Il coraggio di Prometeo e l’intolleranza di Zeus
Così Eschilo racconta il supplizio del titano
di Paola Casella (Corriere della Sera, 21.03.2012)
«Fu mia, quella scelta». In questa dichiarazione sta la singolarità della tragedia Prometeo incatenato, nella decisione cosciente e autonoma del suo protagonista di sfidare Zeus, prima rubandogli il fuoco per regalarlo agli uomini, poi rifiutandosi di rivelare al sovrano dell’Olimpo un’informazione sul suo futuro: «Io non dirò chi deve rovesciare Zeus dal suo potere».
Eppure quella rivelazione procurerebbe a Prometeo la libertà dal supplizio al quale Zeus l’ha costretto: incatenato a una roccia ai confini del mondo, con un’aquila che ogni giorno arriva, puntuale, a squarciargli le carni per divorargli il fegato. «Io non mi piegherò», ripete Prometeo, riaffermando quotidianamente la sua dignità di irriducibile. «Io sapevo questo, tutto questo», ribadisce colui il cui nome significa «presago». «Ho voluto il mio peccato: e non lo smentirò».
Eschilo costruisce il Prometeo incatenato, elemento di una trilogia i cui altri componenti, Prometeo portatore di fuoco e Prometeo liberato, sono andati in gran parte perduti, come l’espressione di una volontà libera, invece che come la realizzazione di un fato incontrovertibile e arbitrario.
L’autore struttura la tragedia attraverso la polarizzazione simmetrica di due personalità contrapposte: da una parte Zeus, intollerante a qualsiasi forma di dissenso, il despota che domina «oltre ogni legge»; dall’altra Prometeo, costituzionalmente incapace di accettare imposizioni dall’alto e sempre pronto a sfidare l’autorità, a qualunque costo: un martire che va incontro al suo destino con piena consapevolezza, rifiutando di «parlare» per ottenere la clemenza del dittatore.
La modernità di Prometeo sta nella sua valenza di campione dei sottoposti, tanto più eroico (e pericoloso) per via della sua appartenenza alla stirpe divina: è un titano, «cugino» di Zeus, che era figlio di Crono. La contrapposizione fra Zeus e Prometeo è ancora oggi di eccezionale forza drammaturgica, perché rappresenta l’eterno contrasto fra la volontà di dominio del potere e la determinazione dell’individuo a mantenere salva la propria dignità.
Non è un caso che la cultura popolare abbia spesso attinto al mito di Prometeo per rappresentare un certo tipo di eroismo iconoclasta e una certa aspirazione degli uomini a superare i propri limiti: da ultimo l’atteso kolossal fantascientifico di Ridley Scott, che si intitolerà proprio Prometheus.
Le arti figurative hanno rappresentato Prometeo nell’atto sia di donare il fuoco agli uomini, sia di subire il martirio che punisce il suo gesto.
Anche la musica, da Beethoven a Liszt, da Fauré a Nono, ha attinto a quel mito a piene mani, per non parlare della letteratura: non dimentichiamo che il titolo completo del romanzo di Mary Shelley, storia di uno scienziato che vuole farsi Dio «creando» un essere mostruoso, era Frankenstein, o il moderno Prometeo.
Ma se da un lato Eschilo fa del suo eroe un simbolo della ribellione a ogni autorità assoluta, dall’altro è abbastanza scaltro, drammaturgicamente parlando, da renderlo speculare a Zeus.
Oltre all’affetto, Eschilo evidenzia la condiscendenza di Prometeo verso gli uomini, «indifesi e muti come infanti» che, prima di lui, «avevano occhi e non vedevano». Ciò che maggiormente pesa al portatore di fuoco è la solitudine alla quale lo costringe il supplizio, e l’azione, in questa tragedia che vede il proprio eroe costretto all’immobilità, consiste esclusivamente nel viavai di una serie di interlocutori cui Prometeo può manifestare la propria sofferenza e il proprio sdegno: cui può raccontare di sé.
L’amor proprio di Prometeo, pericolosamente vicino a quella hybris cui la tragedia greca riserva sempre una punizione esemplare, diventerà dunque il «difetto fatale», e lo stratagemma drammaturgico, che consentirà a Eschilo di offrire, nel Prometeo liberato, una via d’uscita al reciproco incatenamento di Prometeo e Zeus.
L’intransigenza di entrambi i personaggi si stempererà per consentire la conciliazione, secondo un iter già preannunciato dallo stesso Prometeo nell’Incatenato, laddove, parlando di Zeus, dice: «Verrà incontro ansioso alla mia ansia, vorrà legarsi con me d’amicizia».
Proprio in questo anelito reciproco, nella sofferenza che causa ad entrambi il ritrovarsi su fronti opposti, sta infatti un’altra componente essenziale della tragedia: da una parte Zeus ingannato dal suo leale alleato, nonché membro della sua stessa stirpe; dall’altra Prometeo che vede tradito da Zeus il proprio senso profondo di giustizia, e per questo gli sottrae potere consegnandolo ai suoi sudditi «immeritevoli», noi uomini.
La spinta verso il progresso
Corriere della Sera, 21.03.2012
Uno dei paradigmi più antichi della lotta umana contro le forze ostili della natura e la tirannia del destino, è la figura del titano condannato da Zeus per aver rubato il fuoco. Il settimo volume della collana è appunto il Prometeo incatenato di Eschilo, che esce domani assieme al «Corriere» (al prezzo di un euro più il costo del quotidiano) con una introduzione inedita di Edoardo Boncinelli.
E lo sguardo del genetista, oltre a sottolineare la fortuna del personaggio nella storia, ad esempio tra i Romantici, vaglia il mito anche sotto una luce insolita, quella della spinta al progresso e del rapporto cultura-natura. Così Prometeo «incarna la nostra evoluzione culturale», scrive Boncinelli, rispetto «al secolare processo dell’evoluzione biologica che ci accomuna a tutte le altre specie viventi».
Non stupisce che il titano sia divenuto simbolo dell’aspirazione umana a sfidare la propria condizione: «Un dio, e dei più antichi - spiega Boncinelli - che riesce ad assurgere a simbolo dell’uomo», e lo fa nei toni drammatici e umani della tragedia eschilea. (i.b.)
L’inedito. Una riflessione di Mario Vegetti scomparso l’11 marzo sul mito greco che richiama il rapporto tra la scienza e la politica
Il dono di Prometeo non basta all’uomo. La potenza è veleno se manca la giustizia
di Mario Vegetti (Corriere della Sera, La Lettura, 18.03.2018)
Prometeo, figlio di Giapeto, eroe e semidio, discendeva dall’antica stirpe dei Titani. Verso di essa consumò il primo dei suoi molti tradimenti, dettati dal suo pensiero preveggente o tortuoso, come indica il nome (Prometeo, letteralmente, è colui che «comprende prima», pro-manthanei). Nella memorabile battaglia fra i Titani e i «nuovi dèi» guidati da Zeus, che grazie alla vittoria conquistarono il regno dell’Olimpo, Prometeo abbandonò i suoi fratelli e si schierò al fianco di Zeus. Ma l’alleanza con Zeus - verso la cui usurpazione nutre comunque rancore («nuovi signori governano l’Olimpo/ e con nuove leggi, al di fuori del Giusto, Zeus governa/ e annienta ora le potenze di un tempo», Eschilo, Prometeo incatenato, 149-51) - non è davvero il punto d’arrivo del disegno di Prometeo. Egli puntava piuttosto sulla nuova alleanza con l’ultimo arrivato sulla scena del mondo, il genere umano. Ma per questo occorreva compiere due passi. Il primo, spezzare l’amicizia fra uomini e dèi, e metterli in conflitto fra loro; il secondo, fornire agli uomini la potenza necessaria per sostenere il conflitto.
Il primo passo venne compiuto a Mekone. C’era allora commensalità fra uomini e dèi, che sedevano alla stessa tavola. Prometeo, maestro del banchetto, divise in due otri le parti di un grande bue. Nel primo, formato da una pelle nascosta nel ventre del bue, pose le parti migliori; nel secondo più attraente, di «bianco grasso», soltanto le ossa. Sfrontatamente, propose a Zeus la scelta fra i due otri dall’aspetto così ineguale. Che avesse fiutato o no l’inganno, Zeus finì per scegliere le ossa; abbandonò indignato il banchetto, e da allora finirono commensalità e amicizia fra uomini e dèi (Esiodo, Teogonia, 535-560).
Si trattava ora di fornire la potenza necessaria a far fronte alla loro solitudine. Prometeo non poteva che cominciare rubando a Zeus il fuoco, che egli nascondeva presso di sé, e donarlo agli uomini ai quali Zeus lo negava: il fuoco, padre della metallurgia e condizione per qualsiasi tecnica. Vedendo «fra gli uomini il bagliore lungisplendente del fuoco» ( Esiodo, Teogonia , 569), Zeus fu di nuovo preda dell’ira, e questa volta le sue punizioni non si fecero attendere.
Prometeo fu scortato fino al Caucaso dai due fedeli aiutanti di Zeus, Kratos e Bia, Forza e Violenza, e lì Efesto lo incatenò saldamente a una rupe: il suo supplizio consisteva in questo, che ogni giorno un’aquila gli rodeva il fegato, destinato ogni notte a ricrescere per fornire nuovo alimento al rapace. Quanto agli uomini, un beffardo Zeus ordinò a Efesto di forgiare una «bella e amabile figura di vergine», ad Atena di insegnarle l’arte della tessitura, ad Afrodite di effonderle «grazia intorno alla fronte e desiderio tremendo»; finalmente, una volta riccamente adornata da Atena, venne inviata presso gli uomini Pandora, madre di ogni male (Esiodo,Opere e giorni, 60-95): «Di lei infatti è la stirpe nefasta e la razza delle donne,/ che, sciagura grande per i mortali, fra gli uomini hanno dimora» (Esiodo, Teogonia, 591-2).
Ma lasciamo gli uomini intenti per ora a rallegrarsi per il bel dono di Zeus, e torniamo sulle vette del Caucaso. Qui il vecchio Titano incatenato non cessa di rievocare i suoi doni al genere umano, seguiti a quello basilare del fuoco. «Prima, avevano occhi e non vedevano, orecchie e non sentivano, ma come le immagini dei sogni vivevano confusamente una vita lunga, inconsapevole. Non sapevano costruire edifici, case all’aperto, non sapevano lavorare il legno: abitavano sottoterra, come brulicanti formiche, in caverne profonde, senza la luce del sole... Facevano tutto senza coscienza finché insegnai loro a distinguere il sorgere e il tramontare degli astri, e poi il numero, principio di ogni sapere, per loro inventai, e le lettere e la scrittura, memoria di tutto, madre feconda della poesia... Io e nessun altro inventai la nave, il cocchio marino dalle ali di lino... Se uno si ammalava non aveva alcun rimedio, né cibo, né unguento o pozione. Si consumavano così, senza farmaci, finché io non insegnai loro a miscelare medicamenti curativi per scacciare tutte le malattie». Prometeo insegna poi agli uomini l’arte della divinazione, e la scoperta dei metalli nascosti nelle viscere della terra (Eschilo, Prometeo incatenato, 447-506).
Nelle sue parole, nel suo modo di concepire il ruolo delle tecniche, il programma di Prometeo sembra così giunto a compimento: egli ha concesso agli uomini tutta la potenza necessaria a misurarsi con gli dèi. Padrone delle tecniche e dei grandi saperi del numero, della scrittura, degli astri: questa è dunque l’immagine dell’«uomo prometeico» visto con gli occhi del suo creatore.
Più inquietante è lo sguardo «umano», in qualche misura esterno, sullo stesso «uomo prometeico», quale ci viene proposto dal Coro della tragedia Antigone di Sofocle. Una sorta di sforzo di autoconsapevolezza, dunque: che cosa siamo diventati? (qui l’uomo appare ormai autodidatta, benché non sia lontana la lezione di Prometeo).
L’uomo si avverte come «terribile», anzi come la cosa più terribile (deinos: l’aggettivo vale però anche «abile», potente). Infatti è capace di attraversare il mare, di lavorare la terra, di catturare gli animali selvatici e di addomesticare quelli da lavoro. «Capisce, inventa, ha sulle arti dominio oltre l’attesa»: lo sguardo di Prometeo non si sarebbe spinto oltre questa temibile immagine dell’uomo tecnologico. Quello «umano» del coro sofocleo invece ne coglie una linea di frattura, segno di un’incertezza o un cedimento possibili. Aggiunge infatti: «Ora al bene, ora al male serpeggiando volge. Se del Paese le leggi applica e la giustizia degli dèi... in alto sarà nella patria» (Sofocle, Antigone, 331-371). Bene, male, leggi, giustizia: si profila qui una dimensione del tutto estranea all’uomo prometeico, che il vecchio Titano non aveva certamente attrezzato a fronteggiarla.
Una chiara traduzione in termini concettuali di tutto questo è nel cosiddetto «mito di Protagora», che il sofista racconta nel dialogo di Platone a lui intitolato, e che molto probabilmente si ispira a tesi dello stesso sofista. Lo scenario è un poco cambiato rispetto a quello che ci è familiare: Prometeo non è ancora sul Caucaso e resta amico degli uomini, verso i quali del resto lo stesso Zeus ora si dimostra benevolo. Non sono però cambiati i ruoli principali.
Si tratta di distribuire le dotazioni necessarie alla sopravvivenza fra i diversi animali. Lo sbadato Epimeteo, fratello di Prometeo, assegna a ogni animale mezzi di offesa e di difesa, dimenticando però l’uomo, che rimane così nuda vittima delle fiere. Prometeo decide allora di intervenire a difesa del genere umano, e lo fa come gli è consueto: «Ruba a Efesto e Atena la loro sapienza tecnica insieme col fuoco... e la dona all’uomo. In tal modo, l’uomo ebbe la sapienza tecnica necessaria per la vita, ma non ebbe la sapienza politica, perché questa si trovava presso Zeus». -Ma è qui che i doni di Prometeo rivelano tutta la loro insufficienza, che già era emersa in Sofocle - e la manifestano anche in termini di pura potenza. Per far fronte alle fiere, gli uomini cercano di riunirsi fondando città; «ma, allorché si raccoglievano insieme, si recavano ingiustizia a vicenda, perché non possedevano l’arte politica, sicché, disperdendosi, nuovamente perivano» (Platone, Protagora, 321d-322b).
Per evitare la strage, Zeus interviene ordinando a Ermes di distribuire a tutti gli uomini le doti del rispetto reciproco e della giustizia (aidos e dike), «principi ordinatori di città e vincoli produttori di amicizia» (Platone, Protagora, 322c).
L’uomo prometeico, forte solo del controllo delle tecniche, non può vivere in una comunità politica: per questo, occorrono inoltre la condivisione di un orizzonte di valori etico-politici, la giustizia, la legge, l’educazione collettiva. Propriamente parlando, non può neppure combattere, perché «l’arte della guerra è parte di quella politica» (Platone, Protagora, 522b), che egli non possiede, perché essa è inaccessibile a Prometeo. Si è spesso interpretato il mito di Protagora come risposta alle antropologie tecniciste dell’ homo oeconomicus alla maniera di Democrito, dalle quali sembrava risultare che la collaborazione fra le diverse competenze tecniche fosse in grado di formare e guidare la città. Senza dubbio, il mito si oppone inoltre alla pressione crescente di un ceto di technitai che si candidano a governare la città, tendendo a marginalizzare la dimensione politica e i suoi specialisti come i sofisti. Non c’è polis , invece, senza un sistema di norme di giustizia condivise, senza le istanze decisionali proprie della politica, infine senza un’educazione pubblica intesa a consolidare i vincoli comunitari.
Ma torniamo nel Caucaso, dal vecchio Titano, certo inconsapevole dei limiti etico-politici dei doni tecnologici che aveva elargito al genere umano: l’impotenza della forza senza politica, l’incapacità di integrare efficacia e moralità. La sua pena non sarebbe durata indefinitamente (a differenza di quella femminile comminata agli uomini). Prometeo era infatti depositario di un formidabile segreto, da cui dipendeva la sopravvivenza stessa del regno di Zeus - che si vide costretto a liberarlo, nel timore che il Titano lo rivelasse a orecchie ostili, e al contrario nella speranza di venirne a conoscenza.
Noi non possiamo conoscere il segreto di Prometeo, sul quale sono fiorite molte ipotesi. A me piacerebbe pensare che il vero, devastante, segreto di Prometeo fosse quello rivelato da Socrate - il Socrate di Aristofane, beninteso, non quello benpensante di Senofonte e di Platone - nella commedia Le nuvole:
Certo, il «segreto» più efficace per por fine al potere di Zeus.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Frutto della scienza non della magia
Duecento anni fa veniva pubblicato «Frankenstein, o il moderno Prometeo». La forza del capolavoro di Mary Shelley sta nella sua ambiguità, nel suo prestarsi a interpretazioni diverse. Considerato il primo romanzo di fantascienza, è però dotato di atmosfere gotiche, e effetti visionari. L’autrice concepì la sua mostruosa creatura a diciannove anni, tra il 1816 e il 1817
di Andrea Colombo (il manifesto, 16.11.2017)
Quando Lord Byron, assediato con quattro amici dal maltempo e dalla noia in una villa sul lago di Ginevra, sfidò tutti a inventare una storia gotica non immaginava probabilmente che quel gioco letterario avrebbe aperto la strada a un filone del tutto inedito nella letteratura fantastica. Un fiume destinato a gonfiarsi nei decenni fino a sfociare con Blade Runner nella battuta forse più citata del cinema moderno, «Ho visto cose che voi umani...», passando per i robot di Asimov e gli androidi di Dick. Ancora meno avrebbe supposto che ad aprire quella nuova strada sarebbe stata la giovanissima Mary Wollstonecraft Godwin, amante e futura sposa di Percy Shelley.
SEBBENE APPENA diciannovenne Mary non era del tutto alle prime armi con la penna. Figlia di una pioniera del femminismo morta poco dopo il parto e del filosofo William Godwin, era cresciuta in una casa dove capitava che Samuel Coleridge leggesse agli ospiti, prima di darlo alle stampe, il manoscritto della Ballata del vecchio marinaio. Mary scriveva compulsivamente novelle e racconti sin da bambina, anche se quasi tutti i manoscritti precedenti Frankenstein sono andati perduti. Nei circoli letterari che frequentavano casa Godwin aveva conosciuto a diciassette anni il poeta Percy Shelley e i due erano fuggiti insieme, girando senza un soldo in tasca mezza Europa e portandosi dietro la sorellastra di Mary, Claire, destinata a impigliarsi di lì a poco in una tempestosa relazione con lord Byron.
Nel 1816 i tre si ritrovarono sul lago di Ginevra con lo stesso Byron e il suo medico personale, lo scrittore John Polidori. Costretti in casa dalla pioggia, ammazzavano il tempo discutendo di filosofia e leggendo storie gotiche. L’idea della tenebrosa sfida letteraria venne in mente a Byron proprio in seguito a quelle letture, ma nel suo capolavoro Mary fece scivolare anche i discorsi di quei giorni, che vertevano essenzialmente sulle potenzialità della scienza e in particolare sulla possibilità di scoprire, come ricorda l’autrice nella prefazione del 1831 al libro sino a quel momento attribuito ingiustamente al celebre marito, «la natura del principio della vita e la possibilità di scoprirlo e divulgarlo».
IL GOTICO ANDAVA forte all’epoca, le storie spettrali di Ann Radcliffe e William Beckford incatenavano migliaia di lettori. La giovane Mary adoperò le stesse atmosfere cupe e ombrose, superando i maestri nell’effetto orripilante. Però, per mettere a punto il suo mostro non setacciò il sovrannaturale. Inventò, per la prima volta nella storia dell’immaginario gotico, un essere creato dall’uomo, in particolare dal giovane e geniale dottor Victor Frankenstein. Il mostro era un prodotto della scienza, non della magia. Per questo Frankenstein ossia il moderno Prometeo, è considerato non a torto il primo romanzo di fantascienza. Gotiche e spettrali sono però le atmosfere e gli effetti visionari, in un intreccio di generi che a prima vista apparenta il Mostro più alle tribù degli spettri e dei vampiri che non a quella dei cyborg e dei robot, della quale è invece il capostipite.
La Creatura aveva poco a che vedere con l’automa lento e inarticolato che oggi viene richiamato alla mente dal solo nome «Frankenstein». Era brutto, anzi ripugnante oltre misura, come la scrittrice si perita di far ripetere innumerevoli volte dal creatore stesso dell’essere senza nome. Ma era anche velocissimo, straordinariamente forte, capace di adattarsi a ogni clima come di arrampicarsi a mani nude sulle Alpi. Era anche dotato di eccezionale intelligenza e sensibilità delicata. La mostruosità della Creatura del dottor Frankenstein è in prima battuta solo fisica. È la sua bruttezza a respingere sin dal primo sguardo lo scienziato che gli ha dato la vita e a rendere poi ostile chiunque posi gli occhi sulle sue scostanti fattezze, persino quando il Mostro salva una bambina in procinto di annegare.
LA CREATURA CEDE all’odio e al desiderio di vendetta solo dopo essere stata violentemente rifiutato dal mondo e in particolare da quello che è a tutti gli effetti «suo padre». Se di Mostro bisogna parlare, quello è proprio lo scienziato. Abbandona la sua creatura un attimo dopo averle dato la vita e poi, senza nemmeno preoccuparsi di verificare quale sia la natura dell’essere che ha messo al mondo, si dimentica della sua esistenza per mesi. Tradisce la solenne promessa di alleviare il peso della sua estrema solitudine dotandolo di una compagna, pur sapendo che così esporrà a rischi mortali tutti quelli a cui vuole bene.
Quando il Mostro tradito promette di punirlo «nella prima notte di nozze», il dotto immagina che sia lui in pericolo e non anche la sposa, nonostante il vendicativo essere abbia già dimostrato di volerlo colpire negli affetti strangolando suo fratello e il suo miglior amico come farà poi con la moglie appena impalmata. Difficile immaginare un creatore più sordo e impermeabile alla sofferenza dell’essere che ha portato al mondo ma anche al pericolo che fa correre a chiunque ami.
Il dolore e la furia della Creatura di Frankenstein sono certamente il riflesso della rivolta contro una divinità indifferente alla sorte delle sue creazioni, o peggio ostile, tanto più che questo tema era centrale nella riflessione filosofica di Percy Shelley. Ma l’enigma non riguarda la reazione sanguinaria del Mostro. Misterioso e inspiegato è invece il rifiuto immediato e insanabile dello scienziato nei confronti del frutto del suo lavoro. La corazza di Victor Frankenstein viene incrinata da una ventata di empatia e compassione solo per un fugace attimo, subito rinnegato. Sembra evidente che la repulsione del Creatore nei confronti del proprio stesso parto sia il rifiuto inorridito di fronte a una parte di se stesso: dunque non è forse dovuto solo a distrazione l’equivoco abituale per cui siamo tutti abituati a chiamare «Frankenstein» la Creatura senza nome invece che lo scienziato.
L’assonanza tra il rapporto vizioso che vincola Victor Frankenstein al suo Mostro e lo «strano caso» che Robert Louis Stevenson avrebbe illustrato esattamente settant’anni più tardi, quello del dottor Jekyll e mr. Hyde, è stata più volte segnalata. La sensibilità della Creatura è affine a quella dello scienziato, la straordinaria intelligenza li accomuna, persino la passione per la montagna è la stessa. Il Mostro è una parte di Frankenstein, priva però della voluttuosa e feroce amoralità di Hyde. Al contrario è tormentato dai sensi di colpa proprio come l’inventore: i due sono avvinghiati in un rapporto funesto e fatale di reciproca dipendenza.
FORSE CIÒ CHE FRANKENSTEIN vede riflesso nella Creatura e che lo inorridisce è semplicemente un se stesso depurato non dalle pastoie della morale, come nel caso di Jekyll e Hyde, ma dai legacci imposti dai rapporti sociali e affettivi, delle buone maniere, dai buoni sentimenti: un essere che vanta le sue stesse doti e i suoi stessi difetti ma amplificati in forma estrema e molto più violenta, un Frankenstein tanto drastico quanto lui è irresoluto e titubante. Il replicante desta nel modello originale paura e repellenza ma forse anche inconfessata invidia, se è vero che il dottore giustifica la decisione di non rispettare la promessa di costruire una compagna per il Mostro con il terrore di una super-razza destinata a rimpiazzare quella umana.
La forza del capolavoro di Mary Shelley è proprio nella sua ambiguità: in una capacità di prestarsi a interpretazioni diverse e opposte modificando il punto di vista dovuta probabilmente alla padronanza non ancora piena, per fortuna, dell’autrice sul testo. Negli anni successivi Mary Shelley avrebbe pubblicato altri libri, con padronanza e consapevolezza molto maggiori e tuttavia senza mai sfiorare il risultato raggiunto con quel libro buttato giù in pochi giorni e poi revisionato solo marginalmente.