È in libreria «Elementare, Wittgenstein!» che racconta le filosofie dei detective e del «giallo»
E padre Brown batte Holmes
Il cattolicissimo personaggio di Chesterton porta con sé una visione teologica del poliziesco di contro al razionalismo cartesiano dell’eroe di Conan Doyle
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 10.03.2007).
Ottimo cronista, il dottor Watson, ma forse un po’ inadeguato all’impresa che dovrebbe sostenere. Descrive in modo meticoloso le imprese dell’ineffabile Sherlock Holmes, eppure dà sempre l’impressione di non comprenderne del tutto il metodo. Perché, insomma, come accidenti fa Holmes a fare quello che fa? Deduce, induce o, meglio ancora, abduce? Semplicemente intuisce o più logicamente inferisce? Formulate in rigoroso linguaggio filosofico, sono le stesse domande che ogni lettore di Arthur Conan Doyle si è posto almeno una volta, accontentandosi magari di fidarsi un po’ alla cieca non tanto dell’autore, quanto piuttosto del suo mirabolante personaggio. Sono, nello stesso tempo, interrogativi seri, che meritano risposte circostanziate. La storia del poliziesco, infatti, è strettamente intrecciata con quella del pensiero contemporaneo, attraverso una serie di rimandi niente affatto inconsapevoli, sui quali si sofferma il nuovo, robusto e leggibilissimo saggio di Renato Giovannoli.
Accompagnato da una complice prefazione di Umberto Eco, questo Elementare, Wittgenstein! può essere considerato come l’ideale prosecuzione di un altro studio di Giovannoli, l’ormai classico La scienza della fantascienza, anch’esso basato su un’attenta verifica delle fonti e delle relative premesse culturali. Fin dal titolo, il libro attuale fa perno sulla figura di Ludwig Wittgenstein, osservata nei momenti più significativi della sua ricerca.
E così se nel "primo Wittgenstein", quello del Tractatus logico-philosophicus, si possono rintracciare gli indizi necessari all’individuazione del modello investigativo adoperato dal proverbiale Holmes, nel "secondo Wittgenstein", quello delle Philosophische Untersuchungen, emergono con prepotenza i segnali di una crisi che trova parallela espressione nei romanzi hard-boiled di cui lo stesso filosofo si dichiarava avido lettore.
Come e più di ogni altra forma letteraria, infatti, il poliziesco è anzitutto una rappresentazione del mondo e, di conseguenza, deriva da una concezione del mondo.
Prendiamo Holmes, appunto, il detective razionalista nel cui modo di procedere Giovannoli individua gli elementi di una fedeltà addirittura ossessiva ai maestri della logica secentesca, primi fra tutti Leibniz e Cartesio. A ogni causa, in questa prospettiva, corrisponde un unico effetto: tutto sta a individuarlo con esattezza, dopo di che anche il più intricato degli enigmi si risolve da solo.
È un processo di semplificazione comune, sia pure con le debite distinzioni, ad altri maestri del poliziesco classico, da S.S. Van Dine ad Agatha Christie. Ma se l’effetto, e cioè l’indizio, fosse intenzionalmente falsificato? Il dubbio, introdotto tra gli altri da Maurice Leblanc (l’inventore del ladro gentiluomo Arsène Lupin), prelude alla svolta "esistenzialista" che permette a Giovannoli di rintracciare puntuali consonanze fra l’opera di Martin Heidegger e le tormentate invenzioni di un narratore come Cornell Woolrich.
Un accrescimento di complessità al quale corrisponde una diversa percezione dello spazio - sempre più incerto e contraddittorio - all’interno del quale si svolgono le avventure degli antieroi cari a Dashiell Hammett e a Raymond Chandler. Tanto che l’esito estremo dello studio di Giovannoli coincide con la trama programmaticamente frammentata di Città di vetro, il "non-poliziesco" al quale Paul Auster affida la raffigurazione definitiva della metropoli come labirinto dell’esperienza.
In questa interpretazione Giovannoli si avvale a più riprese dei racconti e delle riflessioni critiche di Gilbert Keith Chesterton, il cui personaggio-simbolo, il cattolicissimo padre Brown, è qualcosa di più del semplice interlocutore polemico contrapposto al razionalista e protestante Holmes.
Chesterton, al contrario, si conferma come il portavoce più lucido di una visione teologica del poliziesco come «simbolo di misteri più alti» che troverà degna continuazione nella riflessione di Jorge Luis Borges. Del resto, che si tratti della Genesi o del Silenzio degli innocenti, l’indagine sulle tracce di un assassino ha sempre qualcosa di metafisico.
I casi
E arriva Houdini
(A.Zacc.)
Tra i "casi filosofici" esaminati da Renato Giovannoli nel suo «Elementare, Wittgenstein!» c’è anche l’immancabile - e concettualmente appetitoso - mistero della stanza chiusa. Ma che cosa accadrebbe se il più impossibile dei delitti possibili vedesse coinvolti il massimo autore di storie poliziesche e il principe degli illusionisti? Un ipoetico incontro fra Harry Houdini e Arthur Conan Doyle è lo spunto attorno al quale il romanziere americano Walter Satterthwait ha costruito il suo «Il segno dei due», ora pubblicato in Italia da Hobby & Work (traduzione di Paola Bonini, pagine 362, euro 18,00). Se per Conan Doyle si tratta di un esordio nel campo della fiction altrui, per Sherlock Holmes la questione è ben diversa. Nel celeberrimo «La soluzione sette per cento» di Nicholas Meyer (visto anche al cinema) il detective, ormai assuefatto all’uso delle droghe, era preso in cura da un giovane medico viennese di nome Freud. E nell’ apologetico «Sherlock Holmes e il misterioso caso di Ippolito Nievo» di Rino Cammilleri (San Paolo) il detective ha dovuto misurarsi con don Giovanni Bosco.
Renato Giovannoli
Elementare, Wittgenstein!
Filosofia del racconto poliziesco
Medusa. Pagine 374. Euro 29,00
Omaggio a Sherlock Holmes in 8 parole da conoscere
Da detective a Scotland Yard un gioco di curiosità per il grande investigatore. Oggi è lo Sherlock Holmes Day *
Sherlock Holmes, il detective nato nel 1887 dalla penna dello scrittore scozzese Arthur Conan Doyle è comparso in 4 romanzi e ben 56 racconti. Dal suo alloggio londinese al 221B di Baker Street, dove ora sorge un museo dedicato, Holmes è diventato una delle più importanti figure della letteratura britannica tanto da essere uno dei personaggi più rappresentati sul grande e piccolo schermo, con oltre 200 apparizioni diverse.
E’ talmente amato da avere persino una giornata dedicata, il 22 maggio: lo Sherlock Holmes Day.
Ecco 8 parole inglesi legate al mondo di Sherlock Holmes e dell’investigazione che vengono usate anche in italiano e altrettante curiosità elaborate da Cambridge Assessment English.
Detective Utilizzata anche in italiano come sinonimo di “investigatore”, la parola inglese “detective” deriva dal verbo “to detect”, ossia rivelare, individuare, scoprire. Il termine, abbreviazione di “detective policeman”, nacque come aggettivo, ma iniziò a diffondersi come sostantivo intorno alla metà del 1800 . L’aspetto più curioso legato al personaggio di Sherlock Holmes è che per creare il personaggio Arthur Conan Doyle non si ispirò a un “detective policeman”, ma al dottor Joseph Bell, medico e professore dell’Università di Edimburgo in grado di fare diagnosi precisissime con una sola occhiata.
Flashback Nata dall’unione dei termini “flash” e “back” per indicare una sorta di ritorno di fiamma nei motori e nelle fornaci, la parola “flashback” si è diffusa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento con un significato completamente diverso. Usato anche in italiano, dalla cinematografia alla letteratura, il termine indica infatti una struttura narrativa dove si assiste all’interruzione degli eventi presenti in favore di rievocazioni del passato e ricordi. Nei gialli questo stratagemma ricorre moltissime volte e tra le storie di Arthur Conan Doyle viene utilizzato in Uno studio in rosso, il primo romanzo della serie, e ne Il mastino dei Baskerville, da molti considerata una delle più belle indagini di Sherlock Holmes.
Badge Il “badge”, in generale, è un tesserino identificativo, ma nel mondo dell’investigazione indica in particolare il distintivo. Derivato dalla parola latina bagis, ossia “emblema”, poi trasformata nella lingua anglo - fracese in “bage”, il termine viene usato fin dal Medioevo per indicare i distintivi o le spille in metallo che venivano indossate dai pellegrini o dai cavalieri per dimostrare le proprie alleanze o preferenze politiche. Oggi uno dei badge più famosi legati al mondo dell’investigatore di Baker Street è quello della Sherlock Holmes Society, un club letterario e culturale con sede a Londra e dedicato agli appassionati.
Cold case In italiano si può tradurre con “analisi dei casi a pista fredda” e indica un’indagine relativa a un caso rimasto irrisolto e per il quale non solo vengono riaperti archivi e fascicoli, ma vengono anche raccolte nuove prove e testimonianze. Il termine, che dà il nome anche a una celebre serie televisiva statunitense, non compare mai nei romanzi di Arthur Conan Doyle, ma si collega ugualmente al mondo di Sherlock Holmes grazie al film del 2015 Mr. Holmes, dove il detective, ormai novantenne e per l’occasione interpretato da Ian McKellen, è alle prese con un caso rimasto irrisolto.
Scotland Yard E’ l’edificio sede del Metropolitan Police Service londinese, ma viene spesso usato come metonimia per riferirsi all’intero corpo di polizia. Il nome sembra derivare dalla sua sede originale, sorta nel 1829 e un tempo collocata sulla Great Scotland Yard, una strada laterale della capitale e luogo di soggiorno dell’ambasciatore e del sovrano scozzese prima dell’annessione al Regno Unito. Il collegamento con il mondo dell’investigazione è abbastanza ovvio, ma non tutti sanno che Scotland Yard oggi rende omaggio alle storie di Arthur Conan Doyle in due modi: attraverso il suo database criminale chiamato Home Office Large Major Enquiry System (HOLMES) e attraverso il programma di allenamento del corpo di polizia battezzato “Elementary”.
Villain Il termine, usato soprattutto nel mondo del cinema e delle serie televisive, è un falso amico, ossia una parola che, pur ricordandone una della nostra lingua, ha un significato completamente diverso. “Villain”, infatti, non si traduce con “villano”, ma con “cattivo” e in generale, nei romanzi e nei film, indica il nemico. La somiglianza tra i due termini non è casuale: entrambi, infatti, derivano dal latino “villanus”, ma in inglese la parola si è evoluta verso un concetto più astratto, opponendo il legame con la terra allo status di cavaliere e affiancandola quindi all’assenza di buone intenzioni e cavalleria. Entrata nel linguaggio letterario a partire dagli anni Venti dell’Ottocento, la parola prende vita nei romanzi di Sherlock Holmes con la figura del Professor Moriarty, antagonista per eccellenza del detective londinese.
Trivial Derivata dal latino trivialis (comune, grossolano), la parola inglese “trivial” si usa per indicare qualcosa di banale, di poca importanza o poco valore, ma oggi è spesso considerata un termine aulico, utilizzato in contesti formali o per sottolineare le proprie doti intellettuali. Sherlock Holmes lo inserisce più di una volta nelle sue frasi, ma uno degli esempi più noti è quello legato al racconto L’avventura dei sei Napoleoni, un passaggio che riassume perfettamente la mentalità investigativa del detective: “ I dare call nothing trivial when I reflect that some of my most classic cases have had the least promising commencement ”. Oggi il termine “trivial” è entrato nella cultura popolare italiana grazie al celebre gioco da tavolo canadese.
Puzzle Un “puzzle” è un enigma, un problema, una situazione molto complessa da risolvere e la parola viene usata molto spesso nel mondo dell’investigazione. Il termine deriva dall’antico francese aposer (lasciare perplesso) ed entrò nel vocabolario inglese come verbo verso la fine del Sedicesimo secolo, trasformandosi poi in “pose”, a sua volta modificato in “pusle” e, infine, “puzzle”. Oggi, in Italia, la parola indica il gioco da tavolo nel quale far combaciare ogni pezzo per poi creare un disegno, ma, anche se il termine arriva direttamente dall’inglese, Oltremanica il gioco ha un nome un po’ più lungo: jigsaw puzzle , dove “jigsaw” sta per “sega” o, meglio, l’archetto da traforo, lo strumento utilizzato in passato per tagliare i vari pezzi.
* FONTE: ANSA
Diagnostica.
Molte le analogie tra il ragionamento clinico e i metodi
investigativi della letteratura gialla.
E le qualità del detective ideale, osservazione, deduzione e conoscenza (Conan Doyle), dovrebbero ispirare il lavoro di ogni sanitario
Se il medico indaga come Sherlock Holmes
di Claudio Rapezzo (la Repubblica, 12.05.2015)
IN UN ’EPOCA della medicina caratterizzata dal ricorso sempre più “routinario” alle tecnologie diagnostiche, il ragionamento medico appare in crisi. Il rischio, oltre che di spendere una quantità eccessiva di denaro pubblico e privato, è di rendere approssimativo l’iter diagnostico del paziente coi relativi danni umani. Una breve riflessione sulle analogie fra il ragionamento diagnostico in medicina e i metodi investigativi della letteratura “gialla” potrebbe contribuire alla “causa” del metodo clinico, e quindi a migliorare la prestazione sanitaria. E la salute di tutti.
Le analogie fra metodo clinico e scienza dell’investigazione, fra grandi clinici e grandi detective, nonché i richiami incrociati fra medico e detective, fra crimine e malattia sono abbondantemente presenti nella letteratura, nel cinema e nella televisione. Sia il medico sia il detective hanno, come finalità principale del loro agire, l’identificazione del colpevole di una situazione abnorme e pericolosa (la diagnosi della malattia da un lato, l’identificazione dell’assassino dall’altro). Per arrivare a ciò, entrambi debbono, inoltre, reperire, archiviare e “gestire” una notevole quantità di informazioni sia tecnico- scientifiche, sia di cultura generale.
Il periodo storico e la classe sociale di riferimento dei due ambiti coincidono. Il poliziesco vive il suo momento di grande splendore nella seconda metà del XIX secolo, nel clima di fiducia nelle illimitate possibilità della scienza. Nello stesso periodo, la medicina registra l’affermarsi del più classico dei paradigmi indiziari, quello imperniato sulla semeiotica medica, la disciplina che consente di diagnosticare le malattie “interne” e quindi inaccessibili all’osservazione diretta, attraverso la valorizzazione di “segni” che, insignificanti agli occhi del profano, possono essere decifrati soltanto dall’esperto e lo conducono alla diagnosi finale.
Ma medicina e romanzo poliziesco sono collegati anche da rapporti strettamente letterari nonché da uno scambio (letterario) di ruoli. La storia della letteratura poliziesca è ricca di figure di medici: medici che indagano in prima persona, che affiancano i detective professionisti come esperti (in genere anatomo-patologi), medici assassini e medici vittime. Per non parlare dell’ampio bagaglio tecnico medico-scientifico a cui gli autori classici del poliziesco hanno spesso attinto per escogitare soluzioni raffinate per delitti sempre più sofisticati.
Per usare le parole che Sir Arthur Conan Doyle fa pronunziare a Sherlok Holmes ne Il Segno dei Quattro: «Tre sono le qualità necessarie al detective ideale, capacità di osservazione, deduzione e conoscenza». Questa affermazione è, di fatto, il manifesto ideologico di tutta la letteratura poliziesca, a forte matrice anglosassone, che si sviluppa fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, impersonata dai detective classici dell’epoca aurea del “giallo”: Auguste Dupin, Sherlock Holmes, Miss Marple, Hercule Poirot. Se queste tre caratteristiche continuano a rappresentare i pilastri fondamentali del ragionamento investigativo, emerge progressivamente nella letteratura poliziesca del Novecento l’importanza di altre due qualità: la capacità di ricostruzione psicologica e ambientale della vittima (teorizzata sia dal Maigret di Simenon sia da Padre Brown di Chesterton) e la capacità di percepire le incongruenze all’interno della scena del crimine (è il caso tipicamente del Tenente Colombo di Levinson & Link).
Come nel caso dell’investigatore, anche in quello del clinico “ideale” si realizza, o si dovrebbe realizzare, una fusione armonica fra tutti i modelli investigativi delineati in precedenza. Questa evenienza è però decisamente rara. I modelli proposti recentemente dal cinema e dalla fiction televisiva non sono necessariamente positivi. Il caso più emblematico è quello del Dr. House. Se da un lato lo schema mentale adottato per arrivare alla diagnosi è molto simile a quello di Sherlock Holmes, basato sulla valorizzazione di segni fisici “patognomonici” e sul ragionamento abduttivo, il modello clinico proposto è quello di un medico che preferisce occuparsi soltanto dei casi più rari e difficili, mentre gli altri pazienti sono per lui fondamentalmente una perdita di tempo.
* Direttore U-O Cardiologia, Policlinico Sant’Orsola, Università degli Studi di Bologna