LA BILANCIA DELL’ESISTENZA
di ROMANO GUARDINI *
I
Miei gentilissimi ascoltatori!
Ringrazio i familiari e gli amici delle persone nel cui nome ci siamo riuniti per la fiducia che mi hanno accordato, chiedendomi di pronunciare qualche parola di commemorazione.
Si puo’ ricordare un uomo soltanto dicendo come in verita’ egli e’ stato; ma ci sono strade diverse per giungere alla verita’ della sua vita.
La prima via e’ quella di tentare di comprendere, sotto la guida dell’amore e la vigilanza della riflessione, la sua personalita’ e il percorso della sua vita, spingendosi sempre piu’ a fondo in cio’ che gli e’ proprio, fino a quando il suo essere ne risulta alla fine chiaramente illuminato. Non posso percorrere questa via, non avendo conosciuto di persona gli uomini di cui oggi onoriamo la memoria; e gli appunti e i racconti non possono sostituire cio’ che solo l’incontro vivo puo’ rivelare.
C’e’ pero’ un’altra via, ed e’ quella di domandarsi quali idee essi hanno servito e da quali valori si sono sentiti obbligati ad agire. Anche questa via conduce alla verita’ della loro vita; cosi’, infatti, e’ l’uomo: vive di cio’ che e’ fondamentale ed eterno, come di cio’ che e’ individuale e temporale, ovvero lo tradisce e lo trascura e ne e’ poi condizionato. Questa e’ la via che cerchero’ di seguire.
Anche se il mio discorso non si soffermera’ a lungo sulle persone in quanto tali, lo sguardo restera’ tuttavia costantemente rivolto a loro. E io spero che dalle cose che devo dire cadra’ una luce chiara sul loro essere e sul loro agire e li rischiarera’, cosi’ come la nostra esistenza confusa puo’ essere rischiarata soltanto dall’eterno.
Su quale bilancia si pesa la vita di un uomo? Secondo quale ordine si tirano le somme, da cui risultano il guadagno e la perdita di questa vita, e appare chiaro il suo senso ultimo? Di fronte alla natura non si puo’ parlare di bilancia, perche’ tutto va come deve andare secondo la sua legge intrinseca.
Ma nell’uomo l’agire e l’essere sono affidati alla liberta’, e liberta’ significa che si puo’ fare qualcosa di giusto, ma anche di sbagliato, che si puo’ preservare qualcosa ma anche che qualcosa si puo’ corrompere. Qual e’ dunque la bilancia, e quale l’ordine?
II
Ci sono diverse bilance e diversi ordini, a seconda dell’ambito dell’esistenza.
Un primo ordine si riferisce alle cose materiali. Il termine non e’ usato in senso spregiativo, perche’ le cose sono affidate all’uomo affinche’ egli le usi rettamente, per il proprio benessere, come anche per realizzarne l’intrinseca finalita’. In questo ordine troviamo l’ambito ristretto in cui l’uomo "viene al mondo" e prende posto in esso, ossia la casa, il cui governo risiede anzitutto nella cura e nell’uso delle cose.
Fuori della casa l’uomo entra nella professione: anche il lavoro si rivolge prevalentemente alle cose, alla loro acquisizione e utilizzazione. Lo stesso vale ancora per la comunita’ e per lo Stato: le cose costituiscono il fondamento e l’impalcatura della loro esistenza. In massima parte la vita dell’uomo e’ una relazione con le cose e in questo ambito l’ordine e’ quello della retta amministrazione.
Questa si caratterizza per la responsabilita’ che l’uomo esercita nei confronti della propria esistenza e dell’esistenza altrui, entrambe bisognose di molte cose, e per sua personale responsabilita’ nei confronti delle cose stesse; perche’ l’uomo e’ responsabile anche se spesso ritiene di poter fare con le cose cio’ che gli dettano l’arbitrio e la volonta’ di potenza. C’e’ un atto di accusa che si leva dalle cose di cui si e’ fatto abuso. Le Lacrimae rerum di cui parla Virgilio, lacrime della creatura che patisce violenza, sono piu’ vere di quanto sospetti la superficialita’ della vita quotidiana. E c’e’ una vendetta delle cose di cui si e’ abusato, una vendetta che non si lascia facilmente scorgere in ogni suo singolo atto perche’ si compie seguendo binari nascosti e attraverso movimenti impercettibili. Ma la percepiamo nel sentimento inquietante che ci assale quando le relazioni economiche e sociali non sono in ordine, fino al momento in cui questa vendetta non si manifesta in catastrofi che nessuno puo’ piu’ignorare.
Le azioni vengono pesate sulla base di quest’ordine. Si misurano sull’onesta’, sulla fedelta’ e la prudenza, virtu’ poco appariscenti, faticose ma fondamentali per la vita. San Benedetto da Norcia, che e’ stato definito il padre dell’Occidente perche’ appartiene alla schiera di coloro che salvarono l’eredita’ del mondo antico e imbrigliarono il caos delle migrazioni dei popoli dandogli una nuova forma, nel capitolo 31 della sua Regola dice che il cellerario, che presiede agli averi e ai beni del monastero, deve considerare le cose quasi vasa altaris, come i calici del culto divino.
In queste parole non vi e’ certo una sopravvalutazione delle cose possedute: sono parole, infatti, che stanno nella stessa Regola che conduce quanti la seguono al distacco estremo dalle cose. Il loro idealismo, piuttosto, esprime il senso della realta’ tipico dell’uomo romano, che sapeva che solo la coscienziosita’ quotidiana puo’ fondare l’ascesi, per poter raggiungere davvero l’altezza dello straordinario. Tutto questo si avvicina molto alla nostra situazione contemporanea, perche’ di nuovo la "forma" di un’epoca vacilla, e l’uomo e’ abbandonato e la distretta e’ cosi’ grande che nessuno sa come le poche cose a disposizione possano bastare, secondo le parole del Vangelo, "per cosi’ tanti".
L’ordine delle cose deve essere rispettato in ogni caso - benche’ affondi le sue radici in strati piu’ profondi di quanto si pensi. L’uomo, infatti, non fa giustizia alle cose materiali seguendo una concezione puramente materiale. Le cose hanno in se’ il potere di ribellarsi e insorgono contro chi si sottrae alla propria responsabilita’ nei confronti dello spirito.
Malgrado cio’, l’ordine di cui parliamo va senz’altro rispettato. Riposa sulla natura del creato, sulla fiducia e sull’accortezza e si afferma nella prosperita’ dei rapporti umani. E’ qualcosa di grande essere amministratori dell’esistenza.
Ma da questo punto di vista non ci sarebbe molto da dire, sulle persone che qui ricordiamo. Non so come si siano comportati con i loro beni e i loro averi; certo erano quasi tutti giovani e probabilmente, per un bel libro o una giornata felice, avrebbero sacrificato cio’ che forse sarebbe stato necessario per mangiare e vestirsi. E non sarebbero stati da biasimare, perche’ e’ una prerogativa dei giovani il poter credere che di fronte allo spirito e alla vita la razionalita’ delle cose non abbia alcun peso.
III
Un secondo ordine e’ quello dell’azione e dell’opera: dell’azione, che scopre e conquista, intraprende e plasma, vince la necessita’ e compie la salvezza; dell’opera, che ordina i rapporti tra gli uomini, fonda l’autorita’ e il diritto, produce la scienza e l’arte. Senza dimenticare cio’ che fluisce sempre di nuovo nella corrente della vita e non si puo’ piu’ distinguere e diviene chiaro solo nella rivelazione di tutto l’umano alla fine dei tempi: l’amore in tutte le sue forme, il proteggere e dispiegare, sciogliere e liberare, aiutare e curare. Tutto cio’ proviene dalla forza della liberta’, dalla profondita’ dello spirito, dalle sorgenti del cuore e, dall’altro lato, dalle possibilita’ della storia e dalle esigenze del momento. Cio’ sta in un ordine che dalla semplicita’ di ogni giorno sale fino all’altezza dell’eroe e del genio. Nell’ordine dell’azione retta e dell’opera pura, si deve fare e agire non come raccomandano l’ambizione e l’interesse, ma come esige la cosa stessa. Qui sono richieste altre virtu’: il coraggio, che abbandona il terreno protetto ed esce all’aperto perche’ sente una chiamata; la forza di cominciare, che rinuncia alle cose conosciute e ne osa di nuove, perche’ qualcosa di dentro la spinge; la prontezza che si mette a disposizione di cio’ che non e’ ancora, ma che deve essere.
Anche qui c’e’ un peso sulla cui base viene misurato l’uomo e il suo agire: se e’ attento e risponde alla chiamata che giunge dallo spazio del possibile; se e’ puro in spirito e non confonde la chiamata con i desideri egoistici; se e’ pronto a prendere su di se’ le angosce e i dolori del divenire.
Non e’ cosi’ facile comprendere cio’ che avviene in quest’ambito rispetto all’ambito precedente dove avviene cio’ che deve accadere; qui e’ in gioco una grandezza che non consiste in numeri, ma in una nobilta’ interiore, che puo’ essere propria di un semplice gesto e puo’ mancare dove si fanno largo le masse e i milioni di individui. Ma anche questi eventi hanno la loro ragione, in quanto hanno il loro ordine. La ragione non e’ affatto cosi’ misera come spesso si vuol far credere. Essa e’ vasta quanto il mondo. E’ la capacita’ di riflettere sugli ordini dell’esistenza. Puo’ dunque riconoscere anche l’ordine dell’agire e del creare, solo che, per questo, ha bisogno di uno sforzo piu’ onesto e piu’ profondo esponendosi sempre al rischio di considerare come errato cio’ che e’ inconsueto.
Come e’ lontana dal comune modo di pensare la vita di un ricercatore, che dimentica piaceri e salute per trovare una verita’ ancora sconosciuta! Come e’ insensata la sofferenza di un artista, che si consuma per la sua opera! Come e’ incomprensibile l’atteggiamento di chi, chiamato da un’ora della storia, fa cio’ che essa richiede, anche se cosi’ soccombe! E come e’ assurdo per un osservatore indifferente il comportamento di chi ama, quando un’altra persona gli ha affidato sua vita, o quando si sente obbligato dal bisogno di chi e’ stato abbandonato! Anche qui c’e’ un ordine piu’ potente di quello delle cose materiali; piu’ inesorabile nelle sue conseguenze se viene violato, piu’ ricco di frutti se viene realizzato; un ordine che e’ immediatamente trasparente solo a chi gia’ vi appartiene.
Le persone di cui facciamo memoria sono vissute in questo ordine. Appartenevano al mondo dell’universita’, un mondo che e’, nonostante tutto, uno dei mondi piu’ nobili che esistano, perche’ ha degli obblighi solo nei confronti della verita’. Negli anni scorsi l’universita’ e’ stata umiliata. E’ stato corrotto il suo rapporto con la verita’ e con cio’ la sua essenza e’ stata distrutta. E’ stata ridotta a strumento al servizio di fini politici. I fratelli Scholl e i loro amici volevano che l’universita’ ridiventasse cio’ che deve essere: una comunita’ che vive nella dedizione alla verita’, e per questo hanno osato tutto.
Ma oltre a cio’, ad essi importava l’onore del popolo tedesco, la sua vita spirituale, la sua vocazione autentica. Per questo si sono ribellati contro il degrado e la distruzione causata al popolo da quelli che si proclamavano le sue guide, e la loro azione, impotente se considerata da un punto di vista realistico, forse perfino folle, porta in se’ questo significato ed e’ assurta a simbolo della nobilta’ umana.
IV
Abbiamo parlato di due ambiti di vita: quello delle cose e del loro ordine, che si realizza nella fedelta’ di un lavoro di "amministrazione"; e quello dell’agire creativo e del suo ordine, che si realizza nell’obbedienza alla chiamata interiore. Entrambi gli ordini hanno i loro problemi e le loro necessita’. Tanto piu’ e’ difficile comprenderli, quanto piu’ grandi diventano i loro compiti; ma nonostante cio’ si possono comprendere a partire da loro stessi, perche’ hanno il loro fondamento nell’essenza delle cose e della vita. In questo trovano anche la loro garanzia, e chi realizza questo ordine si fonda su questa garanzia.
C’e’, pero’, ancora un altro ordine, che non e’ fondato nel mondo e nella vita; che non e’ garantito da queste realta’ e che percio’ non si puo’ comprendere ne’ giustificare a partire da esse. La sua origine e’ nel cuore di Dio. Un tale ordine e’ stato portato nel mondo per mezzo di Gesu’ Cristo. In Lui si fonda il suo senso, e solo a partire da Lui puo’ essere riconosciuto. Si potrebbe obiettare che queste cose qui non c’entrano; ma noi dobbiamo parlare della verita’, di cui le persone che ricordiamo hanno vissuto, e il cuore di questa verita’ e’ qui. Contraddiremmo la loro stessa volonta’, se non ne parlassimo.
Allora dobbiamo parlare di Cristo e dobbiamo domandarci, come dobbiamo considerare Cristo stesso, affinche’ ci divenga chiaro l’ordine che Egli ha fondato. Cristo non e’ un "grande" nell’ordine dei "grandi uomini", non e’ nemmeno il "piu’ grande" di tutti, ma e’ Colui nel quale Dio e’ venuto tra gli uomini. Ed e’ venuto non come Egli viene in ogni cuore nobile, in ogni spirito elevato, ma in un modo che rivela gia’ da se’ la totale alterita’ che qui e’ in gioco: la rivela - per usare una parola che Egli stesso ha pronunciato - fino allo scandalo. In Cristo il Figlio di Dio, che non ha bisogno di nulla e che non e’ determinato da alcuna necessita’, e’ entrato nell’orizzonte del tempo e si e’ fatto uomo. E ha fatto questo per ricondurre al Padre nell’amore del suo cuore il mondo che si era perduto e per guidarlo verso una nuova vita.
Non c’e’ qui grandezza in senso naturale; ne’ l’audacia dell’eroismo umano ne’ il mistero della creativita’ terrena. Si sbaglia del tutto, se si usano criteri derivati dalla nostra esistenza immediata. Qui c’e’ qualcosa la cui essenza puo’ essere compresa solo da se stessa: l’atto dell’amore. Non quell’amore di cui parlano filosofi e poeti, si chiamino Platone o Dante, ma un amare che comincia in Dio e fa si’ che l’Eternamente Compiuto - che sarebbe cio’ che Egli e’ anche se non ci fossero ne’ il mondo ne’ gli uomini - si offra per elevare l’uomo nella Sua propria vita.
Se uno dice di comprendere questo, esamini pure se stesso: forse non sa nemmeno di che cosa parli. La comprensione autentica comincia con l’inquietudine provocata dall’inaudito. Si fa poi strada nella cognizione che questa realta’ apparentemente priva di senso costituisce il senso ultimo di tutte le cose. Infine si compie nell’abbandono della fede in cio’ che supera ogni realta’ terrena. Questo si e’ compiuto per opera di Gesu’ Cristo e si e’ compiuto in modo tale da dare inizio ad una nuova esistenza. La fede significa collocarsi in questo inizio: considerare il sensus Christi come quello vero; accogliere la realta’ che Egli annuncia come quella definitiva; perfezionare, nella propria vita, la propria forza con la forza che Egli stesso da’.
Nel nocciolo piu’ intimo di questa vita sta il sacrificio. Di nuovo, pero’, dobbiamo distinguere, e voi non dovete risparmiarvi questo continuo esercizio del dire "non cosi’, ma cosi’". Perche’ per gli uomini che oggi ricordiamo il discernimento delle cose essenziali era un proposito importante. Erano impegnati a superare la sconfinata confusione dei concetti, il terribile travisamento e imbrattamento dei valori spirituali che si insinuava ovunque, tesi a far emergere le essenze nella loro nuda verita’ e a ristabilire gli ordini dell’esistenza cosi’ come essi sono veramente. Per questo deve essere anche chiaro che cosa significa "sacrificio" in questo ambito, qui dove ci avviciniamo all’interiorita’ piu’ profonda.
Di certo nessuna grande azione, nessuna opera autentica, nessuna relazione umana sincera e’ possibile senza che l’uomo vi arrischi cio’ che e’ suo. Ma il senso di una tale donazione sta nell’essenza stessa della vita, e’ fondata nella legge del "muori e divieni", e anche l’estrema spoliazione trova qui una giustificazione ed una assicurazione. Ma la donazione, che guida la vita di Gesu’ e che si compie nella sua morte, e’ qualcosa di diverso. Cristo sta nell’esistenza terrena e contemporaneamente al di fuori di essa, sta insieme tra tempo ed eternita’, e la’, nell’ultima solitudine, responsabile solo verso il Padre e riconosciuto solo da Lui, porta a compimento il destino del mondo. E’ il sacrificio di Cristo quello che il credente, ognuno a suo modo e secondo la sua misura, deve compiere nella propria vita.
Da questo sacrificio il credente ottiene una liberta’ estrema, ormai inattaccabile. Nessuno oserebbe compiere un’azione il cui fallimento fosse assolutamente certo, perche’ la giustificazione di ogni azione sta, in ultima istanza, proprio nell’efficacia ch’essa realizza nella struttura della vita e nel corso della storia. Nessuno comincerebbe un’opera, se fosse certo che questa non possa riuscire: quale creazione, infatti, e’ quella che non puo’ compiersi? Ogni agire e ogni creare dipende dunque dalle possibilita’ che il mondo e la vita gli danno, e resta legato ad esse.
Quel sacrificio, invece, che il credente compie in unita’ d’intenzione con Cristo, spera certo anch’esso di poter avere la sua efficacia nella vita immediata - come potrebbe rinunciare a questa speranza? - ma non dipende dalla sua realizzazione, perche’ il suo senso autentico e’ riposto altrove.
Puo’ fallire, puo’ restare nella congiuntura dell’esistenza privo di ogni effetto riconoscibile, puo’ tramontare nell’oscurita’ dell’ignoto - tutto cio’ non toglie il suo senso proprio. In ultimo questo sacrificio e’ compiuto davanti a Dio solo, e’ affidato alla Sua sapienza ed e’ rimesso nelle Sue mani, affinche’ Egli lo inserisca nel grande conto del mondo, dove Egli vuole.
Non si puo’ capire questo comportamento partendo solo da presupposti terreni, ne’ da un’etica del disinteresse ne’ da una filosofia della creazione e della storia. Vive della fede nel nuovo inizio, che si e’ aperto in Cristo e che e’ "scandalo e follia", come il Suo stesso agire e’ stato. In verita’ questo agire sostiene l’esistenza umana. Rispetto all’individualismo dell’epoca precedente, abbiamo imparato che cosa significa comunita’, anche se forse non ne sappiamo ancora abbastanza. Essa penetra nel profondo, piu’ di quanto generalmente percepiamo.
C’e’ il legame che trae origine da tutta la nostra dipendenza dalle cose materiali. Se lo dovessimo aver dimenticato, la distretta di oggi, in cui ne va della vita stessa, ci riporta vicino a questa realta’ in un modo che non si puo’ ignorare.
C’e’ poi il legame costituito dal tessuto delle azioni e delle opere. Di nuovo e’ proprio il nostro tempo che ha insegnato a tutti coloro che vogliono imparare, come l’azione del singolo diventa destino per tutti, nel male, ma anche, grazie a Dio, nel bene. Per cio’ che concerne le opere dello spirito, della conoscenza, dell’ordine e della bellezza, queste sono nutrite dalle correnti che sgorgano dalla vita di tutti e a loro volta divengono sorgenti pronte a colmare ogni calice che si tenda verso di loro. Poi pero’ c’e’ ancora un’altra, ultima comunita’, che nasce dall’azione di Cristo, di cui abbiamo parlato. La fede significa affidarsi a questa comunita’; l’amore significa sostenerla con la vita. Essa scorre, sottratta all’esperienza quotidiana, sotto la nostra esistenza.
Nessuno sa da quali vittorie tragga forza. Nessuno puo’ dire dove e’ stata sofferta la liberazione che conduce la sua vita alla liberta’. E nessuna conoscenza scientifica puo’ stabilire sulla base di quali espiazioni di un’epoca viene concessa la grazia di un nuovo inizio, di cui essa poi approfitta come se fosse un fatto naturale.
Nella profondita’ di questa comunita’ hanno tratto origine i motivi ultimi, che hanno determinato la vita di coloro di cui onoriamo la memoria. Non si deve pensare con questo a nulla di eccezionale. Erano persone normali, che vivevano intensamente la loro vita; gioivano delle cose belle che la vita regalava loro, e sopportavano le difficolta’ imposte. Guardavano diritto al futuro, pronti all’opera buona e fiduciosi nelle promesse che la giovinezza porta con se’.
Ma erano cristiani per convinzione. Stavano nello spazio della fede, e le radici della loro anima affondavano in quelle profondita’ di cui si e’ parlato. Non e’ nostro compito indagare in che modo siano affiorate alla loro coscienza le interpretazioni ultime. Che sia successo, sia pure in modo velato e indiretto, e’ sicuro.
Di certo hanno lottato per la liberta’ dello spirito e per l’onore dell’uomo, e il loro nome restera’ legato a questa lotta. Nel piu’ profondo hanno vissuto pero’ nell’irradiazione del sacrificio di Cristo, che non ha bisogno di alcun fondamento nell’esistenza immediata, ma sgorga libera dalla fonte creativa dell’eterno amore.
* [Dal sito www.nostreradici.it riprendiamo la commemorazione di Sophie e Hans Scholl, Christoph Probst, Alexander Schmorell, Willi Graf e del professor Huber, tenuta da Romano Guardini a Tubinga il 4 novembre 1945, cosi come pubblicata in traduzione italiana, col titolo "La bilancia dell’esistenza. Commemorazione di Sophie e Hans Scholl, Christoph Probst, Alexander Schmorell, Willi Graf e Prof Dr. Huber", alle pp. 33-45 del volume di Romano Guardini, La Rosa Bianca, Morcelliana, Brescia 1994 (a cura di Michele Nicoletti e con un’appendice di Paolo Ghezzi).
Romano Guardini, filosofo e teologo tedesco di origine italiana (Verona
1885 - Monaco 1968); docente universitario dapprima a Bonn, poi a Berlino, il regime nazista lo costrinse ad abbandonare la cattedra; nel dopoguerra ha insegnato a Tubinga e a Monaco di Baviera.
Opere di Romano Guardini:
segnaliamo almeno: Der Herr (1937); Welt und Person (1939); Das ende der Neuzeit (1950); Sorge um des Menschen (1962); in italiano segnaliamo anche almeno Natura, cultura, cristianesimo. Saggi filosofici, Morcelliana, Brescia 1983; Fede, religione, esperienza. Saggi teologici, Morcelliana, Brescia 1984; ed in particolare il libriccino che raccoglie due discorsi commemorativi pronunciati da Guardini in memoria del gruppo dei giovani resistenti e martiri antinazisti di Monaco: La Rosa Bianca, Morcelliana, Brescia 1994; presso l’editrice Morcelliana sono in corso di stampa le opere complete.
Opere su Romano Guardini: la piu’ importante biografia e’ quella di H.-B. Gerl, Romano Guardini. La vita e l’opera, Morcelliana, Brescia 1988; un saggio d’interpretazione e’ quello di Hans Urs von Balthasar, Romano Guardini. Riforma delle origini, Jaca Book, Milano 1970.
Sulla Rosa Bianca: tra il 1942 ed il 1943 un gruppo di studenti ed un professore di Monaco realizzarono e diffusero una serie di sei volantini clandestini antinazisti. I primi quattro volantini si aprivano col titolo "Fogli volanti della Rosa bianca" ed erano diffusi in poche centinaia di copie; gli ultimi due intitolati "Fogli volanti del movimento di Resistenza in Germania" ciclostilati in qualche migliaia di copie. Scoperti, furono condannati a morte e decapitati gli studenti Hans Scholl, Sophie Scholl, Christoph Probst, Willi Graf, Alexander Schmorell ed il professor Kurt Huber. Opere sulla Rosa Bianca: Inge Scholl, La Rosa Bianca, La Nuova Italia, Firenze, 1966, rist. 1978 (scritto dalla sorella di Hans e Sophie Scholl, il volume - la cui traduzione italiana e’ parziale - contiene anche i testi dei volantini diffusi clandestinamente dalla Rosa Bianca); Klaus Vielhaber, Hubert Hanisch, Anneliese Knoop-Graf (a cura di), Violenza e coscienza. Willi Graf e la Rosa Bianca, La nuova Europa, Firenze 1978; Paolo Ghezzi, La Rosa Bianca. Un gruppo di resistenza al nazismo in nome della liberta’, Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1993; Romano Guardini, La Rosa Bianca, Morcelliana, Brescia 1994; Paolo Ghezzi, Sophie Scholl e la Rosa Bianca, Morcelliana, Brescia 2003. Alcune piu’ dettagliate notizie biografiche sui principali appartenenti al movimento di resistenza della "Rosa bianca" sono nel n. 909 de "La nonviolenza e’ in cammino" (altri materiali ancora nei nn. 910 e 913)]
* NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO. Numero 178 dell’11 agosto 2007
Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal
Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E,
01100 Viterbo,
tel. 0761353532,
e-mail: nbawac@tin.it
Sul tema, nel sito, si cfr.:
HEIDEGGER, SENZA L’AMORE CRISTIANO RESTA "SOLO" IL NAZISMO (di Roberto Graziotto).
Federico La Sala
Storia.
Morta a 103 anni l’ultima resistente della Rosa Bianca
Traute Lafrenz aveva distribuito ad Amburgo i volantini del gruppo di Monaco. Era amica dei fratelli Scholl, giustiziati dal nazismo. Arrestata, fu però liberata. Dal 1947 viveva negli Usa
di Redazione Agorà (Avvenire, sabato 11 marzo 2023
Addio a Traute Lafrenz, ultima sopravvissuta della Rosa Bianca, l’organizzazione di ispirazione cristiana che oppose resistenza al regime nazista di Adolf Hitler distribuendo volantini nella Germania della seconda guerra mondiale. È morta all’età di 103 anni, come ha reso noto la Fondazione della Rosa Bianca, il 6 marzo a Charleston, nel South Carolina: si era, infatti, trasferita negli Stati Uniti nel 1947.
Nata ad Amburgo nel 1919, Lafrenz andò a Monaco di Baviera nel 1941 per studiare Medicina all’Università, dove divenne amica di Hans Scholl, fondatore della Rosa Bianca. Scholl divenne emblema della ribellione al Terzo Reich dopo che con la sorella Sophie venne condannato a morte il 22 febbraio 1943. Lafrenz portò ad Amburgo volantini prodotti dal gruppo di resistenti per distribuirli e fu arrestata nel marzo 1943. Subì una condanna a un anno di carcere e venne nuovamente arrestata al momento del rilascio, prima di essere liberata dalle forze militari americane nell’aprile 1945.
Il primo contatto di Lafrenz con la politica antinazista avvenne a metà degli anni Trenta, quando studiò con una insegnante di nome Erna Stahl. Lafrenz raccontò: «Ci ha trasmesso la sua intuizione attraverso una pratica pedagogica che mirava a ispirare un pensiero indipendente". "In ogni caso, mi ha svegliato. Prima ero una sognatrice». Nel 1935, Stahl fu licenziata dalla scuola di Lafrenz e i nazisti le vietarono di insegnare altrove. Per aggirare questo divieto, l’educatrice organizzò lezioni informali a casa sua, utilizzando l’arte e la letteratura come strumenti per discutere i pericoli del regime nazista. Lafrenz partecipò a molte di queste sessioni, basando le successive "serate letterarie" con i fratelli Scholl sulle lezioni di Stahl.
La Rosa Bianca nacque da discussioni politiche tenute dai fratellil Scholl e dai loro amici. Tra il giugno 1942 e il febbraio 1943, il movimento distribuì sei volantini che criticavano il totalitarismo nazista e l’assassinio di massa degli ebrei. Nella speranza di ispirare una resistenza passiva da parte dell’opinione pubblica tedesca, il gruppo, nel suo quarto volantino, dichiarò: "Non resteremo in silenzio. Siamo la vostra cattiva coscienza. La Rosa Bianca non vi lascerà in pace!".
Lafrenz non era coinvolta nella produzione di questi primi volantini, anche se in seguito disse di aver riconosciuto in Hans Scholl l’autore dei testi «dai termini usati, dall’argomento e dalle formulazioni». Nell’autunno del 1942 venne accolta nel movimento clandestino, fungendo da collegamento chiave tra le operazioni di Amburgo e Monaco. Nei mesi successivi, Traute Lafrenz cercò di ottenere una macchina duplicatrice per il gruppo; lei e Sophie Scholl acquistarono anche carta e buste utilizzate per aumentare la distribuzione di volantini.
Il 18 febbraio 1943, Lafrenz e Willi Graf, un altro dei membri della Rosa Bianca, si imbatterono in Hans e Sophie mentre uscivano da una conferenza tenuta da Huber, un professore che aveva scritto il sesto volantino antinazista della Rosa Bianca. I fratelli portavano con sé una grande valigia piena di copie di questo opuscolo, che intendevano distribuire nell’edificio universitario. Ma un custode li colse sul fatto e li consegnò alla Gestapo.
Quattro giorni dopo il loro arresto, il Tribunale del Popolo dichiarò Hans, Sophie e Probst colpevoli di tradimento. Furono ghigliottinati nel pomeriggio. Lafrenz, contro il divieto nazista ai non familiari di partecipare ai funerali, accompagnò la famiglia Scholl alla sepoltura. Traute fu arrestata a marzo e condannata a un anno di prigione per "complicità" nelle attività illecite della Rosa Bianca. Schmorell e Huber, incriminati insieme a Lafrenz, furono condannati a morte e giustiziati il 13 luglio. Graf venne ucciso il 12 12 ottobre. Lafrenz fu rilasciata nel marzo 1944, per essere arrestata poco dopo. Fu detenuta in quattro prigioni diverse prima di essere liberata dalle truppe americane il 15 aprile 1945. «Durante i lunghi mesi della mia prigionia, - ha detto - ho dovuto pensare più volte al motivo per cui ero stata rilasciata».
Nel 1947 emigrò negli Stati Uniti, dove continuò gli studi di medicina. Sposò il medico Vernon Page, da cui ebbe quattro figli. È divenuta quindi direttrice di una scuola per bambini svantaggiati e ha abbracciato il movimento spiritualista dell’antroposofia. Nel 2019 la Germania ha conferito a Lafrenz la sua più alta onorificenza civile, l’Ordine al Merito. Elogiandola come "eroe della libertà e dell’umanità", il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier ha detto che è stata una delle poche che "di fronte ai crimini dei nazisti ha avuto il coraggio di ascoltare la voce della sua coscienza e di ribellarsi alla dittatura e al genocidio degli ebrei".
FILOLOGIA E STORIA: RITORNARE A SCUOLA DA LORENZO VALLA (1440) E RISALIRE ALLA SORGENTE DELLA DIFFERENZA DI SIGNIFICATO TRA "CHARITAS" E "CARITAS".
IN #MEMORIA DEL TEOLOGO BELGA CHARLES MOELLER, A 110 ANNI DALLA SUA NASCITA. Note a margine di un articolo di Massimo Borghesi (Insula Europea) *
A) "#Karitas (von lat. #caritas = Teuerung, Hochachtung, hingebende Liebe, uneigennütziges Wohlwollen) ist im Christentum die Bezeichnung für die tätige Nächstenliebe und Wohltätigkeit. [...]"(https://de.wikipedia.org/wiki/Karitas).
B) #CHARITAS (gr. #XAPITAS). Che la "charitas" sia partecipe dell’orizzonte #greco è chiaro, così come la "caritas" sia partecipe dell’orizzonte #latino è altrettanto chiaro, ma che si continui ad equiparare logicamente, teologicamente, antropologicamente e filologicamente, "Dio-amore" ("Deus #charitas est") e "Dio-mammona ("#Deus #caritas est") è semplicente folle e autodistruttivo!
C) "I 110 anni dalla nascita di Charles Moeller (1912-1986), teologo e critico letterario belga, ci offrono l’occasione per ricordare un autore che non può e non deve essere dimenticato. Moeller, professore di filosofia presso l’Università Cattolica di Lovanio, ha collaborato al #ConcilioVaticanoII svolgendo un ruolo decisivo nella stesura dello schema XIII, La Chiesa nel mondo, che ha poi dato vita alla costituzione Gaudium et Spes. È stato Segretario della Segreteria per l’Unità dei Cristiani e, su incarico di Paolo VI, Rettore dell’Istituto Ecumenico di Gerusalemme. È l’autore di due grandi opere.
La prima, Sagesse grecque et paradoxe chrétien, pubblicata nel 1948, è un libro splendido, che ha come interlocutore ideale la gioventù francese, disorientata e priva di certezze, quale emergeva dall’immane tragedia della guerra. A essa, poggiante su un umanesimo distrutto, ben espresso dall’esistenzialismo in auge, Moeller proponeva il “paradosso” cristiano quale umanesimo assolutamente nuovo. Il metodo seguito era, in analogia a quanto aveva fatto #RomanoGuardini nei suoi studi su Hölderlin, Dostojewski, Rilke, di far risultare la verità cristiana rapportandola alla rappresentazione dell’uomo propria dell’opera artistico-letteraria.
Omero e i tragici, Eschilo, Sofocle, Euripide da un lato e i moderni Shakespeare, Racine, Dostojewski dall’altro erano le grandi voci di un coro chiamate a evidenziare tanto i conflitti irrisolti dell’animo greco (il tema del male, del dolore, della morte, ecc.) quanto il modo in cui l’avvenimento cristiano muta l’orizzonte della drammatica nei tragici moderni. Attraversato dall’enigma della morte lo spirito greco oscilla, secondo Moeller, tra un’adesione profonda alla vita e alla terra e un rifiuto delle medesime quale vuota apparenza. Questo dissidio tra amore della “carne” e nostalgia di una pienezza in un aldilà, viene a risolversi solo con il cristianesimo. Solo qui viene realizzato ciò che i greci sognavano: «salvare il reale visibile e trasfigurarlo». Solo la risurrezione della carne consente al cuore di riconciliarsi con la terra senza rinnegare il desiderio di infinito che lo abita. Il dissidio greco torna, non superato, in quella parte della letteratura contemporanea che si rifiuta alla speranza cristiana.
Nel primo dei sei volumi dell’altra grande sua opera, Litterature du XX siècle et christianisme, tradotta in italiano da Vita e Pensiero, dal titolo Il silenzio di Dio, la «fedeltà al mondo» viene espressa mediante le figure di Camus e di Gide mentre il rifiuto, l’ombra sulla realtà, è presente nelle tendenze “gnostiche” di Aldous Huxley e Simone Weil. Ancora una volta solo nel cristianesimo l’antitesi può essere superata. Esso afferma che il mondo è salvo in quanto è trasfigurato. Tale trasfigurazione non sopprime la materia, né la personalità. Julien Green, Graham Greene, Bernanos documentano la difficile strada della fede, speranza, carità in un mondo velato dal dolore e dalla corruzione, il sì al finito nella luce dell’infinito. Fede, speranza e amore - le tre virtù teologali - costituiscono pure il tema dei successivi volumi dell’opera in una forma per cui esse si situano in continuità e al contempo in rottura con la fede, l’attesa, l’amore puramente umani.
Il secondo volume, La fede in Gesù Cristo, vede come interlocutori Sartre, Martin du Gard, H. James, Malègue. Il terzo, La speranza degli uomini, espressa da Malraux, Kafka, Vercors, Sciolokov, Maulnier, Bombard, Sagan, Reymont, prepara, non senza una chiara discontinuità, il quarto, La speranza in Dio Padre, i cui autori: Anna Frank, Miguel de Unamuno, Gabriel Marcel, Charles Du Bos, Fritz Hockwälder, Charles Péguy, «hanno decifrato i segni della seconda virtù teologale in una umanità straziata dal dolore e abbrutita dalla morte». Parimenti il volume quinto, Gli amori umani, con saggi su Françoise Sagan, Brecht, Saint-Exupéry, Simone de Beauvoir, Paul Valéry, Saint-John Perse, doveva aprire il campo al sesto e ultimo volume sull’amore di Dio, l’«amore dello Spirito Santo», che uscirà postumo nel 1993 con il titolo Esilio e ritorno, dove tratta di Marguerite Duras, Ingmar Bergman, Valery Larbaud, François Mauriac, Gertrud von le Fort, Sigrid Undset.
La prospettiva dei volumi era chiara: mostrare mediante un approccio non astratto quale quello della letteratura, il soprannaturale come compimento, impossibile all’uomo, dell’umana natura. Tra cristiano e umano non v’è abisso che il mistero dell’incarnazione non abbia già superato. Fuori da questo incontro vi sono due possibili interpretazioni cristianamente riduttive: «gli umanisti, i quali elaborano un ordine umano chiuso su se stesso; e gli escatologisti, i quali trovano che la cultura, davanti alla prospettiva della fine dei tempi, non ha importanza alcuna». Entrambi, scrive Moeller, «affermano che la cultura cristiana non conta solo che gli uni preferiscono, segretamente, una storia puramente profana, gli altri invece, una storia di contenuto puramente religioso, ma tanto gli uni che gli altri sono infedeli all’incarnazione di Dio nella storia». Essere fedeli a essa significa assumere, nella fede, la totalità dell’umano. Di qui il grande amore di Moeller per Péguy, come di un testimone profetico del regno futuro, regno «carnale-spirituale», «temporale-eterno». «Nel mio Paradiso - scriveva Péguy - ci saranno le cattedrali di Chartres... ci sarà tutto». E ancora, come per puntualizzare: «Nel mio Paradiso ci saranno delle cose». Le cose, spiegava Moeller, «sono le parrocchie, i villaggi, i campi di grano, in una parola il vero regno di Dio, celeste e terrestre».
Un’affermazione che manifestava, appieno, il suo realismo, la sua passione per la realtà, il suo modo di sentire il cristianesimo: come resurrezione della carne e non già come fuga idealistica dal mondo. Nel gennaio del 1979 ho avuto l’occasione di incontrarlo. Un amico doveva intervistarlo per il settimanale “Il Sabato” e mi chiese di accompagnarlo in via della Conciliazione, a Roma, dove si trovava. Ricordo che gli rivolsi una domanda su Simone Weil alla quale rispose: «Debbo dire che il capitolo su Simone Weil del primo volume di Letteratura e cristianesimo non è un buon capitolo. La reattività, con cui l’ho pensato e scritto, mi ha impedito di comprendere il profondo significato della Weil. Ho scritto in modo reattivo, perché in certi ambienti culturali e religiosi del Belgio e della Francia di quel tempo non vi era sufficiente coscienza del pericolo gnostico e dualista di alcuni testi della Weil. Oggi non vi è più questo pericolo nel leggere la Weil e, se si confrontano la prima e la settima edizione, si scorgono i mutamenti che vi ho apportato». Si trattava di una rettifica importante che consentiva di non contrapporre la Weil all’amato Péguy.
Quando lo incontrammo, nel 1979, gli chiedemmo dei suoi progetti futuri. Ci rispose che stava lavorando al sesto volume di Letteratura e cristianesimo, che uscirà postumo, e poi ad un libro sul «metodo di lettura del passato» e, da ultimo, ad un testo su Proust. Instancabile e generoso fino alla fine ci ha lasciato pagine indimenticabili sulla letteratura classica e sulla grande letteratura del ‘900.
* Cfr. Massimo Borghesi, "Dio nella letteratura del ’900", Insula Europea, 30 novembre 2022.
La scelta di Sophie
Il 9 maggio di cento anni fa nasceva la giovane della Rosa Bianca, simbolo della resistenza al nazismo, uccisa con il fratello Hans Scholl e l’amico Christoph Probst
di Grazia Villa, Avvocata per i diritti delle persone*
In occasione dell’8 marzo 2021 l’Europarlamento ha deciso di dedicare a due donne due dei suoi edifici: a Clara Campoamor, avvocata e politica spagnola e a Sophie Scholl, la giovane studentessa tedesca, che pagò con la vita la sua opposizione al nazismo. Della resistenza dei giovani della Rosa Bianca molto si è scritto e anche il cinema ne ha efficacemente narrata la storia. Le tracce della vita dell’unica ragazza del gruppo sono, però, da scoprire nelle pagine dei suoi diari, nella sua copiosa corrispondenza, nel verbale degli interrogatori della Gestapo, negli atti del suo processo lampo, nelle testimonianze di familiari e delle persone sopravvissute della Weisse Rose.
Seguendo i suoi passi s’incontra una fonte di acqua cristallina e ci s’immerge nel pozzo profondo e luminoso di una coscienza retta e libera, un tesoro prezioso racchiuso tra due battesimi. Il primo regala due nomi alla piccola Sofia Magdalena, il segreto della sua esistenza: la sapienza della “Sofia” e l’amore sconfinato della Magdalena, uniti nel motto in lei incarnato, di Jacques Maritain «bisogna avere un cuore tenero e uno spirito duro».
Il secondo è quello del suo sogno finale la notte prima dell’esecuzione. Sophie sta portando un bambino a battesimo, si sente sprofondare, ma lo mette in salvo, mentre lei cade nel baratro: «Il bambino simboleggia le nostre idee... trionferanno dopo la nostra morte».
Solo guardando al suo spirito e al suo cuore si comprende...la scelta di Sophie.
Nasce in Germania il 9 maggio 1921 a Forchtenberg, cent’anni orsono, muore ghigliottinata a Monaco di Baviera il 22 febbraio 1943, a 22 anni
É la quarta di sei figli, il loro legame forte segnò profondamente la vita di Sophie e anche la sua sorte. Il padre Robert, cristiano liberale, sindaco della cittadina, fu sempre avverso al nazismo, particolarmente alla sua propaganda verso le giovani generazioni, tanto da osteggiare apertamente l’iniziale adesione dei figli Hans e Sophie alle organizzazioni della gioventù nazista. La madre Magdalena Muller, cristiana luterana devota, il Vangelo al centro della sua vita, trasmesso alle figlie e ai figli, come messaggio di liberazione da ogni forma di potere e di male.
La famiglia Scholl vive in una casa aperta all’ospitalità delle persone e delle idee, un luogo ricco di affetto e di allegria, di rispetto delle differenze, di uguaglianza tra maschi e femmine, uno spazio ampio di letture, anche di libri proibiti dal regime, di scambi intellettuali, di appassionata ricerca. È il terreno fertile in cui fiorirono i primi petali di quella che sarà poi la Rosa Bianca, tanto che i biografi definiscono questo laboratorio familiare un vero Scholl-Bund, la Lega Scholl.
Dolce e ironica, timida e sfrontata, piccola e bruna, d’aspetto italiano più che ariano, senza trecce bionde, con frangia scomposta e impenitente, così è descritta Sophie, mentre lei chiarisce ben presto le sue aspirazioni di bambina: «La più brava non sono, la più bella non voglio essere, ma la più intelligente sì!».
L’adesione della giovanissima Sophie alla Lega delle ragazze tedesche, oltre che per le escursioni nella natura e per lo sport, rappresenta un’occasione per attrezzarsi alla lotta e rifiutare un modello edulcorato e sentimentale dell’essere donna. Subisce il fascino della Fuhrerin “Charlo” che aveva modificato per le sue ragazze il saluto dell’Heil Hithler in un gesto affettuoso che consisteva nello sfiorare la fronte della compagna e scompigliarle i capelli!
La libertà femminile e la sua autonomia di pensiero la spingono presto a uscire da tutte le organizzazioni della gioventù hitleriana, a contestarne la pedagogia sperimentata anche nel lavoro obbligatorio, ”trovavo il servizio noioso e sbagliato, quindi brutto e ingiusto perché mortificava l’individualità personale dei bambini e delle bambine”, a ipotizzare un ruolo speciale per le donne come nella sua tesina di maturità: «La mano che muove la culla, muove il mondo».
È poi negli affetti e nelle sue relazioni amicali che lo spirito indomito appare slegato da forme e condizionamenti. Non temeva di dire alle amiche: «non voglio mettermi dalla parte di tutto ciò che è banale» o al fidanzato: «io posso pensare tranquillamente a te. E sono contenta di poter fare così come voglio, senza alcun obbligo».
Il suo amore per la natura, la bellezza e la musica, traboccante nei suoi diari non solo ne manifesta lo slancio vitale, fino all’ultimo respiro, ma diventa una vera forma di contemplazione spirituale, rivelando una fede schietta e forte, anche dentro il buio dell’oppressione, della guerra, della prigione, una fede viva che alimenta la sua coerenza. Il cuore tenero di Sophie si esprime con l’esultanza della giovinezza:
«Come posso non vedere un torrente limpido senza bagnarvi i piedi, così non posso passare davanti a un prato a maggio senza fermarmi».
La musica «ammorbidisce il cuore, mette in ordine la sua confusione, scioglie la sua rigidità ... Sì, silenziosamente e senza violenza, la musica apre le porte dell’anima».
«Non è anche questo un mistero, che tutto sia così bello? Nonostante l’orrore, continua a essere così. (...) Per questo soltanto l’uomo è capace di essere veramente crudele, coprendo questo canto col rumore di cannoni, di maledizioni e di bestemmie. Ma il canto di lode ha il sopravvento... ed io voglio fare tutto quello che è possibile per associarmi alla sua vittoria».
Anche in cella in attesa dell’esecuzione ormai certa sussurrava: «Una giornata di sole così bella ed io me ne devo andare», ma subito con forza aggiungeva: «non importa di morire se le nostre azioni saranno servite a scuotere e risvegliare le coscienze».
La coscienza di Sophie è quella dei giovani della Rosa Bianca, è la stessa cui si appellano nei volantini rivolti a risvegliare il popolo tedesco soggiogato dal Male.
Lo spirito duro li conduce al martirio. La stessa durezza di Sophie davanti ai suoi accusatori, stupiti dalla determinatezza di questa piccola ragazza: «Non rinnego nulla. Sono convinta di aver agito nell’interesse del mio popolo. Non mi pento e ne accetterò tutte le conseguenze (...) non io, ma lei ha una falsa visione del mondo».
Nelle ultime pagine di diario scriveva: «la vita è sempre sul bordo della morte, una piccola candela brucia esattamente come una torcia ardente... Scelgo da me il modo di bruciare». Lo stesso fuoco d’amore che la portò alla ghigliottina per proclamare fino alla fine la sua Libertà: Freiheit, l’ultima parola gridata dal fratello Hans davanti ai suoi carnefici e da loro regalata a noi per sempre.
C’è un quadro ai Musei Vaticani intitolato Annunciazione, in cui Maria e l’angelo tengono in mano rose bianche.
È stato dipinto intorno al 1905 dalla pittrice espressionista Paula Modersohn - Becker molto amata da Sophie Scoll che di lei scrive in una lettera alla sorella Inge, nel 1939.
«Paula Modersohn mi ha entusiasmato tantissimo, l’ammiro veramente. Pensa ha sempre lavorato da sola, e non è mai stata guidata da nessuno nella realizzazione dei suoi quadri. Devi vederli. Dopo i suoi quadri tutti gli altri mi sono passati davanti impercettibili».
Artista ritenuta “degenerata” dal regime nazista, Paula Modersohn-Becker (Dresda 1876 - Worpswede 1907) si forma tra Londra e la Germania, ma sono gli incontri con l’opera di Cézanne, Gauguin e van Gogh, avvenuti durante un soggiorno a Parigi nel 1900, a influenzare la sua arte.
Sul suo immaginario esercita un fascino speciale l’arte africana e in particolare l’iconografia della Dea della fertilità, che contamina molti dei suoi ritratti femminili. «Ne è un esempio questa Annunciazione, in cui la pittrice offre una versione intima del momento in cui l’angelo incontra la Vergine, resa inquietante dalla totale assenza di lineamenti» (museivaticani.va). Morì a soli 31 anni per complicazioni seguite al parto della primogenita, Mathilde.
*Fonte: L’Osservatore Romano, 30 aprile 2021 (ripresa parziale, senza immagini).
DIO, UOMO, E MONDO: TEOLOGIA, "ANDROPOLOGIA", E COSMOLOGIA. IL "PECCATO" DI MARTIN HEIDEGGER E LA "DIFESA" DI ROMANO GUARDINI... *
"QUANDO GUARDINI DIFESE HEIDEGGER. Si conobbero all’inizio del ’900 e con pause di anni rimasero sempre in contatto. Il pensatore cattolico scese in campo contro le censure per l’adesione al nazismo" (cfr. Simone Paliaga, "Avvenire", 18 settembre 2019). Allegato:
Il "niente" del filosofo è quello generato dal peccato di Adamo
L’uomo «non era Dio; ma stava in quell’unità della grazia con Dio. Partecipava alla vita divina. Tutto ciò è stato superato. Le ralazioni sono disgregate e ora la finitezza è mera finitezza; staccata da Dio»
di Romano Guardini (Avvenire, 18 settembre 2019)
L’angoscia di cui parla Heidegger si presenta soltanto dopo il peccato, poiché soltanto dopo il peccato si presenta quel niente di fronte a cui nasce quest’angoscia - perché soltanto dopo il peccato si presenta quel genere di Esserci (l’uomo, ndr) per il quale il niente è una minaccia.
L’Esserci creato da Dio era finito; stava però nel riferimento alla grazia e all’amore. Non era Dio; ma stava in quell’unità della grazia con Dio, superiore a ogni categoria del pensiero decaduto. Partecipava alla vita divina. Era abbracciato da Dio e stava in movimento verso di Lui, dentro di Lui. Tra questo finito e Dio non vi era un aut aut: assoluto o condizionato; infinito o finito. Qui vi era piuttosto una relazione di genere diverso, appunto quello della grazia (...).
Tutto ciò è stato superato. Le relazioni si sono disgregate, Solo ora la finitezza è diventata nera finitezza; staccata da Dio. Ora vale l’affermazione: essere finito, non Dio. Adesso è presente anche il niente. Anzitutto il niente circostante: quello che si trovava intorno a questa finitezza separata. Il niente he è espressione mitologica della ribellione contro Dio e, di conseguenza, dell’abbandono da parte di Dio, anzi dell’ira di Dio. questo è il niente del vuoto. Poi l’altro niente, quello interiore (...).
La rottura della relazione fondata nel «riferimanto a (grazia e amore, ndr)» implica dunque l’inversione del movimento verso Dio, dirigendosi quindi verso il controvalore, verso il male. E dunque verso il niente. Questo è il niente interiore che, nell’uomo, lo minaccia a partire dalla direzione del suo movimento esistenziale.
Questo niente - quello circostante dell’abbandono e quello interiore a partire dal movimento verso il controvalore - è il niente di cui parla Heidegger. Ma questo è presente solo dopo il peccato.
Fa parte dell’inganno del peccato il fatto che tutti questi fenomeni - finitezza, essere, niente, movimento, morte, coscienza, che sono fenomenni della deiezione, di ciò che non dovrebbe essere - vengano resi fenomeni normali. Pascal dice: poiché la prima natura era distrutta, se ne stabilì una seconda, falsa, fondata sul peccato (...).
Ciò che il Nuovo Testamento chiama "conversione" non è soltanto la conversione d’animo, la disponibilità a credere e a cambiare vita, ma è anche un cambiamento di pensiero - per cui i criteri del vero e del falso non sono più tratti da quella "seconda natura" che si è stabilita dopo il peccato, ma dalla rivelazione, più precisamente dall’esistenza di Cristo.
(Testo inedito e non datato, tratto dal corso berlinese di antropologia di Romano Guardini. Traduzione di Claudio Bonaldi).
*
TEOLOGIA, ANDROPOLOGIA, E COSMOLOGIA DELLA CHIESA CATTOLICO-IMPERIALE! "De domo David"?!: Gesù, Maria, e Giuseppe! *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
*
A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
Novecento
Contro Hitler senz’armi
Il martirio dell’«Orchestra rossa»
Nicola Montenz ricostruisce per Archinto la vicenda del movimento antinazista e il coraggio solare di Libertas Schulze-Boysen, mandata a morte nel 1942
di CORRADO STAJANO (Corriere della Sera, 2 marzo 2019)
«Amo il mondo, non provo odio contro nessuno, ho l’eterna primavera! Non tormentarti per ciò che eventualmente si sarebbe potuto fare e non è stato fatto, per questo o quell’altro - il destino ha preteso la mia morte. Io stessa l’ho desiderata. E se vuoi fare ancora qualcosa per me: porta nel cuore tutte le persone che amo. Come ultimo desiderio, ho chiesto che ti sia lasciata la mia “materia”. Seppelliscila, se si può, in un bel posto, in mezzo alla natura illuminata dal sole».
È la lettera che una ragazza tedesca, bionda e bella, di 29 anni, Libertas Schulze-Boysen scrisse alla madre il 22 dicembre 1942 poco prima di entrare nella camera della morte del carcere di Berlin-Plötzensee, condannata alla ghigliottina dalla corte marziale del Reich nazista.
L’eterna primavera, le parole della sua lettera amorevole e straziante, danno il titolo al libro pubblicato da Archinto sull’«Orchestra rossa», uomini e donne di un gruppo di resistenza al nazismo, denominazione inventata dalla Gestapo. L’autore è Nicola Montenz, filologo, grecista e musicista. (Suoi, tra l’altro, un saggio sulla musica e la politica degli anni hitleriani, sul Parsifal wagneriano e la cura della corrispondenza tra Gustav Mahler e Richard Strauss).
Dell’«Orchestra rossa» qui da noi si conosce poco. Si sa del movimento di resistenza dei giovani della Rosa Bianca, tra il giugno 1942 e il febbraio 1943, finito nel sangue; si sa, anche nei particolari, del fallito attentato al Führer degli alti ufficiali della Wehrmacht, al quartier generale di Rastenburg, il 20 luglio 1944, cui seguì una gragnuola di impiccagioni di feldmarescialli oltre che di suicidi obbligati, Rommel, per esempio; si sa - anche dai reportage di Vasilij Grossman, Uno scrittore in guerra (Adelphi) - della fine di Hitler, con i soldati russi arrivati dentro il bunker della Cancelleria del Reich a giocare nel suo studio, nel caos di stucchi, tappeti, quadri, tra la sua sedia e il tavolo zeppo di carte, di timbri, di souvenir, di libri a lui dedicati, con un enorme globo metallico, il mondo, come nel film di Chaplin, Il grande dittatore.
Ma nell’autunno del 1942, anche se l’invasione dell’Unione Sovietica era fallita e le armate naziste si ritiravano sconfitte, la Germania di Hitler appariva ancora speranzosa sulle sorti della guerra e la Gestapo e il Servizio di sicurezza di Heinrich Himmler erano ossessivamente attenti a quel che succedeva nel fronte interno.
Libertas, nata a Parigi, era figlia di un professore dell’Accademia di Berlino e della contessa Victoria (Tora) zu Eulenburg. Il nonno materno era il principe Philipp zu Eulenburg-Hertefeld, diplomatico, scrittore e musicista, amico del Kaiser Guglielmo II di Hohenzollern. Cresciuta in un ambiente colto e raffinato, vissuta a lungo nel castello di famiglia di Liebenberg, in Brandeburgo, Libertas scrisse poesie, romanzi. Ragazza libera, spiritosa, con un fascino naturale, era appassionata di teatro, di cinema, di musica, amava soprattutto la fisarmonica. Conosceva le lingue, volle lavorare presto, addetta stampa della Metro Goldwyn Mayer a Berlino, poi critica cinematografica.
Da giovanissima le piacevano le camicie brune, le loro sfilate a passo dell’oca. Iscritta al partito, nel 1937 restituì pubblicamente e la tessera. La sua avversione al nazismo, il suo rifiuto erano iniziati ai tempi della promulgazione delle leggi razziali, nel 1933. Aveva vent’anni.
Libertas non era il capo, se ci fu, dell’«Orchestra rossa», ma il suo nome, il casato, la personalità, lo spirito di indipendenza, la simpatia fecero di lei un simbolo.
A svegliare le coscienze, non molte, nella Germania degli ultimi anni Trenta del Novecento, furono l’antisemitismo indecente, gli orrori della Notte dei cristalli - centinaia di sinagoghe incendiate nel 1938, migliaia di botteghe e di case di ebrei distrutte, assassinii, saccheggi. Quel che accadeva in quegli anni, aveva inquietato nel profondo le minoranze consapevoli.
Tra gli strangolati del 22 dicembre 1942, nel gruppo in cui rifulgeva Libertas, ci furono un diplomatico, un consigliere di governo di alto grado, uno scultore, un giornalista, un ufficiale della Luftwaffe, marito della ragazza.
Donne e uomini antinazisti si riunivano il giovedì sera e anche in altri giorni in un gruppo ristretto. Che cosa facevano poi? Scrivevano testi antihitleriani, messaggi, rischiosi appelli, li distribuivano pericolosamente. Non avevano armi. Possedevano anche delle radio, spesso poco funzionanti. Cercavano continuamente di allargare la loro cerchia, con qualche errore di valutazione. Presero contatto con le ambasciate sovietiche. Di qui l’accusa di alto tradimento. Borghesi dall’anima democratica non avevano certamente il miraggio di instaurare una dittatura staliniana: furono accusati proprio di questo: di essere spie al servizio di Stalin. Il loro progetto era semplicemente di cercare interlocutori in grado di aiutare chi ripudiava il nazismo e il suo sistema criminale.
La presenza nel «complotto» di persone di estrazione sociale, politica, religiosa differente turbava Hitler: non poteva tollerare che il dissenso al regime si diffondesse nell’alta borghesia, nell’aristocrazia, all’interno delle strutture di governo. E nel mondo culturale: l’attrice Marta Wolter che aveva recitato testi di Brecht, lo scultore Kurt Schumacher, la famosa danzatrice Oda Schottmüller, lo scrittore Günther Weisenborn.
Libertas, imprigionata, peccò di ingenuità. Si fidò di una donna, una spia che le era stata messa accanto nella cella, fece fatalmente un nome, quello di Hans Coppi e mandò un messaggio alla madre con altri nomi. La donna, Gertrud Breiter, fu ricompensata con 5.000 marchi, una decorazione e le felicitazioni di Himmler. Nel dopoguerra visse tranquillamente, diede anche interviste ai rotocalchi. Fino alla caduta del Muro di Berlino, nel 1989, i superstiti dell’«Orchestra rossa» nella Germania dell’Ovest furono considerati dei traditori, segnati a dito, tormentati, angariati.
Il libro di Nicola Montenz riempie un vuoto. Non è un saggio, per la sua struttura e per il linguaggio, è piuttosto una ricerca narrata, documentata allo spasimo, ricca di un’infinità di fatti e di personaggi.
Turba il cuore il contrasto tra le belle estati di tanti giovani protagonisti del libro, le loro gite in barca a vela sui fiumi e sui laghi del Brandeburgo, i picnic sull’erba e quell’urlo del direttore della prigione di Berlin-Plötzensee con al fianco i due assistenti del boia in frac e guanti bianchi: «Carnefice, compia il suo dovere».
Idee.
Romano Guardini, il filosofo dell’educazione
Parla Barbara-Hanna Gerl-Falkovitz, studiosa del grande pensatore italotedesco: «L’arte guardiniana di guidare è fondata nel profondo rispetto di “quanto già c’è”: il “destino”»
di Roberto Righetto (Avvenire, giovedì 8 novembre 2018)
Quella del teologo e pensatore italotedesco Romano Guardini è stata una vita totalmente dedicata, oltre che agli studi teologici e filosofici, all’educazione delle giovani generazioni. Tanto che un amico di studi, il filosofo Max Scheler, l’avrebbe definito «il pedagogo tedesco cristiano».
Lei, professoressa Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz, ha molto approfondito la lezione di Guardini: qual era la sua idea del compito di un educatore?
«L’effetto di Guardini non veniva dalla retorica. “Chi tratta di cose religiose deve esercitare un grande sacrificio della parola - scrisse nel 1924 -. Egli deve lasciare scorrere tutto attraverso la fiamma viva dell’esame più obiettivo, affinché ciò che non è autentico si dissolva. Solo così splenderà in modo più chiaro ciò che proveniva dalla verità ». Molto più tardi, nella sua “autobiografia frammentaria”, a proposito di alcune prediche aggiunge: “La verità è una potenza; ma soltanto quando non si esige da essa alcun effetto immediato... Se mai lo potrà essere, proprio qui questa assenza di propositi particolari è la forza più grande. Parecchie volte, specialmente negli ultimi anni, ebbi la sensazione che la verità mi stesse dinanzi come un essere concreto”».
Da quale spirito proviene una tale affermazione?
«Già nel 1923 nel suo primo semestre berlinese egli disse che l’“Amore è al tempo stesso profondo rispetto. Non compromette, non domina, non violenta, ma serve l’altro. La miglior opera dell’amore è condurre l’altro verso la libertà vera”. A Rothenfels si recavano migliaia di giovani adolescenti per seguire la sua formazione. Così nel 1928 egli scrisse programmaticamente e mostrò senza indugio i limiti dell’educazione: “Dobbiamo sempre presupporre una cosa: il mistero della nascita... Tutto ciò che si definisce educazione, significa soltanto servire, aiutare, liberare, rimanendo all’interno di questo mistero”.
Ma questo servizio deve perfino tirarsi indietro a tempo opportuno, come spiegò Guardini nel 1921 nelle Lettere sull’autoformazione in questo passaggio decisivo: non lasciarsi ultimamente condurre da altri, ma condurre se stessi. L’arte guardiniana di guidare è fondata nel profondo rispetto di quanto già c’è, che Guardini chiama volentieri “destino”. Il desiderio di autodeterminazione, di un’autonomia illusoria, fu per Guardini l’hybris della modernità, a cui nella nascente postmodernità si è contrapposto il riconoscimento del reale, la misura che custodisce. “Destino” è ancora un nome troppo neutrale per l’impronta data, piuttosto nel destino si schiude una volontà profondamente personale: non soltanto la propria autoaccettazione o l’autorifiuto, ma anche una volontà antecedente, che ha voluto che io fossi e che fossi così».
Al magistero di Guardini si ispirarono direttamente i ragazzi della Rosa Bianca, movimento che oppose resistenza al nazismo e per questo vennero condannati a morte. Nel 1939 il Castello di Rothenfels viene occupato e requisito. E a Guardini venne tolto l’insegnamento. Sono anni bui per lui, anni di silenzio. Appena terminata la guerra dirà: “Ora bisogna tentare di restituire alla nostra gioventù l’inquietudine dello spirito. Questa la salverà dal nichilismo”. Cosa direbbe Guardini dell’Europa di oggi, minacciata dai populismi e dai nazionalismi?
«Nel nazismo (e anche altrove) il “sangue” è divenuto il “nuovo mito” del Novecento. Il “sangue” distrugge lo spirito che è un contrappeso alla sofronte la biologia e dissolve tutto ciò che l’Europa aveva conquistato come liberazione dalla natura, come vittoria sulla “terra”, sulla stirpe e sul clan. Nel arte greca Guardini vide una prima liberazione del uomo, di chi non è più costretto nelle forze naturali del cosmo. Quest’arte incomparabile ha sviluppato un nuovo “divino” concetto del corpo umano. Ma nel Vangelo si coglie la nozione alternativa della “persona” che vince la nozione del sangue. Ogni persona ha un valore non limitato da ragioni secondarie, un valore in se stessa. Allora un nazionalismo brutale o populismo che dir si voglia è un passo indietro a una società precristiana o primitiva».
Che cosa suggerirebbe di fare dunque Guardini di a queste turbolenze che agitano l’Europa?
«Guardini è anche un pensatore della misura, del possibile, della realtà, come sappiamo: un pensatore dell’opposizione polare. Anche il popolo è un valore, anche la patria ha bisogno di cure. E le capacità finanziarie e culturali di un paese rappresentano limitazioni reali. Se l’Europa vuole dare una prospettiva ai migranti non deve attirarli con illusioni soltanto finanziarie, senza volerli integrare realmente anche nella propria cultura, nella lingua, nell’accettazione sincera dei diritti umani inclusi i diritti della donna. Faccio una proposta: non potremo guardare a Guardini in futuro come a un “Patrono dell’Europa” culturale e spirituale, accanto agli altri sei patroni: Benedetto di Norcia, Crillo e Metodio, Brigida di Svezia, Caterina da Siena ed Edith Stein? In effetti, egli rappresenta la migliore cultura europea, la sua forza di pensare, la sua densa relazione col mondo, la sua concezione della divinità nell’umanità».
Romano Guardini (1885-1968)
Ecco perché Romano Guardini è (ancora) la voce giusta per il nostro tempo
Verità, libertà, opposizione a ogni integralismo. 50 anni fa moriva il grande filosofo e teologo italo-tedesco. Un saggio ne ricostruisce l’idea di Chiesa che sarebbe in parte emersa dal Vaticano II
di Roberto Righetto (Avvenire, domenica 30 settembre 2018)
Sin da giovane Romano Guardini aveva in mente un cattolicesimo non intransigente né conservatore, come negli anni successivi alla prima guerra mondiale accadeva in Germania. Pensava piuttosto a un «risveglio della Chiesa delle anime», una Chiesa nemica dell’autoritarismo e basata su un’adesione pienamente libera. Sono gli anni in cui il pensiero di Guardini è già delineato, gli anni Venti del secolo scorso, in cui pubblica Il senso della Chiesa (1922) e L’opposizione polare (1925), testi che segneranno lo sviluppo del suo sforzo speculativo sino alla morte, avvenuta il 1° ottobre 1968, esattamente cinquant’anni fa.
Ma sono anche gli anni in cui la cultura tedesca è ancora imbevuta di conservatorismo, soprattutto quella di segno cattolico, e Guardini viene criticato anche aspramente. Di fronte alle sue aperture nei confronti del modernismo, di cui sottolinea gli elementi di verità nonostante la condanna di Pio X del 1907, un certo Carl Sonnenschein scrive: «Siamo in una città assediata, perciò non ci sono problemi, bensì solo parole d’ordine». Per il filosofo italotedesco è un motto assolutamente sbagliato: «Non si possono congedare i problemi - gli risponde - . Chi li avverte deve applicarvisi, specialmente se è responsabile sul piano intellettuale e spirituale».
Guardini è insofferente verso chi dentro il cattolicesimo dimostra chiusura mentale: la polarità verità-libertà per lui è essenziale purché l’una non discrimini l’altra. E se a suo parere va giustamente criticato il relativismo moderno, allo stesso tempo bisogna confrontarsi apertamente con le sue sfide e rifiutare un ritorno al medievalismo. Per lui la Chiesa non può essere «una polizia spirituale» ma «la Vita nuova di Dio». Deve essere madre: «Solo allora la posso amare».
Rifiutando la Neoscolastica, il cui orizzonte ha dominato la cultura cattolica per tutta la prima metà del ’900, Guardini risente del clima esistenzialistico che caratterizzava la sua generazione e che avrebbe contagiato numerosi esponenti del pensiero cristiano, da Etienne Gilson a Gabriel Marcel, da Jacques Maritain a Cornelio Fabro, da Luigi Pareyson ad Augusto Del Noce, da Martin Buber a Franz Rosenzweig ed Erich Przywara.
In Germania determinante era l’influsso di Kierkegaard: subito dopo la fine della Grande Guerra un po’ in tutta Europa si era assistito al tracollo dei grandi sistemi idealistici e positivistici che avevano segnato la seconda metà dell’800 ed era prevalso un «pensiero della crisi», fortemente condizionato dall’angoscia per la morte e da un senso apocalittico. E dal ritorno della "persona".
Il cattolicesimo di Guardini, che avrebbe a lungo insegnato Weltanschauung cristiana in varie università tedesche, da Berlino a Monaco, cercando così di applicare la visione cristiana del mondo a tutti gli aspetti della cultura, dalla poesia alla musica, dalla tecnica alla filosofia, non prescinde mai dalla considerazione dell’individuo e della sua libertà. Un’idea basilare che agli avrebbe sempre tenuto presente, non solo nella sua attività teorica ma anche come educatore: per decenni fu responsabile del principale movimento cattolico giovanile tedesco e animò gli incontri annuali al castello di Rothenfels, finché il nazismo non li avrebbe vietati.
In una lettera all’amico Josef Weiger nel 1915 esprime tutta la sua riluttanza verso le posizioni integraliste, che vogliono creare un sistema per tutto e per tutti, e verso una religione troppo manifesta, esprimendo la sua preferenza per il concetto di discretio: «È proprio dell’essenza più profonda dell’autentica religione riconoscere la relativa autonomia degli ambiti naturali dell’essere e del valore; quindi di non farla dissolvere nel rapporto religioso immediato, facendo di tutto una religione diretta. Ciò è integralismo. È sempre una credulità cattiva, e nel più profondo di se stessa insicura, a esercitare violenza a partire dall’elemento direttamente religioso. Ogni violenza proviene dalla paura, anche in cose di fede». Il suo no all’integralismo diviene un no al fondamentalismo: una posizione che si manifesterà con chiarezza proprio di fronte all’emergere della dittatura hitleriana. Per lui i giovani andavano educati a respirare la libertà e non a subire la legge del conformismo e della sopraffazione.
La prima fase dell’elaborazione del suo pensiero è acutamente esaminata in un saggio di Massimo Borghesi appena uscito da Jaca Book: Romano Guardini. Antinomia della vita e conoscenza affettiva è il titolo del volume (pagine 218, euro 20) che ricostruisce in maniera organica, servendosi anche di materiale inedito, gli anni della formazione di Guardini, la sua idea di Chiesa così vicina a quella che sarebbe emersa dal Concilio Vaticano II, i tratti peculiari del suo percorso speculativo a partire dalla famosa teoria dell’opposizione polare che tanto piace a papa Bergoglio. «La teoria degli opposti è la teoria del confronto - avrebbe spiegato nel 1964 lo stesso Guardini tornando sulla questione -, che non avviene come lotta contro un nemico, ma come sintesi di una tensione feconda, cioè come costruzione dell’unità concreta».
In opposizione a Carl Schmitt e Martin Heidegger, egli concepisce il cattolicesimo come coincidentia oppositorum , come unità armonica fra l’elemento romano e quello germanico della civiltà europea, come unica religione universale e totale. E in contrasto con le linee dominanti della Neoscolastica vuole dare vita a una nuova sintesi fra agostinismo e tomismo in base al concetto di «conoscenza affettiva».
Borghesi bene ricostruisce l’itinerario attraverso cui Guardini realizza la sua visione: «Occorre ripristinare il ponte fra un esistenzialismo cristiano di derivazione platonico-agostiniana e una concezione integrale della natura umana, unione di corpo e di anima al modo aristotelico-tomista, come risposta adeguata alle critiche di Nietzsche». Di qui la sua preferenza per Bonaventura, per l’unità fra cuore e ragione, fra amore e conoscenza. E, come avrebbe sottolineato Ratzinger, per quel filone del pensiero cristiano segnato più che da Agostino dallo Pseudo-Dionigi. «Si tratta - scrive Guardini nel suo volume su Pascal - della tradizione più nobile che conosca l’Occidente cristiano, quella che ha la sua espressione teoretica nella philosophia-theologia cordis». Alla quale vengono ascritte anche figure della mistica e santi come Bernardo di Chiaravalle e Francesco d’Assisi, per arrivare al cardinale Newman e a Rosmini fino a filosofi come Kierkegaard e Scheler e ai russi Solov’ev e Florenskij.
Primo Levi e la lettera inedita: l’olocausto spiegato a una bambina
“Piuttosto che di crudeltà, accuserei i tedeschi di allora di egoismo, di indifferenza, e soprattutto di ignoranza volontaria perché chi voleva conoscere la verità poteva conoscerla e farla conoscere”
Primo Levi era nato il 31 luglio 1919 a Torino, dove è morto l’11 aprile 1987
di Monica Perosino (La Stampa, 23/01/2015)
Torino
Gli avevo chiesto: come potevano essere così cattivi?
A 11 anni, nel 1983, avevo appena finito di leggere Se questo è un uomo. L’avevo letto durante le vacanze di Natale, e riletto pochi giorni dopo l’Epifania. Ma restavano domande senza risposta: esiste la malvagità?
Se questo è un uomo era nella lista dei libri da leggere stilata dalla professoressa di italiano, Maria Mazza Ghiglieno. Neanche lei, che pure aveva sempre le domande e le risposte giuste, poteva risolvere il dilemma. Così, spinta dalla logica senza curve di un’undicenne, mi parve ovvio andare alla fonte. Cercai l’indirizzo di Primo Levi sulla guida del telefono per chiedere direttamente a lui: perché nessuno ha fatto niente per fermare lo sterminio? I tedeschi erano cattivi?
Nemmeno per un attimo pensai che stavo scrivendo allo scrittore di fama planetaria. Per me era «solo» Primo Levi e il suo libro era anche un po’ mio. Chiedere conto a lui mi parve la cosa più naturale del mondo. Lui doveva sapere per forza. Presi la mia carta da lettere preferita, zeppa di fiori e pupazzi, e scrissi una paginetta di lettere tozze. Già che c’ero lo invitai nella mia scuola.
La risposta arrivò, datata 25 aprile, e non colsi subito la coincidenza fino in fondo. Il concetto di «ignoranza volontaria» non era la spiegazione che mi aspettavo. Io volevo sapere se il male esisteva. Smisi di rileggere la lettera tre anni dopo, l’11 aprile 1987, quando trovarono il corpo di Primo Levi nella tromba delle scale. Ero rimasta senza l’uomo che avrebbe potuto darmi spiegazioni. La lettera finì in un cassetto, assieme ad altre. Ora, 32 anni dopo, è rispuntata durante un trasloco, con tutte le sue risposte.
25/4/83
Cara Monica,
la domanda che mi poni, sulla crudeltà dei tedeschi, ha dato molto filo da torcere agli storici. A mio parere, sarebbe assurdo accusare tutti i tedeschi di allora; ed è ancora più assurdo coinvolgere nell’accusa i tedeschi di oggi. È però certo che una grande maggioranza del popolo tedesco ha accettato Hitler, ha votato per lui, lo ha approvato ed applaudito, finché ha avuto successi politici e militari; eppure, molti tedeschi, direttamente o indirettamente, avevano pur dovuto sapere cosa avveniva, non solo nei Lager, ma in tutti i territori occupati, e specialmente in Europa Orientale. Perciò, piuttosto che di crudeltà, accuserei i tedeschi di allora di egoismo, di indifferenza, e soprattutto di ignoranza volontaria, perché chi voleva veramente conoscere la verità poteva conoscerla, e farla conoscere, anche senza correre eccessivi rischi. La cosa più brutta vista in Lager credo sia proprio la selezione che ho descritta nel libro che conosci.
Ti ringrazio per avermi scritto e per l’invito a venire nella tua scuola, ma in questo periodo sono molto occupato, e mi sarebbe impossibile accettare. Ti saluto con affetto
Primo Levi
tagliarcorto
L’aneddoto di Guardini
Quasi un’Eucarestia
di Dino Basili (Avvenire, 02.10.2008)
Gli anniversari riaprono pagine e memorie. A quarant’anni dalla morte di Romano Guardini, riaffiora un evento che l’aveva molto colpito durante una battaglia dell’ultima guerra mondiale. Il filosofo lo racconta con emozionante semplicità nel 1948, in una conferenza all’Università di Tubinga, ripresa poi nell’Elogio del Libro (Morcelliana).
«...Un reparto si trovava in una situazione disperata. Un cappellano militare era presente e, sentendo che non aveva da dire nulla di accettabile in quell’ora, tolse di tasca il proprio Nuovo Testamento, ne strappò le pagine e ne diede una a ogni uomo». Quasi un’Eucarestia.
il caso
Per la prima volta in Italia la biografia del cattolico studente in medicina che prese parte al movimento anti-hitleriano e fu giustiziato in carcere nell’ottobre 1943
Rosa Bianca, il terzo petalo
Non solo i fratelli Scholl: nel famoso gruppetto di giovani tedeschi che s’opposero al nazismo c’era Willi Graf, un altro martire della libertà
di MARCO RONCALLI (Avvenire, 06.02.2008)
« Questo libro presenta per la prima volta ai lettori italiani la biografia di mio fratello, dopo che altri volumi hanno raccontato della Rosa Bianca e dei fratelli Scholl..., in questo modo l’eredità di Willi continua a vivere e può essere riproposta alle giovani generazioni, come esempio di coraggio e impegno civile...». Così, nella postfazione, l’ottantasettenne Anneliese Knoop-Graf, unica sopravvissuta fra quanti conobbero bene quel gruppetto di studenti tedeschi che pagò con la vita l’opposizione al nazismo, per «avere voluto svegliare la coscienza del popolo tedesco» come sintetizza nella prefazione Moni Ovadia.
A proporci un nitido profilo del giovane cattolico che, dopo settimane di torture della Gestapo (nell’inutile tentativo di estorcergli i nomi di altri compagni), fu ghigliottinato il 12 ottobre 1943 (come aveva chiesto il verdetto di Roland Freisler, presidente della Corte del Popolo), è la giornalista Paola Rosà. Il suo Willi Graf, Con la Rosa Bianca contro Hitler (Il Margine, pp. 240, euro 16), offre un canovaccio biografico basato sulla bibliografia dedicata alla Weiße Rose e ai suoi protagonisti (ricordiamo anche Hans e Sophie Scholl, Christoph Probst, Alexander Schmorell, cui si unì il professor Kurt Huber) arricchito da inedite testimonianze (come l’intervista a Marianne Thoeren, quella che un tempo fu l’amica che sapeva ascoltare l’inquieto Willi in un modo speciale).
Non solo; queste pagine bene rispecchiano un coerente percorso di formazione, dove s’intravedono le ragioni di una scelta radicale che si fonde nel martirio: epilogo di una vita breve, consumata con consapevolezza e responsabilità, sorretta dalla fede e dalla cultura, nel segno di una resistenza non violenta - per vocazione umana e cristiana - affidata alla forza delle parole della verità contro quelle della menzogna. Il libro si apre con diverse immagini emblematiche.
Innanzitutto quella di Saarbrücken, capoluogo della Saar, la regione di confine con la Francia dove i Graf si erano trasferiti.
Dopo 15 anni di amministrazione da parte della Società delle Nazioni, la città, con il voto del 13 gennaio 1935 sull’onda del patriottismo, sancisce l’annessione alla Germania di Hitler. Nulla sarà come prima. Il diciassettenne Willi solo per poco potrà portare in pubblico la divisa della Neudeutschland, l’organizzazione giovanile cattolica di cui fa parte. E ancora per poco le sfide alla Gioventù hitleriana sembreranno giochi di rivalità fra ragazzi.
Dopo queste inquadrature generali l’autrice, come in film documentario, stringe lo zoom sulla famiglia di Willi colta in un conformismo obbligato (la madre Anna Gölden, fervente cattolica, conosce il dovere dell’obbedienza, il padre Gerhard si preoccupa che il figlio non possa continuare gli studi...), poi si ferma sul protagonista, questo giovane «selettivo nelle amicizie..., distante con chi non gli ispira fiducia» che si apre invece «senza riserve a chi sente parte del suo mondo» e che soprattutto «ama sopra ogni cosa la libertà, senza compromessi».
Insomma, in nuce, c’è già il manifesto di un’etica: «Ci hanno detto delle belle cose sull’onestà, non tutti sono educati all’onestà in famiglia, ma dall’onestà dipende tutta la vita del gruppo». Parole del giovane Willi, nel quale cui Paola Rosà si preoccupa subito di assicurare l’assenza di ideologia e il solo desiderio di un’autentica giustizia cristiana.
È un aspetto da tener presente che non viene travolto dall’avanzare inarrestabile della nazificazione anche nella Saar con cui il ragazzone «dalle spalle larghe» deve sempre più fare i conti. E con lui i suoi amici dell’Ordine Grigio, oltre cento giovani che si ritrovano in campeggi e viaggi (proibiti dal regime nazista), ma anche gli altri con cui condivide la passione per le letture di scrittori profondi (come Ernst Wiechert ).
Capitolo dopo capitolo Willi viene seguito sin dal primo arresto nel 1938 a Mannheim (uscirà poi di prigione grazie all’amnistia concessa con l’annessione dell’Austria al Reich), quindi nei primi mesi di servizio forzato a Dillingen fra marce, esercitazioni, conferenze sulla razza, poi all’inizio dei suoi studi di medicina a Bonn, nelle tappe del suo servizio militare - in Francia e Yugoslavia (dove nell’estate ’42 conosce Hans Scholl, Alexander Schmorell e Jurgen Wittenstein), sul fronte russo - sino al ritorno a Monaco e alla decisione di entrare nella Rosa Bianca che affida ai primi volantini i suoi appelli alla resistenza: «Ovunque vi troviate, ostacolate il cammino di questa atea macchina da guerra, prima che sia troppo tardi». Willi è sempre più arrabbiato e deciso e nel novembre 1942 ripete: «La follia dei criminali che ci stanno governando porterà tutti alla rovina!».
Nonostante questo impegno, non trascura i suoi libri (in questo periodo lo appassionano le Meditazioni sulla divina liturgia di Gogol: «Il dramma della Divina Liturgia è grandioso: si svolge in pubblico, dinanzi agli occhi di tutti e tuttavia segretamente...». Poi il dramma all’inizio del 1943: WIlli tiene in valigia ciclostile e volantini... Di qui l’arresto, gli interrogatori della Gestapo, la custodia cautelare a Neudeck, la lunga detenzione.
Sino al 12 ottobre, quando il procuratore di Monaco scrive al ministro della Giustizia del Reich: «Oggetto: Causa penale contro Graf Wilhelm. L’esecuzione della pena di morte contro il suddetto ha avuto luogo nel carcere penale di Stadelheim il 12 ottobre 1943. Il procedimento è durato dall’abbandono della cella esattamente 1 minuto e 11 secondi, dalla consegna al boia sino alla caduta della lama 11 secondi. Non sono da segnalare intoppi o altri».
**** E Willi «contagiò» anche il suo maestro: Höffner, il cardinale che salvava gli ebrei
Tra gli amici della prima ora di Willi Graf c’è un giovane cappellano: Joseph Höffner, classe 1906, quattro lauree, assegnato a Saarbrücken nel 1934 dopo gli anni alla Gregoriana, dove due anni prima era stato ordinato sacerdote. Nella Saar Höffner resta solo tre anni; come Willi nel 1937 lascia Saarbrücken per studiare: il cappellano economia politica a Friburgo, il diciannovenne Willi medicina a Bonn.
Tre anni da non sottovalutare. Anzi un periodo fondamentale per il chierichetto Willi affascinato da quel teologo sempre chino in sacrestia o in biblioteca e che - sostiene Paola Rosà - con buona probabilità incoraggiò la sua ribellione silenziosa. Höffner sarà poi cardinale, arcivescovo di Colonia per quasi due decenni, nonché rappresentante della Conferenza episcopale tedesca.
Willi s’iscrisse a medicina per sfuggire al nazismo; in realtà - testimonia la sorella Anneliese - voleva fare teologia, «chiave d’ingresso di ogni altra sfera del pensiero ». Glielo dimostrò Höffner, quando in quegli anni lavorava sul tema «giustizia sociale e amore sociale», studi poi entrati negli annali della dottrina sociale della Chiesa.
Parola e azione: il binomio che inquietava già il sedicenne Willi. «In questo, senza che però abbia la possibilità di venirlo a sapere, il suo cappellano gli farà da modello - ricorda Paola Rosà -. Nel 1943, proprio mentre Willi è in carcere in attesa del patibolo, Joseph Höffner parroco in un villaggio sulla Mosella ospita in canonica sotto falso nome una bambina ebrea, salvandole la vita; lo stesso farà insieme alla sorella con una coppia di adulti, nascosti nella casa dei genitori a Horhausen».
Di giustizia Höffner continuerà ad occuparsi nella nuova Repubblica Federale come docente onorario negli atenei di Münster e Treviri, finché anche in Israele si ricorderanno di lui. 16 anni dopo la morte, nel 2003, Yad Vashem gli conferirà il titolo di «Giusto tra le nazioni».
Marco Roncalli