Die Zeit, Hamburg, 26 ottobre 2006, n° 44
La democrazia lesa
L’ex presidente americano Jimmy Carter fa la predica al governo di George W. Bush
di Bernd Greiner (traduzione dal tedesco di José F. Padova)
Negli Stati Uniti c’è battaglia elettorale, è tempo d’inasprimenti e della resa dei conti dei partiti e della politica. Che anche gli ex Presidenti chiedano la parola e diano una mano ai partiti di loro attuale preferenza fa parte del gioco e in genere non merita commenti. Quello che invece Jimmy Carter ha ora da dire evoca una realtà più vasta di quella di questi giorni. Egli pone la questione dello stato della democrazia americana e quindi anche della capacità degli USA di fare onore al loro ruolo di potenza politica mondiale.
Come c’era da aspettarsi da un battista dichiarato, Carter dedica ampio spazio alla lotta culturale da tempo intrapresa dai cristiani evangelici. La sua decisione di voltare la schiena alla Southern Baptista Convention dopo decenni di partecipazione come membro ha però a che fare solo marginalmente con le controversie religiose. Carter mette a nudo con molta più determinazione di altri osservatori il nocciolo del conflitto. Non si tratta già di commistione fra politica e religione. Piuttosto gli evangelici, per amore della loro volontà di trovare spiegazioni, puntano alla sostanza della Costituzione repubblicana - in generale sulla divisione dei poteri e in particolare sull’indipendenza della giustizia.
La lettura del libro (Jimmy Carter: Unsere gefährdeten Werte - Amerikas moralische Krise I nostri valori in pericolo. La crisi morale dell’America; tradotto dall’inglese da Ute Mihr, Ursel Schäfer e Heike Schlatterer; Pendo Verlag, München/Zürich 2006; 196 S., 17,90 €) vale anche soltanto per la convincente motivazione di questa correlazione.
Durante la presidenza Carter verso la metà degli anni ’70 la messa in discussione dei checks and balances aveva dato motivo a una violenta controversia. In un primo tempo a buon diritto, quando influenti membri del Congresso si erano precipitati a fianco dei portavoce ideologici - come di recente è dato più volte da osservare. Nell’America odierna al contrario l’opinione pubblica politica ha abdicato. In ogni caso un’opinione pubblica che si serva della forza degli argomenti invece della suggestione delle emozioni.
Da questo prende l’avvio il discorso di Carter sulla «crisi morale» - sullo stato di una repubblica nella quale la partecipazione a concetti diversi e la legittimazione mediante procedure sono diventati beni ben miseri. E nella quale pare frattanto che debba un Presidente in pensione assumere con il suo scritto polemico i compiti che contano piuttosto fra quelli più elevati degli intellettuali. Questi ultimi si sono in maggioranza destreggiati nell’ age of frozen scandal, nel tempo dello scandalo surgelato - così non possono essere annoverati nel campo dei fondamentalisti politici.
Dal sottofondo di questa «rivoluzione» (Carter) l’amministrazione Bush ha potuto stabilire il suo regime autocratico. Circa i danni causati nel corso degli anni vi si legge altrove di molto più dettagliato. Ma Carter intende anche qui porre le sue puntualizzazioni assennatamente, come appare nelle argomentazioni circa la politica atomica e le relazioni trascurate con la Corea del Nord. E inoltre veniamo anche a sapere che Gorge W. Bush nel background dell’attuale guerra in Iraq ha impedito al privato cittadino Carter un viaggio in Siria. Consolarsi con la prossima elezione di un nuovo Presidente alla luce di questo libro appare un’ingenuità. La vera e propria irritazione che si nota nell’intervento di Jimmy Carter sta in questo fatto: nella supposizione che l’America e con essa il resto del mondo non avrebbe alcun problema se il problema fosse soltanto Gorge W. Bush.
Testo originale:
DIE ZEIT
Die lädierte Demokratie
Der ehemalige amerikanische Präsident Jimmy Carter liest der Regierung von George W. Bush die Leviten.
Von Bernd Greiner
Es ist Wahlkampf in den Vereinigten Staaten, die Zeit der Zuspitzung und der parteipolitischen Abrechnung. Dass sich auch ehemalige Präsidenten zu Wort melden und ihrer jeweiligen Partei unter die Arme greifen, gehört zum Geschäft und ist in der Regel nicht weiter der Rede wert. Was indes Jimmy Carter zu sagen hat, weist über den Tag hinaus. Er fragt nämlich nach dem Zustand der amerikanischen Demokratie, mithin auch danach, wie es um die Fähigkeit der USA bestellt ist, ihrer Rolle als weltpolitische Führungsmacht gerecht zu werden. Wie von einem bekennenden Baptisten nicht anders zu erwarten, widmet Carter dem seit geraumer Zeit geführten Kulturkampf der christlichen Evangelikalen großen Raum. Seine Entscheidung, nach jahrzehntelanger Mitgliedschaft der Southern Baptist Convention den Rücken zu kehren, hat freilich nur am Rande mit Glaubensstreitigkeiten zu tun. Entschiedener als viele andere Beobachter legt Carter den Kern des Konflikts bloß. Es geht nicht darum, dass Religiöses mit Politischem vermengt wird. Vielmehr stellen Evangelikale um ihrer Deutungsmacht willen die Substanz der republikanischen Verfassung zur Disposition - Gewaltenteilung im Allgemeinen und Unabhängigkeit der Justiz im Besonderen. Allein wegen der überzeugenden Begründung dieses Zusammenhangs lohnt die Lektüre des Buches. Zu Carters Amtszeit Mitte der 1970er Jahre hätte die Infragestellung der checks and balances zu einer heftigen Kontroverse Anlass gegeben. Erst Recht, wenn den ideologischen Wortführern - wie jüngst mehrfach zu beobachten - einflussreiche Mitglieder des Kongresses zur Seite gesprungen wären. Im heutigen Amerika hingegen hat die politische Öffentlichkeit abgedankt. Jedenfalls eine Öffentlichkeit, die sich der Kraft des Arguments statt der Suggestion von Emotionen bedient. Davon handelt Carters Rede über die »moralische Krise« - vom Zustand einer Republik, in der Partizipation zum Fremdwort und Legitimation durch Verfahren zu einem knappen Gut geworden ist. Und in der es mittlerweile so scheint, als müsste ein Präsident im Ruhestand mit seiner Streitschrift Aufgaben übernehmen, die ehedem zu den vornehmsten Anliegen von Intellektuellen zählten. Letztere haben sich mehrheitlich im age of frozen scandal, in der Zeit des tief gefrorenen Skandals, eingerichtet - so sie denn nicht im Lager der politischen Fundamentalisten zu finden sind. Von dem Hintergrund dieser »Revolution« (Carter) konnte die Bush-Regierung ihr autokratisches Regime etablieren. Über die im Laufe der Jahre angerichteten Schäden ist andernorts Ausführlicheres zu lesen. Aber Carter versteht auch hier, seine Pointen klug zu setzen, wie sich in den Ausführungen zur Atomwaffenpolitik und zum fahrlässigen Umgang mit Nordkorea zeigt. Und nebenbei erfahren wir auch, dass George W. Bush im Umfeld des letzten Irak-Krieges dem Privatmann Carter eine Reise nach Syrien untersagte. Sich mit der alsbaldigen Wahl eines neuen Präsidenten zu trösten scheint angesichts dieses Buches naiv. Darin liegt die eigentliche Irritation von Jimmy Carters Intervention - in der Unterstellung, dass Amerika und mit ihm der Rest der Welt keine Probleme hätte, wenn allein George W. Bush das Problem wäre.
Unsere gefährdeten WertePolitisches BuchAmerikas moralische Krise; aus dem Englischen von Ute Mihr, Ursel Schäfer und Heike SchlattererJimmy CarterBuchPendo
Verlag2006München/Zürich17,90196
DIE ZEIT, 26.10.2006 Nr. 44
44/2006
Bush sconfitto, cade anche il falco Bolton *
È caduto sul campo un altro guerriero di prima linea dei neoconservatori di George Bush. John Bolton, ambasciatore all’Onu, celebre per aver sostenuto che i suoi interlocutori nel Palazzo di vetro potrebbero essere eliminati senza danno, dovrà andarsene entro il primo gennaio. Prometteva di demolire la burocrazia nelle organizzazioni internazionali ed è stato demolito. La nuova maggioranza democratica al Senato ha indicato che non approverebbe un nuovo mandato per lui. Il presidente tiene molto al suo uomo. Giovedì ha chiesto al Senato di ratificare la sua nomina entro l’anno, prima che si insedino i nuovi eletti e si cambino i ruoli tra maggioranza e opposizione. Il tentativo è fallito. Joe Biden, capogruppo democratico nella commissione esteri del Senato, ha annunciato l’intenzione di tirare in lungo il dibattito su Bolton fino a quando il suo partito non avrà il numero di seggi sufficienti per bocciarlo.
«Non vedo la ragione - ha spiegato il senatore Biden - per prendere in considerazione adesso nella commissione esteri la nomina dell’ambasciatore Bolton, visto che in ogni caso sarebbe respinta in aula». Ai democratici si è unito il senatore repubblicano moderato Lincoln Chafee, che a fine anno dovrà lasciare il seggio all’altro partito: «Alla fine del mio mandato - ha detto - non approfitterò certamente del tempo che mi resta per imporre una nomina contro la quale il popolo americano si è espresso con le elezioni».
L’impopolarità di Bolton è tale che il presidente Bush lo ha nominato ambasciatore nell’agosto 2005, durante le vacanze del Senato. Quando il Congresso non è operativo il presidente ha il potere di procedere a nomine di emergenza senza la ratifica che Bolton non avrebbe mai ottenuto. La nomina tuttavia scadrà automaticamente a fine anno. A gennaio si riunirà il Senato scelto il 7 novembre dagli elettori: il partito democratico avrà 51 seggi su 100.
In teoria, Bush potrebbe ancora ricorrere a una manovra disperata: rendere esecutiva per alti due anni la nomina di Bolton durante le vacanze di Natale. Il prezzo da pagare però sarebbe alto. La provocazione renderebbe impossibile ogni tentativo di collaborazione tra il governo e la maggioranza del congresso e darebbe un duro colpo alla credibilità nei confronti dell’Onu di un ambasciatore sfiduciato dagli elettori del suo paese.
John Bolton è famoso per le sue battute al vetriolo. Una volta ha detto: «Non esistono le Nazioni unite. Esiste una comunità internazionale che può essere guidata soltanto dall’unica superpotenza, gli Stati Uniti d’America».
Un’altra frase celebre è questa: «Il Palazzo di vetro ha 38 piani. Se crollassero gli ultimi dieci, dove sono gli uffici della segreteria generale, non farebbe la minima differenza». Nel 2003, John Bolton era stato rimosso dalla delegazione degli Stati Uniti nelle trattative a sei con la Corea del Nord. Aveva definito il capo di stato nordcoreano Kim Jong Il «un tiranno che ha reso la vita nel suo paese un incubo infernale». Il rappresentante della controparte aveva ricambiato la cortesia chiamandolo «rifiuto umano», ma il presidente Bush aveva apprezzato questo insolito diplomatico senza peli sulla lingua. Cercava proprio qualcuno come Bolton da mandare all’Onu. Qualcuno «in grado di fare il suo lavoro», cioè di spingere con tutto il peso degli Stati Uniti per la riforma di una istituzione che il partito di Bush considerava inefficiente e corrotta. Il congresso aveva già bloccato il versamento dei contributi all’Onu e i rapporti con il segretario generale Kofi Annan erano tesi.
A fine anno Annan se ne andrà e gli Stati Uniti dovranno convivere con il successore. Con il sacrificio di Bolton la nuova maggioranza ha avvertito Bush che anch’egli deve cambiare atteggiamento.
* www.unita.it, Pubblicato il: 11.11.06 Modificato il: 11.11.06 alle ore 15.13
L’America scarica Bush: Donald Rumsfield si dimette
Netta vittoria democratica alla Camera *
Barak Obama con Tammy Duckworth, candidata dell’IllinoisTerremoto politico a Washington dopo la sconfitta elettorale repubblicana alle elezioni di medio termine negli Stati Uniti. Il responsabile del Pentagono Ronald H. Rumsfield si è dimesso. La sua politica in Iraq è la principale responsabile del voto. Le sue dimissioni erano state chieste da Nancy Pelosi, la presidente in pectore della Camera - la prima donna della storia americana. «Signor presidente, abbiamo bisogno di una nuova direzione in Iraq», aveva detto la democratica.
Il "referendum sulla guerra in Iraq" - come tutti i giornali hanno chiamato il voto di martedì - ha rivoltato le carte e colpito duramente i repubblicani di Bush. Difendevano margini di 15 seggi alla Camera, dove si rinnovano tutti e 435 seggi, e di 6 seggi al Senato, dove i seggi in palio erano 33 su 100. Si ritroveranno alla Camera con quasi 30 seggi in meno, scendendo da 232, presumibilmente, a 205.
Potrebbero volerci settimane per sapere se il partito del presidente George W. Bush ha perso anche la battaglia per il Senato. In Virginia il candidato democratico e quello repubblicano sono staccati solo da una manciata di voti e la vittoria sarà decisa soltanto dopo una riconta delle schede. È l’unica incognita, importantissima, sull’esito delle elezioni di metà mandato che hanno segnato una svolta politica epocale al Congresso, un trionfo democratico e una sconfitta per i falchi del partito repubblicano, soprattutto Bush e la sua controversa politica estera.
I democratici hanno strappato cinque dei sei seggi di cui avevano bisogno per cambiare il segno politico al Senato: i repubblicani hanno perso Pennsylvania, Ohio, Missouri, Montana e Rhode Island. In Virginia un senatore repubblicano, George Allen, che solo qualche mese fa sognava di lanciare con la campagna elettorale per la rielezione la sua corsa alla Casa Bianca, è indietro. Lo sfidante democratico Jim Webb lo ha staccato di circa 8.000 voti e già nella serata di martedì ha rivendicato la vittoria su Allen. Lo spoglio è ancora in corso, con il 99,9 delle sezioni scrutinate. Anche in Virginia si profilano i tempi supplementari e i tempi della riconta - che avviene se il distacco è inferiore allo 0,5 per cento - sarebbero lunghi. Il risultato sarà certificato il 27 novembre e solo allora lo sconfitto potrà presentare ricorso e chiedere un nuovo spoglio. La questione potrebbe risolversi soltanto alla vigilia di Natale.
La vittoria elettorale ha dato ai democratici 50 seggi al Senato, quanti ne hanno i repubblicani, ma il vicepresidente Dick Cheney entrererà in gioco come presidente per esprimere il voto decisivo. Determinante è quindi la Virginia. Il presidente Bush, il vero grande sconfitto del voto di metà mandato, ha telefonato a Nancy Pelosi per congratularsi e invitarla a pranzo.
Sarà intanto l’ex direttore della Cia, Robert Gates, il nuovo segretario alla Difesa secondo fonti del partito. Il presidente Bush ha confermato le dimissioni di Donald Rumsfeld, da molti accusato per la gestione della guerra in Iraq. Bush dalla Casa Bianca ha detto che collaborerà con i democratici per portare avanti la sua politica. Ma, indipendentemente dai riconteggi al Senato, per il presidente è un colpo assai duro. Il presidente repubblicano che resterà in carica per altri due anni, non è riuscito a concretizzare molto nell’agenda di governo nei primi due anni del secondo mandato, e negli ultimi due - alle prese con la maggioranza democratica al Congresso - potrebbe fare ancor meno.
* www.unita.it, Pubblicato il: 08.11.06 Modificato il: 08.11.06 alle ore 19.21
L’America scarica Bush Democratici: «Ora via dall’Iraq»
Vittoria netta alla Camera, incerta al Senato. La Virginia come la Florida*
Barak Obama con Tammy Duckworth, candidata dell’Illinois«Signor presidente, abbiamo bisogno di una nuova direzione in Iraq». Così, senza mezzi termini, la democratica Nancy Pelosi- che sarà la prima donna a presiedere un ramo del parlamento statunitense oltre che l’ago della bilancia della prossima politica americana- ha detto nel suo primo discorso dopo la vittoria nelle elezioni di mezzo termine. Il "referendum sulla guerra in Iraq" - come tutti i giornali hanno chiamato il voto di Midterm di martedì - ha rivoltato le carte e colpito duramente i Repubblicani di Bush. Difendevano margini di 15 seggi alla Camera, dove si rinnovane tutti e 435 seggi, e di 6 seggi al Senato, dove i seggi in palio erano 33 su 100.
Non è ancora finita la conta dei voti ma è chiaro che l’Asinello - i Democratici - dopo 12 anni hanno riconquistato la maggioranza dei alla Camera. E lì ora Nancy Pelosi sarà in una posizione chiave, di controcanto del presidente, anche dal punto di vista mediatico. Lì, al Congresso, secondo i dati diffusi dalla catena televisiva Msnbc mentre lo scrutinio è quasi concluso e le proiezioni hanno ormai margini di dubbio ridottissimi, i Democratici avrebbero almeno 221 seggi su 435 (per la maggioranza ne bastavano 218). E sperano di avere espugnato anche la fortezza del Senato, dove però la sfida è sul filo di lana per due stati ancora incerti. Si tratta di due stati dove lo scarto tra i due schieramenti è minimo: il Montana e la Virginia.
In particolare la Virginia rischia di diventare quello che la Florida fu nelle elezioni di cinque anni fa: cioè un caso controverso e decisivo. Nello stato , dove era stato sperimentato anche il voto elettronico, potrebbe essere necessario il riconteggio delle schede.Il democratico Jim Webb sorpasserebbe il repubblicano George Allen di soli 7.800 voti al 99 percento dello scrutinio. Avendo lo stato 2,3 milioni di elettori, il vantaggio equivale per ora a un terzo di un punto percentuale. Non è previsto un riconteggio automatico in Virginia, a legge elettorale dello Stato consente al candidato giunto secondo a meno di mezzo punto di distanza dal primo di chiedere un nuovo conteggio delle schede, a spese delle amministrazioni locali. Attualmente - ma il conteggio è ancora in corso - la situazione sarebbe proprio questa. Se il margine invece dovesse aumetare a vantaggio di Webb ma sempre mantenendosi sotto all’1 per cento, il candidato perdente Allen potrebbe lo stesso chiedere un riconteggio ma a sue spese. Una volta avviata la procedura del riconteggio dura almeno una settimana e quindi farebbe slittare la proclamazione ufficiale del voto probabilmente fino al 27 novembre. Non solo. In Virginia si registrano la maggior parte delle contestazioni agli osservatori federali della correttezza delle votazioni e l’Fbi sta indagando su una serie di telefonate di intimidazione nei confronti di elettori, ai quali è stato intimato di rimanere a casa e non recarsi alle urne.
In Montana - l’altro stato pencolante -, il candidato democratico Jon Tester è in testa sul repubblicano in carica Conrad Burns ma ancora non è stato dichiarato un vincitore. Anche qui lo scarto, al 91 percento dello scrutinio, e di poco superiore ai 2mila voti. Sono stati invece aggiudicati ai Democratici seggi senatoriali che erano dei Repubblicani e dove si è concentata la sfida elettorale: in Ohio, Pennsylvania, Rodhe Island.
Anche il Missouri, uno degli Stati più seguiti nella campagna elettorale a livello nazionale perché decisivo per il controllo Senato, è andato ai Democratici. A una donna, in particolare, un’altra donna sulla breccia dell’onda: Claire McCaskill. Il suo rivale Jim Talent ha riconosciuto la sconfitta. La McCaskill, favorevole alla ricerca sulle staminali e appoggiata dall’attore Michael J.Fox - quello di "Ritorno al Futuro" malato di Parkinson- ha ottenuto intorno al 49% dei voti, il suo avversario il 48% circa.
Non ce l’ha fatta invece a entrare alla Camera dei Rappresentanti il candidato democratico Tammy Duckworth, reduce della guerra in Iraq dove fu gravemente ferito e perse ambedue le gambe, divenuto famoso per la sua appassionata compagna contro la guerra che ha sempre definito «un grave errore». In base alle proiezioni televisive il seggio per cui Duckworth era in lizza nell’Illinois, in una circoscrizione alla periferia ovest di Chicago, è stato conquistato dal repubblicano Peter Roskam. E anche il Tennessee - uno dei cinque stati-chiave dove moto si era concentrata la battaglia elettorale, soprattutto a Nashville-è rimasto al repubblicano Bob Cocker. Mentre nello stato di New York è stata facilmente riconfermata la democratica Hillary Clinton. Molto dispiaciuta perché la figlia Chelsea non ha potuto votarla a Manhattan: il suo nome non risultava negli elenchi elettorali. Ha ottenuto comunque il 67% dei voti, contro il 31% dello sfidante repubblicano John Spencer, ribattezzato «mister nessuno».
Altra stella nascente della galassia democratica, mette piede per la prima volta nel Congresso degli Stati Uniti d’America, un musulmano: l’avvocato afroamericano Keith Ellison, 43 anni. Puntando sullo slogan «Islam non vuol dire fanatismo» ha ottenuto consensi anche nella comunità ebraica e cattolica e ha sbaragliato i due rivali - il repubblicano Alan Fine e l’indipendente Tammy Lee entrambi fermi al 21% dei consensi - ottenendo il 56% in Minnesota, grazie anche allo sponsor più prestigioso del momento: l’altro afroamericano Barak Obama, probabile candidato alla Casa Bianca nel 2009.
Governatori
Nelle elezioni di Midterm di martedì si rinnovavano anche i governatori di 36 stati dell’Unione. Prima del voto i governatori democratici erano 22, quelli repubblicani 28, oggi il rapporto si è rovesciato. I Democratici avrebbero strappato all’Elefantino repubblicano sei poltrone importanti: i seggi di governatore dell’Arkansas, del Colorado, del Maryland, del Massachusetts, di New York e dell’Ohio.
Non la California dove resta in carica il multiforme Arnold Schwarzenegger. Governatore repubblicano molto "anomalo", con una moglie della famiglia Kennedy - Maria Shriver - fervente ambientalista ma contrario ai matrimoni gay, ha commentato i dati che dovrebbero assicurargli la conferma con un largo margine rispetto al rivale democratico Phil Angelides con una fragorosa risata: «Adoro i sequel».
Nuovo governatore dello stato di New York e quindi anche della Grande Mela è Eliot Spitzer, ex procuratore generale famoso per le sue battaglie legali contro giganti dell’industria e della finanza "dai piedi sporchi" come la multinazionale del farmaco Glaxo accusata di vendere farmaci antidepressivi a bambini e adolescenti con effetti nocivi pesantissimi.
Referendum: vince il No ai matrimoni gay
Proprio sulla sua crociata di cui Schwarzenegger si è fatto alfiere contro i matrimoni gay si registra l’unica vera vittoria dei Repubblicani nei referendum popolari indetti in sette stati in contemporanea alle elezioni di Midterm. Stando ai risultati non ancora definitivi e alle proiezioni rese note dalle varie catene televisive americane, la proposta di definire legalmente «matrimonio» soltanto le unioni tra un uomo e una donna è stata approvata in Tennessee, Virginia, South Carolina, Wisconsin, Colorado, South Dakota e Idaho. Il divieto esplicito di unioni omosessuali era invece sottoposto al giudizio degli elettori in Arizona e, con il 69 per cento delle schede scrutinate, aveva ottenuto un 52 per cento di voti favorevoli: margine peraltro giudicato ancora troppo risicato dagli esperti per potersi considerare davvero sicuro.
* www.unita.it, Pubblicato il: 08.11.06 Modificato il: 08.11.06 alle ore 14.56
Si rinnovano l’intera Camera dei rappresentanti e parte del Senato. Molto probabile il sorpasso, la popolarità di Bush è ai minimi
Usa, martedì le elezioni di mid-term Nei sondaggi, democratici sempre avanti
Sta per concludersi una campagna elettorale aspra, dominata dai temi della guerra e dell’economia. E non sono mancati scandali e gaffe *
WASHINGTON - Martedì prossimo, 7 novembre, i cittadini degli Stati Uniti si recheranno alle urne, per votare alle elezioni di medio termine. Così chiamate perchè si tengono a metà del mandato quadriennale dei presidenti: lo scopo è il rinnovo parziale del Congresso. Sono in palio, infatti, tutti i seggi della Camera dei Rappresentanti (435) e un terzo di quelli del Senato (33). Un test che potrebbe trasformarsi in una sconfitta, per George W. Bush: secondo l’ultimo sondaggio pubblicato da Newsweek, I candidati democratici sono intorno al 54% dei voti, contro il 38% dei repubblicani. Il tasso di approvazione dell’operato del presidente è appena al 35%.
Il sondaggio, che denuncia un margine di errore di 3 punti percentuali, è stato realizzato tra giovedì e venerdì scorsi. D’altra parte, secondo il Cook Political Report (indipendente), ai repubblicani andrebbe bene se riuscissero a limitare le perdite a 20-25 seggi alla Camera dei rappresentanti e a 4-5 al Senato. Mentre, per strappare la maggioranza ai repubblicani, i democratici devono conquistare 15 seggi alla Camera e sei al Senato.
La battaglia alla Camera. Con tutti i 435 seggi da rinnovare, sono in realtà appena 35 i "duelli" che martedì prossimo decideranno le sorti delle elezioni. alla Camera dei rappresentanti americana. Decideranno, cioè, se i democratici potranno conquistare i 15 seggi di cui hanno bisogno per raggiungere la maggioranza di 218 seggi. Nella legislatura uscente i repubblicani avevano 230 seggi, contro i 201 dei democratici, un indipendente che solitamente vota con i democratici e tre seggi vacanti.
I duelli al Senato. La lotta per il controllo si giocherà principalmente in nove stati, sui 33 seggi complessivi da assegnare: al momento, i democratici ne hanno 18 e 15 i repubblicani (questi ultimi hanno la maggioranza, con 55 voti contro 44). I democratici possono contare però sul voto di un senatore indipendente. Per strappare il controllo ai repubblicani servirebbero loro sei seggi in più, per raggiungere la maggioranza di 51 voti. Nel caso di una situazione di parità, 50 a 50, la superiorità numerica resterebbe ai repubblicani: diventerebbe cruciale il voto di Dick Cheney, che in qualità di vice presidente è il presidente del Senato.
I governatori. Sono in tutto 36 gli stati dove martedì si voterà anche per il governatore, 22 sono attualmente guidati da repubblicani e 14 da democratici. Secondo gli analisti, i democratici hanno buone possibilità di fare un discreto bottino, dal momento che sono otto gli stati ora repubblicani in cui non si ricandidano, principalmente perché hanno raggiunto il limite dei mandati concessi, i governatori in carica. Tra questi anche repubblicani illustri come George Pataki, governatore dello stato di New York, e Jeb Bush, e governatore della Florida, già dai tempi in cui nel 2000 lo stato fu cruciale per la vittoria del fratello George alla Casa Bianca. Il candidato più famoso è il californiano Arnold Schwarzenegger eletto nel 2003. Schwarzy dovrebbe vincere, ma dovrà far di tutto per non far ricordare agli elettori la sua appartenenza al Partito repubblicano, prendere le distanze da Bush e puntare su un programma "progressista".
Nei 14 stati ora governati dai democratici, invece solo un governatore, Tom Vilsack in Iowa, ha deciso di non ricandidarsi.
I temi caldi. Quella che si sta per concludere è stata una campagna elettorale aspra. Tra gli argomenti che hanno maggiormente infiammato il dibattito politico, c’è ovviamente l’Iraq: secondo un sondaggio del New York Times, solo il 29 per cento degli americani approva il modo in cui Bush sta conducendo la guerra. Ma c’è anche il tema della sicurezza nazionale, dopo l’approvazione di una controversa legge che di fatto limita le garanzie in caso di interrogatori e processi a presunti terroristi. I democratici inoltre hanno attaccato il presidente sul fronte economico, visto il petrolio alle stelle e il boom dei prezzi.
Gli scandali. Inevitabili, alla vigilia del voto. In questo caso c’è stata l’inchiesta sul lobbysta JackAbramoff, che ha coinvolto l’ex capogruppo repubblicano alla Camera Tom DeLay, e la storia del deputato repubblicano Mark Foley , che molestava gli stagisti della Camera. Due giorni fa, poi, Tom Haggard, leader della potente Associazione nazionale degli evangelici che ha stretti legami con la Casa Bianca, è stato travolto da uno scandalo e costretto a dimettersi. Un omosessuale ha accusato il pastore della Chiesa della Nuova Vita di averlo pagato per tre anni in cambio di rapporti sessuali.
Le gaffe. Numerose, anche queste. Ad esempio, il voto favorevole alla guerra in Iraq ha messo in difficoltà nel progressista Connecticut il deputato uscente repubblicano Christopher Shays. Cercando di trarsi di impaccio Shays si è lasciato scappare che a Abu Ghraib "non c’è stata tortura, ma sesso". E poi c’è il campione di bizzarrie (a sfondo razzista): il senatore repubblicano uscente della Virginia George Allen, che ha dato del "macaco" a un cameraman indiano della campagna del rivale James Webb. Tra i democratici, invece, scivolato sulla buccia di banana dello scherzo malriuscito il senatore John Kerry: ha ironizzato sui soldati in Iraq, nel tentativo di gettare il suo sarcasmo su Bush. "Se non studiate, vi toccherà partire". Ma non c’era niente da ridere. (5 novembre 2006)
* www.repubblica.it
Se guardo Washington, penso a Weimar
di Immanuel Wallerstein (www.liberazione.it, 02.11.2006)
Adesso sembra del tutto probabile, a meno di un miracolo per i repubblicani, che i democratici otterranno la maggioranza in almeno una delle camere del Congresso, e probabilmente in entrambe, nelle elezioni del 7 novembre. Che differenza farà? Dovrei dire che personalmente voterò per le liste democratiche. Ma come per tanti, il mio sarà in primo luogo un voto negativo contro George W. Bush e secondariamente contro la maggioranza repubblicana in entrambe le camere. Lo farò per molte ragioni, ma prima di tutto perché penso che l’invasione dell’Iraq sia stata immorale, controproducente e in generale un fiasco - per gli Stati Uniti, per l’Iraq, e per il mondo intero. Per me c’è molto altro di cui lamentarsi riguardo all’attuale regime - i suoi attacchi alle libertà fondamentali del popolo americano, le sue politiche economiche e sociali regressive, e la sua politica estera incapace e incauta in generale. Ma l’Iraq come ragione è la prima di tutte. Così voterò per protesta, e cercherò di non far andare le cose ancora peggio.
Ma cosa farà di meglio un Congresso democratico? Questo, come tutti hanno osservato, non è affatto chiaro. Anzi, c’è da dubitare che i democratici collettivamente abbiano da offrire una politica estera davvero migliore. Il problema principale della leadership del partito democratico è che crede, almeno quanto i repubblicani, che gli Stati Uniti siano il centro del mondo, la fonte di saggezza, il grande difensore della libertà mondiale - in breve, una nazione profondamente virtuosa in un mondo pericoloso.
Peggio ancora, sembra credere che, semplicemente eliminando l’elemento di unilateralismo esagerato praticato dall’attuale regime, sarà in grado di restituire agli Stati Uniti una posizione di centralità nel sistema-mondo, e di riottenere l’appoggio degli alleati e sostenitori di un tempo, prima di tutto in Europa occidentale e poi ovunque altrove nel mondo. Sembrano credere davvero che sia una questione di forma, non di sostanza, e che il difetto del regime di Bush sia di non essere stato abbastanza bravo nella diplomazia.
E’ vero che non tutti i democratici la vedono così, come del resto neanche tutti i repubblicani e gli indipendenti. Ma in questo momento chi è davvero pronto a guardare realmente agli errori delle politiche Usa è una minoranza - per di più, una minoranza essa stessa senza un chiaro programma e certamente senza un forte leader politico che esprima una visione alternativa.
E così, che succederà? E’ probabile, ma non certo, che gli Stati Uniti saranno costretti a ritirarsi dall’Iraq prima delle elezioni presidenziali nel 2008. Inoltre è quasi certo che i repubblicani daranno ai democratici la colpa di aver “perso” la guerra, e i democratici diranno che non è così. Ma al di là dei soliti sproloqui politici, il ritiro arriverà come un profondo shock per il popolo americano, anche se una maggioranza non vedrà alternativa.
Tale ritiro andrà calato nel contesto delle guerre che gli Stati Uniti hanno combattuto dopo il 1945. La guerra di Corea e la prima guerra del Golfo finirono alla linea di partenza. In realtà nessuna delle due parti vinse. Per gli Stati Uniti la guerra più importante - in termini di impatto geopolitico, costo economico, e coinvolgimento emotivo del popolo americano - fu il Vietnam. E questa guerra, gli Stati Uniti la persero. Il risultato è stato una profonda divisione nel popolo americano - su “chi” perse la guerra, e se la guerra, avessero prevalso altre politiche, si sarebbe potuta “vincere”.
La cosiddetta sindrome del Vietnam non è mai guarita. Con gli attacchi dell’11 settembre 2001 vi fu un risveglio patriottico nel popolo americano, e il paese sembrò temporaneamente riunificato. Ma George Bush ha sperperato tutto questo, e nessun presidente democratico può riportarlo in vita. Prevedo che il ritiro dall’Iraq sarà ancora più traumatico della fuga da Saigon nel 1975. Due sconfitte saranno devastanti e anche convincenti quanto ai reali limiti della potenza degli Usa.
A quel punto in realtà ci saranno solo due possibilità.
Una è che si verifichi una sorta di profondo esame di coscienza che porti gli Stati Uniti a rivalutare l’immagine che hanno di sé, il loro senso di cosa è possibile nel sistema-mondo ora e in futuro, e in che sorta di valori credono davvero. Se ciò accadrà, forse delle forze nel partito democratico si faranno avanti per incarnare questa rivalutazione. O forse l’intera cornice politica degli Stati Uniti e dei suoi partiti cambierà per riflettere tale rivalutazione.
Ma naturalmente c’è una seconda possibilità: che la nazione sia sopraffatta da una profonda rabbia per la “perdita” della sua supremazia, cerchi dei capri espiatori (e li trovi), e alla fine si muova nella direzione di sventrare la Costituzione degli Usa e le libertà che presume di difendere. Qualcosa del genere accadde nella Germania di Weimar. Anche se la situazione sotto molti aspetti è diversa, e non sto prevedendo in alcun senso l’emergere di un partito nazista, comunque per gli Stati Uniti e per il mondo sarà un grave disastro se gli Usa si sposteranno in misura significativa in questa direzione.
E’ quello che gli Stati Uniti pensano di sé e fanno di sé che conta, non solo per gli Stati Uniti ma anche per il resto del mondo. Poiché un elefante ferito può effettivamente scatenarsi. D’altra parte, si può pensare a momenti nei quali un rude colpo del tipo che verrebbe inflitto dalla sconfitta in Iraq potrebbe avere l’effetto salutare di ravvivare il meglio della tradizione americana - quello di un popolo libertario e socialmente consapevole che ancora una volta accolga, nelle parole incise sulla Statua della Libertà, “le masse accalcate anelanti a respirare libere”. 2 novembre 2006
ELEZIONI DI MIDTERM IN USA
Rivoluzione conservatrice alla prova
di Barbara Spinelli (La Stampa, 5/11/2006)
DICONO i sondaggi negli Stati Uniti che l’elettore americano, questa volta, concentrerà tutta la propria malcontenta attenzione su Bush, sulla fallita missione in Iraq, e sulle migliaia di soldati fatti morire in una guerra sbagliata, mal preparata, condotta al tempo stesso con enorme passione e ancor più enorme sciatteria. Dicono che non è l’economia a preoccupare i votanti, ma lo stato di guerra permanente e inane in cui il Paese si trova a dover vivere da quando Bush è diventato capo dello Stato. Questo stato di guerra ha trovato il suo simbolico battesimo politico il giorno in cui il terrorismo colpì le Torri di New York, seminando morte e terrore in un popolo dichiarato nemico da Al Qaeda.
Ma se Bush colse subito quell’occasione per lanciare non una sola guerra di rappresaglia ma più guerre inutili e deleterie, è perché già prima dell’11 settembre l’arte della politica era stata contraffatta, divenendo arte non fondata sulla mediazione ma su insanabili conflitti e divisioni. Più precisamente, era diventata un’arte dove la cultura e la religione tornavano a coincidere con la politica e a monopolizzarla, mettendo fine all’autonomia laica che quest’ultima possiede in democrazia, quando le sue istituzioni sono forti. Finita la guerra fredda, si trattava di ricreare il nemico di cui le democrazie hanno esistenzialmente bisogno per far fronte alle avversità, e il nemico fu trovato dividendo il Paese tra chi era pronto a dar battaglia sui presunti valori smarriti e chi no, tra chi voleva anteporre la cultura e la religione alla politica e chi voleva tenerle da essa separate, così come son separate in Occidente e nella Costituzione Usa le Chiese.
La trasformazione dell’arte politica in guerra culturale era cominciata nel 1994, cinque anni dopo la sconfitta del comunismo, quando i repubblicani riconquistarono la Camera dei Rappresentanti e il Senato (da 40 anni i democratici dominavano la Camera, da 8 il Senato). Clinton era Presidente, a quel tempo, ma i repubblicani vinsero le elezioni di medio termine annunciando quella che doveva essere un’autentica rivoluzione, prolungatasi poi nella presidenza Bush. Il loro dominio sul Congresso è durato 12 anni, e in quest’intervallo molte cose sono cambiate negli Stati Uniti. È cambiata l’idea della guerra: non più fredda ma calda; non più limitata nel tempo ma dipinta come sterminata. È cambiato il rapporto tra esecutivo e legislativo, con l’esecutivo che ha accumulato immensi poteri mortificando il Congresso e le regole di diritto.
LA CROCIATA PER I VOTI I TEOLOGI PROGRESSISTI CONTRO LA DESTRA RELIGIOSA
Scandalo evangelico indebolisce Bush
Il reverendo Haggard, leader di 30 milioni di fedeli repubblicani, pagava un gigolò
di Maurizio Molinari (www.lastampa.it, 4/11/2006)
NEW YORK. Oppositore delle nozze gay, in prima linea nel promuovere i valori cristiani in America e spesso ospite alla Casa Bianca, il reverendo Ted Haggard è uno dei volti di spicco della destra religiosa in America. Ma è stato obbligato alle dimissioni dalle rivelazioni di stampa sul fatto di aver avuto negli ultimi tre anni un amante a pagamento. La notizia assomiglia ad un terremoto nella galassia delle Chiese evangeliche degli Usa perché Haggard è il leader della «New Life Church» del Colorado, che con 14 mila fedeli è una delle maggiori organizzazioni della «National Association of Evangelicals», che somma 30 milioni di aderenti. Lo scandalo a sfondo sessuale potrebbe avere conseguenze negative per i repubblicani a pochi giorni dalle elezioni per il rinnovo del Congresso in quanto Haggard è uno dei leader spirituali ai quali la Casa Bianca si è rivolta per «consulenze sul come promuovere la fede in America». Haggard ha tenuto delle conferenze a membri dello staff presidenziale su temi come l’aborto e le nozze gay. A ciò bisogna aggiungere che il Colorado - assieme ad altri sette Stati - voterà martedì per approvare un emendamento contro le nozze gay che proprio Haggard aveva sostenuto con molta energia.
Ad accusare il reverendo evangelico - sposato e padre di cinque figli - è Mike Jones, un 49enne di Denver, che ha pubblicamente confessato di aver ricevuto denaro negli ultimi tre anni in cambio di ogni sorta di prestazioni sessuali. «Voglio solo fare un passo indietro e far capire a tutti che siamo tutti peccatori, che ognuno di noi ha commesso degli errori», ha detto il prostituto, dichiarandosi quindi a favore delle nozze gay perché «non c’è niente di male se due di noi vogliono sposarsi e vivere assieme una vita civile». Jones assicura di non essere spinto da «motivi politici», ma di essere rimasto molto contrariato quando, durante uno degli incontri avuti, ha scoperto che chi lo pagava si opponeva fermamente alle nozze gay. «Mi sono sentito offeso perché in pubblico affermava una cosa e poi dietro le quinte faceva sesso con me», ha aggiunto Jones.
Gli incontri a luce rosse avvenivano almeno una volta al mese, venivano pagati da 100 a 200 dollari ed iniziarono nel 2003 attraverso un sito Internet dove venne contattato da un uomo che si faceva chiamare «Art», di cui scoprì la vera identità solo grazie alla tv. Jones ha aggiunto che il suo amante consumava metanfetamine per rendere più intenso il rapporto. Haggard, 50 anni, ha affidato ad un comunicato della mega-chiesa la smentita della relazione omosessuale, ammettendo però di aver acquistato da Jones la droga: «Ero tentato, ma non l’ho mai usata», ha detto. Ma di fronte all’impatto delle rivelazioni ha scelto le dimissioni, lasciando nello sconforto i fedeli con una decisione che potrebbe pesare nelle urne del Colorado - e non solo - proprio sull’approvazione dell’emendamento costituzionale contro le nozze gay proposto da George W. Bush.
Le polemiche all’interno delle comunità evangeliche sono una brutta notizia per i candidati repubblicani che proprio su questi voti contano per risalire nei sondaggi molto negativi. Con l’obiettivo di riguadagnare terreno è sceso in campo Bush, dando inizio ad una maratona nei collegi più a rischio. Nei prossimi quattro giorni visiterà almeno cinque Stati e ieri, parlando a Springfield in Missouri, ha lanciato un duro attacco ai democratici accusandoli di «non essere patriottici» e di non essere in grado di garantire la sicurezza nazionale se dovessero controllare il Congresso. «I democratici hanno votato contro le leggi che consentono di interrogare i terroristi, contro i programmi di intelligence per sorvegliare Al Qaeda e contro il Patriot Act» ha accusato Bush, sottolineando come tali scelte testimoniano che «non possiedono un piano per sconfiggere il terrorismo». «Se voi democratici avete in mente come battere Al Qaeda allora ditelo», ha aggiunto il presidente con tono irridente, imputando a leader come Nancy Pelosi di «limitarsi a criticare duramente ciò che decidiamo senza proporre alcuna valida alternativa».
Elezioni Usa, i neocon scaricano Bush
A tre giorni dalle elezioni di medio termine molti prendono le distanze
(www.lastampa.it, 4/11/2006).
ROMA. Quando mancano tre giorni alle elezioni di medio termine negli Stati Uniti, senvra esserci una corsa a prendere le distanze da George W. Bush e dalla sua amministrazione. Tre importanti esponenti «neocon» e le stesse Forze armate hanno duramente criticato il presidente e il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld per come hanno gestito la guerra in Iraq.
A fare platealmente marcia indietro rispetto alle posizioni favorevoli all’invasione espresse nel 2003 sono stati David Frum, un tempo estensore di discorsi per il presidente George W. Bush, il negoziatore del controllo sugli armamenti della presidenza Reagan, Kenneth Adelman, ma soprattutto il falco dei falchi Richard Perle. Intervistato da ’Vanity Fair’, Perle ha detto che con il senno di poi avrebbe detto no alla guerra e avrebbe proposto di pensare a un altro modo per rovesciare Saddam Hussein.
Anche le Forze armate hanno espresso grande preoccupazione per l’andamento della missione. Lunedì sui giornali delle quattro armi comparirà un articolo in cui si chiedono apertamente le dimissioni del capo del Pentagono. «È arrivato il momento che Rumsfeld se ne vada», è il titolo del pezzo. Il vicepresidente Dick Cheney, in un’intervista rilasciata alla «Abc», ha difeso l’operato dell’amministrazione. «Chiaramente ci sono stati dei problemi», ha ammesso Cheney, «ma la strategia di fondo è quella giusta» e una vittoria dei democratici martedì prossimo, ha avvertito, invierebbe alla guerriglia irachena il messaggio che la sua strategia sta pagando.
I dati positivi di ieri sul calo della disoccupazione negli Stati Uniti sono una boccata d’ossigeno per i repubblicani che ora sembrano decisi a puntare sui temi economici per tentare una difficile rimonta. Il primo a sfruttare l’onda è stato il presidente George W. Bush che ieri nel Missouri ha esaltato gli effetti della sua politica fiscale. «La gente lavora negli Stati Uniti, i tagli alle tasse hanno funzionato», ha detto.