Web
L’arena della democrazia
di Derrick De Kerckhove (Avvenire, 06.01.2008)*
Oggi il rapporto tra natura e artificio è inverso: la natura diviene dipendente dall’artificio, mentre prima l’artificio era dipendente dalla natura. La scoperta del genoma è il momento metaforico, simbolico del rovesciamento del potere della natura sulla cultura: adesso la cultura regna sulla natura.
Oggi, con la fisica dei quanti, stiamo passando dal solido al liquido e quindi all’incerto, al precario, fino alla definizione della fisica come una disciplina non più basata sull’atomo e sulla gravità - la fisica di Newton - ma sul quantum, che è solido e liquido insieme, materia e movimento. In questa era l’informazione diviene la definizione della natura: non c’è più la terra, ma l’informazione sulla terra.
L’informazione diviene la base di tutto. Noi stiamo riversando la nostra conoscenza nella Rete, stiamo scambiando con lo schermo i nostri processi cognitivi. Assistiamo così alla trasmutazione della materia in qualcosa di immateriale, di digitale.
Nell’era del quantum l’osservato muta sotto l’effetto dell’osservatore. Così nel nostro futuro la storia cambia sotto la pressione dell’osservazione, del pensiero: se prima eravamo vittime della storia, oggi siamo capaci di fare storia. Sul piano dell’etico dobbiamo allora sapere che mondo vogliamo creare. L’etica allora si configura come un’etica del sentimento, delle attitudini, del pensiero e del cuore.
L’attitudine è un’energia creativa che cambia il mondo. A questo proposito ho creato un concetto nuovo: quello del santo elettronico, colui che ha l’aura elettronica, costituita da tutte le connessioni comunicative che collegano la persona al mondo e ad altre persone. La storia dell’aura è molto interessante, perché l’aura consiste nel suo progressivo sparire: prima circonda l’intero corpo, poi solo la testa, infine si sposta sopra la testa, per poi sparire. L’aura costituiva la dimensione di santità intorno alla persona santa e aveva un valore terapeutico: il contatto con il santo conferiva salute. L’aura è la dimensione tattile che sta fra la persona e il mondo, e oggi è così forte che crea una situazione nuova: la possibilità di essere tracciati e rintracciabili.
Siamo immersi in un ambiente di dati e informazioni. Le antiche teorie dei maghi sull’aura parlano di fili che possono essere rintracciati e tirati, esattamente come avviene oggi con l’aura elettronica nell’era di Internet.
Da Einstein in poi, spazio e tempo sono in relazione. A questo proposito mi rifaccio a Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione: nel mondo del quantum, nella meccanica quantistica, le cose non sono, ma tendono ad essere, diceva il fisico Erwin Schrödinger. Nella nostra concezione del tempo lineare o testuale il tempo è irreversibile e diviso in tre parti ben definite: passato, presente e futuro.
L’invenzione del passato e del futuro avviene con la scrittura alfabetica greca. Prometeo che porta il pensiero avanti ed Epimeteo che porta il pensiero indietro sono la rappresentazione della storia e della prospettiva. Nel mondo delle nuove tecnologie, che danno accesso istantaneo a tutta la conoscenza possibile tutti i tempi sono now, sono presente. Siamo nella fase dello spazio virtuale e del tempo reale. Siamo di fronte alla possibilità di duplicare la nostra vita.
Pensiamo a Second Life, un sito Internet che ci offre la possibilità di avere una seconda vita, oppure alla possibilità di essere interconnessi, che ci permette di moltiplicare il nostro tempo. Così non esiste più uno spazio unico, ma una simultaneità di spazi diversi, così come avviene, per esempio, in Windows, che ci dà la possibilità di aprire diverse finestre sullo schermo del nostro computer, su cui è possibile lavorare simultaneamente. La globalizzazione viene intesa di solito come un fenomeno economico. Ma io penso che non sia così: penso che fondamentalmente la globalizzazione sia prima di tutto un fenomeno psicologico. Per capirlo, dobbiamo rifarci al termine civismo, inteso nel senso della civis. Nella civis romana l’uomo ha responsabilità e privilegi, e appartiene così alla legge della città.
Il globalismo è l’estensione di tutto ciò alla dimensione del pianeta. Con l’avvento di Internet abbiamo una nuova forma di libertà, però questa nuova forma di libertà è minacciata. Ci sono infatti molti nemici della libertà di Internet: i virus, lo Stato, l’impresa. Si può sentire facilmente l’importanza capitale di Internet, che ha creato una speranza di libertà. Questa libertà è minacciata, ma non perduta.
Internet ha stimolato un desiderio di libertà e una conoscenza della libertà che non potrà mai cadere nell’oblio. La natura stessa di Internet è di essere libero, e fa parte della responsabilità dell’uomo moderno di lasciarlo libero. L’etica, nel senso di responsabilità a livello globale, può fondarsi sullo stesso principio che anima l’intelligenza connettiva, «una collaborazione che parte dal basso». È lo stesso principio che anima la rete. In questo momento ci sono tendenze di collaborazione in atto come Opensource oppure Wikipedia, che mettono in crisi, ad esempio, il controllo dell’industria classica. Potremmo tentare un rimando alla nozione di «pensiero debole» di Vattimo, che ritengo in questo momento molto interessante. Oggi si parla molto di «e-democracy», che comprende l’«e-government» e l’«e-consulting ». La democrazia partecipativa si esprime con la società civile. Penso che questo concetto hegeliano diviene sempre più pertinente oggi perché si tratta veramente di una dimensione globale.
Ad esempio il problema del surriscaldamento del pianeta è un problema di «e-democracy», non più nazionale, ma transnazionale e transculturale, è globale e glocale. L’«e-democracy» oggi non ha più una dimensione nazionale, ma si allarga al pianeta intero.
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«Etica del virtuale»: confronto a più voci
Sta per uscire in libreria il numero 4 dell’Annuario di etica, dedicato stavolta all’«Etica del virtuale» (edizioni Vita e pensiero) e curato da Adriano Fabris. Dall’Annuario anticipiamo alcuni brani dell’intervento del massmediologo canadese Derrick De Kerckhove, allievo di Marshall McLuhan, intitolato «Dal ’brainframe’ visivo al santo elettronico». Nel volume (pagine 200, euro 18) altri interventi di Adriano Fabris, Giovanni Ventimiglia, Klaus Müller, Ubaldo Fadini, Francesco Totaro, Edoardo Datteri, Roberto Diodato, Gianluca Nicoletti.
Sul tema del "santo elettronico", si cfr.:
il lavoro di GAETANO MIRABELLA,
DIECI PASSI PRIMA DELL’ETERNITA’(SALERNO 2004 - PALLADIO)
Sull’intera questione, dall’interno dell’orizzonte filosofico critico, si cfr.:
Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Roma, Antonio Pellicani editore, 1991, in particolare il cap. Terzo della Terza parte - Le "regole del gioco" dell’Occidente e il divenire accogliente della mente:
[...] Senza equivoci: non siamo più né nelle taverne di Bacco e di Arianna, né nelle caverne a luci rosse. Siamo all’aria aperta: "io amo perfino le chiese e i sepolcri degli dèi, ma quando, con l’occhio suo puro, il cielo penetra dai loro soffitti in rovina: volentieri sto a sedere, come erba e rosso papavero, su chiese in rovina"(Nietzsche). Se volete, siamo a Nea-polis ... si sta suonando e cantando insieme a tanta bella gente,al sole e in mezzo al verde, When the Saints Go Marching In di Louis Armstrong.
Siamo semplicemte contenti: gli astronauti americani Armstrong, Aldrin e Collins (di origini italiane, così le cronache) ... ci hanno inviato la cartolina del pianeta. E la cosa è molto bella e importante. Addirittura anche Mr. Konner lo riconosce: "Se il programma spaziale non avesse dato alcun frutto (e spesso io faccio molta fatica a discernere che cosa ci abbia dato), gli dobbiamo essere grati per aver prodotto tale fotografia". Anch’egli guarda e sorride, guarda e sorride.... Nea-polis ... gli Azzurri [...] (pp. 188-189).
Federico La Sala, La Fenomenologia dello Spirito... dei “Due Soli”. Ipotesi di rilettura della “Divina Commedia”..
FLS
Il pamphlet.
Silicon Valley: i troppi perché della Valle oscura
Uno studio di Anna Wiener, fra economia ed etica, porta a chiedersi quanto sia sostenibile «un tech che non è progresso ma soltanto business»
di Lorenzo Fazzini (Avvenire, martedì 2 marzo 2021)
Eric Salobir, un domenicano studioso delle nuove tecnologie, ha raccontato che nella Silicon Valley i guru dell’hi tech invitano i lama del Tibet per incontri di carattere spirituale. Segnale, affermava questo frate consultore anche del Vaticano per i nuovi media, che anche nella patria del web le domande di senso non sono straniere né possono essere completamente esclusi gli interrogativi più radicali laddove ogni cosa viene smaterializzata e tutto diventa (tecnologicamente) possibile.
Una sensazione simile l’ha provata, mutatis mutandi, Anna Wiener, una giovane cultrice della letteratura che si è trasformata in un’esperta di dati digitali e si è insediata, come migliaia di giovani nella nuova frontiera del sogno a stelle e strisce, San Francisco, la città-emblema della Silicon Valley dove hanno sede i grandi gruppi della Rete. Ma Anna Wiener, oggi giornalista del ’New Yorker’, espressione tipica del mondo millennial yankee (tutti green ed eticamente liquidi), nel suo memoir La valle oscura, da poco edito da Adelphi, non lascia da parte la grande domanda: perché? Perché i grandi amministratori delegati delle start up che assommano migliaia di milioni di dollari costruiscono un mondo digitale in mano ai dati (I am data driven, ’Io sono guidato dai dati’ è il mantra che campeggia su tshirt aziendali dove lavora Wiener)?
«Scopo ultimo dell’idea: un mondo migliorato dalle aziende migliorate dai dati». Ma anche un mondo «libero dal peso delle decisioni, dalle inutili frizioni del comportamento umano, dove ogni cosa poteva essere ottimizzata, gerarchizzata, monetizzata e controllata». Quindi, bye bye libertà. La Silicon Valley, secondo Wiener, sembra attraversata da una sola preoccupazione: se qualcosa si può pensare, lo si può fare. Il punto è nel come.
Ma la domanda sul perché sembra costantemente elusa. «La battuta ricorrente era che l’industria tecnologica stava semplicemente reinventando beni e servizi che esistevano da un pezzo. Era una battuta sgradita a molti imprenditori e investitori, che invece avrebbero dovuto essere grati di quel diversivo, poiché sviava la conversazione da questioni strutturali - per esempio, dal perché certe cose, come il trasporto pubblico, il settore degli alimenti o lo sviluppo urbano, avevano dei problemi’. Insomma, qualcosa non torna. -Del resto qui e là la descrizione della vita quotidiana degli startupper è davvero a metà tra il grottesco e il terrificante: «Nuove aziende vendevano nootropi farmaci non regolamentati che incrementavano le funzioni cognitive e promettevano di sbloccare un livello superiore di pensiero - a coloro che perseguivano le massime prestazioni».
La stessa Wiener si rendeva conto che qualcosa non torna quando lavorava in un’azienda che elaborava un prodotto digitale per accumulare i dati degli utenti. Perché lo si faceva? La domanda non veniva neppure posta: «Non ci consideravamo parte dell’economia della sorveglianza. Non riflettevamo sul nostro ruolo, non pensavamo al fatto che stavamo favorendo e normalizzando la creazione di banche dati sul comportamento umano, gestite da privati e non soggette ad alcuna regolamentazione». Fa capolino, nella testa della giovane data driven, la domanda etica, interrogativo che se ne porta dietro uno più prettamente spirituale (il titolo rimanda per assonanza al celebre Salmo 23): «Non ero contraria alla ricerca della verità. A quanto ne capivo, la razionalità offriva fondamentalmente sistemi di riferimento esistenziali molto simili all’autoaiuto. Il che aveva senso: le istituzioni religiose si stavano sgretolando, le grandi società esigevano una dedizione quasi spirituale, ci si sentiva sopraffatti dalle informazioni e i rapporti sociali erano stati demandati a internet - tutti erano in ricerca di qualcosa».
Sicuramente Anna Wiener non ha letto Sant’Ignazio di Loyola. Ma la disanima che il santo fece sul ’magis’, la ricerca del di più da parte dell’uomo, come traccia dell’inquietudine di origine divina, e quanto scrive la giovane di San Francisco sembrano andare nella medesima direzione: «Il tech non era progresso. Era solo business. Fu anche, forse, la mia empatia verso i giovani imprenditori della Silicon Valley. [...] Tutti quei ragazzi svegli, paranoici e inclini agli estremi [...] Supponevo che i loro veri desideri fossero simili ai miei: sapevo che costruire sistemi, e farli funzionare, rappresentava di per sé una soddisfazione ma supponevo che tutti desiderassero di più». Ebbene, sì, accade anche tra i guru dell’hi-tech e nel tempio del web.
Scenari.
Il neofeudalesimo dei colossi high-tech
Due libri dell’economista Durand e del sociologo Kotkin puntano il dito sul potere delle “big tech” che rendono i consumatori servi della loro fame di informazioni per le esigenze degli algoritmi
di Simone Paliaga (Avvenire, martedì 2 marzo 2021)
«L’ascesa della tecnologia digitale sta sostituendo i rapporti fondati sulla concorrenza con delle relazioni basate sulla dipendenza, deregolamentando così la meccanica generale del sistema economico e facendo prevalere la predazione sulla produzione». Saremmo sulla soglia di una nuova epoca, sostiene l’economista francese Cédric Durand nel suo ultimo lavoro Techno-féodalisme. Critique de l’économie numérique (Zone, pagine 254, euro 18).
L’epoca del tecnofeudalesimo, appunto! E non si annuncia certo rosea né carica di opportunità. «Con la telematica, i diritti di proprietà intellettuale e la centralizzazione dei dati - prosegue lo studioso francese - presuppongono un controllo molto più stretto su territori e individui». Lo scopo del controllo è l’accaparramento di dati, considerati da molti l’oro nero dell’economia digitale.
Alle corporation delle tecnologie dell’informazione non interessa promuovere la produzione ma accentuare la predazione, a cominciare da quella dei dati. A scapito degli Stati, che mostrano sensibili segni di indebolimento e di incapacità nel contrastarne l’azione, le big tech, da Amazon a Google e a Facebook, si disputano il controllo del cyberspazio. E lo fanno con uno scopo ben preciso. Controllare la fonte dei dati e centralizzarne l’elaborazione per sviluppare algoritmi efficaci e affinare la ricerca sull’intelligenza artificiale. Per questo Amazon & co. tendono a monopolizzare la catena del valore nella nuova economia digitale.
Accettare la frammentazione dei dati «implica - sottolinea Durand - una distruzione del loro valore d’uso nella misura in cui i bacini di dati ridotti generano algoritmi meno agili e, quindi, dei dispositivi meno comodi per gli utilizzatori». Questo processo di centralizzazione finirà col sottoporre al controllo e alla predazione anche gli aspetti più minuti delle vite quotidiane, quelli che un tempo non interessavano a nessuno. «I più privati frammenti di vita tendono - continua l’economista d’Oltralpe - a essere incorporati nei circuiti digitali e intrappolati nell’oggettivizzazione di una grammatica comune a tutti gli agenti sociali ».
Più controllati e dipendenti non sarebbe possibile. La profilazione degli utenti così ottenuta all’apparenza serve a soddisfare i desideri dei navigatori del cyberspazio, ma dall’altro ne mina la libertà di scelta. Il passaggio da utente alla «servitù della gleba digitale» è breve. Si gode del beneficio dei servizi erogati, ma in cambio si offrono le informazioni che servono a rendere più performanti gli algoritmi delle piattaforme.
«Questa dipendenza generale dai proprietari di das digital - a opinione di Durand - è l’orizzonte dell’economia digitale, il divenire cannibale del liberalismo all’epoca del digitale» ma soprattutto è il sintomo che il sistema sociale evolve (o involve) verso forme di nuovo feudalesimo basato su oligarchie e «servitù della gleba digitale» contro cui poco possono gli stessi Stati, la cui nascita deriva proprio dalla neutralizzazione dei rapporti feudali di sudditanza.
L’affermarsi delle big tech ridistribuisce il potere all’interno della società contemporanea e produce una riorganizzazione dei rapporti tra le classi sociali. Così la pensa il sociologo dell’Università della California Joel Kotkin nel suo The coming of Neo-feudalism. A warning to the global middle-class (Encounter Books, pagine 266, euro 21,53).
Secondo lo studioso americano l’ibridazione tra determinismo tecnologico e capitalismo postindustriale favorisce la nascita di nuove strutture di classe ben diverse da quelle che hanno assicurato il boom economico nel corso del Novecento e lo sviluppo dei diritti civili.
Le nuove oligarchie economiche mentre plasmano il futuro economico contribuiscono a creare una società neofeudale high-tech che mina la democrazia e la mobilità sociale che in passato era assicurata alle classi media e operaia. «La storia - ammonisce il sociologo - non sempre procede in avanti verso condizioni più avanzate e illuminate». Se per Kotkin nel corso dell’epoca medievale e nella prima età moderna la società si articolava in clero (clergy), aristocrazia e terzo stato, oggi non è molto diverso. Cambiano solo gli interpreti ma i ruoli rimangono gli stessi. Al posto del clero, si afferma un nuovo primo stato che Kotkin definisce clerisy, un’élite intellettuale separata dal resto della società e distribuita tra governo, media, università e nuove professioni legate alle tecnologie dell’informazione. Al posto dell’aristocrazia subentra una nuova classe, l’oligarchia, sempre più ricca e potente. Agli esclusi dai nuovi primo e secondo stato invece è vietata quella mobilità sociale che ne ha consentito, in epoca moderna, il riscatto e l’indipendenza.
Contro l’epoca moderna, il Neofeudalesimo ipotizzato da Joel Kotkin offre in cambio ai diritti acquisiti in passato solo una crescente e sempre più radicata disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza, come sostiene sulla scia di Thomas Piketty, e lo scollamento tra l’élite culturale e l’oligarchia e il resto della popolazione. La sorte dei prossimi anni è, dunque, già tracciata?
Il domenicano francese.
Salobir: «I nuovi sciamani vivono di hi-tech»
«Questo mondo tende a costruire un ambiente ex novo, senza tempo né passato. Il cristianesimo ha una lunga conoscenza dell’uomo, legge il mondo e la storia con gli occhi di Dio»
di Lorenzo Fazzini (Avvenire, giovedì 18 febbraio 2021)
[Foto] Il domenicano francese Éric Salobir
Un domenicano che frequenta il mondo dell’hi-tech più innovativo e lo considera un luogo giusto far risuonare la ’robusta antropologia’ della tradizione cristiana. Con Eric Salobir, teologo francese, approfondiamo il mondo della tecnologia digitale.
Nel suo libro Dieu et la Silicon Valley lei afferma che le tecnologie sono prodotti della società «nei due sensi del genitivo: noi li produciamo e, a forza di utilizzarli, loro ci plasmano» La tecnologia digitale cambierà l’essere umano?
Penso che le nuove tecnologie e l’intelligenza artificiale stiano profondamente trasformando l’essere umano. Non siamo davanti solamente ad una tappa della rivoluzione industriale, ma realmente ci troviamo in a un momento in cui cambia la percezione di noi stessi e del mondo. Un po’ come quando sono arrivati i caratteri mobili a stampa. Per esempio, con l’uso della tecnologia e il telelavoro sono cambiate le nostre interazioni intraumane, abbiamo meno creatività, si tengono incontri amorosi tramite app, cosa ben diversa dal confronto relazionale concreto. Cambia la nostra percezione del sapere: prima ci affidavamo alla ricerca in biblioteca, oggi basta un clic per sapere la capitale d’Italia. Ma dal punto di vista cognitivo, non credo che siamo davanti a un cambiamento necessariamente negativo.
Perché afferma questo?
Prima della sua morte, ho discusso a lungo con il filosofo Michel Serres su questi cambiamenti. Egli mi faceva presente che quando siamo passati dalla tradizione orale a quella scritta, abbiamo perso molto in termini mnemonici, ma abbiamo guadagnato molto sotto altri aspetti. Io personalmente non ricordo nessuno dei numeri telefonici che abitualmente compongo con il mio iphone, lascio che questa funzione lo svolga lo strumento. Certamente si pone il problema se lasciamo che questi strumenti ci governino e diventino i nostri padroni. La questione riguarda quindi il modo in cui usiamo questi strumenti, ovvero se abdichiamo alla nostra identità di esseri umani rispetto a un macchina. Se decidiamo noi come usiamo internet, come compriamo, cosa acquistiamo, la libertà umana è ancora sovrana. Dunque, se gli strumenti li usiamo in modo umano, essi ci umanizzano. Altrimenti, sono forieri di disumanizzazione.
In un contributo su ’Vita e pensiero’ lei afferma che nella Silicon Valley troviamo trace di spiritualità. Per esempio, i grandi personaggi del digitale invitano i lama tibetani a tenere loro delle meditazioni. C’è una chance per il Vangelo in quel mondo?
Penso che nella Silicon Valley ci sia una sete spirituale: questo è certo. Essa è costruita sulle rovine delle utopie degli anni Sessanta, l’ideale di superare l’imperfezione del mondo. Non è un caso che molte delle nuove tecnologie siano applicate all’ambito medico. Esiste anche per la fede cristiana una chance in questo mondo se siamo capaci di inculturarvi il Vangelo non partendo dalle nostre domande ma dalle domande che quel mondo pone e si pone. In particolare, credo che l’antropologia giudaico-cristiana abbia molto da dire all’ambiente hi-tech, perché porta avanti una riflessione fatta di etica incarnata, ad esempio quella proposta in Fratelli tutti e Laudato si’ di Francesco.
Alcuni libri recenti tracciano collegamenti intriganti tra la spiritualità e l’ambiente hi-tech. Per esempio, Appletopia. Media Technology and the Religious Imagination of Steve Jobs e Apple come esperienza religiosa (Mimesis), ma anche il recente La valle oscura (Adelphi), il memoir della startupper Anna Wiener. C’è qualcosa di religioso nell’uso della tecnologia digitale?
Sicuramente troviamo qualcosa di religioso nello sviluppo di tale tecnologia, in particolare nel senso antropologico in cui essa si sviluppa. Esiste qualcosa di sciamanico, un certo richiamo all’elemento magico e soprannaturale nel modo in cui la tecnologia si sviluppa. Prendiamo un esempio: nella Roma antica vi erano degli dei domestici che sovraintendevano alle necessità del nucleo domestico. Se ci pensiamo, è quello che chie- diamo ai nostri device, ai quali demandiamo la sicurezza dei nostri appartamenti, l’uso dei nostri elettrodomestici, perfino la conoscenza sul tempo di domani, se pioverà o ci sarà il sole: una sorta di oracolo portatile! Insomma, ricorriamo a loro con un senso sciamanico. Non si va lontano dal vero quando si dice che la tecnologia ha qualcosa di magico. Quando sorge il pericolo? Quando lasciamo che siano i robot a fare il nostro lavoro e a garantirci la sicurezza al nostro posto. Quando la macchina si sostituisce all’uomo, allora sorgono i problemi. Essere umani è un fatto costoso e difficile, la macchina invece non rischia nulla.
Quali sono le sfide più grandi che la tecnologia digitale porta alla fede cristiana?
Se guardiamo al grande racconto biblico della Genesi, il peccato originale ci parla della nostra strutturale incompletezza. Adamo ed Eva sono incompleti, esiste in loro una breccia aperta all’altro e all’Altro. Il mondo, per l’autore biblico, non esiste solo per me. Io, da solo, non posso trovare la piena soddisfazione di me stesso: esiste una breccia che noi cristiani chiamiamo Dio e che si è fatto presente a noi in Cristo. L’uomo può chiudere questa breccia e questa apertura, con il peccato, dicendo di essere padrone e bastevole a sé stesso. Il pericolo che vedo per la tecnologia è il medesimo, quello di pensarsi capace di tutto da sola e di bastare a sé. L’uomo invece è strutturalmente questa relazione aperta all’alterità. E, infatti, quando Adamo ed Eva cercano di farlo da soli, si scoprono nudi, ovvero fragili. Se la tecnologia si concepisce autosufficiente, non c’è più bisogno né posto per Dio. Ma questa visione sarebbe quella di un’erronea chimera, perché la breccia si ripropone di continuo.
In fin dei conti, come cristiani bisogna temere la tecnologia digitale?
Seguendo Giovanni Paolo II, direi: ’Non abbiate paura!’. Il cristiano non ha paura di niente perché da tutto, anche dalla paura della tecnologia, l’ha liberato Cristo. Non c’è bisogno di distruggere gli apparecchi tecnologici, io non sono un luddista. Meglio comprenderli e farli comprendere. La paura è una cattiva consigliera.
Quale può essere il contributo del cristianesimo alla tecnologia digitale?
Tutte le realtà che portano avanti l’hitech, le varie aziende e i centri di ricerca, sono relativamente recenti e nuovi, mentre il cristianesimo ha una tradizione millenaria di pensiero e di pratica, comprovata dall’esperienza. Il mondo dell’hi-tech tende a costruire un ambiente ex novo, senza tempo né passato. Il cristianesimo invece ha una lunga comprensione dell’uomo, legge il mondo e la storia con gli occhi di Dio. In definitiva, il cristianesimo può offrire un’antropologia robusta e offrire un quadro di comprensione della realtà più vasto. Inoltre, tutto il deposito del pensiero sociale cattolico può risultare fecondo. Il fatto, per esempio, che la Chiesa sia stata la prima a dichiararsi contraria alla schiavitù ci parla di una capacità di giudicare la storia che merita attenzione e ascolto.
The Point of Being
Edited by
Derrick de Kerckhove and Cristina Miranda de Almeida
Cambridge Scholars Publishing, 2014
List of Figures............................................................................................ vii
Acknowledgements .................................................................................... ix
Derrick de Kerckhove and Cristina Miranda de Almeida
Introduction ................................................................................................. 1
Derrick de Kerckhove and Cristina Miranda de Almeida
Chapter One ................................................................................................. 9
The Point of Being
Derrick de Kerckhove
Chapter Two .............................................................................................. 61
Orbanism
Rosane Araújo
Chapter Three ............................................................................................ 79
Toward the Reunion of Sense and Sensibility: The Body in the Age of Electronic Trans-nature
Gaetano Mirabella
Chapter Four ............................................................................................ 103
The Interval as a New Approach to Interfaces: Towards a Cognitive and Aesthetic Paradigm of Communication in the Performing Arts
Isabelle Choinière
Chapter Five ............................................................................................ 147
The Aesthetics of the Between in Korean Culture
Jung A Huh
Chapter Six .............................................................................................. 165
Sensing without Sensing: Could Virtual Reality Support Korean Rituals?
Semi Ryu
Chapter Seven .......................................................................................... 197
Between Sense and Intellect: Blindness and the Strength of Inner Vision
Loretta Secchi
Chapter Eight ........................................................................................... 213
The Connective Heart
Cristina Miranda de Almeida
Chapter Nine ............................................................................................ 297
Quantum-Inspired Spirituality: Merging Science and Religion in the Post-Galilean Period
Maria Luisa Malerba
Editors and Contributors .......................................................................... 335
Scuola Medica Salernitana candidata come Patrimonio Unesco: entrano nel vivo le iniziative
Le “conversazioni”, destinate alla città, hanno la funzione primaria di raccontare alcuni aspetti e momenti di un’istituzione fondante della memoria e dell’identità salernitana
di Redazione (SalernoToday, 26 gennaio 2021)
Entra nel vivo il lavoro che il Comune di Salerno, come Ente capofila, sta portando avanti per la candidatura della Scuola Medica Salernitana quale Patrimonio immateriale dell’umanità. Giovedì 28 gennaio (ore 18) inizieranno una serie di incontri (da remoto) che coinvolgeranno studiosi del settore. Il Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale dell’Università degli Studi di Salerno avvierà dal 28 gennaio un ciclo di “conversazioni” proprio sulla Scuola Medica Salernitana.
Le “conversazioni”, destinate alla città, hanno la funzione primaria di raccontare alcuni aspetti e momenti di un’istituzione fondante della memoria e dell’identità salernitana. Una serie di studiosi, di competenze e provenienze diverse, dell’Università di Salerno e di prestigiose università italiane ed europee, metteranno in luce l’eredità scientifica e culturale della Scuola Medica Salernitana dal medioevo fino ai nostri giorni, i suoi protagonisti, le immagini, la memoria e le opere che le sono state dedicate nel corso della sua lunga esistenza, nonché le teorie e le terapie che la resero famosa in tutta Europa e che ancora oggi sono analizzate alla luce della moderna farmacopea.
La responsabilità scientifica del programma del ciclo di “conversazioni”, che si terranno con cadenza settimanale, è delle professoresse Maria Consiglia Napoli e Amalia Galdi, del Dipartimento di Scienze del patrimonio culturale, quella tecnico-organizzativa è a cura di Mirò. Intanto, la Soprintendenza ABAP di Sa e Av, sempre nell’ambito delle attività comuni previste per la Candidatura Unesco della Scuola Medica Salernitana con il Comune di Salerno e le altre Istituzioni, presenterà un percorso narrativo, i video, tratti dalle immagini del Museo Virtuale che contengono la storia, i protagonisti, i saperi e le terapie della Istituzione salernitana. Nell’ambito del ciclo di conferenze proposte dall’Università di Salerno la dottoressa Adele Lagi, archeologa funzionario ABAP, terrà una comunicazione sugli scavi delle Terme di San Nicola della Palma, aspetto inedito e per la prima volta posto all’attenzione degli studiosi.
Inoltre, sarà attivato un progetto di Art Bonus e Fundraising a favore del ‘Museo Virtuale della Scuola Medica salernitana’, una strategia di avvicinamento dei cittadini al patrimonio culturale, perché donare per il patrimonio significa conoscerlo ed amarlo, con la partecipazione della “Fondazione della Comunità Salernitana onlus” di Salerno e con il supporto della Divisione Ales che gestisce e promuove l’Art bonus ed i rapporti pubblico-privato.
Tutti gli incontri si potranno seguire sulla pagine Facebook:
Salerno Cultura - Comune di Salerno
Comune di Salerno - Pagina ufficiale dell’Ente
DiSPaC - Università degli Studi di Salerno.
A tu per tu / Derrick De Kerchove
«Siamo immersi nei nuovi paradigmi dell’intelligenza connettiva»
Indiscusso maestro della cultura digitale, ricorda il singolare rapporto con Marshall McLuhan e riflette sui profondi cambiamenti sociali imposti dalla tecnologia della rete
di Luca De Biase *
[Foto] Derrick de Kerckhove (Imagoeconomica)
Derrick de Kerckhove si teneva la testa tra le mani. Era solo, quella sera all’inizio degli anni Settanta, nella Coach House, la sede del Centre for Culture and Technology all’università di Toronto guidato da Marshall McLuhan. Si preparava ad abbandonare l’università e tutta la vita che aveva immaginato di vivere.
Sarebbe stato un peccato. Perché de Kerckhove era destinato a diventare un intellettuale originale, un cosmopolita della cultura, un provocatore non violento, capace di insegnare a milioni di persone un modo creativo di pensare i media digitali. Avrebbe aiutato a leggere con un taglio culturale una storia tecnologica destinata a diventare un gigantesco fenomeno economico-finanziario.
Avrebbe diretto per un quarto di secolo il McLuhan Program a Toronto trovando i soldi per mantenerlo in vita nonostante una distratta ostilità dell’accademia, avrebbe tenuto corsi in diverse università, compresa la Federico II di Napoli, scritto libri come Brainframes (1993), Intelligenza connettiva (1997), L’architettura dell’intelligenza (2001), diretto riviste come «Media Duemila». E, senza perdere il suo distacco da intellettuale, avrebbe avuto una funzione impegnata, costruttiva, persino confortante. Anche nel pieno delle grandi crisi: dalla fine della bolla di internet del 2000 alla pandemia di questi giorni.
Eppure quella sera nella Coach House per lui tutto - passato e futuro - era perduto. Il giovane de Kerchhove era da qualche anno a Toronto per perfezionare i suoi studi in letteratura francese. Ma seguiva anche altri corsi. Comprese le lezioni di McLuhan. «Quell’uomo parlava con autorevolezza di cose che nessuno capiva. Ma ne parlava in modo tale che si desiderava ascoltarlo» ricorda.
Quando «Le Monde» intervistò McLuhan, il professore chiese a de Kerckhove di rivedere il testo francese. Il ragazzo indicò i punti che avrebbero meritato qualche precisazione. McLuhan lo nominò traduttore ufficiale. «Fu una sorta di investitura nobiliare». Come conseguenza de Kerckhove contribuì alla produzione di due libri, Du cliché à l’archétype e D’œil à oreille: «Qualcosa di più di semplici traduzioni» ricorda de Kerckhove. «McLuhan mi telefonava anche alle due di notte per aggiungere idee che non erano presenti nella versione in inglese».
De Kerckhove racconta questi suoi esordi passeggiando proprio davanti alla Coach House nella quale aveva vissuto quella serata di crisi nera. Interrotta dall’improvvisa entrata in scena di McLuhan in persona. «Lei sembra piuttosto triste» osservò il professore. «Ho deciso di lasciare l’università» rispose Derrick. «Che strana idea» commentò McLuhan, che volle una spiegazione. «Il problema è l’argomento della mia tesi di dottorato. Non mi interessa. Ma se non la finisco perdo il lavoro all’università».
McLuhan gli chiese quale fosse l’argomento. «La decadenza dell’arte tragica nella letteratura francese del XVIII secolo». Il professore si sedette: «Lei non procede perché pensa che la tragedia sia una forma d’arte», disse McLuhan.
«Perché? Che altro è la tragedia?», chiese de Kerckhove. «Secondo me, è un “quid”» sorrise McLuhan «una “quest for identity”: è una strategia inventata dai greci per superare la crisi di identità dovuta all’introduzione dell’alfabeto che aveva distrutto la cultura tradizionale». Silenzio. Il maestro aveva parlato. «Di colpo, la mia tesi non era più un cumulo di nozioni. Era un problema storico, antropologico, mediatico. Avevo un taglio col quale guardare a tutto quello che sapevo per creare qualcosa di nuovo».
Quattro mesi dopo de Kerckhove aveva conseguito il dottorato. McLuhan era presente alla discussione e commentò compiaciuto: «La ricerca è un’attività magnifica quando si sa che cosa cercare».
Chi incontra oggi de Kerckhove lo definirebbe un “mcluhaniano non ortodosso”. Che poi, conoscendo McLuhan, è l’unico modo per essere un mcluhaniano. L’accademia, per lunghi decenni, non capì. La ricerca normale vive di esperimenti, pubblicazioni, metodo. Ma le ipotesi che la scienza empirica deve verificare vengono anche dall’immaginazione, alimentata da percorsi umanistici non sempre formali. Il maestro di de Kerckhove da questo punto di vista era un gigante. Seguiva un’ispirazione, che i conformisti non comprendevano, ma che lo sincronizzava col pubblico. «Come quando valutò il risultato del dibattito televisivo tra John Kennedy e Richard Nixon, nel 1960, dicendo che il primo era fresco (cool) e il secondo accalorato. E il fresco attira, mentre il caldo respinge». Per de Kerckhove, «McLuhan cercava le risonanze tra le idee». Era illuminante. «Viveva di una libertà intellettuale della quale non abusava ma, di certo, approfittava». Con ironia: «L’ho sentito dire: “Non le piace questa idea? Non importa, ne ho anche altre...”».
Negli anni Novanta, nel contesto generato da internet, de Kerckhove avrebbe avuto un ruolo fondamentale per la riscoperta del pensiero di McLuhan. «Eravamo molto diversi» ricorda de Kerckhove. «McLuhan aveva la capacità di arrivare a conclusioni giuste a partire da premesse completamente “fuori di melone”. La sua forza era di riuscire a vedere le conseguenze. Io cercavo le ragioni. Avevo studiato in Francia, del resto: Cartesio mi aveva segnato in modo indelebile».
De Kerckhove lo comprese incontrando Jean Duvignaud, uno dei fondatori della ricerca sulla sociologia dell’arte e dello spettacolo. Con Duvignaud, a Tours, studiò l’alfabeto, superando le intuizioni di McLuhan attraverso il ricorso alla neuroscienza.
I media, per de Kerckhove, sono tecnologie che “incorniciano” il cervello conducendolo verso modelli di interpretazione coerenti alla loro struttura. L’alfabeto greco è una tecnologia che genera mutazioni nell’attività cognitiva. Per esempio, col riorientamento della scrittura da sinistra a destra si definisce il verso del tempo: «Nel pensiero scritto, si viene da sinistra e si va verso destra: il futuro è da quella parte».
Tutto questo si inserisce nel grande dibattito sull’oralità e la scrittura. «La scrittura ha separato lo spettacolo e lo spettatore, la conoscenza e il conoscente, il significante e il significato. Genera una razionalità: come osservava Walter Ong, nel mondo dell’oralità si riportavano i fatti l’uno accanto l’altro; nella scrittura si strutturano relazioni di causa ed effetto; si passa dall’orecchio all’occhio, diceva McLuhan, dalla giustapposizione di suoni all’architettura visibile del pensiero». La sua tesi francese non è pubblicata, ma resta una pietra miliare nell’ecologia dei media. In Brainframes, de Kerckhove avrebbe elaborato intorno al tema dei media come ambienti cerebrali.
Ebbene. La nuova struttura fondamentale, secondo de Kerckhove, è lo schermo connesso a internet. «Ha conseguenze enormi, di portata simile e senso opposto all’alfabeto. Modifica la percezione, come suggeriva John Thackara, visionario del design. Modifica il cervello, come mostra Stanislas Dehaene, neuroscienziato. Ora siamo immersi nella conoscenza. Lo spettatore è lo spettacolo. I tempi si confondono, il passato e il presente sono meno distinti». E forma un’intelligenza “connettiva”: «Il concetto mi è stato suggerito da un artista per aiutarmi a superare la mia ritrosia a usare il termine “intelligenza collettiva” diffuso da Pierre Lévi. Persona molto gentile, Lévi mi dice: “Combattiamo la stessa battaglia intellettuale”.
Temo di non essere d’accordo. Il collettivo è il risultato di un processo sociale che anonimizza le persone e omogeneizza i modelli di partecipazione. Una piattaforma invece connette persone che restano sé stesse». La cultura digitale è una complessa trasformazione. E continua a evolvere.
Oggi sulla rete si sviluppa un doppio digitale per ciascun umano connesso. «Tutti i dati che si lasciano in rete sono ordinati, elaborati e analizzati per fornire informazioni, consigli, obblighi. Il doppio digitale è una rappresentazione della persona fisica che agisce nei diversi contesti, ricordando tutto.
Questo “machine learning personale” può diventare un liberatore o un grande inquisitore. C’è bisogno di discutere sui diritti umani e di aggiornarli per questo contesto». Si sviluppa una sorta di sistema limbico globale che, appunto, proprio in questi giorni di pandemia rivela le sue conseguenze. «In Italia e in altri paesi occidentali l’emotività ha preso il sopravvento, i media tradizionali hanno ripreso l’emozione che circola in rete e le misure decise sono esagerate: Corea, o Singapore, dimostrano un atteggiamento completamente diverso con un uso razionale della rete».
Il mondo digitale: molti lo raccontano concentrando l’attenzione sugli oltre 4mila miliardi di dollari di capitalizzazione dei giganti di internet, citando incessantemente le ricchezze dei capitalisti del web, narrando le vicende degli startupper diventati miliardari, oppure ricordando le crisi dei settori rivoluzionati dal web, dall’editoria al commercio; in realtà, il mondo digitale è soprattutto una questione di conoscenza, di cultura, di mentalità.
Di certo, la connessione tra il cervello e lo schermo non può essere solo tecnologica. Avrà sempre bisogno di qualcuno che, come de Kerckhove, la pensi in termini ecologici e culturali. Altrimenti gli umani subiranno, inconsapevoli, fino a che sarà troppo tardi. Le tecnologie spostano il limite del possibile. Ma la libertà è conoscenza. Le parole sono importanti.
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Fonte: Il Sole-24 Ore, 31 marzo 2020 (ripresa parziale, senza immagine).
iCloud
Ci stiamo smaterializzando
Da Baudrillard a Vattimo a Virilio, ma il vero profeta è stato Lyotard negli Anni 80
di Marco Belpoliti (La Stampa, 09.06.2011)
“Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria», ha scritto Karl Marx e, come si sa, stava parlando dei movimenti rivoluzionari nati dalla borghesia a metà dell’Ottocento. Una previsione in anticipo sui tempi, senza dubbio, ma che coglie perfettamente il senso del cloud computing , la nuvola dove si addenseranno nel prossimo futuro le parole, le idee, i pensieri che produciamo ogni giorno attraverso le nostre tecnologie informatiche.
La tecnologia cloud in realtà è la realizzazione di un’altra previsione, quella di Jean Baudrillard che negli Anni Settanta aveva previsto l’evoluzione del capitalismo industriale dalla produzione di oggetti e merci alla produzione d’immagini, segni, in particolare sistemi di segni, perché tali sono gli smartphone che possediamo, affollati di icone o, come oggi si dice, di application . Paul Virilio in Estetica della sparizione (1980) aveva attribuito alle nuove tecnologie, allora ai primi passi, la smaterializzazione in corso del mondo e soprattutto la derealizzazione dell’esperienza. Anche Gianni Vattimo alla fine di quel decennio, segnato dal crollo del Muro, aveva celebrato in La società trasparente il dissolversi della pesantezza del mondo e la sua transizione in un universo alleggerito che oggi possiamo sintetizzare nell’immagine della nuvola gassosa gonfia d’informazioni e bit che galleggerà in modo virtuale sulle nostre teste.
Ma il vero profeta dell’universo informatico che abitiamo ogni giorno il nostro Paradiso e insieme l’Inferno del presente è Jean-François Lyotard che nel 1985 organizza al Beaubourg la mostra «Les Immatériaux»: un allestimento di reti metalliche, trasparenze leggerissime, tutto in grigio, in cui viene mostrata la fine della distinzione tradizionale tra materia ed energia, entità che si possono continuamente scambiare tra loro. Il denaro, non più ancorato all’oro da molti decenni, sta già migrando anche lui verso l’immaterialità pura, divenendo, sotto forma d’impulsi, parte sostanziosa del cloud ; la comunicazione è la parte centrale della blogosfera, come viene chiamata, sempre più simile alla nuvola di cui lo storico dell’arte Hubert Damisch ha dato una descrizione in Teoria della nuvola .
Di più: ciascuno di noi è oggi una entità evanescente, dai profili cangianti, a tratti grigia a tratti rosseggiante, o azzurra, che si collega con tutti gli altri senza più transitare per lo stato solido, il contatto fisico face to face . Dal solido al gassoso, come diceva Marx, passando per quello liquido, descritto da Zygmunt Bauman. A questi stati dobbiamo aggiungerne un altro, il plasma, possibile nuova metafora della ionizzazione dell’universo stesso.
La nuvola sostituisce perciò la metafora della «piattaforma», dominante fino a che la tecnologia ha avuto ancora bisogno di forme lamellari per rendere ragione della propria forma. Si può ben immaginare che questa entità gassosa, fusa o in stato continuo di sublimazione, ondeggi nell’aria creando un doppio del nostro mondo, un suo riflesso, un Alien, che farà di noi delle creature virtuali, copie di copie che fluttuano nell’Ultra-Web come tanti Truman Burbank che, invece di sbattere contro il fondale di cartone dello show in onda, lievitano alla ricerca della propria identità personale restituita, se tutto va bene, in tempo reale da un aggregato di bit.
INTERVISTA
de Kerckhove: Così Chesterton «convertì» McLuhan
di Lorenzo Fazzini (Avvenire, 7 giugno 2011)
«McLuhan? All’inizio l’hanno snobbato in tanti, mentre è fortissima la sua componente cattolica. Quest’anno, per il suo centenario, nel mondo si celebrano oltre 250 convegni a lui dedicati, pure in Cina e Corea. Il web? Va regolamentato ma, come dimostrano le rivolte arabe, la Rete è via di libertà, come lo fu la stampa nel Rinascimento». Derrick de Kerckhove, uno dei massimi massmediologi al mondo, spazia tra Onda verde, Chesterton e Facebook. Intervenuto ieri al Festival della comunicazione di Padova con una lectio su "Il volto e la maschera: potere e sapere nella società in rete", il docente dell’Università di Toronto promuove l’atteggiamento della Chiesa verso i nuovi media.
Un secolo fa nasceva il suo maestro Marshall McLuhan. Il suo pensiero è stato interpretato in maniera contraddittoria: "un antimoderno" e un guru dei nuovi media. Quale il "vero" McLuhan?
«Entrambi. Lui era completamente contrario ai cambiamenti operati dai mezzi di comunicazione. Da vero letterato, vedeva il diavolo dentro i media, li considerava la causa di un’imminente perdita dell’identità privata dell’individuo (io non ero sempre d’accordo con lui...). Egli però era soprattutto un osservatore. Solo dopo l’uscita de <+corsivo_bandiera>La sposa meccanica<+tondo_bandiera> il suo è diventato un giudizio morale. All’inizio aveva solo la volontà di capire. Certo, ad un punto in lui è prevalso il sentimento sintetizzabile nello slogan "Fermate il mondo, voglio scendere". Ma in realtà McLuhan voleva osservare e farlo con ironia, alla maniera di Nietzsche».
In quali aspetti la fede cattolica di McLuhan ha inciso nel suo pensiero?
«Un giorno un giornalista lo ha intervistato nel suo studio all’Università di Toronto. E a ad un certo punto gli ha chiesto cosa fosse quella cosa sul muro. "Un crocifisso" fu la risposta. E il reporter: "Ma lei non sarà cattolico?". E lui: "Della peggior specie, un convertito". Proveniva dall’anglicanesimo. Tutto risaliva al suo incontro con Chesterton: un giorno, con il suo amico Tom Easterbrook (in futuro un noto economista) entrarono in un negozio di libri usati. Dopo un’ora ne uscirono con un volume ciascuno: McLuhan aveva in mano un saggio sul distribuzionismo, Easterbrook invece Ciò che non va nel mondo del grande scrittore inglese. Se li scambiarono. E quello scambio determinò le carriere di entrambi. McLuhan era convinto che non sono le teorie e i concetti che cambiano la mente delle persone, bensì la percezione. Diceva: "Nella Chiesa non si entra con dei pensieri in testa, ma in ginocchio". Su questo era un vero artista, che puntava sull’importanza delle percezioni piuttosto che sul primato dei concetti».
Lei è considerato uno dei grandi interpreti del mondo digitale. Questo 2011 è segnato dalla Primavera araba che ha avuto come "ingrediente" decisivo l’uso della Rete. Internet come esperienza che fa democrazia reale?
«Nel Rinascimento la diffusione di scrittura e stampa favorì la separazione del potere temporale da quello spirituale. Quel fenomeno durò duecento anni (con relative guerre di religione ...), il tempo in cui la gente che sapeva scrivere, leggere la Bibbia e interpretarla iniziò a decidere del proprio futuro. Oggi, per la prima volta, proprio tramite la Rete, la gente può intervenire in tempo reale su quello che succede. Finora questo avveniva solo in modo mediato attraverso la politica. Tutto questo ha un peso decisivo nel contesto islamico, visto che la scrittura araba (come quella ebraica) è un tutt’uno con il suo messaggio: nel caso dell’arabo ci deve essere una persona per completare oralmente lo scritto. Dunque, se nella scrittura alfabetica esiste uno stacco tra chi scrive e il messaggio del testo, in arabo questo non avviene. Con la Rete le popolazioni arabe, e in particolare i giovani, si sono ripresi per la prima volta il potere della parola».
Quando va segnato questo punto di svolta?
«Decisivo è quanto accaduto con l’Onda verde in Iran nel 2009. In quell’occasione la società araba si è resa conto che qualcosa andava cambiato: perché - si chiedevano i giovani - bisogna studiare all’università per poi finire a guidare i taxi?».
Il filosofo Roger Scruton critica chi accusa Facebook di "manipolare i giovani". Lei come la vede?
«Io odio Facebook. Perché ha la pretesa di essere padrone delle mie immagini, delle mie informazioni e della mia e-mail. Esso causa la perdita dell’autonomia personale. Ora in Italia e in Francia, finalmente, si discute della sua regolamentazione, così come, a mio giudizio, vanno riviste i parametri di Google. In particolare va salvaguardato il diritto all’oblio dell’individuo».
Di recente il Vaticano ha organizzato un incontro con centocinquanta blogger di tutto il mondo. Quell’evento, in poco tempo, ha generato quattoridici milioni di pagine web. Come giudica il rapporto tra nuovi media e la Chiesa?
«Giovanni Paolo II è stato il pontefice della televisione: ha capito l’importanza del rapporto con il mezzo tv. Benedetto XVI, se all’inizio dava l’idea di essere molto conservatore, si è dimostrato - anche grazie a bravi consiglieri - molto avanzato: è andato fino su YouTube! Posso confidarle un sogno? La santità di domani, a mio giudizio, avrà molto a che fare con la trasparenza. Immagino una webcam che segua il Papa in tutta la sua giornata: lui potrebbe farlo perché è una persona davvero notevole!».
Lorenzo Fazzini
Cause dei santi, più rigore nella fase diocesana Nuova «Istruzione» dalla Congregazione vaticana
S’intitola «Sanctorum Mater» il documento che vuole salvaguardare la serietà delle inchieste nelle Chiese locali
di GIANNI CARDINALE (Avvenire, 10.01.2008)
Si intitola Sanctorum Mater (Madre dei Santi) la nuova «Istruzione per lo svolgimento delle inchieste diocesane e eparchiali nelle cause dei santi». Si tratta di un documento di 46 pagine pubblicato all’interno del terz’ultimo fascicolo del bollettino ufficiale della Santa Sede, gli Acta Apostolicae Sedis, diffuso prima di Natale con la data 1° giugno 2007 (pp. 465-510). L’Istruzione, emanata dalla Congregazione delle cause dei santi e firmata dal cardinale prefetto José Saraiva Martins e dell’arcivescovo segretario Michele Di Ruberto, è stata approvata da Benedetto XVI il 22 febbraio 2007 e porta la data del 17 maggio successivo.
Il documento, pubblicato in lingua italiana, si sviluppa in una Introduzione seguita da 150 paragrafi e da un appendice di altri 15 articoli dedicati alla «Ricognizione canonica delle spoglie mortali di un servo di Dio» (dove tra l’altro si descrivono le procedure da seguire per il trasferimento delle reliquie).
I contenuti dell’Istruzione riflettono quanto auspicato da Benedetto XVI nel suo Messaggio ai partecipanti alla Sessione plenaria della Congregazione che si era tenuta nell’aprile 2006 e che aveva come primo tema all’ordine del giorno proprio un documento che salvaguardasse una fedele applicazione delle Normae servandae in inquisitionibus ab Episcopis faciendis in Causis Sanctorum (Norme da seguire nell’inchiesta diocesana) emanate nel 1983 dal medesimo dicastero vaticano «al fine di salvaguardare la serietà delle investigazioni che si svolgono nelle inchieste diocesane sulle virtù dei Servi di Dio oppure sui casi di asserito martirio o sugli eventuali miracoli ».
«Le cause - ribadì nell’occasione Benedetto XVI - vanno istruite e studiate con somma cura, cercando diligentemente la verità storica, attraverso prove testimoniali e documentali omnino plenae (del tutto complete, ndr), poiché esse non hanno altra finalità che la gloria di Dio e il bene spirituale della Chiesa e di quanti sono alla ricerca della verità e della perfezione evangelica. I pastori diocesani, decidendo coram Deo (di fronte a Dio, ndr) quali siano le Cause meritevoli di essere iniziate, valuteranno anzitutto se i candidati agli onori degli altari godano realmente di una solida e diffusa fama di santità e di miracoli oppure di martirio». «Tale fama - continuava il pontefice - che il Codice di Diritto Canonico del 1917 voleva che fosse ’spontanea, non arte aut diligentia procurata, orta ab honestis et gravibus personis, continua, in dies aucta et vigens in praesenti apud maiorem partem populi’ (can. 2050, § 2), è un segno di Dio che indica alla Chiesa coloro che meritano di essere collocati sul candelabro per fare ’luce a tutti quelli che sono nella casa’ (Mt 5,15)». «È chiaro - concludeva papa Ratzinger - che non si potrà iniziare una Causa di beatificazione e canonizzazione se manca una comprovata fama di santità, anche se ci si trova in presenza di persone che si sono distinte per coerenza evangelica e per particolari benemerenze ecclesiali e sociali ».
Nell’Istruzione le autorevoli indicazioni pontificie sono state ovviamente puntualmente eseguite. Tanto che il citato canone del Codice pio-benedettino è diventato quasi alla lettera il comma 2 del paragrafo 7: «La fama (di santità o di martirio, ndr) deve essere spontanea e non artificiosamente procurata. Deve essere stabile, continua, diffusa tra persone degne di fede, vigente in una parte significativa del popolo di Dio». Il documento, diviso in sei parti, descrive minuziosamente tutti gli atti che le diocesi devono seguire per iniziare e portare a termine la fase diocesana del processo di beatificazione. Nella prima parte si ricorda, come già visto, la necessità dell’esistenza di una autentica fama di santità per iniziare il processo e si spiegano le figure dell’attore, del postulatore e del vescovo competente della causa. Nella seconda parte si descrive la fase preliminare della causa che arriva fino alla concessione del Nulla Osta della Congregazione vaticana. Nella terza si parla dell’Istruzione della causa. Nella quarta delle modalità da seguire nella raccolta delle prove documentali e nella quinta di quelle ’testificali’ (in questa sezione c’è anche un capitoletto dedicato all’«utilizzo del registratore e del computer»). Nella sesta infine si indicano le procedure per gli atti conclusivi dell’inchiesta diocesana.
Nell’Introduzione alla Sanctorum Mater si spiega che tra i fini dell’istruzione, oltre a quello di mettere a punto elementi procedurali riguardanti le inchieste sui miracoli che negli ultimi vent’anni si sono dimostrati «problematici nell’applicazione », c’è quello di salvaguardare la «serietà delle inchieste» diocesane in genere. Esigenza che è stata confermata dal cardinale Saraiva Martins nell’intervista concessa all’Osservatore romano di ieri laddove ha ribadito che nelle cause di beatificazione è «necessario procedere con ancor maggiore cautela e con più accuratezza». Intervista che è stata ben sintetizzata nel titolo: «Sarà chiesto più rigore nei processi diocesani di canonizzazione».
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