Piazze piene e democrazia
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 12.12.2006).
La pubblicazione di un piccolo libro e una grande manifestazione popolare, pochi giorni fa, ci hanno messi di fronte a una domanda essenziale per la democrazia. Il libro è La democrazia che non c’è (Einaudi, pagg. 152, euro 8) di Paul Ginsborg, uno studioso assai noto al pubblico italiano per le indagini ch’egli ha dedicato alla realtà italiana con l’attenzione distaccata di chi viene di lontano, ma con la passione di chi è intimamente partecipe dei problemi del Paese che l’annovera tra i professori della sua Università. La manifestazione sono le centinaia di migliaia di persone convenute in piazza San Giovanni a Roma, per protestare contro la legge finanziaria e soprattutto per rinnovare il carisma del leader e di nuovo esibirlo coram populo. Un libro e una manifestazione di piazza: un accostamento già di per sé ricco di simboli rispetto alla domanda. La possiamo enunciare come segue.
La democrazia, nella versione rappresentativa che conosciamo, è una classe politica, scelta attraverso elezioni, che immette nelle istituzioni istanze della società per trasformarle in leggi. È dunque, nell’essenziale, un sistema di trasmissione e trasformazione di domande che si attua attraverso una sostituzione dei molti con i pochi: una classe politica al posto della società. Qui, piaccia o no, c’è la radice inestirpabile del carattere oligarchico della democrazia rappresentativa, carattere che per lo più viene occultato in rituali democratici ma che talora non ci si trattiene dall’esibire sfrontatamente. Ma, al di là di ipocrisia o arroganza, ciò che è decisivo è il rapporto di sostanza che si instaura tra questa oligarchia e la società.
Dire "società" è però un parlare per astrazioni, perché essa, in concreto, è fatta di parti diverse tra le quali è inevitabile che la rappresentanza proceda per passaggi selettivi: dal popolo tutto intero agli elettori effettivi, dagli elettori alle assemblee parlamentari, dalle assemblee parlamentari alla loro maggioranza, dalla maggioranza al governo, dal governo al suo capo. Si dice spesso che la classe politica è uno specchio, né migliore né peggiore, del Paese che rappresenta, ma è una banale falsità auto-assolutoria.
La classe politica, ai suoi diversi livelli, è quello che è perché seleziona i suoi riferimenti sociali, illuminandone alcuni e oscurandone altri, stabilendo rapporti con i primi e tagliandoli con i secondi. Per questo, la classe politica non è e non può essere lo specchio della società. Se fosse un semplice rispecchiamento e non una selezione, sarebbe solo una miniatura, mentre la democrazia rappresentativa è tale perché della società la classe politica deve dare una rappresentazione, per poterla governare conseguentemente. Eccoci allora alla domanda: quali sono i riferimenti sociali della nostra classe politica? In breve: che cosa rappresentano i rappresentanti? Questo è il problema qualitativo della democrazia rappresentativa.
Guardiamoci attorno. La classe politica "pesca" dalla società le istanze ch’essa vuole rappresentare per ottenere i consensi necessari a mantenere o migliorare le proprie posizioni, secondo la legge ferrea dell’auto-conservazione delle élite. Che cosa trovano? Aspirazioni di massa al benessere materiale, esigenze di sviluppo e di tutela dei soggetti economici, affermazioni di "valori" immateriali della più diversa natura. Tante cose eterogenee e tanti soggetti sociali, conflittuali tra di loro e al loro stesso interno, che, con i mezzi più diversi, leciti e criminali, cercano di farsi strada e che la classe politica è chiamata a selezionare; un caos di istanze tra le quali si deve però fare una prima, fondamentale distinzione, a seconda della prospettiva in cui si collocano: individuale e immediata, oppure generale e duratura. In questa distinzione traspare il pericolo della catastrofe della democrazia, cui è esposta per cecità o incapacità di allargare e allungare lo sguardo.
Questa summa divisio fa oggi passare in seconda linea altre polarizzazioni politiche. Destra e sinistra, progressisti e conservatori, laici e credenti, sono divisioni importanti, ma vengono dopo e sono interne a quella principale, tra coloro che sanno interessarsi solo al loro presente e coloro che sanno concepirlo come premessa di un avvenire comune. È una tipologia del carattere degli esseri umani (la cicala e la formica) che oggi assume un significato eminentemente e drammaticamente politico, a fronte degli interrogativi che pesano sul mondo.
La grande manifestazione e il piccolo libro di cui si è detto all’inizio sono rappresentativi di questa alternativa.
Una parola d’ordine della grande manifestazione - libertà - ha riassunto tutte le altre, e non si è minimamente pensato di farla seguire da responsabilità. Libertà, da sola, significa una cosa soltanto: autorizzazione a curare illimitatamente i propri immediati interessi, a costo di dissipare i beni collettivi e permanenti che assicurano un avvenire. Solo la responsabilità può togliere alla libertà il suo veleno distruttivo. Ma, su questo, nessuna parola.
Un popolo di individui liberi e irresponsabili ha i nervi fragili di fronte all’insicurezza per l’avvenire perché avverte, al tempo stesso, di esserne causa senza avere strumenti per affrontarla. Per questo, più di tutto detesta i profeti di sventura e ama chi lo tranquillizza. La paura è uno strumento politico. Per legare a sé questo popolo, per un demagogo non c’è di meglio che, prima, diffondere paura e, poi, dissiparla. Al potere starà non il grande fratello ma il grande rassicuratore.
Naturalmente, i motivi di paura reali, di cui non si ha il controllo, quelli occorre minimizzarli o occultarli. Le risorse energetiche sono alla fine? L’inquinamento ambientale è alle stelle? L’acqua scarseggia? I ghiacci polari si sciolgono? La desertificazione avanza? Niente paura. Gli scienziati non sono d’accordo nelle diagnosi e nelle prognosi. L’Aids continua a diffondersi? Nessun problema. Basta non parlarne più. Lo stesso per le inquietudini morali. Paesi interi dell’Africa tropicale muoiono? Le disuguaglianze nel mondo aumentano progressivamente? Forse non è così vero e, comunque, non ci deve importare, perché la colpa è loro e dei loro governi. Continuiamo così liberamente e non facciamoci domande inutili!
Nel nucleo del discorso sulla democrazia che non c’è di Ginsborg troviamo la nozione di società civile, il contrario di tutto questo. L’espressione ha ascendenze filosofiche, illuministiche, hegeliane e marxiane, liberali e gramsciane ma qui non è usata in nessuna di queste accezioni. Se ne prendono elementi diversi per costruire una nozione indicante un ambito di rapporti sociali che si collocano prima e fuori dei rapporti di potere pubblico ma si elevano al di sopra dei meri interessi particolari e pongono al potere politico disinteressate ma stringenti domande.
Per Ginsborg, la società civile è una «società civilizzata», portatrice di suoi valori sostenuti da libere energie di natura non egoistica; è il luogo di coloro che sanno alzare lo sguardo dalla loro pura e semplice convenienza individuale, per vedere più avanti e più in largo.
È la società partecipante, che vince la passività e l’indifferenza per i problemi comuni, considerate il segno maggiore di malessere delle nostre democrazie, un segno non contraddetto, anzi semmai confermato dall’alta partecipazione a elezioni vissute come consegna delle difficoltà comuni a qualche grande rassicuratore. L’espressione che più frequentemente ritorna nel libro è «soggetti attivi e dissenzienti»: dissenzienti rispetto all’uniformità antropologica e alla improduttività spirituale indotte dalla società mondiale dei consumi; attivi nell’elaborare valori, punti di vista e bisogni differenziati rispetto a quelli dominanti. Il soggetto della società civile è l’individuo, in quanto però inserito in un «sistema aperto di connessioni».
A condizione che possano sprigionare energie sociali al loro esterno, le strutture sociali comunitarie sono viste con favore: associazioni, circoli, club, movimenti di base, organizzazioni non governative nazionali e sopranazionali. L’accento, però, è posto sulla famiglia: una risorsa fondamentale se sa educare i suoi membri all’apertura e alla responsabilità verso i propri simili; un pericolo mortale se si chiude su se medesima coltivando egoismo familistico.
Questa società civile è più un obbiettivo da perseguire che un dato che possiamo constatare. In essa è riposta la speranza di una politica non di mera sopravvivenza a breve termine, non appiattita su suicidi interessi solo particolari. Non è un soggetto direttamente politico e sbaglierebbe quindi a candidarsi come forza di governo. È infatti un soggetto pre-politico, più un luogo di elaborazione e confronto di istanze sociali che un luogo di sintesi politica. Ma una classe politica non totalmente dedita alla propria auto-riproduzione farebbe bene a prestare attenzione e, anzi, a valorizzare questa risorsa della vita sociale. È lì che si possono trovare le energie che aiutano a vedere più in là delle piccole cerchie di interessi egoistici.
Constatiamo le difficoltà che incontra un governo, quando chiede sacrifici nel presente, per ragioni che guardano al futuro. Dove può sperare di trovare il consenso necessario, se non in questo genere di società civile, ove sia coltivato il senso delle comuni responsabilità? L’alternativa è il circolo vizioso di forze in competizione particolaristica che si votano all’auto-distruzione, senza nemmeno rendersene conto.
In un capitolo del suo libro Collasso (Einaudi, 2005), il biologo e geografo Jared Diamond narra l’affascinante e terribile storia di Pasqua, l’isolotto in pieno Oceano Pacifico, al largo della costa cilena, un tempo rigoglioso di vita e risorse. I suoi abitanti furono presi da una razionale follia che si manifestava in una gara di potenza tra clan su chi costruisse e installasse le più mastodontiche raffigurazioni delle proprie fattezze umane, quelle statue che oggi presidiano insensatamente un paesaggio spettrale e dal mare verso terra fissano i visitatori con il loro sguardo di pietra. Nel corso di tre secoli, questa corsa al successo e al prestigio fece il deserto attorno a loro. Furono abbattuti i grandi banani il cui tronco serviva a muovere i massi scolpiti e a rizzarli nei campi. La vegetazione si ridusse ad arbusti e sparirono gli animali di terra; gli uccelli cambiarono rotta; senza i tronchi per le canoe, anche la pesca cessò.
Finirono con l’abbrutirsi mangiando i ratti e poi divorandosi tra loro. Ci si chiede come abbiano potuto trascinarsi così in basso, addirittura con i loro stessi sforzi, riducendo una terra feconda in un’infelice gabbia mortifera dalla quale, avendo distrutto anche l’ultimo albero che sarebbe servito per l’ultima imbarcazione, finirono per non poter andarsene via. Una società tanto cieca rispetto al suo avvenire, si dice debba essersi fidata fino all’ultimo delle parole di qualche grande assicuratore che, per non dispiacere al suo popolo e farlo credere libero di proseguire nella sua follia, non usava altro che parole di ottimismo, parole con le quali gli impedì di alzare la testa e aprire gli occhi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI.
TEOLOGIA-POLITICA LUCIFERINA... A SILVIO BERLUSCONI UN "NOBEL"
I ragazzi immortali sull’isola di Pasqua
Il saggio di Zagrebelsky sul nostro rifiuto di diventare adulti. Analizza come medicina, genetica e stili di vita ci regalino l’illusione di un’esistenza eterna. Rompendo il patto con le generazioni che verranno
di EZIO MAURO (la Repubblica, 26 gennaio 2016)
Vivendo come fossimo immortali noi modifichiamo la vita stessa, il significato e il profilo del suo corso, trasformando per la prima volta nella storia dell’umanità la curva dell’esistenza - com’è stata chiamata sempre - in una lunghissima linea retta che non siamo mai stati abituati a risalire: e che crolla di colpo quando cede l’inganno dell’eterna fittizia gioventù, precipitando nella vecchiaia improvvisa.
Non è un autoinganno, perché tutto quel che ci siamo creati per dominare la vita ci autorizza a pretendere l’immortalità. La medicina naturalmente, la genetica e la biologia con i loro progressi al servizio dell’uomo. Ma anche il maquillage sociale e culturale al servizio delle mode, dei trattamenti, degli stili di vita, con la promessa di ingannare la realtà, camuffandone l’estetica. Se la tecnica, con la sua autorità che la rende signora dell’epoca, dice che si può fare, allora si deve: e infatti padri e madri lo fanno, mimando i consumi e la cultura dei figli, cercando di uniformarsi dentro l’età dominante, dunque senza più fine.
Così non viviamo la nostra vita, o almeno non nel suo naturale percorso, che è ciò che la rende appunto "vita" con un suo inizio, un culmine e una fine, e non soltanto esperienza di una fase illusoriamente fissata per sempre.
A l suo posto viviamo un’esperienza mimetica, spostata abusivamente nel territorio dell’età altrui, alterando il senso dell’una e dell’altra. Ciò che si indebolisce è il fluire del tempo, il passaggio delle fasi e il loro trascorrere, la fine di una stagione e la sua mutazione nell’inizio di un’altra, con i diversi colori, i toni e i modi propri di ogni epoca. Quel che si disimpara è la preparazione alla vecchiaia, il modo di accoglierla dai primi segnali fino alle prove evidenti e la sua accettazione. Scegliamo di rimanere uguali a quel che ci immaginiamo di essere. Pur di non declinare, decidiamo di non evolvere, imprigionandoci nell’oggi.
Ma il vero risultato di tutto questo è la scomparsa dell’età di mezzo, la fase di transizione, il passaggio di maturità, l’età adulta. Senza adulti. È il titolo del saggio di Gustavo Zagrebelsky pubblicato da Einaudi, che indaga la mutazione inquietante del sentimento delle generazioni, legandolo alla de-generazione e alla ri-generazione in quanto l’esistenza in sé non è vita, perché la vita è tensione al mutamento, in un perpetuo divenire. Esiste chiara, tuttavia, la distinzione tra giovani e vecchi che spacca la vita in due. Agli anziani gli antichi attribuivano autorità, governo e custodia del gregge, ma era la cautela di una società conservatrice, da Platone a Cicerone, che temeva i giovani "impetuosi" e "feroci" come li chiama Machiavelli assegnando però loro il compito di afferrare la "fortuna".
Oggi poi questa riserva di credito dei "saggi" è messa a dura prova dalla nuova scienza tecnologica e informatica che fornendo ogni possibile risposta rende superflue le domande e svaluta i vecchi saperi, con una vera e propria inversione di conoscenza tra le generazioni: rompendo così il vincolo di convenienza e di riguardo che derivava naturalmente dalla trasmissione di un’esperienza necessaria e rispettata, perché utile.
Poiché la società, come l’umanità, non è più capace di considerare e apprezzare una sua propria maturità nel senso di una pienezza stabilmente acquisita, e dunque tra crescita e recessione non c’è via di mezzo, la produttività diventa il nuovo criterio distintivo tra i giovani e i vecchi. Con la spesa sociale che serve prevalentemente agli anziani ma grava pesantemente sui loro nipoti, e un modello sociale che entra in crisi nel momento in cui l’autonomia della politica è risucchiata dall’ultima metafisica, quella dello stato di necessità, figlio della crisi quindi di nessuno, tecnicamente irresponsabile quanto indiscutibile. Si spezza sotto i nostri occhi un altro vincolo societario, quello tra i vincenti e i perdenti della globalizzazione, perché oggi i forti possono fare a meno dei deboli fino ad accettare non la disuguaglianza che c’è sempre stata, ma l’esclusione. Con una bizzarria evidente: ci viene detto che la giovinezza dura a lungo, anzi è eterna, quando siamo consumatori, mentre scopriamo che dura meno dell’anagrafe e si restringe quando siamo produttori.
Zagrebelsky porta alle estreme conseguenze questo allarme. Cita l’esempio dell’isola di Pasqua con migliaia di abitanti all’inizio del Settecento, ridotti a 111 individui un secolo dopo perché la deforestazione aveva fatto venir meno gli uccelli da cacciare, il legno per le canoe della pesca e per gli argini degli orti. La voracità della generazione vivente aveva letteralmente mangiato il territorio alle generazioni future, restavano le teste giganti di pietra, una pietra nuda, totem di volontà di potenza che si autodistrugge.
Anche oggi la generazione dominante si comporta come fosse l’ultima, nell’egoismo del consumo illimitato delle risorse naturali e delle fonti energetiche e nel consumo distorto delle risorse genetiche manipolate, delle risorse finanziarie che scaricano l’indebitamento di oggi sui cittadini di domani. Quando Thomas Jefferson annunciò che "la Terra appartiene alla generazione vivente" intendeva affermare la piena sovranità e la piena libertà dei viventi rispetto al passato, anche davanti ai legami normativi e costituzionali, che possono essere modificati. Oggi l’uso proprietario delle risorse naturali rovescia quell’intenzione: la Terra sembra appartenere ai viventi per sempre, nel senso che non si sentono responsabili davanti al futuro.
È come se le generazioni di oggi fossero disinteressate alla loro successione, cieche di domani. E infatti, si domanda Zagrebelsky, il calo demografico non è forse un rifiuto di ogni responsabilità per il futuro, una chiusura esclusiva nell’oggi, un rimpicciolimento dell’orizzonte? Torniamo agli immortali: il disimpegno dalla discendenza trasforma il ciclo in un punto, ferma la storia. C’è un rapporto psicologico, morale, addirittura politico tra la negazione della morte e il rifiuto della procreazione, perché per l’immortale l’attività generativa esce dall’eterno presente, addirittura lo mette in discussione fino a rivelarne l’inganno, dunque è un contro-senso. D’altra parte - Zagrebelsky ricorda Canetti - quante persone scoprirebbero che non vale la pena di vivere una volta che non dovessimo più morire? L’esorcismo tecnico della morte sconta questa conseguenza, l’affievolimento della vita, il disinteresse a crearla per limitarsi a consumarla.
L’ultimo nesso che si rompe, tra giovani e vecchi, è dunque tra padri e figli, il più sacro, quello che trasforma in generazioni le classi di età che si succedono. Siamo davanti all’inedito. E qui, lo Zagrebelsky giurista non può non porre il tema più audace e ormai indispensabile, quello dei diritti delle generazioni future. All’egoismo storico dei viventi, bisogna opporre il diritto di coloro che verranno, il diritto di succedere a noi. Siamo evidentemente davanti alla prefigurazione di diritti pre-civili e pre-politici: semplicemente umani, anzi dovremmo dire pre-umani, perché riguardano i futuri abitanti della Terra. Il diritto di esistere, prima ancora del diritto del vivente. Il punto zero del diritto.
Zagrebelsky sa che in realtà le generazioni future non hanno alcun diritto soggettivo, quando vivranno non potranno chiedere i danni ai loro predecessori, tutt’al più potranno maledirli. Ma sa anche che la società non può reggere a lungo questo rovesciamento del debito storico: come se i figli avessero pagato definitivamente ciò che dovevano ai padri, e i padri non fossero in grado di regolare davvero i conti dei loro obblighi con la discendenza. Ci salva solo, dice l’autore, la categoria del dovere, senza un diritto giuridico corrispondente. Il dovere da solo. Aggiungo che si chiama responsabilità. Il contrario della moderna fuga nell’illusione di una vita infinita, sempre uguale a se stessa, dunque tecnicamente irresponsabile. Gli immortali si fermino in tempo, riportino gli adulti nel mondo per tenerlo insieme, come diceva Eliot: "Non sei né giovane né vecchio / ma è come se dormissi dopo pranzo / sognando di entrambe queste età".
Jared Diamond
“Ragazzi svegliatevi o il nostro mondo sparirà entro il 2050”
Lo studioso americano dell’ambiente riscrive per i giovani il suo libro sul “terzo scimpanzé”: potete ancora farcela
intervista di Gabriele Beccaria (La Stampa, 12.06.2015)
Ce la farà l’umanità a sopravvivere, evitando l’autodistruzione in una gigantesca catastrofe ambientale? A chi chiederlo, se non a Jared Diamond?
Biologo, zoologo, geografo, oltre che Premio Pulitzer ed esploratore, lui è prima di tutto un viaggiatore del tempo, capace di spostarsi periodicamente tra il XXI secolo e il Neolitico. Ha casa a Los Angeles, tra le tribù metropolitane, ma sa cavarsela bene tra le tribù della giungla primigenia della Papua Nuova Guinea. Studia le civiltà. Presenti e remote. Come vedono la luce e come si disintegrano.
Adesso si trova in California, nella dimensione futuribile, ed è un privilegio riuscire a intercettarlo. Racconta il suo ultimo libro, L’evoluzione dell’animale umano. Il terzo scimpanzé spiegato ai ragazzi, che è la rivisitazione del saggio uscito nel 1991. Edito in Italia da Bollati Boringhieri, è un’avventura per cervelli curiosi lungo i 200 mila anni della nostra specie e allo stesso tempo uno sguardo sul prossimo futuro. Che Diamond descrive con toni a tratti lievi e a tratti lugubri.
Professore, lei sostiene che la civiltà è sull’orlo del precipizio e che dobbiamo subito cambiare modello. E non è l’unico a dirlo. Da dove dovremmo cominciare?
«Ma dagli autori dei libri!».
In che senso?
«Dovrebbero essere più decisi ed egocentrici e promuovere meglio i loro saggi. E un buon punto partenza sono proprio i miei, compresi i precedenti Collasso e Armi, acciaio e malattie. Spiegano i problemi che abbiamo di fronte e il caos in cui ci troveremo presto se non cambiamo passo».
Dal ’91 a oggi cos’è cambiato sul Pianeta Terra?
«Ci sono stati molti cambiamenti, ma non è cambiata l’interpretazione globale. Il mondo è un tutto, dove l’orologio continua a ticchettare. La cattiva notizia è che utilizziamo sempre più risorse. La buona notizia è che la consapevolezza dello spreco cresce. Sia nella pubblica opinione, sia nelle multinazionali. Il che mi ha sorpreso».
Secondo lei, però, restiamo prigionieri di un paradosso: conosciamo le soluzioni, eppure manca la volontà politica.
«In effetti non ci sono misteri sulle soluzioni: consumare meno e creare più eguaglianza. E sappiamo anche come fare a consumare meno energia e risorse».
C’è qualche buon esempio?
«L’Europa, che fa meglio degli Usa».
Nel ’91 lei scrisse una dedica ai suoi figli Joshua e Max. Ora si rivolge ai giovani in generale: quanto spera in loro?
«In effetti il mio libro è rivolto ai giovani, perché è proiettato verso i prossimi 50 anni: per allora io sarò morto e loro vivi».
Che ne sarà di quei giovani?
«Dovranno prendere le decisioni che governeranno lo stato del mondo di domani e saranno sempre loro a soffrire le conseguenze delle decisioni sbagliate di oggi. È quindi importante che capiscano che cos’è in ballo. Già la prima versione del Terzo Scimpanzé, d’altra parte, era rivolta ai giovani, ma ora, riscrivendo il libro, l’ho reso più facilmente leggibile e spero che si diffonda ancora di più nelle scuole».
Al momento non c’è molta scienza nelle scuole, non crede?
«Ma i miei libri non sono unicamente scienza! Toccano questioni d’interesse globale e senza mai trascurare la storia».
Il suo è il modello della «Terza Cultura», sospeso tra scienza e umanesimo, immaginato da John Brockman?
«In effetti lui sostiene che la scienza non è solo qualcosa da descrivere tecnicamente, per pochi esperti, ma è destinata al pubblico nel senso più ampio. E non soltanto perché ci riguarda tutti, ma perché è interessante, a patto che gli studiosi sappiano davvero raccontarla».
Raccontare, parlare: è questo - lei spiega nel libro - che ci rende umani.
«Sì. E dietro c’è l’interrogativo-base ancora aperto: come siamo arrivati al punto di parlare adesso, lei ed io, nonostante il 98% del nostro Dna sia lo stesso degli scimpanzè, i quali, perlopiù, stanno rinchiusi in gabbia e non parlano e non leggono?».
Secondo lei, dobbiamo imparare dal passato: qual è la lezione da non dimenticare mai?
«Proviene dagli ultimi 30 mila anni: noi umani, spesso, abbiamo minato le basi stesse dell’economia, sterminando specie e distruggendo habitat. Così molte società sono crollate e, se è successo nel passato, quando eravamo meno numerosi e dotati di mezzi più primitivi, oggi distruggiamo tutto molto più velocemente. Ecco perché il destino del mondo si decide entro i prossimi decenni».
Entro il 2050?
«Sì. O avremo realizzato un’economia sostenibile o avremo cancellato tutto in modo irreversibile. E nel secondo caso precipiteremo in un’altra Età della Pietra o, peggio, lasceremo il posto a topi e insetti».
L’Età della Pietra delle tribù delle Nuova Guinea?
«Sì. Loro sanno come fabbricare utensili in pietra e in caso di catastrofe globale sarebbero in grado di sopravvivere. Noi americani o voi italiani, purtroppo, no. Noi non sappiamo scheggiare le pietre».
Quelle tribù sono più felici o più tristi di noi?
«In certo senso sì e in un altro no. No, perché la vita media è 50 anni invece dei nostri 80. Non hanno medicine e si trovano immersi in una realtà violenta. Ma sono più felici perché godono di luoghi bellissimi e hanno migliori relazioni sociali. Non sono mai soli. Sanno guardarti negli occhi. Senza perdere lo sguardo dentro uno smartphone».
La dialettica giovani-anziani varia nelle diverse epoche
Rubare il futuro la dura legge che incatena le generazioni
Ma la storia antica dell’Isola di Pasqua svela che spesso sono i padri a divorare i figli
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 25.03.2015)
LE società vecchie sono quelle soffocate dal peso del passato. Le giovani sono quelle che, almeno in parte, se ne affrancano, per guardare liberamente se stesse e deliberare senza pregiudizi. Le età delle società si misurano in “generazioni”. Ma, che cosa sono le generazioni, una volta che, dalla cellula in cui sta il rapporto generativo genitori- figli, si passa alla dimensione sociale in cui migliaia o milioni d’individui si succedono sulla scena della vita, gli uni agli altri? Una volta che si voglia sostenere che una generazione giovane sostituisce una generazione vecchia? La questione ha una storia. Thomas Jefferson disse: «La terra appartiene a (alla generazione de) i viventi» («the earth belongs to the living»).
Quel motto stava a significare che, sebbene ogni costituzione porti in sé ed esprima l’esigenza di stabilità e continuità, non si doveva pensare a una fissità assoluta, a costituzioni perenni e immodificabili. Poiché ogni generazione è indipendente da quella che la precede, ognuna può utilizzare come meglio crede, durante il proprio “usufrutto”, i beni di questo mondo e, tra questi, le leggi e le costituzioni. Ma, qual è la “scadenza” di una generazione, cioè la sua durata in vita?
Parliamo della generazione del fascismo, della resistenza, del ‘68, di Internet, ecc. Da ultimo, si parla di “generazione perduta”, con riguardo a coloro che sono privi di lavoro e d’istruzio- ne. La nuova generazione tedesca ha chiesto conto alla generazione dei suoi padri, per la parte avuta nel nazismo. La caduta del muro di Berlino ha aperto la via alla generazione dell’89. Ciascuna di queste generazioni è tale non per ragioni d’età di coloro che ne hanno fatto e ne fanno parte, ma per l’epoca da essi segnata e da cui essi sono segnati. In altri termini, si tratta d’identità storiche, di caratteri spirituali collettivi che definiscono determinati periodi e determinano passaggi o conflitti con la generazione precedente.
E oggi, nelle nostre società, in nome di che cosa la generazione nuova pretende lo spazio che era della vecchia? Sempre più spesso i vecchi confessano il loro sentirsi “fuori luogo”. Con le parole di Norberto Bobbio: «Nelle società evolute il mutamento sempre più rapido sia dei costumi sia delle arti ha capovolto il rapporto tra chi sa e chi non sa. Il vecchio diventa sempre più colui che non sa rispetto ai giovani che sanno, anche perché hanno maggiore capacità di apprendimento ». Il luogo dei giovani nelle società odierne è il luogo della competitività, dell’innovazione, dell’efficienza e della velocità. L’identità dell’odierna generazione emergente è la produttività crescente finalizzata allo sviluppo.
A differenza di altre identità generazionali che fissavano, stabilizzavano e arrestavano il tempo e, dunque, in certo modo rassicuravano fino a quando non fossero sostituite da altre, la produttività crescente è la più implacabile delle leggi, perché richiede la mobilitazione di tutte le energie sociali disponibili e implica la marginalizzazione di coloro i quali non ne sono partecipi. Costoro, cioè coloro che non sanno, non possono o non vogliono stare al passo, cioè gli inidonei e i non integrati non possono giustificare la loro esistenza.
Noi viviamo in un’epoca che crediamo ancora dominata dall’idea o, forse, dall’ideologia dei diritti umani: un’epoca aperta dalle rivoluzioni liberali e trionfante nella seconda metà del Novecento, anche come reazione alle tragedie dei totalitarismi. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, che inizia proclamando che «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti» può essere assunta come il simbolo riassuntivo di un’intera generazione. Ma è ancora così? Nelle società gravate dalla penuria di risorse vitali - cioè, in pratica, tutte, salvo le società dell’utopia - gli individui nati o divenuti inutili erano soppressi fin dall’inizio o abbandonati a se stessi. Erano i non-produttivi, i deboli, gli affetti da malformazioni e malattie, i “malriusciti” (secondo la terminologia eugenetica del nazismo) o coloro che rappresentavano solo un peso per gli altri, come i vecchi irrecuperabili a una vita attiva.
Herbert Spencer ne è stato il teorizzatore riconosciuto. I poveri, i marginali, gli handicappati, i deboli, in generale gli “inadatti”, non avrebbero dovuto essere sostenuti a spese della collettività. La spesa sociale sottrae risorse allo sviluppo della “parte sana” della società. Oggi, i diritti umani impediscono la riproposizione di simili teorie, ma la pratica, rivestita dalla forza della necessità, ne ripropone gli esiti. La cosiddetta crisi fiscale dello Stato e la conseguente riduzione della “spesa sociale” - pensioni e assistenza, sanità, lavoro - chi finisce per colpire? Proprio i più deboli. Tra questi, gli anziani, il cui numero percentuale rispetto agli individui produttivi, aumenta con la durata della vita. Forse, è alle viste una vera e pro- pria ribellione della generazione giovane, su cui grava l’onere del sostentamento degli anziani. Non li si elimina fisicamente e direttamente, ma li si abbandona progressivamente al loro destino, con effetti analoghi.
Sulle società della crescita per la crescita, incombe un’altra minaccia. Occorrerebbe sempre rammentare la lezione dell’Isola di Pasqua. Quest’isola polinesiana, scoperta dagli europei il giorno di Pasqua del 1722, è celebre per i 397 megaliti, uno dei quali raggiunge il peso di 270 tonnellate, che raffigurano giganteschi ed enigmatici tronchi umani, alcuni dei quali sovrastati da parallelepipedi colorati di rosso. Quando gli esseri umani vi posero piede alla fine del primo millennio, doveva essere una terra fiorente, coperta di foreste, ricca di cibo dalla terra, dal mare e dall’aria. Arrivò a ospitare diverse migliaia di persone, divise in dodici clan che convivevano pacificamente. Quando vi giunsero i primi navigatori europei, trovarono una terra desolata, come ancora oggi ci appare: completamente deforestata, dal terreno disastrato e infecondo, dove sopravvivevano poche centinaia di persone. Nel 1864, quando mercanti europei vi sbarcarono per i loro affari, il numero era ridotto a 111 individui, denutriti, geneticamente degradati. Che cosa e come era avvenuto questo disastro?
C’è un rapporto tra le grandi e inquietanti teste di pietra e l’estrema desolazione di ciò che le circonda? L’enigma di Pasqua, per com’è stato sciolto dagli studiosi, è un grandioso e minaccioso apologo su come le società possono distruggere da sé il proprio futuro per gigantismo e imprevidenza. La causa prima del collasso sarebbe stata la deforestazione, cioè la dissipazione della principale risorsa naturale. La foresta ospitava uccelli stanziali e attirava uccelli di passo; forniva il legname alle canoe usate per la pesca; difendeva l’integrità del territorio coltivato a orto dalle tempeste tropicali. A poco a poco, le risorse alimentari vennero a mancare e la dieta si ridusse, prima, a polli e piccoli molluschi e, poi, a topi e sterpaglia. La penuria dei fattori primi della vita, come sempre accade, alimentò le rivalità e la guerra tra i clan. Nella generale carenza di cibo, si finì all’ultimo stadio, l’antropofagia.
E le teste di pietra? Sembra che abbiano avuto una parte di rilievo. Col passar del tempo e in concomitanza con le lotte tra i clan, da piccole che erano all’inizio, diventarono progressivamente sempre più imponenti. La più alta, sei volte un uomo normale, è anche quella costruita per ultima, quando la catastrofe incombeva. Motus in fine velocior. Erano un simbolo di potenza tecnologica he poteva essere speso nella lotta per la supremazia politica. Ma per scalpellarle dalla cava, trasportarle e drizzarle - un lavoro, per quella società in quel luogo e in quel tempo, mostruoso - occorrevano tronchi d’albero d’alto fusto e fibre legnose per fabbricare funi. Alla fine, l’isola fu desertificata e, parallelamente, si eressero pietre sempre più alte; poi per la maggior parte furono abbattute e spezzate. Quando tutto fu compiuto, i sopravvissuti pensarono a una via di fuga dall’inferno ch’essi stessi avevano creato. Ma il legno per costruire le barche - la loro salvezza - era già stato usato e consumato per le teste di pietra.
Che cosa dunque avvenne a Pasqua? Come possiamo condensare in una sola frase la sua parabola? Per soddisfare manie di potenza e grandezza di oggi, non si è fatto caso alle necessità di domani. Ogni generazione s’è comportata come se fosse l’ultima, trattando le risorse di cui disponeva come sue proprietà esclusive, di cui usare e abusare. Il motto di quella gente dissennata avrebbe potuto essere quello del distinto signore, estensore della Dichiarazione d’indipendenza, Thomas Jefferson: «La terra appartiene alla generazione vivente». Ammesso che nuove generazioni viventi possano esserci sempre di nuovo.
La patria dell’oblio collettivo
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 6/6/2010)
Vorrei tornare sulle parole di Piero Grasso a proposito di mafia e politica, dette il 26 maggio a Firenze davanti alle vittime della strage dei Georgofili. L’intervista rilasciata a Francesco La Licata dal Procuratore nazionale Antimafia chiarisce infatti alcuni punti essenziali, e pone quesiti alla classe politica e a tutti noi. La domanda che formula, implicita ma ineludibile, è questa: come funziona la memoria collettiva in Italia? Come vengono sormontati i lutti, e vissuti i fatti tragici, i mancati appuntamenti con la giustizia?
In questo giornale ho cercato prime risposte, evocando la richiesta, formulata il 7-8-98, di archiviazione dell’indagine su Berlusconi e Dell’Utri per le stragi a Roma, Firenze e Milano nel ’93-’94: richiesta firmata da Grasso assieme a quattro magistrati, e accolta poi dal gip di Firenze. Nella richiesta era chiaro il nesso fra Cosa nostra e il soggetto politico nato dopo Tangentopoli (Forza Italia), ma mancavano prove di un’«intesa preliminare». Quell’atto mi parve più esplicito di quanto detto dal procuratore il 26 maggio, e su tale differenza mi sono interrogata. Ma l’interrogativo, più che Grasso, concerne in realtà i politici, e tramite loro l’Italia intera: giornalisti, elettori, ministri ed ex ministri di destra e sinistra.
Per chiarezza, vorremmo citare i principali passaggi della richiesta di archiviazione e confrontarli con quello che Grasso afferma oggi. Nella richiesta (da me impropriamente chiamata «verbale», domenica scorsa) è scritto: «Molteplici (sono) gli elementi acquisiti univoci nella dimostrazione che tra Cosa Nostra e il soggetto politico imprenditoriale intervennero, prima e in vista delle consultazioni elettorali del marzo 1994, contatti riconducibili allo schema contrattuale, appoggio elettorale-interventi sulla normativa di contrasto della criminalità organizzata». E ancora: il rapporto tra i capimafia e gli indagati (Berlusconi e Dell’Utri, citati come autore-1 e autore-2 e rappresentanti il nuovo «soggetto politico imprenditoriale» in contatto con Cosa nostra) «non ha mai cessato di dimensionarsi (almeno in parte) sulle esigenze di Cosa nostra, vale a dire sulle esigenze di un’organizzazione criminale». Il testo firmato da Grasso è inedito, ma gli argomenti che esso contiene appaiono in documenti che la classe politica conosce bene: il decreto di archiviazione dell’inchiesta di Firenze, e quello che archivia la successiva inchiesta di Caltanissetta su Berlusconi, Dell’Utri e le stragi di Capaci e via D’Amelio (3-5-02). Il testo è pubblicato da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza in un libro, «L’agenda nera», che uscirà il 10 giugno per Chiarelettere.
Ha ragione dunque il procuratore a dire che nella sostanza non c’è nulla di nuovo in quello che ha ricordato giorni fa a Firenze («Cosa nostra ebbe in subappalto una vera e propria strategia della tensione», per creare disordine e dare «la possibilità a una entità esterna di proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale che veniva dalle macerie di Tangentopoli. Certamente Cosa nostra, attraverso questo programma di azioni criminali, che hanno cercato d’incidere gravemente e in profondità sull’ordine pubblico, ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste»). Secondo alcuni il procuratore avrebbe oggi alzato il tiro, ma non è vero: semmai dice meno cose, su Forza Italia. Ed ecco la conclusione cui giunge nell’intervista: «L’idea che io mi sono fatto di quel terribile momento storico del ‘92 e del ‘93, molto prima dello scorso 26 maggio, era rintracciabile in moltissimi interventi pubblici, oltre che in tre libri pubblicati dal 2001 al 2009. Ritenevo e ritengo ancora quella ricostruzione storica una sorta di patrimonio della memoria collettiva definitivamente acquisito».
Proprio qui tuttavia è il punto che duole. L’osceno italiano di cui parla spesso Roberto Scarpinato, procuratore generale di Caltanissetta, e cioè il potere reale esercitato «fuori scena», di nascosto, esclude l’esistenza di un «patrimonio della memoria collettiva definitivamente acquisito». A differenza dell’America, o della Germania che di continuo rivanga il proprio passato nazista, l’Italia non ha una memoria collettiva che archivi stabilmente la verità e la renda a tutti visibile. Da noi la memoria storica si dissipa, frantumando e seppellendo fatti, esperienze, sentenze. E di questo seppellimento sono responsabili i politici, per primi.
Senza voler fare congetture, si può constatare che Grasso forse dice meno di quel che sottoscrisse nel ‘98, anche se dice pur sempre molto. Sono i politici a parlare più forte di quanto parlarono tra il ‘98 e oggi.
Sono i politici ad allarmarsi giustamente per le sue parole, a chiedere più verità, come se non avessero già potuto allarmarsi in occasione dei tanti atti giudiziari riguardanti quello che Grasso chiama «il nostro 11 Settembre: dall’Addaura, a Capaci, a via D’Amelio, fino alle stragi di Roma, Firenze, Milano e a quella mancata dello stadio Olimpico di Roma». Non sono i giudici ad aver dimenticato le deposizioni di Gabriele Chelazzi, il pm fiorentino titolare dell’inchiesta sui «mandanti esterni» delle stragi del ‘93, davanti alla commissione nazionale Antimafia il 2-7-02. Nella lettera ritrovata dopo la sua morte, Chelazzi si lamenta con i suoi uffici e scrive: «Mi chiamate alle riunioni solo per dare conto di ciò che sto facendo, quasi che fosse un dibattito».
È così che la memoria fallisce. Che l’osceno resta fuori scena, ostacolato solo dalle intercettazioni. Atti giudiziari e libri vengono sepolti nei ricordi perché sono trasformati in opinioni, per definizione sempre opinabili. Il vissuto viene trasferito nel mondo del dibattito e le sentenze diventano congetture calunniose. È quello che permette a Giuliano Ferrara, sul Foglio del 31 maggio, di squalificare le parole di Grasso definendole «ipotesi e ragionamenti» dotati di «uno sfondo politico e nessun avallo giudiziario». Il patrimonio della memoria collettiva, lungi dall’esser «definitivamente acquisito», è permanentemente cestinato.
I politici partecipano allo svuotamento della memoria usandola quando torna utile, gettandola quando non conviene più. Lo stesso allarme di oggi, non è detto che durerà. È come se nella mente avessero non un patrimonio, ma un palinsesto: un rotolo di carta su cui si scrive un testo, per poi raschiarlo via e sostituirlo con un altro che lascia, del passato, flebilissime tracce. L’intervista di Violante al Foglio, l’1 giugno, è significativa: in essa si dichiara che è arrivato il momento di «capire senza rimestare», di «mettere ordine» tra fatti forse non legati. Manca ogni polemica con il pesante attacco a Grasso, sferrato il giorno prima dal quotidiano.
Dice Ferrara che «non si convive inerti con un’accusa di stragismo a chi governa». Può darsi, ma l’Italia ha dimestichezze antiche con l’inerzia. Se non le avesse, non dimenticherebbe sistematicamente i drammi vissuti, e come ne è uscita. Non dimenticherebbe che del terrorismo si liberò grazie ai pentiti. Che tanti crimini sono sventati grazie alle intercettazioni. Come ha detto una volta Pietro Ichino a proposito dei ritardi della sinistra sul diritto di lavoro, in Italia «si chiudono le questioni in un cassetto gettando la chiave». È il vizio di tanti suoi responsabili (nella politica, nell’informazione) pronti a convertirsi ripetutamente. Pronti al trasformismo, a voltar gabbana. Chi non sta al gioco, chi nel giornalismo ha memoria lunga e buoni archivi, viene considerato uno sbirro, o un rimestatore, o, come Saviano, un idolo da azzittire e abbattere. Occorre una politica più attiva e meno immemore, se davvero si vuole che i giudici non esercitino quello che vien chiamato potere di supplenza.
Quando resta un solo albero
di MARIO TOZZI (La Stampa, 5/6/2010)
Suscitiamo una certa pena, noi uomini, intenti come siamo ad armeggiare attorno a un buco da cui fuoriesce una marea di petrolio, senza riuscire ad attapparlo, pur spendendo quanto un anno di reddito di un’intera nazione africana. Pena e un po’ tenerezza, costretti nelle nostre amate scatolette metalliche per ore, ogni giorno, illudendoci di comunicare quando siamo più isolati che mai. E un po’ tristezza, distesi su spiagge sporche sulla riva di mari in cui riversiamo senza sosta tonnellate di liquami nell’intento di goderci una vacanza. E rabbia, mentre buttiamo via l’acqua di sorgente che poi ricompriamo imbottigliata a prezzi assurdi. O fabbricando sostanze come la plastica che contrastano il principio per cui in natura nulla si crea e nulla si distrugge.
In un viaggio nell’Europa dell’inizio del XX secolo il mitico Tuiavii di Tiavea, sovrano delle isole di Samoa, metteva già alla berlina molti aspetti del progresso occidentale riducendoli a usanze strane e ridicole, come quella di suddividere il tempo, o malefiche, come quella di venerare il denaro come unico dio. Il capo indigeno concludeva la sua invettiva contro il papalagi (l’uomo occidentale) imponendo ai suoi sudditi di non recarsi mai in Europa, ché tanto non c’era nulla da imparare.
Tuiavii aveva capito che c’è una differenza fra gli uomini e gli altri viventi. Una sola, ma fondamentale, che spiega la nostra apparente supremazia e, insieme, il nostro precipitarsi verso la crisi ecologica più grave che l’umanità abbia mai attraversato. Questa differenza non sta nella nostra scatola cranica più capace (se è per questo i neandertaliani avevano un cervello anche più grosso, ma si sono ugualmente estinti), in una presunta superiore intelligenza e nell’uso delle mani (basti studiare gli elefanti e la loro proboscide) o nella capacità di comunicare (solo Bach regge il confronto di armoniche con le balene). Questa differenza è quella che non permette di notare più quei paradossi della vita quotidiana che pure i nostri antenati mostravano di conoscere.
Ma non è difficile coglierla, è la stessa che non aveva invece compreso l’ultimo indigeno dell’isola di Pasqua mentre tagliava l’ultimo albero: non poteva ignorare che così facendo avrebbe condannato la sua gente alla fine. Eppure lo ha fatto. Perché? A causa dell’accumulo e del profitto, sconosciuti al resto degli animali e dei vegetali, ma ben noti proprio agli uomini, che più posseggono e più vorrebbero. Questa è di fatto l’unica differenza che conta.
Possiamo evitare che questa giornata della Terra diventi l’ennesima occasione perduta solo se diventerà un momento di conoscenza per gli uomini. Comprensione della storia naturale e dell’ambiente di cui facciamo parte, migliore conoscenza di noi stessi sulla Terra, verrebbe da dire, con gli antichi. Quella differenza è così fondamentale da farci ignorare che le risorse finiscono più in fretta di quanto speriamo, e che noi siamo sempre di più e abbiamo sempre maggiori esigenze su un pianeta che non può che rimanere lo stesso. Una riconversione ecologica delle attività produttive dell’intera umanità è quanto si dovrebbe e potrebbe ancora fare, ma perché gli uomini si dovrebbero impegnare in questa direzione? A cosa servirebbe? Facile, riduzione degli impatti umani, risparmio di acqua, riciclaggio dei rifiuti, energie rinnovabili, minor consumo di territorio servono semplicemente a sopravvivere senza tagliare il ramo su cui siamo seduti. Sarebbe già qualcosa.
LE IDEE
I sette peccati capitali di Internet (e le sue virtù)
di STEFANO RODOTA’ *
Qual è il destino dei parlamenti nell’età dell’informazione e della comunicazione? Alcuni anni fa, quando cominciò il dibattito sulla democrazia elettronica, sembrava che le nuove tecnologie avrebbero portato ad una progressiva scomparsa della democrazia rappresentativa, sostituita da forme sempre più diffuse di democrazia diretta. Nel nuovo agorà elettronico i cittadini avrebbero potuto prendere sempre la parola e decidere su tutto.
La memoria dell’antica Atene e il modello dei town meetings del New England apparivano come la forma nuova della democrazia, con un intreccio tra antico e nuovo che avrebbe via via cancellato il ruolo dei parlamenti. Oggi queste ipotesi sono lontane, e la democrazia elettronica segue strade diverse da quelle di una brutale e ingannevole semplificazione dei sistemi politici. Ma questo non vuol dire che i parlamenti possano trascurare le grandi novità determinate dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che incidono profondamente sul loro ruolo e sul modo in cui si struttura il loro rapporto con la società. Non siamo di fronte a semplici strumenti tecnici, ma ad una forza potente, la tecnologia nel suo complesso, che sta trasformando in modo radicale le nostre società.
Stiamo passando, su scala mondiale, da un equilibrio tecnologico all’altro. Il primo, grande compito dei parlamenti, oggi, è dunque quello di cogliere questo momento, di compiere tempestivamente le scelte intelligenti necessarie perché l’insieme delle tecnologie si risolva in un rafforzamento complessivo della democrazia.
Sono divenute chiare alcune linee di analisi e di intervento, che possono essere così riassunte:
evitare che le nuove tecnologie portino ad una concentrazione invece che ad una diffusione del potere sociale e politico;
evitare che le nuove tecnologie si consolidino come la forma del populismo del nostro tempo, con un continuo scivolamento verso la democrazia plebiscitaria.
evitare che ci si trovi sempre più di fronte a tecnologie del controllo invece che a tecnologie delle libertà;
evitare che nuove disuguaglianze si aggiungano a quelle esistenti;
evitare che il grande potenziale creativo delle nuove tecnologie porti non ad una diffusione della conoscenza, ma a forme insidiose di privatizzazione.
Pure l’età digitale, dunque, ha i suoi peccati, sette come vuole la tradizione, e che sono stati così enumerati: 1) diseguaglianza; 2) sfruttamento commerciale e abusi informativi; 3) rischi per la privacy; 4) disintegrazione delle comunità; 5) plebisciti istantanei e dissoluzione della democrazia; 6) tirannia di chi controlla gli accessi; 7) perdita del valore del servizio pubblico e della responsabilità sociale. Non mancano, tuttavia, le virtù, prima tra tutte l’opportunità grandissima di dare voce a un numero sempre più largo di soggetti individuali e collettivi, di produrre e condividere la conoscenza, sì che ormai molti ritengono che la definizione che meglio descrive il nostro presente, e un futuro sempre più vicino, sia proprio quella di "società della conoscenza".
Al di là delle immagini e delle metafore, i parlamenti non sono chiamati a scegliere tra il bene e il male. Di fronte ad una realtà complessa, nella quale convivono società della conoscenza e società del rischio, i parlamenti non sono chiamati scegliere tra bene e male. Devono ribadire la loro storica e insostituibile funzione di custodi della libertà e dell’eguaglianza. Non sono riferimenti retorici. La tecnologia è prodiga di promesse.
Alla democrazia offre strumenti per combattere l’efficienza declinante, e arriva fino a proporne una rigenerazione. Ma, se guardiamo al mondo reale, alle tendenze in atto, rischiamo di incontrare sempre più spesso un uso delle tecnologie che rende capillare e continuo il controllo dei cittadini. A queste tendenze bisogna reagire, non solo per sfuggire ad una sorta di schizofrenia istituzionale che spinge verso la costruzione di un mondo diviso tra le speranze di libertà e l’insidia della sorveglianza. E’ necessario soprattutto considerare realisticamente le dinamiche sociali, a cominciare da quelle che rischiano di produrre nuove diseguaglianze.
Questo problema viene solitamente indicato con l’espressione digital divide, ed effettivamente l’uso delle tecnologie, di Internet in primo luogo, produce stratificazioni sociali, l’emergere di nuove categorie di haves e di have nots, di abbienti e non abbienti proprio per quanto riguarda la fondamentale risorsa dell’informazione. Ma le più attendibili ricerche sul digital divide mettono in evidenza che il divario tra paesi sviluppati e paesi meno sviluppati, per quanto riguarda l’accesso ad Internet, non può essere esaminato riferendosi prevalentemente alle differenze di reddito. Pur rimanendo profondissime, infatti, le distanze riguardanti Internet tendono a ridursi più rapidamente di quelle relative alla ricchezza.
Questo vuol dire che i fattori influenti non sono tanto quelli economici, quanto piuttosto quelli sociali e culturali.
Conoscenza è parola che sintetizza le possibilità di accedere alle fonti, di elaborare il materiale, raccolto, di diffondere liberamente le informazioni. Già nell’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite si è affermato il diritto di ogni individuo alla libertà di opinione e di espressione "e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere". Oggi questo diritto è in pericolo per la pretesa di molti Stati di controllare Internet, per l’esercizio di veri poteri di censura, per le condanne di autori di quelle particolari comunicazioni in rete che sono i blog.
Questa situazione non può essere ignorata, soprattutto perché alcune grandi società - Microsoft, Google, Yahoo!, Vodafone - hanno annunciato per la fine dell’anno la pubblicazione di una "Carta" per tutelare la libertà di espressione su Internet. I parlamenti non possono accettare che la garanzia del free speech, che gli Stati Uniti vollero affidare al Primo Emendamento della loro Costituzione, divenga materia di cui si occupano solo i privati, che evidentemente offriranno solo le garanzie compatibili con i loro interessi. Internet è il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto, dove si sta realizzando anche una grande redistribuzione di potere. Un luogo dove tutti possono prendere la parola, acquisire conoscenza, produrre idee e non solo informazioni, esercitare il diritto di critica, dialogare, partecipare alla vita comune, e costruire così un mondo diverso di cui tutti possano egualmente dirsi cittadini.
Ma tutto questo può diventare più difficile, per non dire impossibile, se la conoscenza viene chiusa in recinti proprietari senza considerare proprio la novità della situazione che abbiamo di fronte e che impone di guardare alla conoscenza come il più importante tra i beni comuni.
La questione dei beni comuni è essenziale. Parole nuove percorrono il mondo - open source, free software, no copyright - dando il senso di un cambiamento d’epoca. Oggi, infatti, il conflitto tra interessi proprietari e interessi collettivi non si svolge soltanto intorno a risorse scarse, in prospettiva sempre più drammaticamente scarse come l’acqua. Nella dimensione mondiale assistiamo ad una creazione incessante di nuovi beni, la conoscenza prima di tutto, rispetto ai quali la scarsità non è l’effetto di dati naturali, ma di politiche deliberate, di usi impropri del brevetto e del copyright, che stanno determinando un movimento di "chiusura" simile a quello che, in Inghilterra, portò alla recinzione delle terre comuni, prima liberamente accessibili. Questa scarsità artificiale, creata, rischia di privare milioni di persone di straordinarie possibilità di crescita individuale e collettiva, di partecipazione politica.
La sfida lanciata ai parlamenti non riguarda soltanto la necessità di trovare nuovi equilibri tra logica della proprietà e logica dei beni comuni. Investe lo stesso modo d’intendere la cittadinanza. La vera novità democratica delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, infatti, non consiste nel dare ai cittadini l’ingannevole illusione di partecipare alle grandi decisioni attraverso referendum elettronici. Consiste nel potere dato a ciascuno e a tutti di servirsi della straordinaria ricchezza di materiali messa a disposizione dalle tecnologie per elaborare proposte, controllare i modi in cui viene esercitato il potere, organizzarsi nella società. Con questo vasto mondo - in cui la democrazia si manifesta in maniera "diretta", ma senza sovrapporsi a quella "rappresentativa" - i Parlamenti devono trovare nuove forme di comunicazione, attraverso consultazioni anche informali, messa in rete di proposte sulle quali si sollecita il giudizio dei cittadini, procedure che consentano di far giungere in parlamento proposte elaborate da gruppi ai quali, poi, vengano riconosciute anche possibilità di intervento nel processo legislativo.
La rigida contrapposizione tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta potrebbe così essere superata, e la stessa democrazia parlamentare riceverebbe nuova legittimazione dal suo presentarsi come interlocutore continuo della società. In questa prospettiva, i parlamenti debbono soprattutto impedire che le esigenze di lotta a terrorismo e criminalità e le richieste del sistema economico portino alla nascita di una società della sorveglianza, della selezione e del controllo, alterando quel carattere democratico dei sistemi politici di cui proprio i parlamenti sono i primi ed essenziali garanti. Proprio le tecnologie, con la loro apparente neutralità, hanno rafforzato le spinte verso la creazione di gigantesche raccolte di dati personali.
La politica sta delegando alla tecnica la gestione dei più diversi aspetti della società, dimenticando, ad esempio, un principio chiaramente indicato nell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In questa norma si ammettono limitazioni dei diritti per diverse finalità, compresa la sicurezza nazionale, a condizione però che si tratti di misure compatibili con le caratteristiche di una società democratica. I parlamenti devono esercitare con il massimo rigore questa funzione di controllo, senza delegarla ad altri organi dello Stato, fossero pure le corti costituzionali. Solo così possono evitare la trasformazione dei cittadini in sospetti, ed impedire che, con l’argomento della difesa della democrazia, sia proprio la democrazia ad essere perduta.
Questo è il discorso
che Stefano Rodotà
ha tenuto a Montecitorio
per l’apertura della
Conferenza internazionale
dell’Unione interparlamentare
* la Repubblica, 6 marzo 2007
La democrazia non c’è. Il nuovo libro di Ginsborg
di Bruno Gravagnuolo *
L’incipit è fascinoso ed elegante. Una serata piovosa nella Londra del 1873, con Marx e John Stuart Mill che si incontrano nella casa di quest’ultimo in Victoria Street, accompagnati dalle rispettive figlie (Eleanor Marx ed Helen, figliastra di Mill). Trasandato Marx dal pesante accento tedesco, inglesissimo e impeccabile Mill. Due tipi diversissimi, ma con molte cose in comune. Ad esempio l’interesse per la democrazia e le forme economiche. Infatti i due daranno vita a un teso dibattito da salotto, ma intriso di futuro e non senza screzi, sul futuro della democrazia, giustappunto. E sul suo rapporto, modernamente imprescindibile, con la civiltà di massa del lavoro e le sue rivoluzioni industriali. Eccovi in breve il prologo di un appassionante libretto fresco fresco dell’anno appena scorso, che si raccomanda a chi della democrazia non abbia un concetto mummificato e quietista,bensì dinamico e di cittadinanza. E anche a chi della democrazia voglia riesaminare sine ira et studio l’enigma e i paradossi.
Si intitola La democrazia che non c’è (Einaudi, pp. 152, euro 8) e lo ha scritto Paul Ginsborg, che non ha bisogno di tante presentazioni, essendo come è noto uno dei più noti storici contemporanei, specialista dell’Italia, studioso della famiglia, analista del berlusconismo e della società mediatica, nonché teorico dei «girotondi», a proposito dei quali coniò una categoria originale e destinata a rimanere: «i ceti medi riflessivi». Ebbene Ginsborg, già professore a Cambridge e oggi contemporaneista a Firenze, immagina all’inizio del suo pamphlet che Marx e Mill, spiriti magni dell’era vittoriana, si incontrino e si scontrino. Per convergere su alcune cose e divergere su altre. Prima di tutto convergono sul fatto che il capitalismo ha inaugurato un’era di sviluppo inaudito, che racchiude nuove sfide non puramente comprimibili nelle architetture politiche tradizionali ed elitarie. Che esso introduce nuove schiavitù, tra le quali il lavoro salariato. Nuovi squilibri nella produzione e nello scambio, che ormai avvolgono tutto il pianeta. Ed entrambi poi convergono sul fatto che tra democrazia ed eguaglianza c’è un rapporto strettissimo, stante che la prima è nulla senza la seconda. Ma qui cominciano gli screzi. Mill conosce bene le posizioni di Marx, e grosso modo anche quelle espresse sulla Comune di Parigi, sorta dopo la catastrofe di Sedan per la Francia. Ma al riguardo, e pur favorevole all’intonazione federalista e anticentralista di Marx, dissente fermamente dalla ditattura democratica del proletariato marxiana. Che poi era nient’altro che un sistema roussoiano radicale, con la nomina e la revoca di delegati politici non politici professionisti, ciascuno dei quali pagati con un salario operaio. Sicché il dissenso è sia sull’egualitarismo radicale, sia sulla «democrazia commissaria», sorta di sovietismo ante litteram alla quale non per caso si riferirà il Lenin di Stato e Rivoluzione.
Mill è contro la violenza dittattoriale, contro il rifiuto della rappresentanza durevolmente delegata, e anche contro lo statalismo economico e centralizzato di Marx, benché impiantato su una democrazia diretta. E Marx? Come ribadirà anche nell’epilogo finale del libro - dove Mill e Marx si reincontrano in Paradiso! - egli rigetta il nesso tra le degenerazioni comuniste e le sue idee, e conferma che contemplava anche la via pacifica. Però non molla sulla necessità di tener saldo il potere conquistato contro il contrattacco fatale delle classi possidenti. E sopratutto Marx si fa forza di alcune sue classiche previsioni. Prima fra tutte la globalità dinamica del sistema capitalista, più che mai all’opera dopo il 1989, e la penetrazione della forma di merce in tutti i pori della vita quotidiana, al punto da svuotare di senso autonomia degli individui e forme democratiche. Quanto a Mill, aveva tutte le ragioni? Non tutte, nota giustamente Ginsborg fin dalla sua ricostruzione fantastica del «dialogo» (fantastica ma rigorosa in quanto basata su testi che testimoniano di un vero dialogo a distanza). Il primo torto di Mill era quello di credere a un sistema di rappersentanza basato sulla cultura e il censo, dove il voto di alcuni valeva il triplo! E ciò benché lo stesso Mill fosse poi un paladino dell’emancipazione femminile, che propose l’adozione del termine «persona» al posto di citadino maschio nella Costituzione inglese. Inoltre Mill presumeva che le comunicazioni e i treni potessero di per sè accorciare distanze di potere ed eliminare arbìtri, rendendo la giustizia e l’interesse collettivo trasparenti. Ciòndimeno però aupicò le cooperative in economia, come forme di socializzazione economica a sostegno della democrazia, e criticò - a differenza di Marx - l’industrialismo spinto con i suoi effetti perversi (celebre in On Liberty la difesa delle tribù indiane e del diritto di ciascuno a vivere una vita diversa dal progresso). In più, costante fu in Mill il richiamo al contrasto tra democrazia e sua negazione di fatto. L’appello all’«individuo critico contro il gregarismo di massa. E la denuncia di ogni autorità non razionale, non basata cioè su funzioni e scopi sociali riconosciuti democraticamente. Insomma, la critica del principio di autorità, in una chiave razionalista che potrebbe ricordare discorsi di più di un secolo dopo: Adorno, Rawls, Habermas, teorici ciascuno a modo suo di una «comunicazione democratica libera da dominio».
E qui inizia però l’affondo teorico di Ginsborg, quello portato avanti in prima persona e non per via indiretta o fantastico/esegetica. Di che si tratta? Nient’altro che della critica alla democrazia così com è, e che per Ginsborg non c’è, o quasi. Perché non c’è? Per una ragione semplice e incontrovertibile. Perché la vittoria della democrazia liberale, che pure di fatto ha imposto globalmente il suo segno sulle ceneri della catastrofe comunista, va oggi di pari passo con diseguaglianze abissali, torpore e passività di masse pur risvegliate ai diritti sociali, guerre imperiali e negazioni del diritto internazionale in un mondo che a differenza della prognosi ottimista di Kant non è affatto cosmopoliticamente unificato su principi e valori, malgrado l’Onu. In altri termini, siamo ancora lì, al dibattito Marx-Mill, con in più l’installarsi al vertice del potere di oligarchie direttamente espresse dall’establishment capitalista. Dalla variante cristiano fondamentalista di Bush Jr. a quella mediatico-populista e aziendalista di Berlusconi. La ricetta di Ginsborg? Tanta società civile, ma non in senso economico, bensì di cittadinanza: dalla famiglia, alle associazioni, alla democrazia deliberativa, alle Onlus, alla cooperazioine, ai movimenti. E l’Europa? Decisiva per Ginsborg, ma non nella forma attuale, sequestrata com’è dalla tecnocrazia senza politica democratica, e inchiodata a parametri di convergenza monetaria senz’anima (e Francia e Olanda l’hanno rifiutata). In sintesi ci vuole un innesto massiccio di democrazia diretta per Ginsborg, come nel caso del Forum sul bilancio partecipativo di Porto Alegre in Brasile, dove i quartieri cittadini eleggono una quota di deputati per deliberare il bilancio in funzione di «autority». Altra risorsa, ignorata dalla sinistra almeno dai tempi del piano Meidner in Svezia: la democrazia economica. In direzione delle cooperative, della democrazia industriale, del potere di intervento degli utenti sugli enti pubblici. E ovviamente la scuola che deve essere pubblica, laica e pluralista, contro il fondamentalismo privatistico.
Tutto giusto e non si può che consentire. Con una sola osservazione. Mancano nel «reticolo» di Ginsborg i partiti, istituti principe della società civile democratica. Comunità insostituibili di partecipazione, selezione di élites, programmi e interessi. Certo partiti non lottizzatori, né invadenti e affaristici, e meno che mai aggregati di opinione o cartelli elettorali che ci farebbero tornare all’Italia notabilare dei vecchi partiti parlamentari. Ebbene la «democrazia che non c’è», senza partiti veri e radicati e indipendenti dalle lobbies, ci sarà ancora meno. E ancor meno ci sarà la sinistra. Garantito.
* l’Unità, Pubblicato il: 04.01.07. Modificato il: 04.01.07 alle ore 12.09
Ginsborg: «Senza partecipazione si rischia la deriva populista» *
Il sindacato confederale che viene preso di mira dagli operai di Mirafiori. I fischi a Romano Prodi a Bologna. E poi la manifestazione della Cdl contro la Finanziaria. La democrazia messa in mezzo dal rischio populista del centro destra, sono segnali che non possono passare in secondo piano. Il ministro Giuliano Amato teme addirittura l’avvento di un Pim Fortuyn italiano, che metta insieme le rabbie diffuse nel paese. E la classe politica? È consapevole di questa deriva? Lo storico inglese Paul Ginsborg, ormai da anni in Italia, nel suo ultimo libro dal titolo emblematico "La democrazia che non c’è" (Einaudi, pagg 152, euro 8) affronta questi problemi imbastendo un faccia a faccia immaginario fra John Stuart Mill e Carl Marx. «In questo libro ci accompagnano in un discorso sulla qualità dei sistemi democratici a livello nazionale e internazionale» spiega Ginsborg. Dall’analisi emerge uno spaccato dei sistemi democratici molto carenti sul piano della partecipazione. Emerge una frattura netta fra chi decide, la classe politica, e chi a volte subisce senza poter dire la sua, i cittadini. È il rapporto fra la democrazia partecipativa con quella rappresentativa, l’anello vero di congiunzione «in modo che la prima eserciti una sorta di controllo sulla fragilità della seconda, che non lasci sola» sottolinea ancora Ginsborg. «In questo libro, indirizzo la mia attenzione sul problema generale, non mi limito alla realtà italiana» precisa. Infatti la questione della mancanza di democrazia arriva fin dentro le istituzioni dell’Unione Europea. «Questo è un gravissimo problema, perché le persone non solo in Italia ma dappertutto, sono molto insoddisfatte per il divario che separa la classe politica e le istituzioni dai cittadini».
La classe politica come specchio del paese. Gustavo Zagrebelsky dice che è una banale falsità, quasi una formula auto-assolutoria.
«Sono molto d’accordo con questa lettura, ne abbiamo discusso recentemente a Firenze. Lui però parla di selezione, non di specchio, nel senso che la classe politica seleziona la parte della società a cui prestare la sua attenzione, facendo in questo modo però ignora le parti più deboli della società, e privilegia la parte più organizzata. Ecco, credo che questo sia un grosso problema».
I politici e i partiti sanno individuare i loro referenti naturali?
«Non credo proprio. Secondo me il riferimento naturale dei Ds, e in generale dei partiti del centro sinistra, in questi anni sarebbe stata quella parte, non piccola, della società, che io ho chiamato del "ceto medio riflessivo". Questo ceto suggeriva in qualche modo di lavorare insieme per ridurre il divario fra cittadini e istituzione, non si accontentava di un atteggiamento di indifferenza e cinismo verso la classe politica, ma ha chiesto in continuazione l’apertura di una nuova fase di autoriforma dei partiti e di rinnovamento della classe politica. Siamo stati sonoramente ignorati».
Lei continua ad insistere sull’importanza della partecipazione nel gioco democratico. In Italia a che punto siamo?
«Credo che siamo ad un punto critico: o si va avanti a sperimentare le innumerevoli versioni della partecipazione, con un vero contributo nel processo decisionale, non solo nella forma consultativa, o rischiamo come negli anni ‘70 che la montagna partorisca un topolino. Prendiamo l’esempio di un piccolo comune toscano, San Piero a Sieve: qui hanno cominciato a sperimentare la partecipazione attiva dei cittadini su una parte del bilancio comunale. A me sembra di estremo significato che un milione di euro sia riservato alle decisioni esclusive dei cittadini. Ecco, vorrei vedere dieci, venti sperimentazioni di questo tipo solo in Toscana, è questa secondo me la strada maestra. Però bisogna farlo ora».
Ginsborg, lei chiede più democrazia partecipativa, ma nel frattempo in Italia si parla molto di una deriva populista della democrazia.
«Penso che sia un rischio realissimo. Devo dire che mi ha molto colpito, partecipando al programma televisivo di Santoro e visionando il filmato della manifestazione di piazza San Giovanni, l’evidente disinformazione di molti giovani di Forza Italia, ed è la disinformazione che è la base del populismo. Allora, se noi riusciamo a creare cerchi più grandi di cittadini - nel libro li ho chiamati "attivi e dissenzienti", sia di destra che di sinistra - è possibile capire meglio la complessità della sfera pubblica. Credo sia questa la difesa migliore contro il populismo. Questo fenomeno cresce proprio dove c’è ignoranza, dove c’è un capo carismatico e bastano tre slogan per partire».
Lei sta disegnando l’identikit di Silvio Berlusconi, il leader della Cdl. Crede che ci siano delle novità nel suo modo di far politica e di comunicare?
«Penso che il Berlusconi populista non sia un fenomeno recente. Anzi in questo momento vedo una limitazione di questo modello perché due o tre anni fa il controllo diretto o indiretto di tutte le televisioni era suo. Oggi è minore perché la competizioni di Sky è aumentata e ci sono le proposte di Gentiloni che modificano il quadro generale. Noi stiamo giocando non solo una partita politica, ma una profondamente culturale».
Come legge gli ultimi due eventi che hanno fatto molto discutere nell’Unione: i fischi di Mirafiori e quelli di Bologna a Prodi.
«Si tratta di un ammonimento al nostro governo, come dire: guarda che non si può solo chiedere sacrifici. Se c’è una fase due deve arrivare subito, perché gli operai devono vedere che i loro interessi, se non in breve termine, ma almeno in lungo o breve termine sono connessi fortemente con la strategia del governo. Quanto ai fischi diretti a Prodi erano fatti da un gruppo mandato da qualcuno».
Prodi parla di propaganda incivile...
«Se le parole sono troppo forti, troppo retoriche e troppo violente, allora si crea un clima incivile. Credo che la sobrietà del linguaggio politico debba esserci in tutte e due le parti».
* l’Unità, Pubblicato il: 15.12.06, Modificato il: 15.12.06 alle ore 13.06.
L’indicibile legame della democrazia
Da domani a Brescia un seminario internazionale su «Principia Iuris», di Luigi Ferrajaoli. Un lavoro di ricerca durato quarant’anni che propone un modello coerente e unitario di «scienza giuridica»
di Tecla Mazzarese (il manifesto, 05.12.2007)
Il 6 e 7 dicembre a Brescia, presso la Facoltà di Giurisprudenza, studiosi italiani e spagnoli discuteranno di diritto e democrazia costituzionale. Un problema classico e tuttavia di grande attualità, in un momento nel quale la ridefinizione dell’apparato categoriale tanto del diritto che della democrazia costituzionale, così come le loro possibili interazioni, appare tanto urgente quanto complessa e per molti aspetti controversa. Occasione dell’incontro è la recente pubblicazione di un’opera davvero inconsueta per le molte singolarità che la caratterizzano: Principia Iuris. Teoria del diritto e della democrazia, tre volumi di Luigi Ferrajoli editi da Laterza (in libreria i volumi sono due e il terzo, in cd, con la formalizzazione logica della teoria del diritto, è allegato al primo).
Un modello integrato
Una prima singolarità di Principia Iuris, quanto mai rara nella letteratura degli ultimi decenni, è di offrire una teoria unitaria e compiuta in cui diritto e democrazia sono due dimensioni, l’una all’altra complementare, di uno stesso impianto concettuale e di uno stesso progetto politico; una teoria puntuale nella sua scansione e di sorprendente ricchezza nella molteplicità dei temi affrontati.
In particolare, è un’opera che sviluppa una teoria unitaria e compiuta che, come lo stesso Ferrajoli ha sottolineato nella prima presentazione pubblica di Principia Iuris a Città del Messico lo scorso 30 ottobre, in netta contrapposizione con una situazione «caratterizzata da un sostanziale analfabetismo giuridico dei filosofi e da un non minore analfabetismo filosofico dei giuristi», propone un «modello integrato di scienza giuridica» che, senza ignorarne le rispettive competenze disciplinari tematiche e metodologiche, rivendica la reciproca complementarietà fra teoria del diritto, dogmatica, filosofia politica e sociologia del diritto.
Da questa caratteristica la decisione di riunire a Brescia a discutere del suo metodo e delle sue tesi non solo filosofi del diritto (Manuel Atienza, Juan Carlos Bayón, Riccardo Guastini, José Juan Moreso, Luis Prieto, Danilo Zolo), ma anche logici (Carlo dalla Pozza, Mauro Palma, Marina Gascón), filosofi della politica (Michelangelo Bovero, Ernesto Garzón Valdés, Geminello Preterossi, Pierpaolo Portinaro, Alfonso Ruiz Miguel), magistrati e giuristi (Perfecto Andrés Ibáñez, Salvatore Senese, Michele Taruffo, Gustavo Zagrebelsky), e il segretario uscente della Camera del lavoro di Brescia, Dino Greco.
E ancora: Principia Iuris è un’opera singolare sia sotto il profilo metodologico, sia sotto il profilo teorico. In particolare, sotto il profilo metodologico, la sua singolarità è di proporre una teoria assiomatizzata del diritto, considerata funzionale e al tempo stesso complementare a una teoria della democrazia costituzionale (non assiomatizzata, questa, ma rigorosamente delineata e scandita nelle diverse tessere che ne individuano l’impianto complessivo).
Non priva di illustri precedenti nella storia della filosofia del diritto (valga per tutti il riferimento a Leibniz), questa singolarità è risolutamente difesa da Ferrajoli che nella Prefazione del primo volume, non solo giustifica l’adozione del metodo assiomatico con «ragioni teoretiche» ma la rivendica anche, e forse soprattutto, per la sua «funzione pratica» perché «il metodo assiomatico rappresenta (...) un potente strumento di chiarificazione concettuale, di elaborazione sistematica e razionale, di analisi critica e di invenzione teorica, ed è quindi particolarmente efficace ai fini dell’esplicazione della crescente complessità e ineffettività degli ordinamenti moderni, nonché della progettazione dei loro modelli normativi e delle loro tecniche di garanzia».
Sotto il profilo teorico, poi, Principia Iuris offre una teoria assiomatizzata del paradigma giuridico, cioè di quella griglia analitica che nella filosofia del diritto e nella politica degli ultimi anni è stato denominata come neocostituzionalismo e che, forse per prendere le distanze dalle sue concezioni che tendono ad affermare una (nuova) versione di cognitivismo etico sovrapponendo e confondendo diritto e morale, Ferrajoli preferisce denominare invece giuscostituzionalismo.
Al riparo del mercato
Sotto il profilo teorico, Principia Iuris offre, cioè, una teoria assiomatizzata del paradigma giuridico dei Paesi che, affrancatisi da regimi totalitari e illiberali, dal secondo dopoguerra si sono dati una costituzione scritta, lunga, rigida e garantita; una costituzione, cioè, che nella positivizzazione dei diritti fondamentali e del principio del mantenimento della pace individua e delimita quella che Ferrajoli denomina «sfera dell’indecidibile»; una sfera, cioè, relativa ai diritti individuali che non si possono ledere né violare e ai diritti sociali che si devono attuare e implementare, la quale è sottratta, almeno di principio anche se non sempre di fatto, alla discrezionalità del legislatore ed è preclusa alle ingerenze e interferenze del mercato e della politica.
Un’altra singolarità è che Principia Iuris già da alcuni anni è al centro di un vivace dibattito internazionale. Nei lunghi anni che ne hanno accompagnato la redazione, quasi quaranta dalla prima enunciazione del suo nucleo concettuale nella Teoria assiomatizzata del diritto del 1970, sia la scelta del metodo assiomatico che le teorie del diritto e della democrazia che Ferrajoli andava sviluppando sono stati infatti più volte discussi e sottoposti a un attento vaglio critico, non privo, a volte, anche di toni aspri e accenti polemici.
Molti, in particolare, gli incontri di studio che nel corso degli anni sono stati organizzati nelle più diverse sedi universitarie italiane, e ancora più numerosi, forse, quelli organizzati in Spagna, Argentina, Brasile e Messico dove l’attenzione per l’opera di Ferrajoli è davvero grande, al punto che Principia Iuris è già in corso di traduzione in castigliano. A ogni osservazione, commento o critica, è questa l’ulteriore singolarità di Principia Iuris, Ferrajoli ha sempre risposto, testimoniando così della propria irriducibile fiducia nel dialogo e nel confronto, in modo attento e puntuale, spiegando e argomentando ogni volta il perché delle proprie tesi e la ragione degli argomenti scelti per giustificarle.
Principia Iuris è, così, il risultato di un processo di scrittura e riscrittura continua, durato più di quarant’anni; processo che non si è interrotto neppure in fase di correzione di bozze, quando, i due giovani studiosi che lo hanno aiutato, Dario Ippolito e Fabrizio Mastromartino, non sono riusciti a trattenersi dal fare osservazioni e commenti alle pagine che leggevano, e Ferrajoli non è riuscito ad astenersi dal tener conto delle loro osservazioni apportando qua è là ancora qualche modifica al testo.
Un classico del Novecento
Ultimo aspetto dell’opera, ma non per questo meno importante, è la mole di materiali raccolti criticamente dall’autore. Una mole di riferimenti che, come ha osservato Manuel Atienza, relatore della sessione introduttiva dell’incontro bresciano, ricorda le grandi opere filosofiche del passato: imponenti, sorprendentemente rigorosi nell’articolazione, particolareggiati nell’argomentazione.
Nella migliore tradizione delle grandi opere filosofiche, Principia Iuris è dunque improntata ad un’idea forte che la fonda e, in una sola frase, ne sintetizza e chiarisce la ragion d’essere; una singola frase che, già dieci anni prima della sua pubblicazione, nel 1997, a Camerino, in occasione del conferimento di una laurea honoris causa a Norberto Bobbio, Luigi Ferrajoli pronuncia nelle battute conclusive della sua splendida laudatio, quando afferma: «c’è una cosa che la storia (del Novecento) ci ha insegnato: che nella costruzione della democrazia non esistono alternative al diritto, e che nella costruzione del diritto non esistono alternative alla ragione».
— -
La passione del fare politico
Rigore e semplicità. Le qualità de «Principia Iuris». Un’opera che interroga il secolo breve senza ritrarsi di fronte ai nodi che ha lasciato in eredità
di Rossana Rossanda (il manifesto, 05.12.2007)
Coloro che hanno seguito sia pur da lontano Luigi Ferrajoli nella stesura dei Principia Iuris sanno quanta fatica gli sia costato non l’impianto dell’opera, così radicato nella sua formazione intellettuale, quanto la determinazione a renderla come un pane da spezzare per qualsiasi cittadino che si interroghi sulle relazioni interindividuali e fra individui e società. Come darsi un sistema di regole al fine di garantire la reciproca libertà e sicurezza dei diritti? Antico problema, ma rivisto alla fine di un secolo che ha messo in causa sia le forme della democrazia, sia quello che si voleva un suo superamento in senso comunista. Ne è venuto un lavoro imponente e semplice, rigoroso e comunicante senza nulla togliere allo spessore dell’argomentazione, ai riscontri del e nel sistema, e alla genesi storica e teorica dei concetti.
Sembra impossibile che un titolo così severo e la mole delle pagine costituiscano un’opera che chiunque può prendere in mano senza sentirsi allontanato. Si deve certo all’eleganza della scrittura, ma soprattutto, credo, alla convinzione morale e politica di Ferrajoli che urge ricostruire un sistema di rapporti umani ormai a rischio di imbarbarimento. Bisogna e si può. È poi il fondamento del politico, una posta alta, il contrario d’un esercizio accademico. In questo Luigi Ferrajoli è proprio un illuminista, ne possiede (è posseduto da) quella passione di capire, dirimere e spiegare che si fonda sulla convinzione che la specie umana ha la capacità di darsi un senso e delle regole che ne consentano una terrena sopravvivenza. Si potranno fare altre accuse all’illuminismo, non quello di non averci restituito la possibilità di quella salvezza, nei limiti della vita, che le religioni negano, rimettendo il nostro destino nelle nostre mani. Filo d’Arianna l’uso della ragione, strumento da usare e verificare nella sua struttura logica e fin matematica. Questa non è una fede, è una scelta. Controcorrente, a stare agli ormai trentennali assalti alla ragione tacciata di imperialismo occidentalista, astrazione, pretesa universalistica, misconoscenza delle differenze. E’ proprio la sigla di Ferrajoli - si ricorderà Diritto e ragione - e non perché ignori quanto l’irrazionalità sia costituente dell’umano, ma per la persuasione che non è possibile fondare sull’irrazionale una rete di rapporti che garantisca la libertà. Libertà «di» e libertà «da».
Ne viene - sembrerà un paradosso - una lezione di rigore e di senso del limite. Ferrajoli insiste sul carattere di convenzione nel tempo e nello spazio d’una teoria assiomatica del diritto che considera decisiva per una moderna democrazia concreta. Convenzione, che esclude dunque il sacro e l’indicibile, non sconfina dal suo territorio, non si concede divisioni di tempi e settori, non si presta a un’eterogenesi dei fini. Non è mortifera. La domanda è, se mai, dove trascenda altri tempi e altre culture, ma già questo è uno sconfinare. È dal suo interno - il da noi e oggi - che va interrogata. Ma soprattutto utilizzata. Chi legge si sente raccomandare dall’autore di non spaventarsi per la mole del lavoro, di saltare questa e quella parte, di andare senz’altro al secondo volume perché questo libro non è stato pensato soltanto per sperimentare fino in fondo un percorso di metodo, ma per essere agito. Per il fare politico, arendtiano. Come se la completezza della ricerca, la politura dell’opera fosse una sfida prima di tutto per chi l’ha stesa, bisogno di non lasciarsi zone non controllate. Gli altri, gente non addetta ai lavori, non si annoino, non si stanchino, vadano al dunque, il nocciolo utile, necessario che è il come della democrazia. La scommessa è stata anche nello scrivere un’argomentazione inattaccabile in quel che Ferrajoli chiama «il linguaggio comune», per quel che di comune sta nel definire i nostri rapporti con l’altro e gli altri.
È una scrittura densa e senza trappole. A me, confesso, è capitato di farne un uso irrispettoso; avevo il manoscritto e più volte sono andata a cercare - indici irreprensibili - com’era impostato o risolto un problema che le cose del mondo mi ponevano. E di lì poi vagavo per richiami, perché in questa idea del diritto come convenzione compatta, articolata, logico-matematica, tutto si tiene. E tutto serve. Invitata a guardarmi dal primo volume, vi ho pescato invece alcuni passi per me decisivi, e quindi mi sono messa a leggerlo a cavalletta, saltando le verifiche logico-matematiche, con la voglia di riflettere, tornarvi, discutere, qualche volta litigare.
Per chi viene dal Novecento, Principia iuris impatta sui nodi dell’esperienza e li riproblematizza. Mi sia permesso, da profana, di evocarne due. Il primo riguarda il rapporto tra quel che Marx chiama materiale reale e il diritto. Lasciamo pure da parte la vulgata su struttura e sovrastruttura, chi viene prima e chi viene dopo, dalla quale sono venuti molti guai. È un fatto che l’attuale prepotere dell’economico sul politico non deriva da un errore di diritto, da una incomprensione del pubblico o da una miopia del privato - c’è un rapporto di forza che appare oggi del tutto asimmetrico, tale che infatti obbliga Ferrajoli a interrogarsi sulla globalizzazione. Ma non ci rinvia a un problema troppo rapidamente affrontato nell’affermazione che, certo, la difesa della libertà «dalla» proprietà andrebbe regolata non meno che la difesa dell’individuo dallo stato? Perché questa regolazione non si è mai data e sempre meno si da’?
L’altra domanda riguarda il femminismo. Ci sono, a me sembra, molti equivoci tra le donne e Ferrajoli sul tema eguaglianza e differenza. Per farla breve, io sono dalla sua parte. La questione è un’altra: è possibile che un codice, i suoi lemmi e le sue gerarchie, scritti da uno dei due sessi valga in assoluto anche per l’altro e si tratta soltanto di applicarlo con quella coerenza che finora non avrebbe avuto? Le donne possono essere silenziose, puramente riflesse, nella formazione del diritto e dei suoi assiomatici fondamenti? L’insignificanza del femminile come soggetto non comporta qualche problema per una teoria della libertà?
Ma di questo e di altro avremo occasione di discutere.
Il malessere della politica
di GIORGIO BOCCA *
Stupore e smarrimento sulle facce dei rappresentanti fischiati dai rappresentati, dei sindacalisti contestati dagli operai, degli onorevoli sbeffeggiati dagli elettori, dei poveri che svoltano a destra, dei consensi che svaniscono e non si sa come sostituirli, del generale malessere, della politica per cui se l’Unione ha i suoi guai non è che la Casa delle Libertà stia molto meglio. Interrogata sulla fragilità e imprevedibilità del consenso la senatrice Finocchiaro, che guida l’Unione al Senato, ha risposto: è una paura a cui la politica non sa dare una risposta convincente. Pensiamo che sia una risposta giusta.
Una paura da anno mille che tutti alimentano come mossi da un cupio dissolvi, paura della nostra barbarie che dura come del nostro progresso senza ordine, paura di catastrofi possibili e inevitabili, credibili in ogni senso, le acque che sommergono le terre come la siccità totale, la scienza che soccorre come quella che uccide, l’incertezza sulle previsioni come sui rimedi in cui i politici si trovano in prima fila sotto un fuoco amico che al minimo stormire di vento si trasforma in nemico, vedi l’incauta apparizione al Motor Show di Bologna di Romano Prodi che è uomo esperto e paziente, ma non può pensare di giocare impunemente entrambi i ruoli, quello del governante attento solo al bene pubblico e quello del populista in cerca di applausi.
Perché il ceto politico di sinistra come di destra attraversa un periodo di crescente impopolarità? Perché i fischi a Prodi fanno la pari con l’agitarsi a vuoto di Berlusconi, che quando bacia e abbraccia l’arrugginito Bossi sfiora l’osceno? Una delle ragioni principali a nostro avviso è l’uso padronale, monopolistico che i politici italiani di destra come di sinistra fanno del mezzo televisivo.
Si sono abituati da decenni a considerare le televisioni come cosa loro in cui anche l’ultimo dei peones ha diritto di apparire come mezzo busto, di dire la sua anche se il tempo e lo spazio che gli vengono concessi dall’orchestra sono risibili, un privilegio immeritato e controproducente.
Si convincano i politici che l’informazione, soprattutto quella televisiva, deve essere affidata agli informatori responsabili, selezionati, che hanno qualcosa di serio da dire. E non a tutti quelli che vogliono comparire. Si convincano che le recite, i cafarnao della democrazia televisiva, i dibattiti in cui l’occupazione principale dei partecipanti è di strappare la parola agli altri o di intimidirli con presunzione e maleducazione, non funzionano più.
Alla lunga il telespettatore si chiede se alcuni politici di facile eloquio siano stati eletti per fare i galletti nelle stie televisive o per governarci. Il consenso democratico degli elettori agli eletti è diminuito anche per la protervia e direi la cattiva educazione con cui essi respingono o mal sopportano le proteste o le critiche che gli vengono mosse. La nostra purtroppo è nata come democrazia di notabili di superciò.
A destra come a sinistra. Agghiacciante in tal senso l’episodio del comunista Palmiro Togliatti che nell’aula di Montecitorio smise di parlare con Pajetta perché un compagno senza nome si era avvicinato troppo e non se ne andava. La reazione di un nostro notabile agli interventi di un cittadino qualsiasi è ancora quella di Berlusconi che si rivolge a un carabiniere e gli chiede di "prendere le generalità" di chi lo disturba. La gente ha paura ed ha ragione di averla. E altre ne aggiunge ogni giorno. Non c’è da avere legittima paura? E il dovere della politica non è quello di affrontarla, di controllarla?
* la Repubblica, 14 dicembre 2006
La Libertà?...
"Da sola, significa una cosa soltanto: autorizzazione a curare illimitatamente i propri immediati interessi, a costo di dissipare i beni collettivi e permanenti che assicurano un avvenire. Solo la responsabilità può togliere alla libertà il suo veleno distruttivo. Ma, su questo, nessuna parola".
La Famiglia?...
"Una risorsa fondamentale se sa educare i suoi membri all’apertura e alla responsabilità verso i propri simili; un pericolo mortale se si chiude su se medesima coltivando egoismo familistico".
Sono due affermazioni, due perle.
Vi auguro buona meditazione!
Aldo