SCUOLA DI FRANCOFORTE. Teoria critica....

MARCUSE. Herbert Marcuse, il filosofo mito del ’68: un’eredità controversa. Una riflessione di Gian Enrico Rusconi - a cura di Federico La Sala

alcuni dei suoi saggi sono densi, ben radicati in una certa tradizione del pensiero europeo e intellettualmente più stimolanti di parecchi discorsi di filosofi-da-intrattenimento.
domenica 20 aprile 2008.
 


Marcuse chi era costui?

Il filosofo mito del ’68: un’eredità controversa

di GIAN ENRICO RUSCONI (La Stampa, 20/4/2008)

Marcuse, chi era costui? Nato in Germania nel 1898 aveva assorbito profondamente tutti gli umori di quella irripetibile esperienza culturale e politica che fu la Republica di Weimar. Aveva conosciuto e ammirato (come tutti, del resto, a quel tempo) Martin Heidegger; aveva messo insieme ontologia heideggeriana e marxismo critico, militando nel contempo nei movimenti di sinistra. Andato in esilio in America per ragioni razziali, ha mantenuto e approfondito i contatti con quella singolare comunità di studiosi ebreo-tedeschi, che si sarebbe fatta conoscere poi come «teoria critica», o anche come Scuola di Francoforte, i cui esponenti di spicco erano Max Horkheimer e Theodor W. Adorno. Il sodalizio è durato durato tutta la vita, carico di intime affinità ma anche di sensibilità assai diverse.

I principali libri che segnano le tappe dello sviluppo teorico marcusiano sono Ragione e rivoluzione (1954), Eros e civiltà (1955) L’uomo ad una dimensione (1964). Ad essi aggiungere i saggi raccolti in Cultura e società (1965). Stese in America, tradotte e diffuse in Europa a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, queste opere avrebbero influenzato (epidermicamente) la generazione del ’68 ma forgiato il linguaggio dei suoi portaparola. È interessante notare che la principale produzione marcusiana precede l’esplosione e l’impatto con il ‘68. A voler essere precisi la connotazione cronologica ormai incorreggibile («il Sessantotto») non riproduce la vicenda tedesca in cui Marcuse è coinvolto che va retrodatata almeno di un paio d’anni. Marcuse infatti si espone pubblicamente in prima persona già nel maggio 1966 nella prima grande manifestazione giovanile e studentesca contro la guerra in Vietnam. Ma è l’anno successivo (1967) che segnala l’apice drammatico della protesta anche per le violenze che lo accompagnano. Nello stesso anno Marcuse scrive il suo libro mirato intenzionalmente al movimento cui non riparmia le critiche, La fine dell’utopia (1967) cui seguirà qualche anno dopo (1973) Controrivoluzione e rivolta (1973). Si tratta di scritti di intervento politico che non possono essere presi come espressione del pensiero marcusiano tout court.

Dico questo non per sminuire gli errori di valutazione e le ingenuità di Marcuse nei confronti del movimento al quale - ripeto - rivolge obiezioni precise, negandogli tra l’altro (anche se con incongruenza) la presunzione di rappresentare «il nuovo soggetto rivoluzionario», mettendolo in guardia dall’attivismo fine a se stesso e dall’uso gratuito della violenza. Ma non c’è dubbio che la diagnosi catastrofica del tardo-capitalismo, della «società affluente», presentata esclusivamente nei suoi tratti autoritari e repressivi, fascistizzata, diagnosi accompagnata dalla teoria dei «nuovi bisogni» emancipatori e quindi dall’invito alla «liberazione della nuova sensibilità» e dell’eros, dall’appello al «grande rifiuto» - contenevano un’infinità di equivoci. Non a caso Marcuse sarà costretto a rettificare alcune delle sue tesi più dirompenti sulla legittimità della violenza rivoluzionaria, esposte anni prima nel suo celebre saggio sulla «tolleranza repressiva» (1966). In esso giustificava «il diritto naturale» alla rivolta degli oppressi nelle società democratiche. Ma allora - ci si chiede oggi - se il rapporto con il movimento di protesta è ambiguo, se la diagnosi del tardo-capitalismo e della società liberal-democratica presentata come autoritaria e repressiva è sbagliata, se la teoria dei «nuovi bisogni» è equivoca - quale Marcuse merita di essere riletto?

Premesso che un autore può essere intellettualmente interessante, anche se rimane criticabile, il pensiero di Marcuse testimonia una corrente di pensiero che nel cuore del Novecento - dagli anni Trenta sino a tutti gli anni Sessanta - è stata estremamente significativa, lasciando una traccia profonda nella cultura tedesca (in parte in quella americana - non in Italia). È la «teoria critica» , una denominazione nel frattempo consolidata, anche se un po’ generica e articolata in modo diverso nei diversi autori. È un approccio tra il filosofico e il sociologico caratterizzato innanzitutto da un atteggiamento fortemente polemico verso la società contemporanea (definita tardo-capitalistica), denunciata e smascherata nelle sue insuperabili contraddizioni sociali. La «teoria citica» ha fatto proprie le categorie analitiche marxiane più in profondità di quanto non le abbiano mai concesso i marxisti doc. Le grandi opere francofortesi dalla Dialettica dell’illuminismo a L’uomo ad una dimensione sono costruite sulle categorie «scambio-ratio-dominio» all’interno di un impianto che vuol essere originale per la ripresa di motivi hegeliani e freudiani. Ma è originale soprattutto il suo stile argomentativo ed espressivo che si definisce dialettico.

In questa ottica un posto particolare ha sempre avuto la critica alla razionalità tecnologica. A questo proposito Marcuse (sulla scia di Adorno) ha coniato formule fulminanti («L’apriori tecnologico è un apriori politico») che hanno incantato i giovani di allora (senza che capissero che cosa volesse dire) e hanno fatto infuriare i filosofi sia analitici che di scuola più tradizionale. Senza lo stile argomentativo, affascinante ed ermetico ad un tempo, che nei passaggi cruciali tira fuori «la dialettica negativa», «il pensiero negativo», «l’utopia», «la ragione», «la verità» o la Kultur - non ci sarebbe la «teoria critica» in versione marcusiana o adorniana.

È facile oggi collocare questo modo di ragionare e di parlare in un cortocircuito tra utopia ed estetismo, tipico di un universo culturale e politico inconfrontabile con quello attuale. Sullo sfondo di temi odierni come «il declino dell’Occidente» «lo scontro di civiltà» , «la globalizzazione selvaggia», la «nostalgia dei valori» la diagnosi marcusiana sembra fuori dal mondo. Eppure certi motivi della sua critica alla razionalità tecnologica, ad esempio, rimangono ancora stimolanti. Il problema della razionalità della scienza e della tecnologia rimane una delle sfide concettuali e pratiche tuttora più impegnative.

Oggi citare Marcuse non è qualificante dal punto di vista accademico. Ma alcuni dei suoi saggi sono densi, ben radicati in una certa tradizione del pensiero europeo e intellettualmente più stimolanti di parecchi discorsi di filosofi-da-intrattenimento. Le teorie francofortesi e marcusiane mostrano limiti evidenti, ma sono tipiche di un orientamento europeo-occidentale «dialettico», rompere definitivamente con il quale sarebbe un errore. Non perdiamolo di vista.




SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:

-  CON MARX, OLTRE. PER LA CRITICA DEL CAPITALISMO E DELLA SUA TEOLOGIA "MAMMONICA"
-  RELAZIONE CHIASMATICA E POTERE: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, DAL "LAVORO - IN GENERALE" AL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".

-  UOMINI E DONNE. SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.

-  CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.


DOC.:

Oltre l’uomo a una dimensione

L’autorità giocosa dei ribelli

di HERBERT MARCUSE (il manifesto, 28.05.2005)

Di fronte all’attuale assurdità, quali sono oggi le possibilità della filosofia, almeno di quella filosofia che si interessa della condizione umana? Penso si possano distinguere tre alternative. La prima, semplicemente cancellando questo interesse, ovvero con la trasformazione della filosofia in una tecnica professionale. In secondo luogo, un empirismo e un comportamentismo conformisti; la reclusione della filosofia nell’universo pietrificato del discorso mutilato e dell’azione manipolata. E terzo, la radicale trasformazione della filosofia che, come vedremo, conduce all’autotrascendimento della filosofia. (...)
-  Io penso che gli sforzi per un mutamento sociale radicale si confrontino oggi con un intero universo di possibilità, idee, valori che sono stati devitalizzati, ipersubliminati, romanzati all’interno della cultura tradizionale e che ora sembrano riempirsi di realismo e di contenuto politico. Così, l’immaginazione si manifesta come facoltà razionale, come un catalizzatore del mutamento radicale. Le possibilità reali di liberazione, le possibilità reali di creare una società libera e razionale sono così immense, così estreme, così «impossibili» in termini di status quo. Esse devono trovare un modo proprio di esprimersi, devono trovare la loro strategia, il loro linguaggio, il loro stile, per non essere risucchiate nella corruzione dell’universo politico attuale e non essere sconfitte prima ancora di essere concepite. Credo che i ribelli di oggi abbiano preso coscienza di questa necessità, di questo bisogno di rompere con un passato che è ancora presente.> L’urlo della rivolta

L’apertura della società a una nuova dimensione, questa prospettiva di rottura con la sequenza di dominio e sfruttamento, ha il suo concreto fondamento, la sua base visibile nelle gravi tensioni economiche del sistema globale del capitalismo delle corporations: inflazione, crisi monetaria internazionale, accresciuta competizione tra le potenze imperialiste, aumento dello spreco e della distruzione per assorbire il surplus economico, l’opposizione militante nelle metropoli e i movimenti di liberazione nel Terzo Mondo. (....)

C’è un evento simbolico che, sebbene in se stesso transitorio e ben presto contenuto dalle strutture del potere, illumina il momento storico di svolta; mi riferisco in particolare agli eventi francesi di maggio-giugno. Su di essi è stato scritto tanto, sono state fatte classificazioni, sono stati maltrattati da sociologi e da psicologi, eppure nessuna analisi e nessuna valutazione sulle prospettive attuali della liberazione sono adeguate senza questo punto di partenza. Proverò a riassumere brevemente le implicazioni di questi eventi. Essi hanno dimostrato che il movimento per un mutamento radicale può avere origine al di fuori delle classi lavoratrici e che questa forza esterna a sua volta può attivare, come catalizzatore, una forza ribelle repressa tra le classi lavoratrici. Inoltre, e questo è forse l’aspetto più importante di questi eventi, sono emersi obiettivi, strategie e valori che hanno oltrepassato l’ottocentesca struttura concettuale e politica dell’opposizione e della politica in generale. Queste nuove strategie e questi nuovi obiettivi indicano l’emergere di una nuova coscienza, una coscienza anticipatrice, progettuale, aperta e pronta a prospettive di libertà radicalmente nuove e originali.

La posta in gioco è quindi una transvalutazione dei valori, una nuova razionalità che si contrappone non solo alla razionalità capitalistica in tutte le sue forme, ma anche a quella socialista stalinista e post-stalinista. E questa nuova coscienza esprime (e forma) una nuova sensitività e sensibilità, una nuova esperienza della realtà costituita - e repressa - che ancora la ricerca, l’urlo di liberazione nei bisogni vitali dell’uomo: nella sua «schiavitù». L’homme revolté: oggi è colui o colei i cui sensi non possono più vedere e sentire e gustare ciò che gli viene offerto, in cui gli istinti più profondi si mobilitano contro l’oppressione, la crudeltà, la bruttezza, l’ipocrisia e lo sfruttamento. E anche chi si ribella per queste ragioni contro la tradizione culturale occidentale alta - contro le sue caratteristiche affermative, conciliative, «illusorie».

Questa ribellione mira ad una desublimazione della cultura - alla revoca, l’Aufhebung del suo potere idealizzante e repressivo. E’ la protesta contro una cultura che ha sempre considerato la libertà e l’uguaglianza come valori «interiori»: libertà di coscienza e astratta uguaglianza - davanti a dio, davanti alla legge, e perciò coesistente più o meno pacificamente con l’attuale schiavitù e disuguaglianza. La protesta è contro la romanticizzazione e l’interiorizzazione dell’amore, contro l’abbellimento illusorio e la mitigazione dell’orrore della realtà. (....)

La Ragione dell’establishment

I ribelli sono consapevoli del fatto che questo obiettivo trascende tutta la ragionevolezza e la razionalità dell’establishment. Oltre la legge della Ragione (questa Ragione) c’è quella dell’immaginazione. Uno degli slogan apparsi sui muri della Sorbona nel maggio dello scorso anno recita: «tutto il potere all’immaginazione». E’ stato detto (e io condivido questa affermazione) che il quarto volume del Capitale di Marx sia stato scritto sui muri della Sorbona; potremmo aggiungere che anche la quarta Critica di Kant è stata scritta sugli stessi muri, ovvero la critica dell’immaginazione produttiva.

L’idea di ragione, la razionalità che permea l’universo costituito del discorso e del comportamento, non può più servire come guida, non è più adatta a definire gli obiettivi e le possibilità della ricerca umana, della moralità umana, della scienza umana, dell’organizzazione sociale, dell’azione politica. I concetti tradizionali si sono sviluppati e sono stati definiti in un universo di dominio e di scarsità e, dove hanno superato questi limiti storici, come nella filosofia dell’illuminismo radicale, sono rimasti per lo più astratti o separati dalla pratica storica. Una domanda sorge però spontanea: non c’è nulla oltre la razionalità costituita, nient’altro che la mera fantasia, l’invenzione, la speculazione utopica?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo ricorrere alla vecchia distinzione filosofica tra immaginazione e fantasia. L’immaginazione (produttiva) è, secondo Kant, la più importante facoltà cognitiva della mente; è il terreno di incontro tra sensibilità e intelletto, percezione e concetto, corpo e mente. Come facoltà cognitiva, l’immaginazione si pone a guida del progetto scientifico e della sperimentazione delle possibilità e capacità della materia; è giocosa, libera e, tuttavia, limitata dalla sua materia, e radicata nel continuum storico. Come facoltà cognitiva, l’immaginazione crea le opere artistiche, letterarie, musicali; e con esse crea una realtà propria, ma reale: ovvero più reale della realtà data. Parole, immagini, suoni, gesti che negano la pretesa della realtà data di rappresentare ogni realtà e la realtà generale. Negano questa pretesa nel nome delle possibilità represse delle relazioni umane, dell’uomo e della natura, della libertà.

Dovrebbe adesso essere più chiaro il significato politico dello slogan «tutto il potere all’immaginazione». Lo slogan esprime la coscienza militante delle possibilità represse e della loro capacità di rendere obsolete non solo le tradizionali teorie e strategie di mutamento, ma anche i suoi obiettivi tradizionali. Il passaggio dalla razionalità della scarsità e del dominio al regno della libertà richiede il superamento concreto di questa razionalità, esige nuovi modi di vedere, ascoltare, percepire, toccare le cose, un nuovo modo di provare a soddisfare le esigenze di uomini e donne che possono e devono lottare per una società libera. La situazione storica, quindi, trasforma l’immaginazione in un potere meta-politico e coniuga i giocosi, creativi, sensuali bisogni estetici con le severe esigente politiche. (...)

Linguaggi sovversivi

Il movimento di protesta è, quindi, costretto a sviluppare un proprio linguaggio, che deve essere necessariamente differente da quello del sistema e tuttavia deve restare comprensibile - fatto che contribuisce alla divisione del movimento in piccoli gruppi e gruppetti. La ribellione linguistica lotta contro la repressione linguistica praticata dall’establishment: riconosce fino a che punto, in ogni periodo storico, un linguaggio esprima la forma data della realtà e quindi blocchi l’immaginazione e la ragione dell’uomo, riconducendolo all’universo dato del discorso e del comportamento. E’ il riconoscimento del linguaggio come una delle armi più potenti nell’arsenale dell’establishment.

Oggi è un linguaggio di una brutalità e contemporaneamente di una delicatezza senza precedenti, un linguaggio orwelliano che, possedendo praticamente il monopolio dei significati della comunicazione, soffoca le coscienze, oscura e diffama le possibilità alternative dell’esistenza, fissa i bisogni dello status quo nella mente e nel corpo degli uomini e li rende del tutto insensibili di fronte alla necessità di cambiamento.

Tuttavia, questa immunizzazione ha i suoi limiti, insiti nello sviluppo della nostra società, in particolare nella dinamica della «seconda rivoluzione industriale». Al contrario della prima, questa è stata messa in moto direttamente dalla scienza e si caratterizza per un quasi immediata applicazione della scienza alla produzione e alla distribuzione. Non solo l’applicazione delle scienze naturali alla matematica, ma anche delle scienze sociali alla pubblicità e alla politica, della psicologia alle terribili scienze delle relazioni umane e anche alla letteratura e alla musica come stimolato al tempo stesso gradito e lieve, perché se fosse eccessivo nuocerebbe al business. In un’unica realtà si ha così la strana simbiosi del pensiero umanistico scientifico con la società repressiva, la simbiosi della creatività e della produttività in cui la cultura intellettuale serve la cultura materiale, in cui la creatività serve la produttività, in cui l’immaginazione serve il mondo degli affari.

L’irrazionale in società

Il carattere quasi compiuto di questa simbiosi, in cui pensiero scientifico e umanistico diventano macchine per il controllo sociale, vive oggi gli effetti della sua stessa dinamica: quanto più la scienza consegue risultati nel controllo della natura e nello sfruttamento delle sue risorse, tanto più è alto il pericolo che gli esperimenti psicologici e biologici di formazione del comportamento umano e dei processi vitali possano sfuggire dal controllo; più selvaggia è la capacità dell’immaginazione di concepire modi e significati per alleviare l’esistenza umana, più evidente appare il contrasto tra queste conquiste scientifiche e il loro uso. E più grande è il potenziale esplosivo nelle società costituite. Di conseguenza, la prima forma in cui questo potenziale esplosivo si presenta alle coscienze è l’irrazionalità che penetra la società costituita, la mobilitazione politica delle minoranze ai margini della società e forse anche la perdita di coesione del lavoro organizzato, di cui tuttavia restano ancora da vedere modi e direzioni.

Questa situazione ci porta ad affrontare il problema della responsabilità dell’intellettuale. Le due facce della simbiosi tra scienza e società, tra immaginazione e dominio che si dà oggi impongono all’intellettuale una scelta. Questa scelta può essere formulata nel modo seguente: la ragione, l’immaginazione, la sensibilità dell’uomo saranno al servizio di una servitù sempre più efficiente e prospera o piuttosto serviranno a interrompere questo legame, liberando le capacità dell’uomo, la sua immaginazione e la sua sensibilità da questa servitù così redditizia? Credo che gli studenti militanti abbiano fatto questa scelta e ne abbiamo pagate care le conseguenze. Oggi le possibilità concrete per la libertà dell’uomo sono così reali e i crimini della società che ostacola la sua realizzazione sono così palesi che il filosofo, l’educatore non può più evitare di prendervi parte, il che significa allearsi, essere solidale con quelli che non sopportano più e non hanno più voglia di vedere la loro esistenza determinata e definita dalle esigenze dello status quo. Determinata e definita da quei poteri che hanno fatto del mondo la confusione, la sventura e l’ipocrisia attuali. (....) Se il filosofo, l’educatore, prende ancora seriamente il suo lavoro di rischiaramento, si ritroverà, volente o nolente, con quelli che danno significato e realtà alle parole e alle idee pensate lungo tutta la sua vita di educatore, e non solo significato accademico, ma un significato per cui lottare e per cui vivere.


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