano nati nel tempo, e forse nel paese, sbagliati.


Sul tema, nel sito, si cfr.:

-  COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
-  C’E REGIME O NON C’E’ REGIME IN ITALIA?!
-  CARO ZAGREBELSKY, SVEGLIA: IL GOLPE E’ GIA’ STATO FATTO!!! ’L’ITALIA SONO IO’: ’FORZA ITALIA’!!!
-  E IL ... POPOLO DELLA LIBERTA’ E’ GIA’ NATO!!!

1994-2008: LA LUNGA E BRILLANTE CAMPAGNA DI GUERRA DEL CAVALIERE DI "FORZA ITALIA" CONTRO L’ITALIA. Alcuni documenti per gli storici e i filosofi del presente e del futuro

BUON NATALE, BUON ANNO, AUGURI, PRESIDENTE NAPOLITANO. NEL RICORDO DI SANDRO PERTINI, SI RIPRENDA "LA PAROLA" E RILANCI IL SUO INCITAMENTO: FORZA ITALIA!!! BUON 2009 ALL’ITALIA!!!


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