Dalla democrazia della volontà "generale" alla democrazia della volontà "di genere": una nota su "I Promessi Sposi"
di Federico La Sala ***
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Il primo che, dopo aver recintato un terreno, pensò di dire questo è mio, e trovò altri tanto ingenui da credergli, fu il fondatore della "società civile"... Quando Alessandro Manzoni intraprende la sua “guerra illustre contro il tempo”, le opere e le riflessioni di J.-J. Rousseau sull’origine della disuguaglianza (1754), su Giulia o la nuova Eloisa (1761), sul Contratto sociale (1762), su Emilio (1762), e su Emilio e Sofia o I Solitari (1762-1765), sono certamente nell’orizzonte dei suoi pensieri. La sequenza dei titoli scelti per il suo romanzo storico vi allude esplicitamente: Fermo e Lucia, Gli sposi promessi, I Promessi Sposi (1825-1827). E il problema, che in esso egli affronta e tenta di risolvere, non è molto diverso da quello già affrontato da Rousseau con le figure di Emilio e Sofia e, sulla sua scia, da Pestalozzi con le figure di Leonardo e Gertrude (1781): come uscire dalla vecchia società e dalla vecchia storia segnata dalla Legge della proprietà e della violenza e dare vita a una nuova società e a una nuova storia.
La consonanza profonda sta nel fatto che Rousseau ha colto l’immane portata e la lunga durata del fenomeno delle recinzioni delle terre (enclosures) e Manzoni quella della connessa legge del maggiorasco (o della primogenitura) su tutto l’ordine sociale e, al contempo, che entrambi guardano a una possibile trasformazione della società a partire da una nuovo matrimonio; e, ancora, che l’uno ha scritto la Professione di fede del Vicario Savoiardo (Emilio, L. IV) e l’altro le Osservazioni sulla morale cattolica.
In un’Europa dominata dallo spirito della Restaurazione e dalla Santa Alleanza, ove da poco Hegel ha cantato le glorie del maggiorasco (i Lineamenti di filosofia del diritto sono del 1820-21) e Marx è ancora un bambino (la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico è del 1833), egli ne comprende tutta la portata strutturale nell’articolazione della società e ne denuncia tutte le trasversali e devastanti conseguenze.
Le pagine del romanzo dedicate alla monaca di Monza (“noi crediam più opportuno di raccontar brevemente la storia antecedente di questa infelice; quel tanto cioè che basti a render ragione dell’insolito e del misterioso che abbiam veduto in lei, e a far comprendere i motivi della sua condotta, in quello che avvenne dopo”), spesso e per lo più sottovalutate, di questo trattano e, da questo punto di vista, forniscono un’importante chiave di lettura dell’intera opera, e dell’implicito progetto politico ad essa affidata dall’Autore, e ancora, al di là di questo, l’indicazione di guardare all’insieme del processo di produzione sociale, senza appiattimenti né riduzionismi, dal basso all’alto e dall’alto al basso come dall’esterno all’interno e dall’interno all’esterno.
I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi (I promessi sposi, II)
La sposina (così si chiamavano la giovani monacande, e Gertrude, al suo apparire, fu da tutti salutata con quel nome):
“Essa era l’ultima figlia del principe***, gran gentiluomo milanese, che poteva contarsi tra i più doviziosi della città [...] Quanti figliuoli avesse, la storia non lo dice espressamente: fa solamente intendere che aveva destinati al chiostro tutti i cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare intatta la sostanza del primogenito, destinato a conservar la famiglia, a procrear figliuoli, per tormentarsi e tormentarli nella stessa maniera. La nostra infelice era ancora nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe stato un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno, non il suo consenso, ma la sua presenza. Quando venne alla luce il principe, suo padre, volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro [...], la chiamò Gertrude. Bambole vestite da monache furono i primi balocchi che le si diedero in mano; poi santini che rappresentavan monache; e que’ regali eran sempre accompagnati con gran raccomandazioni di tenerli ben di conto, come cosa preziosa, e con quell’interrogare affermativo: bello eh?.
Quando il principe o la principessa o il principino, volevan lodar l’aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovasser modo di esprimer bene la loro idea, se non con le parole: che madre badessa! Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era un’idea sottintesa e toccata incidentemente, in ogni discorso che riguardasse i suoi destini futuri. Se qualche volta la Gertrudina trascorreva a qualche atto un po’ arrogante e imperioso, al che la sua indole la portava molto facilmente, tu sei una ragazzina le si diceva: queste maniere non ti convengono: quando sarai madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso. Qualche altra volta il principe, riprendendola di cert’altre maniere troppo libere e famigliari alle quali essa trascorreva con uguale facilità, ehi! ehi! le diceva, non è questo il fare d’una par tua: se vuoi che un giorno ti si porti il rispetto che ti sarà dovuto, impara fin d’ora a star sopra di te: ricordati che tu devi essere, in ogni cosa, la prima del monastero, perché il sangue si porta per tutto dove si va.
Tutte le parole di questo genere stampavano nel cervello della fanciullina l’idea che già lei dovesse esser monaca: ma quelle che venivan dalla bocca del padre, facevan più effetto di tutte le altre insieme. Il contegno del principe era abitualmente quello di un padrone austero, ma quando si trattava dello stato futuro dei suoi figli, dal suo volto e da ogni sua parola traspariva una immobilità ed una risoluzione, un’ombrosa gelosia di comando, che imprimeva il sentimento di una necessità fatale” (IX).
La logica della proprietà (maggiorasco) domina ferocemente sull’intera rete delle relazioni umane, dalla famiglia allo Stato e dallo Stato alla famiglia (comprese le istituzioni ecclesiastiche): il caso di Gertrude è paradigmatico. Nel travaglio del seicento la monacazione forzata delle donne e degli uomini era la soluzione più adottata dalle famiglie dell’élite dominante per salvaguardare la propria posizione economico-sociale e politica. Manzoni ne coglie la portata, ne denuncia gli effetti e cerca di trovare una via d’uscita nella stessa direzione di Rousseau, vale a dire, verso “una forma di associazione che con tutta la forza difenda e protegga la persona e i beni di ogni associato, e mediante la quale ciascuno, unendosi a tutti, obbedisca tuttavia soltanto a se stesso, e resti non meno libero di prima”.
Per rendere chiara la sua presa di distanza dalle regole della società feudale e per schierarsi - con radicale e liberale chiarezza - a fianco (e al di là) della nascente società borghese, non a caso Manzoni apre la grande parentesi sulla storia di Gertrude: nell’economia del romanzo essa serve proprio ad illustrare e a contrapporre tutta la diversità dell’orizzonte sociale e politico a cui rinvia la logica del matrimonio delle due protagoniste, Gertrude e Lucia. Il matrimonio spirituale dell’una è dentro il solco del passato ed è il frutto del successo del padre-principe che, con l’aiuto della alleata Chiesa, riesce a piegare la volontà di Gertrude e a sacrificarla (“non potendo altro che di non esser sacrificata”) sull’altare della proprietà e della propria posizione sociale e politica; il matrimonio terreno dall’altra, invece, è il frutto della difficile vittoria, riportata sul categorico divieto di Don Rodrigo a Don Abbondio (“questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai”), dell’alleanza dei nuovi ceti popolari e borghesi e di una Chiesa più coraggiosa nei confronti delle trasformazioni storico-sociali e più coerente con le sue idee.
Manzoni, in fondo, nel modo in cui avvicina e tratteggia le due figure, sembra difendere e sognare di più e altro: un rapporto economico-sociale, politico e familiare in cui la contemplativa Lucia e l’attiva Geltrude e, con loro, tutte le donne, possano godere - insieme a tutti gli uomini - dei propri diritti e vivere la propria vita in piena autonomia e libertà.
In ogni caso, l’esame della vicenda della monaca di Monza “alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue” una società basata sulla proprietà e sul maggiorasco e mostra di essere, senza alcun dubbio, un contributo critico di altissimo livello, degno di stare a fianco del Discorso sull’origine della disuguaglianza di Rousseau e della cosiddetta “accumulazione originaria” del Capitale di Marx (ma anche, se si vuole, della Psicologia di massa del fascismo di W.Reich o dei lavori della scuola di Francoforte e di Foucault). E mostra a noi, ancora oggi, quanto sia difficile uscire non solo dalla logica delle recinzioni ma anche dalla logica (ancora e nonostante tutto, teoreticamente platonica e storicamente borghese) della "volontà generale" (Rousseau) e incamminarci su quella strada della "volontà di genere" (Gattungswille) e della democrazia (“l’enigma risolto di tutte le costituzioni”), già intuita (ma poi perduta) da Marx*.
Si tratta sì di essere radicali, di andare alla radice, ma la radice non è l’uomo, né - come si vorrebbe (confondendo le acque e negando ancora il bambino o la bambina) - la moltitudine: la radice è la relazione dell’uomo e della donna (e la nascita di tutti gli uomini e di tutte le donne, dalla donna). Ora i soggetti sono due, e tutto è da ripensare**.
* Sul problema, si cfr. F. La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 190-197 (cap. IV. La fanciulla straniera e la civetta hegeliana).
** Su questo, si cfr. F. La Sala, L’enigma della sfinge e il segreto della piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria, Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 2001.
Nota bibliografica:
T. Moro, Utopia, Laterza, Bari, 1991.
J.-J. Rousseau, Opere, Sansoni, Firenze, 1972.
G. W.F.Hegel, Lineamenti di Filosofia del Diritto, Laterza, Bari, 1971.
A. Manzoni, I Promessi Sposi, Le Monnier, Firenze, 1978.
K. Marx, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma, 1969.
K. Marx, Critica del diritto statuale hegeliano, a c. di Finelli-Trincia, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1973.
K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma, 1970.
W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, Edizioni Sugar, Milano, 1971.
M. Horkheimer - T.W. Adorno (a c. di), Lezioni di sociologia, Einaudi, Torino, 1969.
M. Horkheimer e altri, Studi sull’autorità e la famiglia, UTET, Torino, 1973.
M. Shatzmann, La famiglia che uccide, Feltrinelli, Milano, 1973.
M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, 1976.
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www.ildialogo.org/filosofia, Martedì, 13 maggio 2003
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Sulla "alleanza edipica": DONNE, (il partito di) ITALIA, e (il partito ‘cattolico’ di) DIO
USCIAMO DAL SILENZIO. UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE
A PARTIRE DAL PRESENTE .... UNA CHIAVE PER CAPIRE LA CONFUSIONE IDEOLOGICA E SPIRITUALE (OLTRE CHE LA DERIVA NAZISTOIDE) DELLA "FAMIGLIA" VATICANA. Avendo buttato a mare tutta la tradizione critica e cristiana, i "cattolici" confondono (livello "storico" e livello "logico" e - in piena notte "edipica" - vogliono riportare direttamente l’ intera famiglia umana ... alla preistoria!!! (fls)
Se la famiglia risale alla preistoria
di Fiorenzo Facchini (Avvenire. 17.03.2007)
Nel dibattito in corso sulla famiglia si registrano proposte di legge relative a nuove forme di aggregato o surrogato familiare. C’è chi ha scritto che la famiglia sarebbe una invenzione del cristianesimo. C’è perfino chi ritiene superata la finalità procreativa della coppia prospettando la possibilità di separare procreazione e sessualità mediante le biotecnologie. Sono posizioni tipicamente ideologiche in cui si dimenticano le esigenze squisitamente antropologiche che fondano la famiglia e sono alla base dello sviluppo e del successo della specie umana.
Frugando nelle pieghe del passato si può cercare se e quale possa essere stato il ruolo della famiglia presso i nostri antenati, soprattutto quale famiglia potessero avere. Non mancano documenti su sepolture di madre e bambino, come attesta la più antica sepoltura, datata a 90.000 anni fa e trovata a Qafzè (Israele). Assai interessante la sepoltura (familiare?) di Sungir (Russia, 28.000 anni fa) con un anziano, una donna e due ragazzi. Il tema della sessualità e della coppia emerge con grande evidenza nelle incisioni rupestri della Val Camonica, e si ritrova anche nei petroglifi dell’Asia centrale.
Ma quale poteva essere il modello familiare nelle prime forme umane? Vari argomenti suggeriscono un’organizzazione basata su un nucleo familiare stabile, imperniato sulla coppia.
Lo richiedeva la stessa condizione umana. La prole, generata in uno stato di immaturità, comporta un periodo molto più lungo di crescita, documentato anche dagli studi sulla crescita dei denti in reperti preistorici, rispetto ai primati non umani e fonda duraturi rapporti parentali e di coppia. Il periodo di dipendenza dai genitori assume un significato educativo e consente l’apprendimento per quei comportamenti tipicamente bioculturali, come il bipedismo, il linguaggio e l’uso delle mani nella tecnologia. Viene ammessa una diversificazione di compiti per l’uomo e la donna, il primo impegnato per la caccia, la seconda per la cura della prole, ma anche nella raccolta di cibo nelle vicinanze della base familiare.
Tutto ciò porta a escludere la promiscuità o modelli simili a quelli dei Primati attuali. Isaac sostiene l’ipotesi di una sussistenza duale reciproca richiesta dalla strategie di caccia e raccolta. Lovejoy, che ha studiato il comportamento sociale degli Ominidi, pone l’accento su relazioni stabili tra individui dei due sessi. Secondo questo autore il comportamento riproduttivo legato a in gruppo bifocale, cioè a una coppia monogama, doveva costituire la forma nucleare primitiva di aggregato familiare che sostituì il modello matrifocale degli scimpanzè.
Anche secondo Quiatt e Kelso con l’ominizzazione si ha un passaggio a un’economia duale reciproca a carattere stabile, con legami intrafamiliari non soltanto per l’allevamento della prole, ma anche per possibili ruoli secondari all’interno della famiglia (nonni, zii) in ordine all’acquisizione e trasmissione di aspetti culturali.
L’aggregato familiare consente una intensa prolungata cooperazione parentale, specialmente nell’allevamento della prole. Reali esigenze di carattere biologico ed educativo fondano la famiglia, primo ambito della inculturazione, facendole assumere anche sul piano adattativo un ruolo fondamentale per il successo per la specie umana.
Contro il gregge ribelle il pugno di ferro del pastore
Sui temi della famiglia la chiesa sferra un attacco all’autonomia concordataria dello stato e ai suoi caratteri laici. Questa spinta si incontra con l’altra, proveniente dalla sfera politica, che mira alla iperregolamentazione della vita dei singoli individui Anticlericali al bando Indimostrato o smentito, impera tuttavia il dogma della religiosità popolare
di Marco Bascetta (il manifesto, 28.02.2007)
Vi sono parole, idee, tradizioni di pensiero che, in determinate stagioni, vengono universalmente bandite dalla politica, private di ogni legittimità e additate al pubblico disprezzo. Una di queste è oggi «anticlericalismo». Non vi è esponente politico, per quanto impegnato nel contrastare le crescenti ingerenze della chiesa nella vita politica e istituzionale del paese, che non si preoccupi, prima di tutto, di allontanare sdegnato da sé anche solo il più flebile sospetto di anticlericalismo. Di un atteggiamento, cioè, universalmente giudicato come ciarpame d’altri tempi, come ideologia rozza e ingenua, irrispettosa della sensibilità popolare, quando non compromessa con una certa corruzione morale borghese. Primi tra tutti, i partiti di massa della sinistra, che, sottolineando appunto questi ultimi due aspetti, hanno sempre tenuto a smentire la benché minima inclinazione anticlericale.
Una debole laicità
Il dogma della «religiosità popolare», del tutto indimostrato quando non smentito (per quel poco che valgono) dalle statistiche, torna a dominare - sospinto e ingigantito da una alluvione mediatica - la postmodernità. Più volte nel corso degli ultimi anni, politici e intellettuali della sinistra, nonché diverse organizzazioni ed esponenti del movimento altermondialista hanno accreditato esternazioni pontificie e prese di posizione ecclesiastiche come modello contemporaneo di buon anticapitalismo, non inquinato dalle pratiche brutali del secolo passato. Della laicità stessa si tende a parlare soprattutto come di una tutela della pluralità delle fedi. Come di un quadro formale destinato a svolgere una funzione di puro e semplice garantismo a favore della libertà di culto. Resta così sottointeso che il pensiero laico e le istituzioni che ne discendono non devono e non possono entrare in attrito con nessuna fede, né tenere al riparo alcuna sfera sostanziale dal tribunale dei valori religiosi, pena la caduta nel deprecato anticlericalismo.
Ma il rifiuto dell’anticlericalismo, così come la fascinazione per l’anticapitalismo curiale, occultano un elemento che, all’inizio del secolo passato e per tutto il diciannovesimo, era appartenuto al più diffuso senso comune. E cioè la banale constatazione che la democrazia e la chiesa non solo sono due cose diverse, ma sono sempre in contraddizione e sovente in conflitto. L’una essendo fondata sulla sovranità popolare, sulla volontà dei cittadini, l’altra su una organizzazione gerarchica, custode di una verità rivelata. L’una su un principio elettivo, l’altra su un principio pastorale. E mai si è visto un gregge chiamato a deliberare sulla propria condotta.
Contraddizioni occultate
Lo stesso principio di uguaglianza, che sembra accomunare cristianesimo e socialismo, è nell’un caso inscritto nel quadro patriarcale del potere pastorale, nel secondo, malauguratamente solo in teoria, in un progetto di autogoverno. Il che comporta, comunque sia, una certa differenza. Su questo conflitto tra chiesa e democrazia la letteratura filosofica e politica è talmente vasta da lasciare solo l’imbarazzo della scelta. Ciò che invece sorprende è la totale sparizione del tema dal dibattito attuale.Tuttavia, questa contraddizione è apertamente dichiarata da parte della chiesa, mentre viene ripetutamente occultata dal ceto politico italiano, che ossessivamente si trincera dietro la libertà di espressione dei vertici ecclesiastici, mai messa del resto in discussione da nessuno. Il problema non è infatti la libertà di espressione o la denuncia dell’«ingerenza» vaticana nella sfera politica, ma la necessità di riportare all’attenzione dell’opinione pubblica il discorso sui caratteri costitutivamente antidemocratici dell’ideologia e della pratica ecclesiastica. E questo è il punto dell’anticlericalismo, la sua ragione, la sua «attualità».
Ma vediamo più da vicino quale è la posizione della chiesa sulla democrazia. Quella più semplificata e netta, destinata al grande pubblico e alla propaganda. Alla voce «democrazia» il Dizionario di dottrina sociale della chiesa (2005) curato dal «pontificio consiglio della giustizia e della pace» propone la seguente suddivisione: «1) in senso generico significa la partecipazione dei cittadini nella gestione degli affari pubblici: la Chiesa ha sempre incoraggiato tale partecipazione. 2) Secondo un significato specifico, la democrazia è una delle tre forme di governo (monarchia, aristocrazia e democrazia) oggetto della filosofia politica classica: in questo ambito, la Chiesa rispetta la libertà di scelta dei cittadini, anche se attualmente considera la democrazia come il tipo di governo che più favorisce la partecipazione alla vita pubblica. 3) l’ideologia della sovranità popolare, che ripone nel popolo l’origine ultima dell’autorità: il Magistero ha fatto vedere l’errore di tale ideologia».
Da questa premessa si ricavano: una definizione estremamente limitata di democrazia, in termini di «partecipazione» (concetto affatto diverso da quello di autogoverno e pratica che potrebbe darsi, per esempio, anche nell’ambito di una organizzazione corporativa dello stato); una semplice preferenza contingente per la democrazia, che non esclude la possibile benedizione delle forme di governo monarchica o aristocratica; il rifiuto netto della sovranità popolare, nonché dell’autogoverno dei cittadini. Quest’ultimo è ovviamente il punto decisivo. «Per evitare questo errore - prosegue il Dizionario - la dottrina cristiana ricorda che la libertà e la democrazia devono sorreggersi sulla verità e sui valori umani indisponibili». Per concludere che «l’obbedienza alla verità integrale dell’uomo diviene, pertanto, imperativo morale per la cultura democratica del nostro tempo». E questa verità integrale, di cui la cattedra di Pietro è depositaria, sarebbe incompatibile con ogni «relativismo». Ce n’è abbastanza per sostenere che la chiesa non accetta il principio dell’autogoverno democratico, o almeno ne circoscrive la sfera così da lederne irrimediabilmente la sostanza. Non saremo certo noi a fare della volontà della maggioranza nella democrazia rappresentativa un articolo di fede, né a occultare le innumerevoli nefandezze compiute sotto questa copertura (fino alle guerre incaricate di esportarla). Tuttavia non è affatto la stessa cosa se i «valori umani indisponibili» vengono fatti risalire a una verità rivelata, trasmessa o imposta da una gerarchia istituzionalizzata, o all’esperienza della relazione tra i singoli e alla crescita collettiva di una coscienza sociale. La quale, più dei regimi teocratici antichi e moderni si è dimostrata impegnata nell’arginare i dispositivi della sopraffazione (per esempio «relativizzando» lo stesso principio maggioritario con la tutela delle minoranze). La chiesa, nella sua pretesa di limitare la facoltà legislativa degli organismi democratici, si è esplicitamente richiamata al «diritto naturale».
Il monopolio sulla ragione
Quest’ultimo può certo essere invocato per legittimare una data gerarchia di potere e un dato assetto sociale, ma è stato, fin dai tempi più remoti, anche la bandiera di tutte le rivoluzioni. Ponendosi alle spalle più che al di sopra del diritto positivo e del potere costituito il diritto naturale rappresenta la possibilità stessa di rimetterne in questione le norme. È la regola che passa al vaglio le regole, la fonte del «diritto di resistenza», più un principio di disobbedienza che un principio di obbedienza. E dal suo stesso interno, così come dal campo secolare, l’istituzione ecclesiastica stessa è stata ripetutamente accusata di calpestare proprio il diritto naturale, sovrapponendovi una verità artificiosa. Ma oggi il Vaticano invoca, non senza un certo azzardo, il «diritto naturale» nella sua versione critico-rivoluzionaria, come fonte di uno ius resistentiae contro l’arbitrio della scienza o il pluralismo democratico sospettato di volgere in «relativismo culturale». Di qui l’intransigenza di chi intenda mettersi alla testa di una rivoluzione: una rivoluzione antidemocratica.
Ogni rivoluzione ha sviluppato la sua interpretazione del diritto naturale. La chiesa ha la sua, con l’esclusione di tutte le altre. Si tratta, paradossalmente, di un «diritto naturale» di origine sovrannaturale (sebbene, secondo la tradizione tomista, la ragione sia sufficiente ad accedervi). Perché avventurarsi allora su un terreno così scivoloso? Perché non accontentarsi della nozione, meno insidiata dal «materialismo», di «verità rivelata», perché privilegiare il monopolio dottrinario sulla ragione, come fa l’attuale pontefice, rispetto al mistero della fede?
Il problema è politico. La chiesa ha, per così dire, bisogno di scendere nel dettaglio. Il diritto naturale di cui parla non si limita a un ristretto numero di principi universali, ma entra nell’articolazione delle regole sociali, punta sul ripristino di una autorità con una forte presa, non solo simbolica, sull’organizzazione sociale, sui comportamenti e sulle scelte individuali. Una autorità, e questo è il punto decisivo, che pretende di esercitarsi anche sui non credenti.
Il passaggio al diritto naturale serve appunto a setacciare l’attività legislativa delle istituzioni democratiche in questa chiave. Così quando si parla del matrimonio, la chiesa sottolinea il suo carattere «naturale» e «razionale» prima ancora che sacramentale. Ma questa naturalità si presenta già corredata dei suoi caratteri ideologici e normativi (l’indissolubilità, la fedeltà, la finalità procreativa). Tutti elementi dichiarati «indisponibili», pur trattandosi con tutta evidenza di un’opzione culturale tra altre. Diverse interpretazioni del diritto naturale possono invece (e ripetutamente lo hanno fatto, probabilmente con maggior realismo storico) imputare al diritto naturale il «libero amore», la promiscuità o la poligamia e invece al sacramento del matrimonio una funzione artificiosamente sovrapposta. Interpretazioni, rispetto alle quali lo «stato laico» è tutt’altro che neutrale, impegnato come è, nel cercare di dimostrare la sua comunanza di valori con la dottrina ecclesiastica, in un contesto in cui la presenza crescente di culture e religioni diverse e soprattutto le concrete scelte di vita dei cittadini rendono sempre più difficile questa consonanza. Siamo così di fronte a una sorta di guerra unilaterale. Nella quale da parte della chiesa viene sferrato un attacco senza esclusione di colpi contro l’autonomia concordataria dello stato, minacciando conseguenze, come ha dettagliatamente segnalato Gustavo Zagrebelsky, all’interno delle sue stesse istituzioni. Mentre dall’altra parte si balbettano scuse, negando la possibilità stessa di un attrito con la dottrina sociale della chiesa.
Fra controllo e autogoverno
Ma l’argomentazione concordataria e il richiamo all’articolo 7 della Costituzione, nella loro ottica essenzialmente giuridica e centrata sul rapporto tra poteri costituiti, lasciano in ombra il fatto decisivo. E cioè che l’offensiva ecclesiastica non si rivolge affatto contro l’autonomia e la sovranità dello stato laico, bensì contro i suoi caratteri democratici e soprattutto contro quel tanto di autogoverno dei cittadini che in essi riesce a svilupparsi. Quel che è grave agli occhi del Vaticano non è tanto che lo stato legiferi sui cosiddetti «valori indisponibili», ma che recepisca, o meglio sia costretto a recepire, ciò che già si è affermato nella vita della società: comportamenti, abitudini, scelte imposte dal basso (declino dei matrimoni e delle nascite, separazioni, convivenze di fatto, interruzioni di gravidanza). In buona sostanza la chiesa pretende, e trova orecchie disposte ad ascoltare, che lo stato si faccia carico, pur nelle sue forme laiche e parlamentari, di quello stesso principio pastorale e intrinsecamente antidemocratico che presiede all’azione ecclesiastica.
Allo stato si rimprovera, insomma, non di essere laico, ma di essere «permissivo». Questa spinta si incontra con una spinta analoga, proveniente dal mondo della politica, che una volta consumata la separazione tra liberismo economico e libertà individuali, muove verso una iperregolamentazione della vita dei singoli, in base al principio, pastorale appunto, che debbano essere difesi da se stessi e dai propri irresponsabili desideri, forieri di immoralità e di crescita del debito pubblico. E anche coloro che desiderano la regolamentazione delle coppie di fatto non dovrebbero perdere di vista questa insidia.
La partita che si gioca non è tra stato e chiesa, ma tra il controllo sulla vita e il suo autogoverno, tra le pratiche sociali diffuse e l’autorità, tra la libertà dei singoli e la trascendenza del potere. Ragione per cui non possiamo non dirci, al tempo stesso, anticlericali e antistatalisti.
Il partito di Dio
di Antonio Padellaro *
Era difficile non solidarizzare con Barbara Pollastrini e Rosy Bindi mentre giovedì sera nello studio di «Porta a Porta» cercavano di spiegare la legge sulle coppie di fatto appena varata dal Consiglio dei ministri. Difficile non essere dalla loro parte, non solo per ragioni di simpatia politica (che non possiamo negare), e di apprezzamento per i Dico e per tutto l’impegno civile che ci hanno messo ma perché le ministre avevano di fronte i sorrisini ironici di Rocco Buttiglione e la stizza di Gianni Alemanno. Lo notiamo senza pregiudizi personali anche perché nel fu governo Berlusconi i due non passavano certo per essere i peggiori (impresa non ciclopica considerato il materiale umano e ministeriale che li circondava). Eppure l’idea che l’altra sera davano di se stessi interrompendo, scartabellando, negando e minimizzando era di un compito già scritto, di un obbligo da ottemperare, di un mandato da eseguire.
Insomma, era come se un vincolo invisibile ma irremovibile gravasse sulla loro autonomia di uomini politici. E non per le opinioni morali o religiose di Alemanno e Buttiglione, legittime e da rispettare. Parliamo invece di quel continuo, ossessivo richiamarsi alla famiglia, ai valori della famiglia, all’unicità ed esclusività della famiglia. Parliamo di quella continua, opprimente denuncia di complotti per mandare in mille pezzi la povera famiglia e con essa la tradizione cristiana; attentato di cui il diabolico disegno di legge sui diritti e i doveri delle persone conviventi costituirebbe il detonatore.
Parliamo dell’omofobia sottostante e sovrastante impegnata a trasformare una legge, giusta o sbagliata ma che riguarda comunque tutti i cittadini italiani, in un giochino per sollazzare alcuni gay in abito da sposa.
Famiglia, concetto universale, può essere una splendida parola anche per i non credenti. Per questo dispiace vederla adoperata in un contesto cupo, triste, discriminatorio e volgare. Innalzata come un muro per separare, dividere, giudicare, condannare. Un modo senza dubbio molto poco evangelico di trattare il prossimo.
Buttiglione, Alemanno, Casini, Schifani, ma anche il pio Mastella, i teodem della Margherita e i tanti che in queste ore si stracciano le vesti e lanciano alti gemiti verso il cielo rappresentano le legioni devote dell’esercito che ieri Benedetto XVI ha solennemente mobilitato richiamandolo ai suoi doveri primari. Che nella visione papale non sono, come si potrebbe credere, quelli di rappresentare il popolo italiano (e sovrano) in Parlamento nel rispetto della Costituzione repubblicana. No, ben altra missione attende il partito di Dio se Ratzinger ritiene «necessario appellarsi alla responsabilità dei laici presenti negli organi legislativi, nel Governo e nell’amministrazione della giustizia, affinché le leggi esprimano sempre i princìpi e i valori che sono conformi al diritto naturale e che promuovono l’autentico bene comune». L’appello ai laici-cattolici del potere legislativo, esecutivo e giudiziario affinché fermino con tutti i mezzi l’odiata legge non poteva essere più esplicito.
Un manifesto che per drammaticità ed energia politico-dogmatica può paragonarsi alla indisponibilità di Pio IX ad accettare compromessi con il nascente Stato italiano. Eravamo a metà dell’Ottocento e quello fu il famoso «non possumus», non a caso richiamato martedì scorso dall’«Avvenire» nell’articolo di fondo che ha definito la Bindi-Pollastrini «uno spartiacque che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana». Detto e fatto. Altro che le "normali" ingerenze a cui le gerarchie vaticane ci avevano abituato. Questo partito di Dio si sente capace di fare cadere i governi.
Problema che Romano Prodi aveva ben presente quando la sera stessa del «non possumus» ha tenuto a dire che sia sulle missioni di pace (vedi l’Afghanistan) sia sulle decisioni che toccano i diritti della persona (vedi le unioni di fatto) «la nostra democrazia ha bisogno di stimoli e non di lezioni». Una rivendicazione orgogliosa della nostra sovranità nazionale di cui Washington sembra avere preso atto ma non la Santa Sede. La vera battaglia quindi comincia ora, le pressioni aumenteranno ma essere riusciti ad affermare il principio che spetta allo Stato e non alla Chiesa legiferare sui diritti dei cittadini è una prima vittoria di cui dobbiamo essere grati al governo Prodi e alle due coraggiose ministre. Sì, possumus.
* l’Unità, Pubblicato il: 10.02.07, Modificato il: 10.02.07 alle ore 10.28
Benedetto XVI attacca ancora sui temi "caldi" che stanno a cuore alla Chiesa. Invito agli scienziati francesi: "Coraggio nel proclamare l’essenza dell’umanità"
Il Papa: "Matrimonio e fine della vita. La confusione minaccia l’esistenza dell’uomo"*
ROMA - Unioni di fatto, eutanasia, rapporti con la politica. Come ogni giorno, Benedetto XVI continua ad attaccare sulle questioni che stanno più a cuore alla Chiesa: "La confusione a livello del matrimonio e il non riconoscimento dell’essere umano in tutte le tappe della sua esistenza, dal concepimento alla fine naturale, lasciano pensare che ci siano dei periodi in cui l’essere umano non esista veramente". Il Papa lo ha detto parlando ai membri dell’Accademia delle Scienze Politiche e Sociali di Parigi ricevuti in Vaticano e ha esortato i politici ad avere "il coraggio di proclamare ciò che sono l’uomo e l’umanità".
"E’ importante non lasciarsi incatenare - ha spiegato Benedetto XVI - da elementi come il relativismo, la ricerca del potere e del profitto a tutti costi, la droga e le relazione affettive disordinate".
"Invito - ha detto - le autorità civili e le persone che hanno funzioni nella trasmissione dei valori ad avere il coraggio della verità sull’uomo". Ai politici di oggi, Papa Ratzinger ha indicato anche un modello eroico: il fisico russo Andrei Sakharov, premio Nobel perseguitato dal regime comunista. Sackharov, ha concluso, "ci ricorda che è necessario nella vita personale come nella vita pubblica di avere il coraggio di dire la verità e di perseguirla, di essere liberi in rapporto al mondo circostante e spesso ha la tendenza di imporre modi di vedere e comportamenti da adottare".
Secondo il Pontefice le scelte legislative devono seguire due criteri: "il rispetto di tutto l’essere umano e la ricerca del bene comune". "Nel mondo attuale - ha spiegato - è più che mai urgente invitare i nostri contemporanei a un’attenzione rinnovata questi due elementi".
A preoccupare il Pontefice è "lo sviluppo del soggettivismo per cui ciascuno tende ad avere se stesso come unico riferimento e a considerare che ciò che lui pensa abbia un carattere di verità". Questo, ha scandito, "ci incita a formare le coscienze sui valori fondamentali che non possono essere ignorati senza mettere in pericolo l’uomo e la sua società stessa". Secondo il Papa esistono "criteri oggettivi" che devono guidare "una decisione che supponga un atto di ragione". Il riferimento è ancora una volta al diritto naturale.
* la Repubblica, 10 febbraio 2007
Diritti a rate
di Alessandro Robecchi (il manifesto, 09.02.2007)
Ed ecco un’altra questione urbanistica: il raddoppio della base vaticana all’interno della Margherita. La sinistra radicale tiene in ostaggio il governo e tutto il paese, ma non riesce a evitare né la base americana a Vicenza né la base vaticana nella Margherita, né (tra un po’) che se ne vada la base sua.
Il papa in persona ha chiesto se una domenica sì e una no potrà affacciarsi da una finestra del Quirinale, tanto per sottolineare l’apertura e il dialogo con lo Stato italiano. L’altra domenica riceverà in udienza privata i grandi sostenitori della famiglia tradizionale, primi tra tutti i leader del centro-destra che di famiglie ne hanno due.
In questo clima sereno e collaborativo, il consiglio dei ministri ha approvato la bozza sui Pacs, una nuova carta sulla distribuzione rateale dei diritti. Alcuni diritti che col matrimonio avreste subito, con i Pacs (pardon, Dico) vi verranno offerti tra tre anni, in pacco anonimo. Se fate i bravi, dopo nove anni vi recapitano altri diritti (tipo l’eredità). Se riuscite a resistere accanto alla vostra compagna o compagno fino a quando si sistemerà la complessa materia della pensione di reversibilità, forse tra qualche anno vi daranno anche quella. Per agevolarvi aumenteranno l’età pensionabile, così non aspetterete invano. Si discute ancora sull’articolo uno della legge, che regge tutto il resto.
Due che convivono (omo, etero, misti, pinguini, mutanti) dovranno dichiararsi all’anagrafe, come vuole Pollastrini, o soltanto sussurrarselo all’orecchio, come vuole Rutelli? E come chiamarli? Uno sposato si chiama coniugato, uno non sposato si chiama scapolo. E i conviventi? Un suggerimento viene dalla Santa Sede: si potrebbe chiamarli stronzi, una proposta che raccoglie consensi.
Naturalmente le coppie di fatto non potranno adottare bambini, ma nessuno impedirà agli omosessuali di prendere un cane o un criceto, il che dimostra che la Chiesa è disposta alla mediazione. In caso di malattia, il convivente potrà assistere il suo partner in ospedale, ma in caso di chirurgia verrà operato pure lui, anche se perfettamente sano (l’anestesia sarà riservata soltanto alle coppie regolarmente sposate).
Il Consiglio dei Ministri, ha approvato all’unanimità, nel corso di una toccante cerimonia in cui tutti indossavano vesti purpuree, anelli d’oro ed eleganti copricapi in tinta. Dico: amen
La fatica della solitudine
di Barbara Spinelli (La Stampa, 11.02.2007)
Che l’essere umano possa sentirsi solo in un universo difficile, e abbandonato dai simili proprio quando è da questi più attorniato, la Chiesa dovrebbe saperlo, conoscerlo. Lo ha imparato dall’abbandono di Cristo, e dagli infelici che Cristo proteggeva. Lo ha sperimentato quando era minoranza perseguitata. Lo ha appreso quando contemplò l’estenuarsi del mondo pagano, sul finire della civiltà romana, e i cristiani assorbirono quell’ansia estenuata dando alla fede la straordinaria forza delle proprie forme, dei propri riti. Era il secondo e terzo secolo, e non c’era mai stata tanta miseria in Europa. La Chiesa comprese questa sofferenza e la portò sulle spalle.
Senza disperazione dell’uomo non ci sarebbe stato cristianesimo; se la disperazione venisse meno torneremmo al paganesimo, sostengono grandi studiosi dei primi cristiani come Eric Dodds o André-Jean Festugière. Oggi vediamo apparire nel mondo lo stesso essere umano, derelitto come l’aveva descritto Epitteto in un terribile passaggio dei Discorsi: «Lo stato di disperazione solitaria è la condizione di chi è senza aiuto. Giacché (a Roma) non siamo derelitti solo se siamo soli, allo stesso modo in cui un uomo dentro la folla non smette necessariamente d’esser derelitto.
Non è la vista di un essere umano in quanto tale che mette fine alla nostra condizione di derelizione, ma la vista di un essere umano fiducioso, modesto, desideroso d’aiutare» (Epitteto, Discorsi, III). È questo che la Chiesa fatica a fare, a essere, davanti all’uomo che di nuovo si scopre solo, eremos. Eremos è colui cui manca qualcosa di fondamentale, e ne è devastato. La parola ha anche significato giuridico: un processo è eremos se non c’è il difensore. Proprio il cristiano che ha inventato il vivere eremitico può capire come due individui cerchino di vivere insieme la frammentazione della società, decidendo di dare stabilità ai propri rapporti di amore, amicizia o fratellanza.
Una parte del clero non riesce a essere quell’uomo fiducioso, riservato, desideroso d’aiutare, che il pagano Epitteto cercava e che la Chiesa diede all’Europa sofferente. C’è una singolare dimenticanza di tutto questo nell’offensiva delle gerarchie ecclesiastiche contro Pacs e Dico, ed è una dimenticanza che produce forme inconsapevoli di crudeltà: pur di difendere un dogma - l’unico amore benedetto è quello che si esprime nella forma, stabile e feconda, del matrimonio - si nega a tutti coloro che pensano in modo diverso l’amore o la fraternità di presentare la propria via come non meno impegnativa. Si nega lo smarrimento che caratterizza la nostra epoca, e il fatto che una legge sulle convivenze fronteggia tale smarrimento. Si nega lo scorrere della storia, cui il cristianesimo si è adattato mirabilmente nei secoli senza sottovalutare l’importanza del diritto positivo.
Ripercorrere l’era del primo cristianesimo è importante perché essa è così simile alla nostra: stessa sensazione di declino, stessa solitudine di individui privi di protezioni giuridiche, stesso sovvertimento del lavoro, dell’economia, stessa sete di riconoscimento da parte di chi è nell’abbandono. Oggi s’aggiunge la paura del clima che si degrada.
La famiglia ferita è anche frutto di queste circostanze, e da tempo ha cessato di essere l’istituto stabile e prolifico spesso celebrato. Non sta morendo un patto d’amore che è il solo a essere romanticamente eroico, nutrito da folli scommesse sull’eternità. Sta morendo un patto che si rivela fragile per antichi vizi e per le stesse virtù che nel frattempo ha acquisito: virtù dell’individualismo, di volontà soggettive che prevalgono sulla natura sociale dell’istituto.
La pietas, l’immedesimazione nella vita dell’altro dovrebbero aiutare a vedere questa realtà: è anche ai difetti dell’individualismo che i nuovi modi di convivenza rispondono, perché l’uomo non sia eremos involontario sulla terra. Che la convivenza riconosciuta sia una risposta al dilatarsi delle soggettività individuali lo dice un uomo della Chiesa, il cardinale Martini. Accennando al cristianesimo dei primordi, egli ricorda come la famiglia sia diventata centrale per la Chiesa molto tardi, alla fine dell’800. Non c’era bisogno di citarla continuamente, quando l’istituzione era davvero naturale e feconda.
Nel Nuovo Testamento non appare un vocabolo che corrisponda al termine famiglia, anche se Gesù esalta l’unità indissolubile di quel che Dio unisce. La famiglia, la madre, il padre: Gesù ordina di trascenderli se si vuol avvicinare il regno di Dio. Il matrimonio è un’invenzione grandiosa ma la Chiesa «ha, magari inconsapevolmente, contribuito al suo sgretolamento.
Troppo a lungo forse si è lasciata prevalere un’idea giuridica ed economica del rapporto di convivenza, destinato quasi solo alla procreazione della prole» (Carlo Maria Martini, discorso per la vigilia di S. Ambrogio, 2000). Hanno contribuito i dogmi a indebolirlo, e le «predicazioni enfatiche», la «censura evangelica», il «panico di accerchiamento e le recriminazioni senza frutto» della Chiesa, le dottrine «vagamente umanistiche e rassicuranti» che lasciano «il singolo nella solitudine». Infine, ha contribuito il mondo affannoso, spesso feroce, in cui vive oggi un giovane che voglia edificare il futuro senza sentirsi, come l’uomo di Epitteto, privo d’aiuto giuridico.
C’è la difficoltà di trovar casa, dunque di separarsi dalle famiglie: il «ritorno dai genitori» è abnorme in Italia, spiega uno studio della Fondazione Agnelli (Generazioni, famiglie, migrazioni. Pensando all’Italia di domani). C’è il lavoro precario, che complica i progetti d’aver figli.
Il desiderio di costruire unioni alternative non ha niente a che vedere con l’effimero, l’occasionale. È un modo di difendere almeno i legami intimi dalla precarietà generalizzata, di reintrodurre l’idea del patto e del contratto in una vita economica che sempre più l’esclude.
Chi reclama il riconoscimento delle unioni, eterosessuali o omosessuali, sta costruendo una nuova obbedienza. In genere, aspira al diritto di avere dei doveri: dovere di stare accanto all’amato-amico nella sua agonia, dovere di pensare al suo futuro, dovere di dargli tempo, sicurezza, vicinanza. L’adozione dei figli da parte degli omosessuali è scabrosa.
Ma anche qui cosa è meglio: un bambino affidato a due omosessuali che si amano o un bambino che resta in impersonali orfanotrofi? Chi si scaglia contro Dico e Pacs ignora che i tratti oblativi dell’amore, citati dal cardinale Martini, stanno crescendo più nelle unioni di fatto che nei matrimoni. Cosa di più oblativo che prendersi cura di un neonato e farlo crescere?
I figli nascono molto più fuori dai matrimoni che dentro, anche questa realtà è indicata dalla Fondazione Agnelli: dal 2001, le nascite dentro il matrimonio sono diminuite mentre quelle fuori sono in deciso aumento. La coppia di fatto è frutto di un mal-vivere, che soprattutto in Italia spinge a restare in famiglia o a ritornarvi, con un senso crescente di scacco. È il tentativo sperimentale di ritrovare l’età d’oro perduta: per quel tanto, o poco (più probabilmente poco) che durano le cose mortali.
L’uso politico che si fa della sofferenza e dei suoi modi di superarla è l’aspetto triste delle vicende italiane, lo si è visto nel caso Welby. I cattolici conservatori del governo e la Chiesa hanno il diritto di dire a voce alta le loro convinzioni.
Per ribadire tale diritto, L’Avvenire ha evocato il non possumus, il 6 febbraio, riferendosi non solo a papi del passato ma alla parresia - al dovere di parlare liberamente - che Pietro e Giovanni difendono davanti al Sinedrio («Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato», Atti degli Apostoli, 4, 20). Non possumus, scrive il giornale della Conferenza episcopale: ma lo dice politicamente, non profeticamente. Come ricorda Gustavo Zagrebelsky (Repubblica, 9 febbraio) la Cei non parla del proprio Stato, del proprio potere spirituale, quando indica «uno spartiacque che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana». Parla del futuro della politica italiana e s’accinge a determinarlo come fosse un partito italiano.
Ignorare la Chiesa non si può, è parte della nostra cultura. Ma è parte della nostra cultura con tutto quello che alla sua storia è congiunto: il paganesimo, l’esaltazione ellenica della Ragione e anche i miti greci della resurrezione e della metamorfosi, della conversione, del sapere tragico e dell’estasi. Il verbo di Gesù è severità morale e anche rinascita del mito di Dioniso.
Basta leggere le Dionisiache del cristiano Nonno di Panopoli, scritte nel V secolo, per vedere come intenso sia il legame tra i due miti, il cristiano e il dionisiaco: il vino, l’alleviamento del dolore, l’amore del prossimo, la luce della parola. Gesù è apparso sulla terra per alleviare il dolore e proporre una via ardua, ma trasfigurata dal vino. Ha incensato l’unione indissolubile di quel che Dio unisce e al tempo stesso ha detto che bisognava trascendere la famiglia. Ha rifatto nuovo il mondo, perché il mondo era malato. Forse bisogna rifarlo nuovo anche adesso.
Quei patti dimenticati tra Stato e Chiesa
di EUGENIO SCALFARI *
Nella giornata di ieri la Chiesa è passata al contrattacco, guidata dal Papa in persona a rinforzo del "non possumus" emanato dalla Conferenza episcopale. Benedetto XVI, con riferimento specifico ai temi della bioetica e al disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri sulle convivenze di fatto, ha detto che c’è da pensare "che ci siano dei periodi in cui l’essere umano non esista veramente" Addirittura! Accenti simili non si erano più uditi da quando i bersaglieri di La Marmora entrarono dalla breccia di Porta Pia mettendo fine al potere elettorale e la nobiltà clericale chiuse i portoni dei suoi palazzi sconfessando la nascita dell’Italia unita e di Roma capitale.
Dev’essere accaduto qualche cosa di molto più grave a ferire la sensibilità e gli interessi della Chiesa del riconoscimento di alcuni diritti che regolarizzano le coppie di fatto ben più timidamente di quanto già non sia avvenuto in tutt’Europa, dalla Spagna all’Olanda e dalla Francia alla Germania. Che cosa è dunque accaduto?
È accaduto che quel cautissimo atto di governo, che porta la firma d’un premier cattolicissimo ed è stato redatto da un cattolicissimo ministro, ha posto un paletto al neo-temporalismo della Santa Sede, alle sue crescenti interferenze nella legislazione e addirittura nell’articolazione delle norme di legge che il Parlamento voterà nelle prossime settimane.
È accaduto che al "non possumus" dei vescovi italiani è stato opposto il "possumus" dei gruppi parlamentari del centrosinistra e in particolare dei parlamentari cattolici della Margherita, che hanno rivendicato la loro responsabile autonomia laica e - insieme - la loro costante appartenenza ai valori del cristianesimo.
Viene in mente il rifiuto di Alcide De Gasperi all’operazione Sturzo di stampo clerico-fascista, sponsorizzata da papa Pacelli e dai Comitati civici. Da allora il leader della Dc non fu più ricevuto, neppure in udienza privata, da Pio XII, il che non gli impedì di reggere le sorti del governo nazionale senza mai venir meno ai suoi sentimenti di appartenenza cattolica e ai suoi doveri verso il paese e verso la Costituzione.
Questo preoccupa Benedetto XVI e i vescovi italiani: che i cattolici democratici, messi con le spalle al muro dall’intransigenza ruiniana, abbiano rifiutato di essere passiva cinghia di trasmissione ponendo così un argine alla clericalizzazione delle istituzioni.
Non li preoccupa né Diliberto né Pecoraro Scanio né Rifondazione comunista, bensì i Franceschini, i Letta, le Bindi, gli Scoppola e, soprattutto, Romano Prodi che va a messa e frequenta i sacramenti tutte le domeniche. Si ritrovano - i vescovi - in compagnia del paganesimo berlusconiano con il rischio di un neo-temporalismo profumato alla cipria del Bagaglino anziché all’incenso delle basiliche.
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Si dice - talvolta l’ho detto anch’io - che il potere politico è debole. Ha un pensiero debole. Inclina al compromesso. Si vorrebbe una politica che scelga senza se e senza ma. E poiché i se e i ma abbondano, se ne conclude che la politica non fa il dover suo e le si contrappone il deposito dei valori della religione, alimentati dall’intransigenza della fede.
Ma si è mai vista nella storia una politica senza compromessi? La politica si nutre di compromessi, procede per sintesi, non si ferma mai ad una tesi intransigente o ad un’intransigente antitesi, salvo in regimi di dittatura o, peggio, di totalitarismo.
I regimi liberali e ancor più quelli liberal-democratici amministrano organismi complessi, interessi plurimi e spesso contrapposti. Debbono pertanto rappresentarli tutti superandone i particolarismi, includendo e non escludendo, trovando il denominatore comune.
Il pensiero debole della politica coincide con compromessi deboli e privi di obiettivi forti. E in quei casi debbono essere vigorosamente criticati. La politica è l’arte del possibile, quindi del dialogo e dell’accordo al più alto livello possibile. Cavour voleva fare un grande Piemonte nel 1857 e si accordò con la Francia di Napoleone III. Poi l’obiettivo cambiò e divenne assai più ambizioso: volle fare l’Italia. Si alleò con Garibaldi, con Ricasoli, con Minghetti e con l’Inghilterra. Si sarebbe alleato anche col diavolo se fosse servito.
Quale politica non fa compromessi? Perfino Cesare li fece. Perfino Napoleone. Hitler no, non li fece. Voleva sterminare gli ebrei e li sterminò. Voleva conquistare tutta l’Europa e c’era quasi riuscito se non ci fosse stato Pearl Harbor e se Roosevelt non si fosse alleato con Stalin. Ma Hitler non era un politico, era un pazzo criminale. Antipolitico per eccellenza.
Anche la Chiesa ha fatto compromessi. Perfino con Hitler. Con Mussolini. Con Franco. Con Breznev. Con Jaruzelski. Con Gorbaciov. Tutte le volte che le è convenuto ha stipulato concordati. Non è forse un compromesso il concordato? Si patteggia, si dà e si prende.
La fede non fa compromessi. Ma la fede riguarda la coscienza individuale, non le organizzazioni che l’amministrano. La Chiesa e la sua gerarchia sono il corpo che riveste la fede. Talvolta il corpo esprime e realizza l’anima, talaltra la rinserra nei suoi corposi interessi mondani. Questo è sempre stato il rapporto tra la gerarchia dei presbiteri e la comunità dei fedeli. Lo scontro tra il modernismo e il Vaticano ebbe proprio questa motivazione. Finì con la persecuzione dei modernisti della quale c’è traccia evidente perfino nel Concordato del ’29. Il cristianesimo diffuso dalla predicazione degli apostoli è la religione dell’amore. Ma non sempre.
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È singolare che nel dibattito in corso tra il Vaticano e il governo italiano nessuno (salvo i radicali) abbia menzionato il Concordato. Come se non esistesse più. Come se fosse caduto in desuetudine. Come se non fosse stato recepito nella Costituzione del 1947. Infatti è caduto in desuetudine. O meglio: sta in piedi soltanto a tutela dei benefici che ne riceve la Chiesa. I limiti che la Chiesa ha pattuito con lo Stato sono stati invece superati.
Il deputato Capezzone, tanto per dire, si è stupito l’altro ieri perché si aspettava che il governo protestasse con la Santa Sede per l’irritualità compiuta dalla Cei con l’irruzione palese e anticoncordataria compiuta nei confronti del potere legislativo, così come il governo aveva ritenuto irrituale l’intervento dei sei ambasciatori che ci invitavano perentoriamente a restare in Afghanistan senza se e senza ma.
Ha ragione Capezzone. Ma ha ragione anche il governo. Il Vaticano in Italia è infinitamente più forte degli ambasciatori dei sei paesi alleati. È più forte come potere temporale. Pretende di dirigere le coscienze dei fedeli anche - anzi soprattutto - quando rivestano cariche ministeriali o siano membri del Parlamento. Chiede, anzi pretende obbedienza.
Ho letto l’intervista di Rosy Bindi su Repubblica di ieri. Dice: "Abbiamo scritto una legge giusta che tutela i più deboli, riconosce diritti alle persone discriminate, non crea nessuna figura giuridica che possa attentare alla famiglia. L’insegnamento cattolico parla di valore della giustizia, di pace, di libertà personale, di accoglienza perfino dell’errore. Di carità e di misericordia... Un politico non deve sentirsi referente di nessuno. Il mio referente è il Paese e la mia coscienza cattolica".
Ebbene, questo è il punto che per i vescovi italiani ha l’effetto d’un panno rosso davanti a un toro infuriato: il fatto che il laicato cattolico democratico abbia come riferimento la Costituzione e la propria coscienza cattolica e sulla base di questi due riferimenti fondamentali arrivi a conclusioni difformi da quelle della gerarchia ecclesiastica. La considera una ribellione perché ha perso la nozione esatta della parola Ecclesia. Che non distingue tra presbiteri e fedeli. Ecclesia è la comunità cristiana, è comunione partecipata perché tutti prendono il corpo eucaristico del Cristo, tutti nello stesso momento e alla stessa mensa. La grazia non passa attraverso l’intermediazione dei presbiteri, ma il Signore la dispensa direttamente ai fedeli che credono in lui e da lui prescelti.
Il neo-temporalismo è il contrario di tutto ciò. Non a caso Paolo VI ritenne la fine del temporalismo "un fausto evento per la Chiesa". Ma in realtà a partire dal pontificato di papa Wojtyla fino ad oggi la Chiesa sta devitalizzando i contenuti più significativi del Concilio Vaticano II e i due pontificati di Giovanni XXIII e di Paolo VI. L’ha scritto a chiare lettere Pietro Scoppola nel suo articolo di tre giorni fa su Repubblica. Questo è il senso dell’operazione in corso, di cui il disegno di legge sulle convivenze non è che il pretesto.
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Si dice che il pensiero laico sia debole. Capisco perché lo si dice: i laici (qui intesi come laici non credenti) non hanno né papi né cardinali né vescovi né preti. Ciascuno parla per sé e rappresenta solo se stesso. Per fortuna.
Non significa che un pensiero laico non esista e neppure che sia debole. Al contrario è forte, è lucido, è coerente alle sue premesse e nella sua dialettica con i clerici. Basta aver letto i più recenti prodotti di questo pensiero pubblicati questa settimana dal nostro giornale: l’articolo di Ezio Mauro e quello di Gustavo Zagrebelsky a proposito del "non possumus" episcopale.
I laici sono favorevoli allo spazio pubblico che spetta alla Chiesa, per ampio e crescente che sia, e ascoltano la sua parola con interesse traendone elementi di positiva riflessione e di rispettosa accoglienza quando ve ne siano, contestando elementi di intolleranza e tentazioni teocratiche che spesso, purtroppo, vi sono. I laici non sono anticlericali, anche se l’episcopato italiano sta facendo il possibile per farceli diventare. Ma i laici hanno come solo punto di riferimento il patto costituzionale. Su quel patto si fonda la Repubblica italiana e in esso ciascuno trova le radici della sua identità.
Perciò mi stupisco molto di coloro che sarebbero pronti ad accettare i patti di convivenza purché limitati agli eterosessuali. La Costituzione vieta in modo esplicito che la legislazione possa introdurre norme discriminanti nei confronti dei cittadini per ragioni di etnia, di religione, di sesso. Un regime di convivenza che discriminasse gli omosessuali cadrebbe ovviamente sotto la scure della Corte costituzionale e, prima ancora, sotto quella del Capo dello Stato secondo i poteri e le modalità che gli sono attribuiti.
Quindi tutto è molto chiaro. I laici vogliono il rispetto della Costituzione e di conseguenza anche del Concordato. Qualcuno, prima o poi, chiederà alla Corte se il Concordato sia ancora in vigore o sia gravemente leso. E qualora lo fosse, quali siano gli strumenti atti a recuperarne il rispetto o a proclamarne la decadenza per doveroso recesso della parte lesa.
* la Repubblica, 11 febbraio 2007
Dove osano i Cardinali
di Gianfranco Pasquino *
Totalmente incuranti della qualità delle disposizioni contenute nel disegno di legge Bindi-Pollastrini, che sono assolutamente liberali e nient’affatto disgregatrici della famiglia classica, fondata sul matrimonio, non soltanto alcuni cardinali italiani e i loro ossequienti seguaci politici, ma lo stesso Papa, ritornano in campo con insistenza e con veemenza. Non argomentano, intimano e pretendono di dettare addirittura i comportamenti di voto dei parlamentari.
Altro che Tevere più stretto! Si tratta di una vera e propria inondazione che minaccia di lambire Montecitorio e Palazzo Madama.
È evidente che, al di là del merito specifico, che considerano irrilevante, del disegno di legge sul riconoscimento delle convivenze, la Curia romana e il suo Papa stanno perseguendo un disegno molto più ambizioso, decisamente politico e nient’affatto pastorale.
La premessa del grande disegno è stata rappresentata da quella che considerano, erroneamente, una loro grande vittoria nel referendum che voleva abolire la pessima legge sulla fecondazione assistita e sull’uso per ricerca delle cellule staminali, anche se interpretare l’astensionismo come segnale forte e inequivocabile di consenso appare una notevole forzatura della situazione. Poi, è venuto, direttamente dal Vicariato di Roma lo schiaffo a Piergiorgio Welby con il diniego, a fronte di una sua esplicita richiesta, di una cerimonia religiosa. Qui, il segnale era diretto, senza nessuna traccia né di pietas né di caritas, davvero urbi et orbi. Pressappoco così: «sappiano tutti che a nessuno che abbia chiesto e ottenuto di porre fine alle sue sofferenze in punto di morte verrà concesso un funerale religioso». Adesso, la battaglia è diventata campale poiché la Chiesa e il suo Papa saggiano la consistenza, l’ossequienza e la fedeltà delle loro divisioni (in senso belliche) politiche e parlamentari. Non soltanto al di là del Tevere qualcuno, grazie ai lunghi incontrastati anni di guida dei vescovi italiani ad opera del Cardinale Camillo Ruini, ha deciso che non è soltanto opportuno, ma addirittura doveroso, dettare le posizioni che tutti i cattolici, in special modo se "adulti", dovrebbero seguire. La Chiesa Cattolica Romana ha stabilito che la sfida debba essere portata alla stessa laicità dello Stato italiano e che verrà condotta facendo leva sui politici a lei vicini (che, purtroppo, non sono soltanto quelli di "destra").
Non potendo più fare affidamento su un partito che, in buona, ma mai totale o incondizionata, misura, sapeva svolgere la mediazione necessaria fra valori, come fu, salvo qualche sbandamento (vedi: divorzio) la Democrazia Cristiana (ma quelli erano altri politici e, forse, anche altri Papi...), la Chiesa ha deciso non soltanto di esaltare il suo ruolo pubblico, che nessuno negherebbe, anzi, nessuno in Italia ha mai negato, ma di fare politica in prima persona. Sono due attività alquanto diverse. Svolgere un ruolo pubblico significa partecipare a un dibattito portando argomenti e anche formulando proposte, nella consapevolezza che, alla fine, nei sistemi politici democratici, di quelle proposte decideranno coloro che sono stati eletti e che hanno la delega a scegliere interpretando un interesse generale, e che quegli argomenti verranno sottoposti a scrutinio anche per saggiarne la loro validità scientifica. Fare politica in prima persona, da parte della Chiesa, richiamandosi con durezza a non incontestabili princìpi religiosi e volendoli imporre non soltanto ai cattolici, ma a tutta la società è, invece, bisogna dirlo con estrema chiarezza, un segnale inequivocabile di fondamentalismo.
Giustamente combattuto nel resto del mondo, quando fa la sua comparsa nelle dichiarazioni e nei comportamenti di altre religioni organizzate, il fondamentalismo di Ruini e di Ratzinger merita uguale scrutinio e uguale contrasto. Non starò a dire che il contenimento del fondamentalismo cattolico è un servizio che i laici, credenti e no, fanno alla stessa Chiesa cattolica, poiché sono del tutto fedele al principio di (mia personale) non ingerenza. Valuti la Chiesa se le conviene, in termini di apostolato, di proselitismo, di difesa dei suoi princìpi, esporsi e interferire come sta facendo in Italia oggi. Valutino anche i parlamentari italiani, di destra e di sinistra. Quanto agli italiani, cittadini e politici, tocca a loro rivendicare e difendere l’autonomia della politica a servizio di una società aperta, più giusta, che vuole possibilità di scelta e non imposizioni, coesione sociale e non sottomissione.
* l’Unità, Pubblicato il: 11.02.07, Modificato il: 11.02.07 alle ore 17.20
Distribuita da stasera a Roma e Firenze, ha una presentazione del cardinal Ruini. Nel testo: non confondere "le altre forme di convivenza" con il matrimonio
Nelle parrocchie una lettera contro i Dico. "Famiglia privatizzata, senza rilevanza sociale"
CITTA’ DEL VATICANO - Il Vaticano continua la sua offensiva contro il ddl sui Dico. Da stasera infatti, in tutte le parrocchie di Roma e Firenze verranno distribuiti ai fedeli volantini che riproducono una letteradel cardinale di Firenze, Ennio Antonelli, a difesa dell’istituto familiare. La lettera è accompagnata da una breve presentazione del cardinale vicario Camillo Ruini.
"La famiglia - si legge nel testo Ruini - è da tempo al centro dell’attenzione pastorale della diocesi di Roma oltre che di un ampio confronto sociale e culturale. Ho ritenuto perciò di fare cosa utile offrendo alle famiglie romane, tramite i sacerdoti impegnati nelle benedizioni pasquali, un testo scritto dal cardinale Ennio Antonelli per la diocesi di Firenze".
Nella lettera, scritta da Antonelli per i suoi parrocchiani, si legge che "la famiglia sta venendo privatizzata, ridotta a un semplice rapporto affettivo, senza rilevanza sociale, come se si trattasse soltanto di una forma di amicizia".
E ancora: "La famiglia fondata sul matrimonio è non solo una comunità di affetti, ma anche un’istituzione di interesse pubblico; e come tale va riconosciuta, tutelata, sostenuta e valorizzata dalle pubbliche autorità che hanno la responsabilità specifica di promuovere il bene comune. Non vanno confuse con la famiglia altre forme di convivenza, che non comportano l’assunzione degli stessi impegni e doveri nei confronti della società e si configurano piuttosto come un rapporto privato tra individui, analogo al rapporto di amicizia, per il quale nessuno si sogna di chiedere un riconoscimento giuridico. Le esigenze private possono trovare risposta nei diritti riconosciuti alle singole persone".
Il prossimo Consiglio permanente della Cei programmato per il 26 marzo discuterà la Nota "impegnativa" per i cattolici italiani sull’atteggiamento da tenere nei confronti del ddl sui Dico.
* la Repubblica, 17 marzo 2007
L’inganno dei valori
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 1/4/2007)
La nota pastorale dei vescovi sulla famiglia e sul pericolo rappresentato da leggi che regolino diritti e doveri di altre forme di convivenza ha fatto molta impressione, fuori Italia, ma per motivi diversi da quelli che immaginiamo. Non hanno colpito i toni della Chiesa, meno duri a ben vedere di quelli usati dall’ex presidente della Conferenza episcopale Ruini. Hanno colpito il timore che questi toni hanno suscitato in Italia, lo smarrimento diffusosi nella classe politica, il successo ottenuto in fin dei conti dall’intimidazione. Nel testo di Bagnasco non ci sono né anatemi, né la denuncia di comportamenti sessuali che la Chiesa continua a considerare anomali, devianti. In realtà quest’ultima non ha più bisogno della durezza per imporsi: i politici e la laicità si lasciano intimidire anche con poco, per poi farsi magari sorprendere quando lo stesso Bagnasco dice che da cosa nasce cosa, paragonando l’omosessualità a incesto e pedofilia (salvo in un secondo momento precisare di essere stato male interpretato). A tal punto sono oggi deboli politica e Stato laico, incapaci di difendersi, prede d’ogni sorta di gruppo di pressione. Affermatasi lungo i secoli, l’autonomia della politica da cultura e religione vacilla.
Quest’infermità della politica e delle leggi non è un fenomeno solo italiano. Valori e religione, cultura e morale privata occupano in gran parte dell’Occidente uno spazio centrale, privatizzando e abbassando la politica. Si vincono le elezioni su questi temi, si misura la popolarità dei politici su passioni sino a ieri intime come la paura, l’amore. Assistiamo alla restaurazione di grandi colpe, grandi peccati, e alla sete di punizione che la restaurazione promette.
Colpe sessuali soprattutto, visto che politici stampa e la stessa gerarchia ecclesiastica son divenuti indifferenti a mali ben più cruciali come l’illegalità, la mafia, il rubare, il guerreggiare senza casus belli. Vengono fabbricati anche capri espiatori per questa politica intimista: lo straniero, l’omosessuale, perfino il malato. Il benefico tabù che dai tempi di Auschwitz protegge l’ebreo non vale, singolarmente, per le altre vittime dei Lager: omosessuali, zingari, malati psichici. Per quanto concerne l’Italia non è nuovo. Negli anni 60-70 fu Pasolini, il diverso da abbattere mettendo la giustizia a servizio di quello che venne definito, da un pubblico ministero nel ’63, il comune sentire della «stragrande maggioranza degli italiani che non trova voce per esprimere le proprie idee». In uno splendido saggio su quei processi, Stefano Rodotà scrive nel ’77 che Pasolini è «la somma di tutti i vizi, e incarna il sogno di chi vorrebbe il Male con una sola testa per decapitarlo con un colpo solo».
Evocare oggi quei processi aiuta a ricordare due cose. Primo, l’aureola di normalità che non da oggi circonda la famiglia. Secondo: le forze che l’hanno aureolata, complici fascisti, democristiani e comunisti. È una verità che la sinistra dimentica, quando oggi ripesca nelle proprie tradizioni la famiglia col tempo abbandonata. La cultura familistica e puritana era potentissima, in Urss come in Europa, e in Italia sfociò nell’esecrazione di Pasolini come di Aldo Braibanti, il filosofo omosessuale condannato per plagio nel ’69. Quando Pasolini fu espulso dal Pci per «indegnità morale», nel ’49, sull’Unità apparve un commento di Ferdinando Mautino, della Federazione di Udine, in cui si denunciavano «le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre, di altrettanti decadenti poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese». Se in Italia si infranse il mito del collettivo puro e incontaminato - collettivo della famiglia o del partito, le due purezze erano congiunte - lo si deve ai radicali, non alla sinistra classica. La sinistra che oggi disseppellisce famiglia e comunitarismo non disseppellisce il meglio di sé ma il più asfissiante. Riscopre il Noi che sostituisce l’Io, il collettivo contro l’individualismo borghese. Non siamo i soli in Europa, abbiamo visto. Un analogo frantumarsi della politica avviene nella sinistra francese, oggi impersonata da quella donna fervente e ammaliata da Giovanna d’Arco che è Ségolène Royal. Anch’essa riscopre i valori della famiglia, convinta com’è che la politica sia impopolare non perché impotente, ma perché neutrale su questioni di morale privata. Nelle scorse settimane ha ascoltato Sarkozy appassionarsi per l’identità nazionale e s’è messa a rincorrerlo. Ogni famiglia, ha annunciato, dovrebbe avere in casa il tricolore, e come ai vecchi tempi appenderlo alle finestre alle feste nazionali.
La politica dei valori è un termine che rispetta poco il principio di non contraddizione - per definizione la politica governa valori discordanti - e s’è insediata in Occidente dopo l’esperienza Thatcher. Cominciò a propagandarla John Major, per fronteggiare il declino dei conservatori, quando parlò di «basic values»: una bandiera ripresa dal nuovo laburismo. L’ammirazione per Blair, a sinistra come a destra, non è casuale in Europa. Senza temere di contraddirsi, le sinistre stanno appropriandosi di slogan che in Francia appartennero alle destre di Pétain: travail-famille-patrie (lavoro-famiglia-patria) sembra quasi soppiantare fraternità libertà e uguaglianza. Il politico che propone questi valori può vincere un’elezione, ma alla lunga può perdere. Così come è perdente l’opposizione che ogni sera invita il governo a dimettersi. Quel che si ottiene è una politica che fa harakiri, incapace di legiferare con spirito laico. Di laicità si discute molto, e spesso a sproposito: viene descritta come un’ideologia dello scetticismo, del relativismo. Il cardinale Scola, a Rai 1, l’ha definita così: «Somiglia a una notte in cui le vacche son tutte nere». Questa tendenza a identificare lo Stato laico con una filosofia serve lobby e disegni di potere coltivati in nome di culture religiose. Se la laicità è una filosofia come le altre, allora tutte le filosofie, religiose o no, possono governare la città, imponendo o impedendo leggi. In Germania, nei giorni scorsi, si è giunti a una vera perversione. Un giudice ha negato il divorzio rapido a una giovane marocchina picchiata dal marito musulmano, perché sposandolo doveva sapere che il Corano concede il «diritto alla punizione corporale». Le gerarchie cattoliche rischiano derive non diverse, quando chiedono che una legge sia fatta o non fatta su indicazione della Cei.
La laicità non è un’ideologia. È un metodo che consente a individui di diversa cultura, a credenti e non credenti, di convivere senza distruggersi. È lo strumento che permette di separare la politica da fede e cultura, e di evitare che la sovranità sia spartita tra i due poteri, temporale e spirituale. La diatriba è antica. Nei primi del ’600, frate Paolo Sarpi considerava tale spartizione fonte di temibili turbolenze. Difendendo la Repubblica veneziana dalle pressioni del Vaticano scriveva che non era possibile l’esistenza di due poteri eguali e indipendenti, e che per la conservazione della «quiete» - oltre che per rispettare la parola di Cristo: «Il mio regno non è di questo mondo» - occorreva che leggi e politica spettassero solo al Principe. Era colpa della politica, aver delegato alla Chiesa sovranità che non le spettavano. Era una forma di superstizione, e la Chiesa che ne profittava era accusata di petulanza.
Questa tradizione non è mai venuta meno nel cristianesimo. Jacques Maritain parlava di «principi immutabili» e della superiorità spirituale della Chiesa sul Principe, ma sosteneva che la realizzazione dei valori doveva tener conto delle circostanze e dell’autonomia acquistata dalla società politica, attenendosi al principio pluralistico e a quello del minor male. Antonio Rosmini affermava che i privilegi erano una piaga cristiana, e che una Chiesa con meno privilegi era una Chiesa più libera dallo Stato. La sinistra riscopre la famiglia, Ségolène e Sarkozy rispolverano l’identità nazionale. In realtà non s’appropriano di valori trascurati o rubati. Si adeguano a quel che immaginano essere una volontà generale, presupponendo che essa sia bene interpretata da Le Pen, di cui tutti i candidati sono mimetici figli: Ségolène quando esalta il tricolore; Sarkozy quando elogia l’identità nazionale, il centrista Bayrou quando fa sapere che la virilità è quel che sua moglie ammira in lui.
I valori diventano così qualcosa di astratto: si fanno perfino guerre, in nome di nobili invenzioni. Maritain, ancora, diceva che soggetti di diritto dovrebbero essere non entità astratte come «verità» o «errore» ma le persone umane, prese individualmente e collettivamente. Altrimenti la realtà evapora, la persona concreta si fa invisibile. Sono invisibili le unioni alternative, in aumento ovunque perché la famiglia è in frantumi. È invisibile l’Europa, quest’insieme di persone che cercano di recuperare la sovranità perduta dalle patrie. Da queste cecità scaturisce la strategia dei Valori. L’astratto furore si presenta come nobile, ma abbassando il Principe corrompe sia la politica sia i valori.
IN LUNGHE CATENE DIFFICILI DA SPEZZARE
di AUGUSTO CAVADI *
Per diventare misogino, essere cattolico non e’ necessario. Ma aiuta. Non e’ necessario: infatti i rudimenti della concezione della donna come maschio quasi perfetto me li ha impartiti un padre miscredente, laico, socialista (pre-craxiano: nenniano). Ma aiuta: infatti, quando - con stupore e disappunto da parte dei miei genitori - sono entrato nell’associazionismo cattolico, ho ben presto misurato la distanza fra la rivoluzionarieta’ di certe asserzioni ed il conservatorismo della pratica quotidiana. Da una parte il papa scriveva che l’essere umano puo’ considerarsi "imago Dei" solo in quanto coppia; dall’altra, si dava (e si da’) per scontato che una persona di sesso femminile non possa presiedere una comunita’ celebrante. Il mio esodo - progressivo, ma inarrestabile - dalla cultura cattolica passo’ per un episodio preciso. Un prete piu’ anziano di me - peraltro tra i piu’ preparati della sua generazione - volendo esprimere con forza il suo dissenso da una mia opinione, trovo’ spontaneo apostrofarmi con un inequivoco: "Ma hai proprio un cervello da femmina!". Obiettai solo, con un sorriso amaro, che speravo di averne meta’ femminile e meta’ maschile: in modo che, junghianamente, sarei potuto essere "completo".
So che certe distinzioni risultano fastidiose o, per lo meno, farraginose. Ma non sempre si possono evitare. Per esempio, quella suggerita da un’acuta fucilata di Nietzsche (recentemente definito da Rene’ Girard il piu’ grande teologo dopo san Paolo): c’e’ stato un solo cristiano ed e’ morto sulla croce. Che, tradotto in altri termini, significa: una cosa e’ stata la "buona notizia" annunziata dal maestro nomade di Galilea ed un’altra la dottrina cattolica (e, piu’ in generale, cristiana) che si e’ sviluppata a partire da quel seme. La psicanalista e teologa protestante Hanna Wolff lo ha spiegato in uno dei quattro o cinque libri che mi hanno cambiato la vita (Gesu’, la maschilita’ esemplare, Queriniana, Brescia 1985): il Nazareno (per quanto possiamo cogliere da un’esegesi accurata dei quattro vangeli) ha saputo accettare il femminile dentro di se’ e, proprio per questo, non aver paura del femminile fuori di se’. Egli ha dunque rotto con la tradizione patriarcale precedente, ma la sua rottura e’ stata tanto eclatante che i discepoli non sono riusciti a reggerla: e, subito dopo la sua morte, hanno attivato processi di normalizzazione. Col risultato che, dopo la breve parentesi gesuana, l’antifemminismo ha ripreso vigore, si e’ fatto senso comune e ha improntato di se’ l’occidente cristiano.
Se ci chiediamo se questa mentalita’ della disparita’ ontologica e psicologica fra maschi e femmine (dura a destrutturarsi persino oggi, dopo decenni di femminismo teorico e militante) spieghi, da sola, l’impressionante catena di violenza contro le donne, non possiamo che rispondere negativamente. Che cosa, allora, trasforma una cultura maschilista in pratiche prevaricatrici? Ho l’impressione che entri in gioco non questo o quell’altro fattore, bensi’ un groviglio - difficilmente solubile - di fattori. Tra cui primeggia una connotazione peculiare dell’immagine femminile agli occhi di noi uomini: la diversita’. Sin da bambino, il pianeta-donna ha esercitato nei miei confronti una duplice, contraddittoria, forza: di attrazione e di paura, di curiosita’ e di diffidenza, di desiderio e di minaccia. Per ragioni varie, che solo in minima parte potrei attribuire a meriti miei, maturare come persona ha significato - tra l’altro - sciogliere questa ambiguita’ e lasciar prevalere, di fronte ad ogni diversita’ (le donne, ma anche gli omosessuali, gli immigrati di colore, i portatori di handicap fisici e psichici...), il sapore della familiarita’ rispetto al sentimento di estraneita’. Ovviamente, familiarita’ non equivale ad omologazione. Avvertire cio’ che, in radice, accomuna non implica cecita’ riguardo alle differenze che interpellano le nostre certezze.
Qui, forse, uno dei bivi decisivi. C’e’ chi accetta la sfida della diversita’ (e, nel caso di maschi, del femminile come metafora di ogni diversita’) per mettersi in gioco, per riaffermare alcune convinzioni ma anche liberarsi da pregiudizi e da errati giudizi; e c’e’ chi non la regge e, per quanto sta in lui, tenta di sopprimerla. Non e’ un caso che, di solito, le idiosincrasie s’inanellino in lunghe catene difficili da spezzare: misoginia, omofobia, razzismo... E’ di per se’ evidente che questa mentalita’ sia - gia’ a livello ideologico - violenta. Ma, poiche’ in genere il diverso e’ piu’ debole (fisicamente, economicamente, militarmente...), il pensiero omologante ha mille occasioni per farsi gesto prepotente: stupro, derisione, schiavizzazione... Quando un soggetto allergico alla diversita’ si impossessa - sessualmente o socialmente - dell’altro, ha la sensazione di aver risolto molti problemi in un solo colpo: da una parte ha soddisfatto attrazione, curiosita’, desiderio; dall’altra ha cancellato dal proprio orizzonte ogni fonte di paura, di diffidenza, di minaccia. Ma, proprio nella misura in cui riesce a fagocitare e a spazzar via ogni alterita’, egli desertifica il piccolo mondo che lo circonda e costruisce da se’ la prigione dell’isolamento. Ecco un punto nevralgico: chi progetta ed esercita violenza, nonostante le intenzioni, si condanna alla solitudine. Come i signorotti medievali, deve scavare fossati sempre piu’ profondi per distanziarsi dagli estranei: ma, con cio’, trasforma in gabbie dorate il suo stesso castello. Sara’ proprio perche’ amo la solitudine come opzione, ma la detesterei se la sperimentassi in tempi e modi non programmati, che mi viene abbastanza facile sottrarmi alla tentazione di usare violenza. Cio’ non significa, purtroppo, che di fatto non sia stato troppe volte violento - nel corso della vita - con persone diverse da me per indole, formazione e prospettive (quali, per esempio, delle donne con cui ho condiviso tratti di strada importanti): ma ogni volta che non ho saputo gestire il conflitto, provocando nell’altro/a la decisione di fuggire, l’ho considerata - nonostante le apparenze - una mia sconfitta.
* Fonte: NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 80 del 5 maggio 2007 - articolo apparso su "Mezzocielo", anno XV, n. 1, 2007, dal titolo originale "Un uomo davanti al pianeta donna"