Membra disiecta - di Alfonso Iacono

Sul gioco, del gioco: approfondimento
mercoledì 25 maggio 2005.
 

1.

Il gioco, ha scritto il grande storico olandese Johan Huizinga, è l’unione di credere e non credere. In nessun’altro concetto è espressa meglio "l’unione di sacrosanta serietà con ostentazione e "scherzo"". Ma di che gioco si tratta? E dove si colloca, comunque, quel confine già tracciato da Platone tra serietà e gioco? Ne Il giocatore di Dostojevskij questo confine è infranto, ma non perché il gioco invade il serio alleggerendolo dei suoi colori. Al contrario, il gioco cessa di essere l’unione di credere e non credere per diventare prigionia dell’esistenza.

Ma si tratta di gioco d’azzardo. E quando il gioco non è d’azzardo? Cosa fanno due bambini quando giocano alla guerra? Credono e non credono. Combattono e non combattono. Si danno delle regole, che a loro volta impongono i limiti materiali e simbolici al cui interno può dominare l’universo gioco. Si opera consapevolmente la mimesi del combattimento. È una mimesi, cioè un’imitazione. Ma un’imitazione non è una copia. Imitare il combattimento significa, nel gioco, creare. E il creare dipende dai vincoli che l’universo di quel gioco si è dato. Così, per esempio, il bambino, se viene colpito dalla spada dell’avversario, non arriva a farsi male veramente. Non deve farsi male veramente. Se ciò accade, come spesso accade, allora si passa immediatamente dal gioco al serio. Si esce cioè dall’universo gioco. "Non si fa più per finta", come si dice. Il gioco non è più mimesi. Il combattimento perde il suo nesso col non combattimento e diventa, proditoriamente, serio. Ma poi, passata la crisi, l’universo del gioco viene reintegrato e si torna alla mimesi. Ma questa reintegrazione può avvenire se, in qualche maniera, esplicita o implicita, con delle scuse o con riluttanza, arroganza o ironia, si riconosce da parte di entrambi i contendenti (dunque anche da parte di chi ha, per così dire, offeso l’avversario) che è stata violata una regola. Con questo sistema si sviluppa il grande addestramento della comunicazione e delle relazioni, si aumenta la padronanza dei simboli, si accresce, consapevolmente o meno, il potere delle metafore. Le regole, i limiti. Se non ci fossero regole, anche implicite, semplici, banali, non ci sarebbe la possibilità di passare da un universo di significato a un altro, non si potrebbe andare dall’universo gioco all’universo, per esempio, lavoro. Tale incapacità, come ha insegnato Gregory Bateson, è segno di patologie gravi oppure, si potrebbe aggiungere, di una prigionia dell’esistenza.

2.

Nella nostra società il gioco è affare del cosiddetto tempo libero. Per gli adulti esso assume i contorni dello svago. Quanto più il lavoro si lega idealmente all’immagine della precisione e dell’esattezza, tanto più il tempo libero deve essere fruito, almeno in apparenza, come rilassamento e vaghezza. Ma poiché viviamo sotto il dominio delle merci, il tempo libero, in quanto tempo del gioco, è tempo di lavoro degli addetti, affare industriale e commerciale, formidabile veicolo di pubblicità. Per gli addetti al lavoro, il gioco è attività produttiva, sottoposta alle serie e inesorabili leggi della precisione e dell’esattezza. Quasi tutte le interviste ai campioni e ai vincitori si somigliano fino alla noia per le solite domande e le solite risposte. Queste tuttavia sono funzionali a due livelli: da un lato rafforzano l’immagine degli addetti ai lavori che intendono mostrare quanto il loro, per quanto si espleti come gioco, sia un lavoro come gli altri e, per giunta, molto faticoso e competitivo, dall’altro, per la stessa ragione, operano da metafora dell’universo serio (per essere vincenti bisogna faticare, ecc.; anche chi parte disagiato può farcela se fatica e ha volontà, ecc.). La domanda è la seguente: in una situazione di questo genere, nella cosiddetta società dello spettacolo, come si pone quella che Huizinga definiva l’unione di credere e non credere?

3.

Prendiamo il calcio. Gli stadi, con le loro alte mura, non sono altro che i contenitori materiali dell’universo gioco. È spaventosamente banale, ma star dentro allo stadio o starne fuori significa cambiare universo di significato, cioè modi di essere e di esprimersi, regole, simbologie. Si tratta di una situazione sempre al limite. Altra cosa banale: l’arbitro è necessario esattamente perché deve mantenere il contesto entro quelle regole accettate che fanno di quel gioco un gioco. Per esempio, quando una partita degenera, sul campo e sugli spalti (e poi anche fuori), si passa da un universo a un altro o, per meglio dire, dalla metafora alla lettera. Che significa? Si era detto che il gioco, essendo unione di credere e non credere è anche unione di combattimento e non combattimento. Mantenere tale unione è decisivo. Quando essa si spezza, si passa alle mani, alle armi, ai ferimenti, ai morti. Quando un ragazzo dice: "voglio vedere scorrere il sangue sul campo", cosa dobbiamo oggi pensare? Che è un bene che lo dica nell’occasione di una partita di calcio, rimanendo al livello della metafora, per quanto truce, così il suo bisogno di violenza rimarrà confinato alle parole, oppure che questo livello non è altro che l’anticamera di una violenza che troverà presto delle buone occasioni perché il ragazzo passi dalla metafora alla lettera della frase? Quello che voglio dire è che il gioco dell’unione di credere e non credere, da sempre necessariamente ambiguo, si fa ancora più ambiguo. Nella società dello spettacolo, gli spettatori vogliono diventare attori e per diventarlo passano dalla metafora alla lettera, dall’unione di combattimento e non combattimento al combattimento tout court, ma non all’interno dell’universo simbolico del gioco, bensì ai margini, sugli spalti, per le strade. Essi non violano le regole, e neanche i miti, che invece accettano supinamente. Essi approfittano del loro essere spettatori per diventare attori sopra il confuso e drammatico confine che faticosamente cerca di separare il serio e il gioco. Essi li mettono in collegamento, ma in modo distruttivo, devastante e fondamentalmente impotente. I tifosi inglesi, tedeschi, olandesi che si ubriacano e diventan violenti sono lo specchio scuro di un gioco serio che finge di essere un gioco gioco.

Post Scriptum

Sono un seguace filosofico dell’idea di Annibale Frossi e di Gianni Brera secondo cui la partita perfetta è lo 0-0 e cioè che ogni rete è sempre, in primo luogo, un errore della difesa. Le partite tattiche possono essere un grande godimento, forse più cerebrale e meno emotivo. Ma tutti si è d’accordo nel dire che una partita dove ci sono troppe reti, salvo eccezioni spiegabili con condizioni particolari, difficilmente può essere una partita tecnicamente valida. È una sorta di buffo paradosso, ma nell’epoca del trionfo della merce e dell’ideologia capitalistica, al di là delle variopinte scritte pubblicitarie sulle magliette, tutto si omologa, a cominciare dai giocatori, dalle squadre e dal loro modo di giocare. È l’avvento del comunismo nel calcio giocato! Tutti uguali! Tutti insieme appassionatamente nella noia! Non mi sono piaciuti nel complesso i mondiali del ’90, non mi sono piaciuti questi.

Mi è piaciuto Marco Pantani, quando nell’ultima cronometro ha usato il solito berrettino, invece che quegli orribili elmetti aerodinamici.

Alfonso Iacono già su www.mercatiesplosivi.com/iacono.html


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