Lea Melandri esplora in un saggio le nuove forme di dominio annidate nelle relazioni più intime
La guerra tra i sessi sembra stemperata dall’attuale spazio pubblico «femminizzato». Invece...
Inferni di famiglia: ecco dove nasce la nuova violenza
Amore e odio. Si compenetrano da sempre, a partire dalla nascita
Lea Melandri è una delle figure più note del femminismo italiano.
Anticipiamo la sua prefazione al nuovo saggio edito da Bollati Boringhieri: «Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà».
di Lea Melandri (l’Unità, 03.03.2011)
Il sussulto di dignità e l’invito che oggi, da schieramenti diversi, viene rivolto alle donne, affinché si ribellino all’immagine degradante con cui sono rappresentate dalla pubblicità e dalla televisione, non deve trarre in inganno. Il corpo femminile occupa la scena mediatica da molti anni, l’immaginario pornografico ha contaminato ormai ogni ordine di discorso e di linguaggio, l’esibizione e il voyeurismo, sapientemente amalgamati dai reality show, sono subentrati, se mai è esistita, alla fruizione passiva dello spettatore.
Il risveglio improvviso di coscienze morali offese, di intelligenze femminili «umiliate» dalla mercificazione che si fa del loro sesso, è venuto al seguito di vicende che non potevano lasciare indifferenti, perché avevano come protagonista una delle maggiori cariche dello Stato, il presidente del Consiglio, e come materia scottante le prestazioni sessuali scambiate indifferentemente con denaro, carriere politiche o televisive. Di donne-oggetto, donne-immagine, donne-ornamento, chiunque abbia dato un’occhiata alla televisione, ne ha viste transitare sui teleschermi a flusso continuo, in fasce di orario protette e non protette, trasmissioni colte o di intrattenimento, filogovernative o di opposizione.
L’uso del corpo femminile come abbellimento estetico o solleticazione erotica, da affiancare a una parola che resta pur sempre quella dell’uomo, si riconosce, al di là delle appartenenze politiche, per quel marchio d’origine che lo colloca, inequivocabilmente, dalla parte del sesso vincente.
Eppure, è come se l’evidenza che passa sotto gli occhi di tutti, quando per strada o alle fermate della metro alziamo gli occhi su un muro, quando accendiamo la televisione o sfogliamo un giornale, avesse avuto bisogno, per rendersi visibile, di una scossa dall’esterno, dal mondo stesso che la produce. Tale è stata la vicenda che ha visto implicati Silvio Berlusconi, veline ed escort.
Per chi ha alle spalle un percorso ininterrotto di cultura e pratica femminista, è irritante sentir parlare di «silenzio delle donne», ma bisogna anche avere il coraggio di porsi interrogativi scomodi e imbarazzanti su quella che oggi appare vistosamente come una contraddizione: un movimento che ha dato alle donne una circolazione e una cittadinanza nel mondo finora sconosciute, ma che le ritrova inspiegabilmente «adattabili», poco inclini ad aprire conflitti, acrobate protese a sorreggere l’impossibile conciliazione tra due realtà fatte per restare separate, la casa e la polis, il corpo e il pensiero, la femminilità e la durezza virile, gli affetti e la complessità della vita sociale.
Lo spazio pubblico, che ha nel suo atto fondativo l’esclusione delle donne, si è andato sempre più femminilizzando, ma sembra al medesimo tempo diminuita progressivamente la conflittualità tra i sessi, proprio là dove l’impatto con saperi e poteri marcatamente maschili - l’economia, la politica, la scienza ecc. - faceva pensare che sarebbe riemersa con forza.
Permangono pressoché inalterati luoghi storici, come la scuola e i servizi sociali, dove una predominante presenza femminile è garantita dalla continuità con quella «naturale» o «divina missione», che vuole la donna «madre per sempre, anche quando è vergine» (Paolo Mantegazza), oblativamente disposta alla cura, anche fuori dalle mura domestiche.
Ma la femminilizzazione è andata oltre, spingendosi fin nelle pieghe del tessuto sociale, esaltata come fattore di innovazione e risorsa preziosa da un sistema economico, politico, culturale che risente del declino di antichi steccati tra sfera privata e sfera pubblica, natura e cultura, sessualità e politica: quelle linee di demarcazione che hanno permesso finora alla comunità storica degli uomini di pensarsi depositaria di un marchio di umanità superiore.
Sui giornali più vicini alla Confindustria, come Il Sole 24 Ore, non c’è giorno che non si elogi il valore D, il contributo di qualità relazionali che le donne possono portare ai livelli alti del management, in soccorso di un sistema produttivo sempre più flessibile e immateriale. Nelle professioni, e in generale nei rapporti di lavoro, si celebrano esempi eroici di «supermamme», capaci di eccellere allo stesso modo nella cura di un figlio e nella carriera.
Ma dove il «femminile» è esploso, cogliendo di sorpresa chi aveva previsto un lento e faticoso approssimarsi delle donne all’autonomia da modelli imposti, è stato nei mezzi di comunicazione, in particolare nella televisione, nell’industria dello spettacolo e nel mercato pubblicitario.
Il dibattito che si è acceso sulle veline e sulla folta schiera di avvenenti intrattenitrici che si muovono intorno a uomini di potere, flessibili al punto da passare con noncuranza da concorsi di bellezza alla Camera dei deputati, ha fatto gridare alla barbarie, temere la fine o il fallimento di un secolo di emancipazione.
Anche in questo caso si tratta di giudizi approssimativi, lontani dalle analisi che il pensiero delle donne è venuto facendo su ciò che permane degli stereotipi di genere, al di là di cambiamenti evidenti del contesto sociale. Libertà, diritti acquisiti, non sembrano aver scalfito alla radice l’aspetto più accattivante dei ruoli sessuali, la complementarità, «quel profondo, benché irrazionale istinto» - come ha scritto Virginia Woolf - a favore della teoria che solo l’unione dell’uomo e della donna, del maschile e del femminile, «provoca la massima soddisfazione», rende la mente «fertile e creativa». Di questo ideale ricongiungimento di nature diverse si alimenta l’amore di coppia e il suo antecedente originario, la relazione madre-figlio. Poco o per nulla indagate, queste zone più intime del rapporto tra i sessi ricompaiono oggi deformate sotto la maschera di una emancipazione che stentiamo a riconoscere come tale.
Al posto della rincorsa omologante a essere come l’uomo, sono gli attributi tradizionali del femminile - le «potenti attrattive» della donna, di cui parlava Rousseau, e cioè la maternità e la seduzione - a essere impugnati come rivalsa, appropriazione di potere, scalata sociale. Se l’emancipazione del passato poteva essere vista come fuga da un femminile screditato, oggi è il femminile - il corpo, la sessualità, l’attitudine materna - a emanciparsi come tale e a prendere nello spazio pubblico il posto che compete a un complemento indispensabile della cultura maschile.
Il patriarcato sta divorando se stesso, scricchiolano le impalcature su cui si è costruita la polis, alle donne, le escluse-incluse di sempre, si offre l’occasione per portare allo scoperto quel potere di indispensabilità all’altro di cui si sono fatte forti finora solo nel privato.
La femminilizzazione della sfera pubblica ammorbidisce il conflitto tra i sessi e come nell’illusione amorosa fa balenare la possibilità di una «tregua». Ma, proprio come per l’amore, lascia aperto il dubbio che sia invece, come ha scritto Pierre Bourdieu, «la forma suprema, perché la più sottile, la più invisibile» del potere dell’uomo sulla donna. È necessario perciò tornare a scavare là dove si arresta il viaggio di Freud, l’«avventuriero dell’anima», il grande indagatore della felicità: in quella «roccia basilare» che è il «rifiuto della femminilità», l’inspiegabile intreccio di Eros e Thanatos, l’odio che nasce ogni volta dall’amore, nella vita personale come nella sfera pubblica.
Uomo/donna
Tra psicoanalisi e femminismo Lea Melandri affronta il nesso amore/potere
Lea Melandri. Quanti disastri fanno le madri
“La figura parentale alle origini del «fattore molesto», del conflitto maschile/femminile, tra privato e pubblico
Si impone una perversa forma di emancipazione, estremizzando il ruolo di sessualità di servizio, ornamento, passatempo”
di Anna Bravo (La Stampa/ Tuttolibri, 05.03.2011)
Chi non conosce il lavoro di Lea Melandri troverà nel suo nuovo libro Amore e violenza una buona occasione per fare amicizia. O magari inimicizia. Perché l’autrice ha idee forti, e applicandole al «fattore molesto» della storia umana (il nesso amore/potere/violenza nel rapporto uomo/donna) accetta il rischio di apparire a sua volta «molesta» per lesa superficialità. Lo scempio del corpo femminile è ormai ospite fisso nella cronaca, e una schiera di esperti ci invita a vederlo come un raptus, quasi che l’uomo fosse stato «rapito» da un estemporaneo Mister Hyde. Melandri risale invece alla «preistoria» di quella distruttività, l’antica e conflittuale dipendenza dalla madre, che nell’uomo si perpetua a dispetto delle negazioni, degli ausili psicologici e dei motti di spirito sulle mamme nazionali, italiana, ebrea, black e così via.
Composto di ampi saggi dai titoli un po’ rituali, ricco del pensiero psicanalitico e del patrimonio femminista, Amore e violenza affronta il suo tema muovendosi fra il vicino e il lontanissimo, fra la contemporaneità e lo spazio/tempo delle origini, per mettere a fuoco le teorie e le pulsioni sottese al binomio questione maschile/questione femminile.
Può così rivitalizzare le domande classiche sul rapporto fra i sessi, compresa la più classica, spostata all’oggi: cosa chiede a una donna il civilizzato uomo moderno o postmoderno (parlo di un modello, non di individui). O anche: di quante donne ha bisogno il clan degli uomini per la propria manutenzione? Per esempio, sentiamo continuamente esaltare le doti femminili dell’empatia, della duttilità, del pragmatismo, come strada maestra verso un lavoro umanizzato: è la donna creativa. Se non che, quando qualcuna prova a applicare quei talenti, spesso incontra ostacoli tali da farle ridimensionare le aspettative: è la donna «normalizzata». Poi ci sono l’ancella, la manager-immagine e la manager addetta o costretta allo sfoltimento del personale; e altre ancora. Ne parla Luisa Pogliana in Donne senza guscio (Guerini, 2009).
Ma il punto è, spiega Melandri, che non basta aprire un ambito alle donne per femminilizzarlo, così come nel ’68 non è bastato dare valore al personale per femminilizzare la politica. Sarà difficile cambiare finché si permette agli uomini di pensarsi, sotterraneamente, come gli eredi universali della razionalità. Visione pessimista? Per verificarla è sufficiente scorrere gli organigrammi aziendali, politici, accademici. Sarà difficile cambiare finché la conflittualità femminile resta debole.
E qui scatta il nesso con la preistoria: titolare originaria dell’umanizzazione è la figura materna, accogliente, paga del suo ruolo. La madre mette ordine nei cassetti del marito/figlio, non decide l’ordine delle sue giornate; e non per questo apre un contenzioso con lui. Antico modello duro a morire, in particolare in Italia, dove l’espressione Madre Coraggio non evoca l’arcitruffatrice di Grimmelschausen e Brecht, ma un prototipo di madre eroico/oblativa.
Grazie al suo sguardo lungo, Melandri può dipanare l’intreccio fra nuovo, falsonuovo, vecchio, similvecchio, che segna tutte le trasformazioni, ma in questo caso è complicato dal fatto che il rapporto uomo/donna sta nel tempo lineare della storia e contemporaneamente nel tempo ciclico della ripetizione. Con effetti a volte sconcertanti.
Oggi da un lato si ripropone l’esempio dell’emancipata anni cinquanta, portatrice di una femminilità rispettabile, contenuta, dotata di un cuore non troppo piccolo ma neppure tanto grande, scrive Carolyn Heilbrun, da sconfinare oltre il recinto familiare. È la donna affidabile, che presiede alla versione moderna del focolare e in più porta a casa lo stipendio.
Al polo opposto, avanzano figure che investono sulla bellezza e l’età giovane, offrono sesso in cambio di benefici privati (e pubblici), e dicono di aver fatto una scelta libera. Melandri le prende sul serio, si chiede cosa significhi l’adesione programmata al modello «riposo del guerriero». E la vede come un tentativo di volgere a proprio vantaggio, oltre che la legge dello spettacolo, la dilagante bramosia di giovinezza; come «una forma di emancipazione», sia pure perversa e discutibile. È il «femminile» che si emancipa «estremizzando il ruolo che si è visto assegnare: sessualità di servizio, ornamento, passatempo, attestato di potenza; il femminile» che si prende la sua rivalsa entrando nella sfera pubblica con una immagine vistosamente sessuata, eccessiva, impresentabile.
Fra i due poli ci sono molti altri modi di essere donna, e questa analisi della femminilità «a disposizione» non è il clou del libro. Ma va meditata, perché non è da tutti riconoscere il nuovo quando è sgradito, dozzinale e per di più alquanto triste. Che un vecchio carico di denaro e potere compri uno stock di 100 collane identiche per le sue ragazze non è solo questione di cattivo gusto; è la conferma della loro interscambiabilità.
Scheda del libro: Amore e violenza, di Lea Melandri
In un saggio di Lea Melandri una nuova ipotesi sulle cause della violenza maschile.
Perché gli uomini ci odiano
di Stefania Rossini (l’Espresso, 11.02.2011)
Perché le donne, pur vivendo in uno spazio pubblico che si è andato sempre più femminilizzando, hanno dimenticato il conflitto? Perché si piegano a sorreggere la conciliazione tra la casa e la polis, il corpo e il pensiero, la femminilità e la durezza virile, gli affetti e la complessità della vita sociale? I corpi che vediamo in scena, compresi quelli di veline ed escort che scambiano sesso con carriere, sono di donne che si sono appropriate della loro vita o di schiave volontarie che si illudono di usare a proprio vantaggio la loro storica minorità sociale e politica?
Bisogna aver molto osservato e pensato la contemporaneità per rispondere a queste domande scrivendo un saggio su un tema abusato come quello della violenza maschile sulle donne, e dicendo cose nuove e convincenti. Ma Lea Melandri il pensiero sul mondo e sul suo mutamento lo ha coltivato fin da quando, negli anni Settanta, accompagnò Elvio Fachinelli nella creazione della rivista "L’erba voglio", affinandolo poi nell’esperienza femminista e nella competenza psicologica. È per questo che il libro che uscirà il 3 marzo per Bollati Boringhieri con il titolo "Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà" propone risposte scomode. Il protagonismo delle donne nella vita pubblica che ha fatto immaginare il tramonto del patriarcato potrebbe segnare invece il trionfo di un modello femminile che mostra, più che nel passato, una duplice funzione del corpo: il "corpo erotico", cioè la seduzione, e il "corpo materno", inteso non solo come desiderio di maternità ma come valorizzazione delle "doti femminili". Nella riduzione delle donne in questo doppio, l’uomo fonda il suo potere ma segna la sua condanna alla dipendenza filiale e quindi alla fragilità. E in quella che la Melandri chiama "l’inermità armata dell’uomo figlio" irrompe la violenza e il trionfo dell’odio sull’amore.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
di Lea Melandri*
Perché ha ancora senso dirsi ‘femministe’
► Perché il salto della coscienza storica prodotto dal femminismo non si esaurisce con una generazione. Tutti sappiamo cosa vuol dire essere maschi o femmine, ma è come se ognuno/a singolarmente dovesse scoprirlo, partendo da una domanda che nasce dentro di sé, per rendersi conto che i ruoli e le identità di genere, il rapporto di potere tra i sessi, non appartengono alle leggi immutabili della natura, ma alla storia, alla cultura, alla politica, e come tali possono essere modificate.
► Perché il femminismo non è un’ideologia, legata a una fase storica particolare, ma un cambiamento nella consapevolezza che si ha di sé e del mondo, un modo diverso di pensare e agire nella vita privata e pubblica, un processo di liberazione da pregiudizi, schemi mentali, costruzioni immaginarie che abbiamo inconsapevolmente ereditato dalla cultura dominante.
► Perché è stato il primo e finora l’unico movimento di donne che ha mostrato l’inganno del dilemma, proprio dell’emancipazionismo, “uguaglianza/differenza”: omologazione al maschile o tutela/valorizzazione della differenza femminile, un dualismo conseguente alla divisione sessuale del lavoro, all’identificazione della donna con la madre e con gli interessi della famiglia. Da qui viene l’attualità del femminismo in quanto interprete dei cambiamenti a cui stiamo assistendo: presenza sempre più incisiva e critica delle donne nella sfera pubblica; la cura vista come responsabilità collettiva di donne e uomini; riscoperta del tempo di vita come valore rispetto alle logiche produttive e di mercato.
► Perché ha portato la riflessione e la presa di coscienza sul corpo, sulla sessualità, sulla violenza che si annida nei rapporti più intimi, sulla maternità, cioè sulle esperienze che, lasciate per secoli fuori dalla storia, conservano più a lungo l’eredità del passato.
► Perché ha legittimato le donne a ‘vivere per sé’, a riconoscersi come persone, individui e non solo ruoli funzionali al benessere di altri.
► Perché ha fatto scoprire che era possibile una socialità tra donne non segnata dallo sguardo maschile che le ha tenute per secoli divise -madri di, mogli di, figlie di-, un’amicizia produttrice di intelligenza e creatività individuale e collettiva.
► Perché nonostante sia stato osteggiato, messo sotto silenzio, temuto e fatto oggetto di scherno, ha mantenuto la sua forza, la capacità di produrre pensiero, iniziativa, conflitti, di alimentare passioni durature, che ricompaiono di generazione in generazione.
► Perché dopo mezzo secolo, la generazione che vi ha dato avvio negli anni ’70, si è sentita dire, al convegno di Paestum (ottobre 2012) dalle donne venute dopo, alcune delle quali molto più giovani: “siamo coetanee”, “se siamo qui con voi è perché ci avete trasmesso molto”.
* Dopo aver insegnato alle scuole medie e alle superiori, da più di vent’anni tiene corsi presso l’Associazione per una Libera Università delle Donne di Milano, di cui è tra le fondatrici. Saggista, scrittrice e giornalista, Lea Melandri ha diretto per molti anni la rivista “L’erba voglio” ed è un punto di riferimento del movimento delle donne. Ha scritto diversi libri, l’ultimo è “Amore e violenza.Il fattore molesto della civiltà” (Bollati Boringhieri 2011).
* FONTE. COMUNE-INFO: L’articolo di questa pagina è apparso sulla pagina fb dell’autrice. La pubblicazione in questo sito è stata autorizzata da Lea Melandri, che scrive: “Comune mi piace”. (1 aprile 2015).
«Studiate e siate libere...»
Lettere di Fawzia alle sue figlie
La vicepresidente della Camera bassa afgana parla di politica, guerra e della lotta delle donne
E annuncia: «Mi candido alla presidenza»
di Ella Baffoni (l’Unità, 07.03.2011)
Fawzia Koofi è giovane, bella, naturalmente elegante, mamma di due bimbe e ha energia da vendere. Tant’è che è da anni parlamentare, eletta senza aver bisogno della protezione delle quote rosa. In un paese maschilista, gestito da uomini, aveva sbaragliato i suoi avversari. «Merito delle donne dice anche le donne più povere, quelle che vivono nei villaggi e che devono fare tre o quattro ore a piedi per arrivare al seggio. Soprattutto loro credono nella possibilità del cambiamento, del superamento dell’ostilità tra etnie e della corruzione. Ne hanno bisogno».
Nascere in guerra, vedere invasioni e conflitti cambiare di protagonisti ma non spegnersi mai. Essere considerati una dukhatarak, insulto verso le donne che significa: vali meno di una femmina. E nonostante questo diventare il vicepresidente della Camera bassa, la Wolesi Jirga, avendo avuto la possibilità di studiare. Una volta parlamentare, Fawzia Koofi ha affrontato un altro rischio, quello di diventare oggetto di attentati e rappresaglie. Per questo ha iniziato a lasciare alle figlie delle lettere. «Dovevo andare a Kabul con un elicottero vecchio, insicuro e probabilmente obiettivo di razzi. Stavo per uscire quando mia figlia si è svegliata e mi voleva salutare. Le ho dovuto dire che era possibile non tornassi più, e le ho lasciato scritto cosa fare: siate libere, studiate, non abbiate paura... e non litigate tra voi. Non volevo che finissero in un villaggio a fare la moglie, magari in concorrenza con altre moglie e regolarmente picchiata. La vita di mia madre». Da quelle lettere nasce Lettere alle mie figlie il libro autobiografico che Sperling & Kufer ha appena mandato in libreria.
In questi anni, dentro e fuori il Parlamento, Fawzia Koofi ha combattuto per il diritto delle donne all’educazione, contro le torture e le violenze che si subiscono in carcere (suo marito è morto proprio per le conseguenze di una lunga carcerazione), contro le violenze sui bambini. «Ma non mi chiamate donna di potere. Il potere non è mai stato il mio obiettivo. Se riuscirò a cambiare la vita della mia gente avrò successo. E se riuscirò a battere la corruzione. Se verranno costruite scuole rurali, così che le bambine non debbano camminare per ore portandosi il perso dell’acqua per tutto il giorno, sotto un sole cocente. Le priorità del paese sono infrastrutture, sanità, educazione, qui bisogna investire evitando che i fondi vengano trasferiti all’estero. Il governo è corrotto, per il popolo afghano non viene fatto tutto il possibile».
Bisogna cambiare. Così Fawzia Koofi ha deciso che si candiderà alle prossime presidenziali, nel 2014. Una sfida coraggiosa per un paese in cui le donne sono chiamate al voto da una manciata di anni: «Ho fiducia nella mia gente, ho fiducia nelle mie possibilità. La società afghana è divisa in due. Una parte vuole diritti, libertà, progresso, leader onesti, un Afghanistan con un futuro. L’altra è dominata dal fanatismo estremista, integralista. Non sono talebani, no: ma leader autorevoli e tradizionalisti. Spero che il progresso prevalga, ed è possibile che l’Afghanistan abbia una donna presidente. Un azzardo, in un paese dominato dal maschilismo. So che dovrò affrontare molte sfide, soprattutto quella dei gruppi criminali e corrotti che sono al potere da 30 anni. Sono convinta però che la mia gente vuole un leader con una visione».
La famiglia è importante, e la sostiene. La ispira il ricordo del padre, che ottenne dal ministro del re Zhair una strada, nonostante l’opera fosse complessa e costosa. E lo fece portando a cavallo il ministro sul passo, facendolo scendere con una scusa e portandosi via il cavallo. Il ministro restò, solo e furibondo, tutta la notte senza riuscire a trovare la via del ritorno. Quando mio padre tornò a riprenderlo era ancora furibondo ma aveva capito: la strada era indispensabile, la strada si fece.
La pace perpetua Il grande filosofo ha creduto nell’espansione della democrazia e dell’emancipazione
Kant, la rivolta dei giovani arabi e l’inganno dello scontro di civiltà
Nessuno ha previsto le rivoluzioni democratiche del Nordafrica. I servizi di intelligence sono stati spiazzati In questi decenni ha dominato la paura dell’Islam. Ma le forze della pace hanno continuato ad operare
di Pino Arlacchi (l’Unità, 08.03.2011)
Sono in molti a chiedersi in questi giorni come mai le rivoluzioni democratiche del Nordafrica non sono state previste da nessuno, e perché i centri di intelligence, soprattutto americani, nonostante i loro enormi budget, siano rimasti così clamorosamente spiazzati davanti ai cambiamenti epocali in corso.
Questo fallimento ha una spiegazione. Non solo gli analisti dei servizi di sicurezza, ma anche la maggior parte degli studiosi di scienze sociali non sono stati capaci di anticipare nulla di ciò che sta accadendo nel mondo arabo semplicemente perché vittime e autori, allo stesso tempo, di un grande inganno. Parlo di un colossale offuscamento delle coscienze durato quasi due decenni, e basato sull’idea che viviamo in un epoca catastrofica, dove la nostra sicurezza corre un pericolo mortale a causa di una serie di minacce, la prima delle quali è l’ Islam, seguita da altre quali gli stati canaglia, l’ immigrazione, l’ espansione della Cina, il riarmo, i conflitti e le guerre.
Il primo decennio del nuovo secolo, dall’ elezione di Bush II all’ inizio del 2011, è stato dominato dall’inganno e dalla paura, cioè dal mito del caos globale. Una visione negativa delle cose che ha avuto conseguenze politiche rilevanti, perché ha abbassato le nostre aspettative, ci ha costretti sulla difensiva, e ci ha tolto la fiducia in un mondo più decente. Eppure, non ci sarebbe voluto molto per cogliere i segnali di una potente forza contraria: quella del progresso umano e della pace. Una forza che ha continuato ad agire sotto la superficie degli eventi e a dispetto della propaganda della destra globale trionfante, e al potere negli Usa ed altrove.
Una potenza benefica, che ha fatto decrescere la violenza grande e piccola, ridotto o azzerato minacce, accresciuto la sicurezza individuale e collettiva, allargato democrazie e diritti.
La transizione democratica del Nordafrica, allora, non è altro che un tassello del mosaico che le forze della pace hanno continuato a comporre sotto i nostri occhi, e con la nostra partecipazione, sia pure poco convinta.
Al tema dell’ inganno e della paura ho dedicato lo studio più importante della mia vita, scritto nel 2008, prima dell’ elezione di Obama, e pensato nei dieci anni precedenti. In esso ho criticato la visione sbagliata della sicurezza internazionale ancora oggi dominante, ed ho richiamato il pensiero di un grande europeo, Emanuele Kant, il filosofo che più ha creduto nell’ espansione della democrazia e dell’ emancipazione umana.
Sarebbe bastato rileggere qualche pagina di un libretto pubblicato da Kant nel 1795, «La pace perpetua» per non stupirsi di fronte al tramonto dei tiranni Nordafricani. In esso il filosofo tedesco ha disegnato un mondo governato dalle democrazie e dalle organizzazioni internazionali, dove la guerra diventa sempre più rara, obsoleta ed assurda. Un mondo dove i cittadini daranno il loro consenso all’ uso della forza solo per autodifesa, e dove la diffusione dei regimi democratici ha instaurato un metodo della nonviolenza che ha finito con l’ estendersi anche ai rapporti tra gli Stati.
Queste dinamiche hanno continuato ad operare in realtà anche dopo l’ 11 settembre 2001. Le forze della pace kantiana hanno continuato il loro lavoro. Fino a sfociare nella «storia che si è dischiusa» all’ alba di quest’anno, secondo la bella definizione di Obama.
Tutto ciò si è verificato nonostante le idee di un pensatore reazionario, Samuel Huntington, il capofila della teoria dello scontro di civiltà con l’ Islam, fossero diventate un pensiero unico che ha ingannato molte persone in buona fede. La bandiera dello scontro di civiltà ha riportato in auge una legione di profeti di sventura, che hanno vaticinato disastri e guerre che esistevano in realtà solo nei loro desideri. Non ne hanno azzeccata una. Ma le loro errate previsioni hanno svolto la funzione di far crescere le paure collettive che hanno gonfiato a loro volta le spese militari.
Le idee di Kant ci hanno invece aiutato a rafforzare le istituzioni del dialogo e dei diritti universali: le Nazione Unite, il Parlamento e l’ Unione europea, e quella panoplia di trattati e di agenzie internazionali che formano come una rete che scoraggia la guerra e incoraggia la democrazia e la giustizia in ogni angolo del pianeta.
L’ imbroglio dello scontro di civiltà (con annessa teoria della superiorità etico-politica dell’ Occidente) è oggi nella polvere, sconfitto dai giovani arabi che manifestano per i diritti universali. Adesso dobbiamo fare attenzione a non cadere in una trappola.
Quella del trionfalismo progressista, che vede una crescita lineare ed ineluttabile della democrazia. Il catastrofismo di Huntington non va sostituito da una fede ingenua e dogmatica nello sviluppo umano. Da una specie di inganno al rovescio che ci porta ad ignorare le potenze distruttive della violenza e dell’ oppressione.
La continuità del processo in corso dipende da noi. Dalle mosse che saremo in grado di fare per tutelare le conquiste appena ottenute, e per espanderle ancora. Anche qui Kant ci può essere utile. Per lui il progresso etico-politico non era scontato, e poteva conoscere fasi anche molto lunghe di regresso e stagnazione. Per evitare le quali occorreva riflettere bene sugli errori passati, ed imparare a non ripeterli: il celebre learning process kantiano.
Se la rivoluzione democratica del Nordafrica sfocerà in un congiungimento politico di quei paesi all’ Europa e in un passo avanti verso la democrazia universale, invece di ripiegarsi su se stessa ed arretrare verso regimi semi-tirannici o verso situazioni di «stati falliti», dipende in primo luogo dalle azioni di chi combatte in loco. Ma dipende anche da noi. Dal sostegno che sapremo dare alle forze della nonviolenza e della solidarietà. Battiamoci, allora, perchè questo secondo decennio del ventunesimo secolo si svolga all’ insegna della profezia kantiana sulla pace democratica.
«Uomini, tocca a voi. Ribellatevi a Berlusconi e alla sua orgia di Stato»
Come il marito, Josè Saramago, Pilar del Rio lancia una sfida pubblica: «Cari maschi non accettate che un Paese sia infangato da un uomo con problemi di autostima. Scendete in strada per dire basta. Saremo con voi»
di Pilar Del Rio Saramago (l’Unità, 08.03.2011)
Un giorno, anni fa, lo scrittore portoghese - e anche italiano, perché no? - Josè Saramago lanciò una sfida pubblica: che gli uomini uscissero in strada, solo gli uomini, per dire alto e forte che loro non maltrattavano le donne, che non accettavano la vessazione come moneta di scambio nelle relazioni fra generi.
Aggiunse che se le donne sono le vittime, sono gli uomini ad avere il problema perché sono gli uomini a maltrattare. Proprio per questo gli uomini rispettosi, quelli che trattano le donne come loro stessi vorrebbero essere trattati, devono farsi sentire senza sosta per non essere confusi con gli altri: quelli che ancora non si sono resi conto né delle dimensioni del loro crimine, né di quanto diventano sporchi nell’ignorare che le donne non sono cose e hanno pienezza di diritti: possono dire «io» senza che nessuno le uccida, le disprezzi o le segreghi. Uguali davanti alla legge, uguali nei diritti e nei doveri, tanto in casa quanto nel lavoro e nel governo comune della società.
Ebbe successo, Saramago: in varie città - Sevilla e Montevideo in testa - migliaia di uomini rispettosi ed educati uscirono per strada condannando il flagello sociale dei maltrattamenti e denunciando l’uso che della donna fanno certi mezzi di comunicazione, condannando un certo modo di sentirsi uomo, meglio sarebbe dire maschio, un modo assolutamente incompatibile con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
In quelle manifestazioni il nome di Berlusconi era presente. Non per gli scandali, né per incidenti come quelli che gli sono occorsi di recente, ma per l’indecenza del suo comportamento civile e l’assenza di etica che lui e i suoi accoliti imponevano come norma nei mezzi di comunicazione dei quali andava impadronendosi. Pubblici o privati che fossero, sempre che la distinzione sia possibile visto che tutti i canali televisivi sono concessioni pubbliche.
Quelle manifestazioni che si ripetono anno dopo anno perché anche le coscienze più dure capiscano che le donne sono compagne e non mercanzia per l’uso personale del maschio e quel messaggio di Saramago, valgono oggi per l’Italia, la Grande Italia di Verdi, che ha visto centinaia di migliaia di donne, come un’immensa bandiera bianca spiegata, in strada per dire no a un modo di governare che non rispetta né gli esseri umani, né i valori che ci hanno fatto progredire lungo i secoli allontanandoci dall’orda e facendoci diventare comunità.
Per questo, e nello spirito che abitava in Josè Saramago e che la sua nobiltà ingigantiva, mi azzardo a suggerire - ora che le donne italiane, compagne nell’ anelito per un modo più pulito più giusto e più bello, si sono espresse e si esprimono ogni giorno - che siano gli uomini a uscire per strada, solo gli uomini, per dire a Berlusconi che le loro madri, figlie, spose, amiche, amanti non possono essere trattare così.
Nemmeno per scherzo. Che lo Stato non è un’orgia, che la schiavitù è finita da secoli, che le malattie fisiche e psichiche si possono curare, che un Paese non può essere infangato perché una persona ha problemi di autostima e quella mancanza di autostima la obbliga a collezionare corpi come se i corpi non fossero animati e, tanto spesso, corrotti con lusinghe e minacce. Sì: gli uomini che non accettano la distorsione democratica come norma di governo, lo sperpero, l’arbitrio e la mancanza di rispetto verso i propri simili. Ecco, quegli uomini non potranno far altro che organizzarsi e scendere per strada per dire ora basta, come hanno fatto le donne italiane.
Quel giorno, speciale e importantissimo, in cui gli uomini scenderanno in piazza per dire di non essere e di non voler essere Berlusconi, noi donne dai lati delle strade li applaudiremo e li riempiremo di fiori. Dopo potremo incontrarci, da pari a pari, per avanzare insieme nel processo di umanizzazione che Berlusconi e i suoi frenarono con violenza, con le peggiori astuzie e i più miserabili artifici.
Uomini, compagni, amici, amanti, mariti, fratelli, padri: se non siete uguali a coloro che ripudiamo, se ci amate e ci rispettate, se partecipate ai nostri sogni di un mondo migliore, ditelo senza paura. Le donne non temono l’orco ne i suoi seguaci: sanno che tutti insieme riusciremo a fare in modo che tornino nelle caverne e tra loro, solo tra loro, liberino i loro istinti, giochino a quel che vogliono, bevano quel che gli va e ridano fino alla fine dei tempi delle loro stupide barzellette. Agli altri, a noi, questi giochi non divertono. Non apparteniamo a quella sottospecie: siamo Italia, la terra di Dante, della poesia che innamora, della musica che consola, anima i nostri corpi ed eleva i nostri spiriti. Siamo la patria dell’arte: lo diremo molto chiaro, in modo che lo capiscano anche coloro che l’abbruttimento ha reso sordi.
Vogliamo, uomini, che siate nostri simili. Vi offriremo fiori quando uscirete per strada per dire che nessuno vi paragoni a quelli che oggi comandano e disgovernano, che voi siete nel presente e nel futuro, siete i nostri compagni dell’anima, amatissimi compagni.
Questioni di genere
Perché il fatto biologico non ci basta per individuare l’essere umano
Ma oggi i sessi sono diventati più di due
“Come la «Filosofia della sessualità» definisce «chi siamo» nel contesto sociale, politico, antropologico”
di Franca D’Agostini (La Stampa/Tuttolibri, 05.03.2011)
Un uomo di Sydney cambia sesso, e viene iscritto all’anagrafe come donna. Dopo dieci anni si rende conto di non trovarsi bene nel nuovo sesso, e chiede e ottiene di essere dichiarato di genere neutro. Una donna dell’Oregon inizia una terapia ormonale e assume un’identità maschile. La sua compagna non può avere figli, dunque la donna interrompe l’uso di ormoni, rimane incinta, dà alla luce un bambino: chiede però di essere riconosciuta come padre e non come madre del neonato.
Di fronte a questi fatti, come si giustifica, per esempio, la decisione della Chiesa cattolica di escludere le donne dal sacerdozio? Donne? Siamo sicuri di sapere che cosa si intende con questo termine? D’altra parte: il 13 febbraio le donne italiane sono scese in piazza. Donne? Chi erano? A parte il fatto che nella protesta c’erano molti uomini, la questione di fondo è: come si configura il discorso femminista, di fronte alle mutazioni della specie e della conoscenza di sé, che spingono a riconsiderare ciò che intendiamo con donna, uomo, maschio, femmina?
La filosofia contemporanea ha fornito importanti aggiornamenti su questo punto, e il merito di Filosofia della sessualità di Vera Tripodi è mettere a disposizione dei lettori, in una sintesi estremamente chiara e accurata, i risultati di una teorizzazione che dura almeno da una ventina d’anni su questi temi di base.
Il punto di partenza del libro è la questione sesso-genere, o meglio: la metafisica dei generi. Le domande sono ben note. Che cosa caratterizza l’essere donna di una donna? Può bastare il fatto biologico di possedere certi caratteri sessuali primari e secondari, e la famosa coppia cromosomica xx?
Il «genere», ossia la determinazione «donna» che isola gli individui dotati di certe caratteristiche fisiche ma, nota assennatamente Tripodi: «nella vita di tutti i giorni assegniamo un sesso a un individuo senza alcuna ispezione delle sue parti intime» e impone ad essi certi comportamenti, è solo una «costruzione sociale»?
La seconda sezione del libro riguarda la domanda «Perché due sessi non sono più sufficienti?», e qui l’analisi si apre a considerazioni biologiche e antropologiche. Sono interessanti in particolare le discussioni sulla proposta di riconoscere cinque sessi diversi. La terza sezione riguarda la questione del rapporto sesso-razza, e la quarta ricostruisce il famoso dibattito sulla pornografia, avviato negli Anni 80 da Catherine MacKinnon e Andrea Dworkin, e introduce le più recenti acquisizioni sul tema. Il lavoro di Tripodi non ha obiettivi politici. La dominante nel testo è metafisica. Ma vale la pena riflettere sulle ricadute che una ricognizione di questo tipo potrebbe avere sul piano politico.
In effetti, la teorizzazione femminista ha registrato divergenze profonde, proprio nella messa a punto del soggetto «donne». Nella ricostruzione di Sally Haslanger ed Elizabeth Hackett (nell’importante raccolta del 2006 Theorizing Feminism ), abbiamo: un femminismo in largo senso egualitarista, che mira a ridurre la differenza tra maschile e femminile; un femminismo ginocentrico o differenzialista, che mira a rivendicare valori femminili; un femminismo detto della dominanza (alla Catherine MacKinnon) che non si pone il problema di chi siano le donne e che cosa le renda tali, ma mira solo a lottare contestualmente contro la sopraffazione e la discriminazione.
Tuttavia sappiamo che la politica pura, senza basi teoriche, lascia aperti molti problemi. Per esempio: Pieranna Garavaso e Nicla Vassallo, nella loro sintesi del 2007 sulla Filosofia delle donne (Laterza) notavano che la storia della filosofia è dominata da uomini, «e forse per questo sembra che la musica non cambi mai». Già: ma come dovrebbe cambiare? C’è davvero qualcosa di diverso nel pensare come donna, o no? Le differenzialiste dicono di sì, e alcune di loro, per esempio Luisa Muraro, ritengono che il pensiero femminile sia meglio. Ma siamo sicuri che quel meglio di cui parla Muraro sia proprio delle donne, come soggetti biologici e/o sociali, o non piuttosto di un ideale antropologico, che si può chiamare «pensiero femminile», ma che è condiviso da molti uomini (e oscuro a molte donne)?
Il problema è che il femminismo ha vissuto del pensiero «maschile» (se esiste una cosa di questo tipo), dunque ne condivide perfettamente l’attuale incertezza teorica e politica. Da questo punto di vista non sarebbe male ricominciare dalla questione «chi siamo?», per una volta unendo le forze.
La riscossa delle suore
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 5 marzo 2011)
Sono la fanteria della Chiesa, se scioperassero un giorno si bloccherebbero case di vescovi, uffici, scuole, ospedali, istituti d’assistenza, tutta l’immensa rete dell’istituzione ecclesiastica. Ma sono anche le meno conosciute. Le suore.
Perché vengono immaginate lontane dal mondo, un po’ bigotte, un po’ buoniste, con gli occhi bassi e l’orizzonte limitato. Poi appare magari una suor Eugenia Bonetti alla manifestazione di piazza del Popolo contro il postribolo berlusconiano e si scopre una realtà del tutto diversa, fatta di migliaia di donne sconosciute, energiche e lucide, che operano nelle trincee della società.
“Sono stata in Brasile, ma le favelas si possono trovare anche a Roma”, mi ha detto una di loro indicandomi baraccamenti dove si vive in condizioni subumane. Lì le suore vanno. In ogni regione. È difficile vederle, perché hanno abbandonato i conventi, gli abiti tradizionali e non odorano di incenso.
Quelle della generazione del nuovo millennio sono profondamente fiere della loro femminilità. Le Piccole Sorelle, che in varie città si dedicano agli immigrati, ripetono le parole della loro fondatrice francese Magdeleine: “Prima di essere religiose, siate donne in mezzo ad altre donne. Le vicine di casa devono sentirci uguali a loro nella fatica di vivere, nel lavoro alle dipendenze di una padrona, nei disagi del contesto sociale”.
SBAGLIATO è dire che si dedicano “a” chi ha bisogno. Invece hanno scelto di stare “con” chi vive in situazioni estreme. Per questo abitano in stanze qualsiasi. Come le quattro suore Canossiane, di base in un appartamento di Nuova Ostia dove l’altare è un mucchietto di mattoni e il tabernacolo una scatola di ferro. Giorno per giorno girano per il quartiere, chiamate da chi chiede aiuto. Il Terzo mondo, il Medioevo - per chi vuole vederlo - è qui. La tossica che calma con la droga il bimbo di nove mesi. L’handicappata mentale, sposata all’algerino che ne sfrutta la pensione. Il padre italiano, che porta la figlia quindicenne in strada a prostituirsi.
Cambi quartiere e trovi in un appartamento del Testaccio la “Casa Bernardette”, dove negli anni sono state accolte duecento ragazze madri buttate per la strada. “Abbiamo bisogno di tutta la nostra umanità per servire meglio Dio”, dice suor Manuela, convinta della sua consacrazione. “Io, prima che suora, mi sento donna e tale voglio essere in tutta la pienezza della parola”. Facile, racconta, è ubbidire ai superiori in un istituto, mentre “è molto più difficile ubbidire alle necessità di chi bussa alla tua porta e ti pone i suoi problemi”.
Al Portuense vivono le suore della Divina Volontà. Dopo il Concilio hanno fatto una scelta radicale: hanno venduto tutte le loro case e i beni accumulati in un secolo. Tranne la casa-madre a Bassano. E pensare che i vescovi non pubblicano nemmeno i bilanci integrali dei loro beni in diocesi. A Roma c’è persino un gruppo di suore spagnole che per regola non possono risparmiare denaro. Tanto ricevono, tanto danno.
“SUOR ELVIRA dei drogati” sta invece a Saluzzo. Ha chiesto il permesso di lavorare fuori della sua congregazione e ha aperto nel 1983 una casa per i poveri, dove presto sono arrivati i tossicodipendenti. Alla fine ha lasciato il suo ordine per rischiare tutto di persona. Dal suo “cenacolo” sono nate sessantadue Fraternità in diciassette paesi del mondo. La fede, afferma, “non è fare le cose per amore, ma vivendo nell’amore”.
Quello che caratterizza tante esperienze è proprio questo: al posto dell’atteggiamento di assistenzialismo è subentrata la tranquilla testimonianza della condivisione. Si vive Cristo e non si fa proselitismo con la preghiera obbligatoria. Poi tante persone spontaneamente imparano a pregare. O anche no. E questo non cambia di un millimetro lo stato d’animo di queste suore. Un’altra caratteristica è la creatività, lo spirito d’iniziativa individuale. Maddalena di Spello veniva dalla Francia, quando nella cittadina umbra un giorno apre una casa per accogliere chi non ha da mangiare, non ha casa, non ha cure. E lentamente si riunisce intorno a lei un gruppo di altre donne.
PUTTANE, drogati, borderline, senzatetto, zingari, immigrati: le nuove suore vivono in mezzo a loro e niente di ciò che è umano è loro estraneo. Per questo, quando i vertici ecclesiastici tuonavano contro Beppino Englaro accusandolo di assassinio, una di loro mi sussurrò: “Ma perché non si stanno zitti una volta!”. Chi vuol saperne di più, legga il libro Suore di Maria Pia Bonanate (ed. Paoline).
C’è anche chi fonda eremi. Nelle Alpi, a Subiaco, in Calabria. Ma sono luoghi del silenzio aperti alla gente. Come l’Eremo delle Querce vicino a Caulonia, con biblioteca, laboratori artigianali, stanze per l’accoglienza. Suor Rossana, suor Renata, suor Carmelita, suor Sandra hanno riadattato un fondo rustico e ne hanno fatto un punto di riferimento in una delle zone socialmente più disgregate d’Italia. “Eravamo come lupi nelle tane... voi ci avete fatto uscire”, ha detto loro una donna del luogo. Sorridono con i loro visi tranquilli di “madri” di figli altrui.
Nella Chiesa italiana queste donne in trincea contano quasi zero, quando si tratta di decidere le strategie del cattolicesimo. Sono lodate, ma stiano al loro posto. Decidono i vescovi su società e famiglia, sul vivere e morire. E intanto le suore calano. Nel 1998 le religiose in Italia erano 120.000. Nel frattempo sono scese a novantamila, comprese le straniere.